Raccontami di te - Università ...

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Università della Calabria - DiSPeS

Corso di laurea magistrale in Sociologia e ricerca sociale
                     a.a. 2019-20

Insegnamento di Metodologia della ricerca sociale
             Dispensa integrativa

  Raccontami di te
   Dai racconti autobiografici nella vita
    quotidiana all’intervista biografica

               di Paolo Jedlowski

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Indice

      Premessa

      Capita a tutti di parlare di sé

      Raccontarsi

      Riconoscersi

      Verso l’intervista

      Appendice

Nota: Questo testo è stato preparato espressamente per gli studenti del corso di laurea
in Sociologia e ricerca sociale dell’Università della Calabria. Si basa su diverse
pubblicazioni precedenti dell’autore (in particolare: Parlami di te, in F. Batini, S.
Giusti, a cura, Milano, Unicopli, 2010, e Culture e narrazioni di sé, “Sociologia della
comunicazione”, 50, 2015), che sono qui tuttavia rielaborate.

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Premessa

       L’intervista biografica è un colloquio in cui l’intervistatore invita l’intervistato
a raccontare la storia della propria vita.
       Per quanto l’intervista sia, per chi è intervistato, un evento raro, non è affatto
raro tuttavia che egli o ella si sia già trovato in situazioni almeno parzialmente
analoghe. Nella vita ordinaria, vi è infatti una moltitudine di occasioni in cui ciascuno
di noi si trova a raccontare qualcosa attorno a sé.
       Per quanto sia banale, questa osservazione è importante. Significa che
l’intervista, pur nella sua specificità, condivide certi elementi con quanto avviene
ordinariamente, ogni volta che una persona racconta di sé ad un’altra.
       Per questo rivolgersi alla forma e alle funzioni del racconto di sé nelle
occasioni ordinarie, per prepararsi alle interviste biografiche, ci è utile: ci aiuta a
comprendere cosa avviene, in generale, quando una persona racconta di sé.
       Ed è per questo che sui racconti di sé che si realizzano nella vita quotidiana
presterò attenzione in queste pagine. All’intervista biografica in sé stessa dedicherò
attenzione alla fine.

       Tra le premesse necessarie a queste pagine vi è ovviamente che l’intervista
biografica è lo strumento principe di un insieme di approcci alla ricerca che vengono
chiamati per l’appunto “biografici”.
       Approcci biografici alla ricerca sono stati praticati nel corso degli ultimi
cent’anni da tutte le scienze umane 1 . Per quanto riguarda la sociologia, a partire dal
classico lavoro di Thomas e Znaniecki su Il contadino polacco, realizzato agli inizi
del Novecento 2, i sociologi raccolgono storie di vita mediante interviste narrative (di
solito affiancando a questo strumento l’uso di altre fonti). Questo metodo dipende da
una consapevolezza dei compiti della sociologia che possiamo far risalire a Max
Weber: in questi compiti non può mancare lo sforzo di comprendere il senso che le

1
  Per una introduzione multidisciplinare vedi L. Formenti, Presentazione. Oltre le discipline, in W.
Linden, B. Merrill, Metodi biografici per la ricerca sociale, tr. it. Milano, Apogeo, 2012.
2
  W. I. Thomas, F. Znaniecki, Il contadino polacco in Europa e in America, tr. it. Milano,
Comunità, 1968.
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persone danno a quello che fanno 3. E il senso che le persone danno a ciò che fanno lo
si può cogliere quasi solo ascoltandone la voce.
       In Italia, dopo alcuni lavori pionieristici come quelli di Danilo Montaldi o di
Danilo Dolci, l’uso sistematico e teoreticamente avvertito della raccolta di storie di
vita nella ricerca sociale è stato avviato da Franco Ferrarotti negli anni settanta 4.
Molti altri hanno sviluppato e raffinato il campo, e oggi gli approcci biografici alla
ricerca sociale sono diffusissimi 5.
       Lavorando in questo campo, i sociologi hanno imparato diverse cose sul
racconto di sé. Ne indico almeno due (che ritroveremo mano a mano nel discorso):
       Innanzitutto, si è imparato che chiedere a qualcuno di parlare di sé corrisponde
ad offrirgli un certo riconoscimento: vi è nel raccogliere storie di vita un valore
morale e politico, non soltanto scientifico, che non va sottaciuto.
       In secondo luogo, abbiamo imparato che ogni racconto di sé è legato alla
situazione in cui la narrazione si svolge, e che è una costruzione più o meno
temporanea dei fatti narrati (cioè una selezione e una interpretazione di questi ultimi)
la quale largamente dipende dall’immagine di sé che il narratore coltiva o che intende
promuovere.
        A ciò va aggiunto che una certa consapevolezza autobiografica oggi è
considerata necessaria anche da parte del ricercatore riguardo a se stesso/a. Chi
osserva infatti è parte del campo di osservazione: l’osservatore è situato
esistenzialmente tanto quanto lo sono gli attori su cui fa ricerca, e il modo in cui lo è
influenza la relazione che intrattiene con loro, e di ciò deve tenere conto6.

3
  Per rinfrescare la memoria sul tema del senso nella sociologia weberiana si rimanda lo studente a
P. Jedlowski, Il mondo in questione. Introduzione alla storia del pensiero sociale, Roma, Carocci,
2009, p. 123 e sgg.
4
   Si veda in particolare Vite di baraccati, di F. Ferrarotti, Napoli, Liguori, 1974. Di Ferrarotti si
veda anche Storia e storie di vita, Roma-Bari, Laterza, 1981. Per uno dei primi resoconti dell’uso
delle storie di vita in Italia vedi M. I. Macioti (a cura), Biografia, storia e società, Napoli, Liguori,
1985.
5
   A testimonianza dell’interesse e della ricchezza degli sviluppi attuali, in stretta relazione con il
contesto di ricerca europeo, rimando al numero monografico Biography and Society, curato di R.
Breckner e M. Massari, della “Rassegna Italiana di Sociologia” (LX, 1, 2019).
6
  Ciò corrisponde a quella che Bourdieu chiamava la “auto-analisi” propria dello scienziato sociale:
non si tratta di mettersi in scena narcisisticamente, ma di riconoscere il carattere socialmente e
culturalmente situato del proprio punto di vista. Cfr. P. Bourdieu, Questa non è un’autobiografia, tr.
it. Milano, Feltrinelli, 2005. L’importanza di una consapevolezza autobiografica del ricercatore (e
anche della necessità di renderne conto, almeno in parte, nei propri rapporti di ricerca) è da alcuni
decenni molto diffusa: per la sociologia italiana rimando almeno ad A. Melucci (a cura), Verso una
sociologia riflessiva, Bologna, Il Mulino, 1998.
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Non credo serva premettere altro. Collocate fra l’insegnamento di Metodi della
ricerca e quello di Teoria sociale, queste lezioni costituiscono in un certo senso un
ponte fra i due. Dell’importanza della vita quotidiana, del concetto di senso e dei
rapporti fra biografie e società si è parlato nel corso di Teoria sociale; dell’importanza
di mettere a punto strumenti diversificati per soddisfare le nostre esigenze di ricerca e
delle caratteristiche generali dei metodi cosiddetti “qualitativi” (entro cui l’intervista
narrativa si situa) si è parlato in quello di Metodi.

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Capita a tutti di parlare di sé

       Capita a tutti di parlare di sé. Il che non significa che scriviamo tutti
autobiografie. Ma nella vita quotidiana, in diverse occasioni, ci troviamo a raccontare
di noi stessi.
       È di questi racconti che parlerò nelle prossime pagine. Ciò di cui mi occuperò
sono i casi in cui il racconto di sé è il più spontaneo, frequente, banale: i casi in cui
una persona racconta qualcosa di sé a qualcun altro, faccia a faccia, oralmente, in una
situazione informale, una di quelle conversazioni che punteggiano la nostra vita
ordinaria: al lavoro, sul tram, a casa propria, al bar o camminando per la strada 7.
       Come qualche giorno fa, in un albergo. A colazione, a un tavolo vicino a quello
dove sono seduto una signora parla vivace con un’altra signora. Racconta quanto ha
faticato il giorno prima a rintracciare in auto l’albergo; ricorda a chi ha chiesto la
strada; dice di aver finito per comprare una mappa della città. “Mio marito, sai, in
macchina usa il navigatore, ma io non mi ci trovo”. Continua raccontando come ha
dormito e come si è svegliata.
       Io, seduto con il mio cappuccino, non potevo fare a meno di stare a sentire. Il
racconto era pieno di verve, ma il contenuto era davvero molto poco eccitante. Mi
trovai quasi a invidiare la sicurezza di questa signora, che non pareva neppure
sfiorata dal dubbio che i suoi racconti potessero essere men che interessanti per la sua
interlocutrice.
       In ogni caso, quello che ascoltavo era un racconto autobiografico. L’io della
narratrice e l’io narrato si sovrapponevano. E questa è la definizione elementare di
ogni autobiografia: un racconto in prima persona in cui il soggetto di cui si racconta
la storia è lo stesso che proferisce il racconto.

7
   Naturalmente, osservare le conversazioni presenta qualche difficoltà. È difficile registrare o
filmare una conversazione reale: le persone non parlerebbero più tra di loro come farebbero se
fossero sole. Se lo si fa di nascosto (come avviene nell’esempio riportato nelle righe seguenti) si
devono fare i conti con il diritto altrui alla riservatezza (nell’esempio, è la narratrice a rinunciarvi,
parlando in uno spazio pubblico a voce molto alta). Per questo nelle prossime pagine farò spesso
uso di esempi tratti dalla letteratura (e anche dal cinema). Sull’uso di questo tipo di fonti nel lavoro
sociologico la riflessione oggi è molto sviluppata, e nel nostro Dipartimento ce ne siamo occupati
ampiamente: tra gli interventi più teorici a riguardo vedi R. Siebert, S. Floriani (a cura) Incontri fra
le righe. Letterature e scienze sociali, Cosenza, Pellegrini, 2010; E. G. Parini, Tra sociologia e
letteratura, “Rassegna Italiana di Sociologia”, 1, 2016.
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Racconti come quello ora evocato compaiono entro conversazioni ordinarie.
(Rammento che la conversazione è una sequenza di atti comunicativi che si svolge tra
due o più interlocutori in modo tale che questi si scambiano a turno la possibilità di
parola. Le conversazioni ordinarie sono quelle caratterizzate da una interazione di
tipo paritetico: in cui esiste cioè, almeno in linea di principio, un’uguaglianza dei
diritti e dei doveri comunicativi di tutti gli interlocutori) 8.
        La conversazione è una delle forme più elementari della comunicazione
umana. Serve a un’infinità di scopi diversi ma, qualunque sia l’argomento,
conversando noi costruiamo una sorta di ponte, una relazione con gli altri.
Conversando ci offriamo reciprocamente un riconoscimento elementare ma decisivo:
ci attribuiamo l’un l’altro dignità di parola. E con l’altro (per quanto ciò avvenga di
norma implicitamente, in modo temporaneo e parziale) ci accordiamo su come sia
possibile parlare del mondo. Come scrivevano Berger e Luckmann, la conversazione
è il mezzo più importante della costruzione e della ricostruzione continue di ciò che
intendiamo come “realtà” 9.
        Ciò di cui andremo a occuparci sono però soltanto le conversazioni in cui
hanno posto delle narrazioni di sé.

       Di autobiografie e di racconti autobiografici si occupano naturalmente molte
discipline. Storia della letteratura e critica letteraria innanzitutto. Per queste
discipline, l’autobiografia è un genere letterario. La sua definizione è questa:

        un racconto retrospettivo in prosa che una persona reale fa della propria esistenza, quando
mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della sua personalità 10.

8
    Per l’avvio degli studi sociologici sulla conversazione vedi H. Sacks, L’analisi della
conversazione, tr. it. Roma, Armando, 2007. Le conversazioni ordinarie si differenziano dalle
conversazioni istituzionali, dove la definizione della situazione è più formale e che comportano di
necessità certe asimmetrie nella distribuzione del potere di gestire gli scambi comunicativi. Il diritto
di fare domande, di stabilire gli argomenti della conversazione e cambiarli, di controllare insomma
e di influenzare l’andamento degli scambi, qui è sbilanciato (si pensi alle interazioni che avvengono
in un’aula scolastica, nello studio di un medico, o in tribunale…). Ciò non toglie che anche nelle
conversazioni ordinarie contino certe posizioni di potere: età, status sociale o prestigio determinano
diritti e doveri diversi, o comunque possibilità di agire differenti. Più la situazione è informale,
tuttavia, più tale distribuzione del potere può in generale essere contestata, modificata o sottoposta a
negoziazioni. (Su tutto ciò vedi F. Orletti, La conversazione diseguale, Roma, Carocci, 2000).
9
   P.L. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, tr. it. Bologna, Il Mulino, 1966,
pp. 208-9.
10
   Ph. Lejeune, Il patto autobiografico, tr. it. Bologna, Il Mulino, 1986, p. 12.
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È la definizione che offre Philippe Lejeune, piuttosto autorevole (anche se può
essere discussa). L’elemento decisivo è questo: l’idea che il racconto riguardi
l’esistenza della stessa “persona reale” che lo proferisce. Questa idea, il lettore è
chiamato a condividerla con lo scrittore. Si tratta di un patto, come scrive Lejeune: un
patto che il narratore e i suoi destinatari stipulano implicitamente, il quale che
stabilisce appunto che la vita narrata è quella della stessa persona che la narra. (La
menzogna è possibile, naturalmente, ma è possibile considerarla tale solo quando
esiste un patto del genere).
       Ora, Lejeune pensava alle autobiografie letterarie, ma questo elemento
definisce anche il racconto autobiografico orale 11. Se qualcuno dice “Sono stato a
pescare”, normalmente intendiamo che a esserci andato è proprio lui. Ma vi sono
anche delle differenze.
       Innanzitutto, rispetto a un’autobiografia scritta, il racconto è più breve: la
“retrospezione” di cui parla Lejeune riguarda solo qualche episodio; raramente è in
gioco un profilo autobiografico complessivo del narratore.
       Frammentario ed esposto in occasioni non necessariamente vicine fra loro, il
racconto orale può comportare inoltre una dose di contraddizioni maggiore di quella
di un racconto scritto. È fluido, è sottoposto a rimaneggiamenti continui.
       Si intreccia inoltre più marcatamente del racconto scritto con altre forme del
discorso, e soprattutto è legato al contesto in cui la narrazione si svolge. Quest’ultima
avviene in faccia a un altro, e coinvolge il corpo: gesti, sguardi, postura, uso dello
spazio; ci sono persino gli odori. Ma, specialmente, il racconto orale dipende in
maniera stringente dall’interlocutore. È cioè un evento relazionale.
       Il fatto è che, come scriveva Alberto Melucci,

11
   La legittimità di questo confronto potrebbe essere contestata. Essa deriva però da un movimento
scientifico e culturale che si è prodotto negli ultimi trent’anni, il quale ha riposizionato le
autobiografie, e ogni altro genere narrativo a dire il vero, entro l’universo assai più ampio di tutte le
pratiche comunicative che hanno a che fare con la narrazione. Tra il racconto che fa un padre ai suoi
bambini prima di mandarli a letto, un romanzo, un film, una soap opera, o qualunque altra pratica
comunicativa in cui si narra qualcosa c’è continuità: in gioco sono indubbiamente alcuni fattori che
fanno differenza, ma vi è anche molto di comune. In tutti i casi il discorso assume la forma di un
racconto, e in tutti i casi vi sono narratori e destinatari, fra i quali la pratica comunicativa fa
transitare una storia. Nella prospettiva proposta da questo movimento, anche fra l’autobiografia
scritta e pubblicata da un famoso autore e i racconti di sé che una persona qualunque fa ad un’altra
c’è continuità: certe regole che definiscono il tipo di discorso sono le stesse, pur entro le differenze
che ovviamente si riscontrano. Per un’ampia disamina della questione e per una bibliografia in
merito vedi J. Brockmeier, Narrazione e cultura, tr. it. Milano, Mimesis, 2014.
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… non si può separare il narrare dalla relazione in cui si situa. Le narrazioni sono sempre
dei racconti che le persone […] fanno a qualcuno e per qualcuno, delle attività comunicative che
hanno luogo in un certo contesto relazionale 12.

       Questo è vero anche per le narrazioni scritte (dove il contesto relazionale è
mediato, ma non è inesistente). In effetti, è vero per ogni enunciazione, la quale per
definizione postula un destinatario 13. Ma quando si tratti di un racconto svolto in
concreto da qualcuno in faccia ad un altro, la natura relazionale della narrazione è più
evidente. Se uno può esporre il proprio racconto, è perché un altro è disposto ad
ascoltarlo. In questo senso, a narrare si è in due 14.
       Il primo, il narratore, appare il protagonista dell’azione comunicativa; ma il
secondo, il destinatario del racconto, non è affatto passivo. Con le sue aspettative
determina ciò che viene detto. E non è mai completamente muto: espressioni del viso,
posture, interiezioni, domande: si tratta di vere e proprie collaborazioni al racconto.
La sua attenzione o la sua disattenzione, la sua partecipazione emotiva o il suo
disinteresse agiscono sul narratore. Insomma: il racconto orale è il frutto di una
collaborazione.

       Naturalmente nelle conversazioni non è sempre facile distinguere il discorso
narrativo da altri aspetti del discorso, e dunque la narrazione in senso stretto dalla più
ampia pratica del conversare. La condizione minimale perché un’enunciazione possa
essere qualificata come narrativa è che qualcuno dica ad un altro che “è successo
qualcosa” 15. Esprimere un’opinione o dichiarare una preferenza, in questo senso, non

12
   A. Melucci, Costruzione di sé, narrazione, riconoscimento, in D. della Porta et al. (a cura di),
Identità, riconoscimento, scambio, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 40.
13
   Come scriveva Emile Benveniste: “ogni enunciazione […] è un’allocuzione che postula un
destinatario”. Aggiungeva che persino un monologo “… deve essere considerato, malgrado
l’apparenza, come una varietà del dialogo […]: un dialogo interiorizzato” (E. Benveniste,
L’apparato formale dell’enunciazione, in Problemi di linguistica generale, tr. it. Milano, Il
Saggiatore. 1985, p. 102-103).
14
   Conviene ricordare che “racconto” e “narrazione”, a rigore, non sono sinonimi. Il racconto è un
testo (orale, scritto o figurato che sia: l’insieme di segni che evoca una certa storia); la narrazione è
un’azione (quella di chi proferisce - o comunque produce - il racconto). E questa azione è
propriamente una inter-azione. Sul tema mi permetto di rimandare a P. Jedlowski, Storie comuni. La
narrazione nella vita quotidiana, Milano, Bruno Mondadori, 2000..
15
   B. Herrnstein Smith, Narrative Versions, Narrative Theories, in W. J. T. Mitchell (a cura), On
Narrative, Chicago, University of Chicago Press, 1984, p. 228. Secondo la narratologia, un discorso
è narrativo se comporta la raffigurazione di un processo che si svolge nel tempo. Come scrive
Gerard Prince: “la narrativa può essere definita come la rappresentazione di avvenimenti e
situazioni reali o immaginari in una sequenza temporale” (G. Prince, Narratologia, tr. it. Parma,
Pratiche, 1984, p. 6). Per quanto possano comparire entro un racconto, non sono in sé enunciati
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sono narrazioni: benché ovviamente compaiano nelle conversazioni e benché
altrettanto ovviamente possano dire molto a proposito di chi sta parlando 16. Io
cercherò di attenermi alla discussione di enunciazioni strettamente narrative: ma non
è difficile rintracciarle, perché sono molto frequenti.
       In altra occasione mi è capitato di notare quanto la narrazione sia presente nella
quotidianità 17. È vero che il tempo per dispiegare un racconto oggi è più raro di
quanto non sia stato in passato. Ma sono racconti anche quelli che scambiamo con
conoscenti, come quando rispondiamo a domande come: “E poi, com’è andata?”. O
con i figli a cui domandiamo come è andata la scuola. Con i colleghi con i quali
vantiamo un affare o lamentiamo un’ingiustizia; con i vicini con cui scambiamo un
pettegolezzo; con gli amici o i parenti con i quali ricordiamo all’infinito le storie che
condividiamo.
       I caratteri, le forme e le funzioni che questi racconti assumono sono variabili
tanto quanto sono variabili le situazioni entro cui ci troviamo a raccontare. A volte si
racconta per il puro gusto di intrattenersi reciprocamente. A volte per confidarsi,
oppure per trovare uno sfogo. A volte si racconta per trasmettere un certo
insegnamento, o per affermare con l’efficacia di un esempio un consiglio o un certo
precetto morale. Un elenco è impossibile: la narrazione segue la vita in ogni piega
delle sue necessità.
       E parte di questi racconti ha carattere autobiografico. Ha per argomento
qualcosa che è successo a noi stessi. Può capitare in risposta a una domanda diretta
(“E poi, che ti è successo?”), o possiamo essere noi a prendere l’iniziativa (“Ma lo sai
cosa mi è successo?”). Possiamo fare a gara a raccontare oppure aspettare di esservi
spinti. Ma lo facciamo. Quando e dove? Molto spesso, dovunque.
       Certo, la maggior parte delle interazioni si basa su una forte dose di
impersonalità. Non potremmo chiedere a ciascuno dei passanti che incrociamo nella
folla di parlarci di sé, né lo facciamo con il commesso del supermercato, con il
funzionario a uno sportello, con coloro coi quali partecipiamo a una riunione di
lavoro (anche se in qualche caso un piccolo segno di interessamento personale può
essere d’obbligo, o quanto meno agevolare il rapporto). Ma non mancano spazi per
una socialità distesa e per relazioni personalizzate. Anche la società contemporanea
conosce luoghi in cui la conversazione si può dispiegare, e in cui non di rado si parla
di sé.

narrativi una descrizione, un giudizio, una lista o un teorema, ad esempio: in tutti questi casi il
tempo non è rappresentato.
16
   Una dimensione espressiva è del resto presente in qualsiasi enunciazione. È su ciò che si basa la
possibilità di dire che qualcuno “si racconta” anche quando, propriamente, non sta raccontando
nulla.
17
   P. Jedlowski, Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana, cit.
                                                38
Come nei caffè per esempio. Dove il racconto di sé è diffusissimo:

        In tutti i caffè sono frequenti racconti o vere proprie confessioni riguardanti problemi o
questioni personali: giovani innamorati che si raccontano incertezze individuali o analizzano la loro
liason sentimentale; amici che affrontano gioie o dolori personali e la complessità delle proprie
relazioni affettive; studenti alle prese con regole famigliari, problemi della convivenza,
incomprensioni con i coinquilini, disagi esistenziali e prime crisi all’ingresso nell’ambito
lavorativo; trentenni fedifraghi o traditi - sia uomini che donne - che cercano una spalla amica su
cui piangere o un orecchio fidato che possa prestare ascolto […]; anziani che tessono la trama delle
esistenze dei propri figli e nipoti… 18.

        Motivi, forme e funzioni di questi racconti sono molti, variabili, spesso
intrecciati o sovrapposti fra loro. In ogni caso, poiché ho detto poc’anzi che a narrare
si è in due, la prima cosa che possiamo osservare è che le occasioni in cui il racconto
riguardi il sé del parlante sono quelli in cui la natura relazionale della narrazione è più
macroscopica. Quanto meno, ha i maggiori effetti sul racconto stesso: ciò che si
racconta dipende in modo assolutamente stringente dalla relazione. In breve: non a
tutti raccontiamo di noi in modo uguale.
        Non penso a particolari segreti, a quei racconti che per definizione non si fanno
a chiunque. La relazione che sussiste tra narratore e destinatario informa comunque la
narrazione di sé. Lo esprime bene un passo di Joshua Meyrowitz:

        Verso la fine degli anni Sessanta, quando ero studente universitario, passai tre mesi di
vacanze estive in Europa. Feci un’ampia gamma di esperienze nuove ed eccitanti e, quando tornai a
casa, ne parlai agli amici, alla mia famiglia e ad altri conoscenti. Ma non a tutti riferii esattamente la
stessa versione. Ai miei genitori diedi ragguagli sulla sicurezza e la pulizia degli alberghi in cui
avevo soggiornato e su come il viaggio mi avesse reso meno pignolo nel mangiare. Ai miei amici
parlai di pericoli, di avventure e di una breve storia d’amore. Agli insegnanti descrissi gli aspetti
“educativi” del viaggio: visite a musei, cattedrali, luoghi storici e osservazioni sulle differenze
culturali e comportamentali. Ognuno dei miei pubblici udì un discorso diverso. Le storie del mio
viaggio erano diverse tanto nel contenuto quanto nello stile. Cambiavano anche costruzioni
grammaticali, modi di pronunciare le frasi, termini gergali. Cambiavano le espressioni del viso, le
posizioni del corpo e i gesti delle mani… 19.

        Aveva forse mentito a ognuno dei suoi pubblici? si domanda l’autore. No:
aveva tenuto conto delle differenze che sussistono fra i suoi interlocutori, o meglio
fra le relazioni che intrattiene con loro.

18
   M. Cerulo, La danza dei caffè. L’interazione faccia a faccia in tre luoghi pubblici, Cosenza,
Pellegrini, 2011, pp. 37-38.
19
   J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo, tr. it. Bologna, Baskerville, 1985, p. 3.
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Raccontarsi

       La relazione che il narratore ha con il destinatario determina forma e qualità
del racconto.
       È una constatazione facile a farsi se si osservano le narrazioni faccia a faccia. È
meno evidente a chi si concentra su testi scritti. La mediazione offerta dal testo
comporta infatti la separazione del narratore dai suoi destinatari, e così ne emancipa
la prestazione dai vincoli che raccontare in faccia a un altro comporta.
       È per questo che il romanziere Edward M. Forster, ad esempio, sosteneva la
relativa superiorità del romanzo rispetto a ciò che si può narrare all’interno di una
conversazione. Proprio a causa della separazione tra il narratore e il destinatario, il
romanzo permette infatti di toccare argomenti che in una situazione faccia a faccia
potrebbero venire affrontati solo eccezionalmente, con cautela, o non venire affrontati
per nulla: l’anonimità della relazione permette di aggirare il riserbo e il pudore di cui
le relazioni personali devono tener conto molto più attentamente. Sono gli argomenti
che riguardano quella che Forster chiamava la “vita nascosta”:

             ... le pure passioni, quei sogni, quelle gioie, quei dolori e quei colloqui con se stesso di
     cui l’educazione o il pudore vietano di fare parola 20.

       È vero che è stata la diffusione di scrittura e lettura che in buona misura ha dato
origine all’idea stessa di questa “vita nascosta”, all’idea di una “interiorità” celata alla
vista 21. Ma, una volta diffusa, questa idea è divenuta concreta. Avvertiamo la
discrepanza fra ciò che possiamo e ciò che non possiamo dire. La maggior parte delle
conversazioni pone un limite alla possibilità di nominare la “vita nascosta”.
       Sfidare questo limite comporta un certo pericolo. I racconti autobiografici
hanno in effetti una differenza rispetto ad altri racconti: raccontare di noi è un po’ più
rischioso.
       Un primo aspetto del rischio riguarda la nostra capacità di interpretare le regole
della decenza. Dunque non imbarazzare e non imbarazzarsi. Non è da poco: a
riguardo, sbagliare significa squalificarsi.
       In cerchie sociali diverse e nel corso del tempo i limiti di ciò che decentemente

20
  E. M. Forster, Aspetti del romanzo, tr. it. Milano, Garzanti, 1991, pp. 57-58.
21
  Per una sintesi delle riflessioni su scrittura e sviluppo del “sé”: G. Pecchinenda, Homunculus.
Sociologia dell’identità e autonarrazione, Napoli, Liguori, 2008.
                                                  38
è possibile dire variano considerevolmente. Le conversazioni nei salotti europei del
Sei e Settecento - per cui disponiamo di buone testimonianze 22 - ponevano limiti
angusti al racconto di sé. Era così ancora nella prima metà del Novecento. Come
annotava Georg Simmel, gli aspetti più personali della vita non trovano spazio alcuno
nella cornice della conversazione socievole: si tratterebbe di “assenza di tatto” 23.
       Questi limiti oggi, almeno in Occidente, sono considerevolmente più larghi.
Ma non inesistenti. (È difficile che in una conversazione qualcuno racconti
esattamente che cosa fa in bagno, per dire).
       Naturalmente, vi sono diverse inclinazioni al racconto autobiografico: per età,
ceto, genere e generazione. Da noi, secondo Adriana Cavarero, sono soprattutto le
donne a raccontare di sé:

       Nelle cucine, sui treni, nei corridoi delle scuole e degli ospedali, davanti a una pizza o a un
bicchiere, sono soprattutto le donne a raccontarsi storie di vita 24.

       Gli uomini - dice - raccontano di sé meno facilmente. Dipende forse dalla
propensione a nascondersi dietro idee astratte, a inseguire generalizzazioni: mentre
l’arte del racconto si basa sul particolare. Ma non saprei quanto insistere. Conta la
generazione. Mio padre non parlava di sé. Questione di pudore, ma anche di una certa
idea della virilità. Nella sua generazione gli uomini si facevano vanto di essere di
poche parole. Oggi non mi pare così. E sembra vero del resto che, almeno nei ceti più
elevati, fin dall’Ottocento l’amicizia maschile potesse ospitare occasioni narrative
che germogliavano nei collegi, nei pensionati, sui banchi delle università. Come ha
notato uno storico, la conversazione maschile era qui

        uno dei versanti dell’educazione sentimentale e sessuale, il versante cioè della rivisitazione,
attraverso il linguaggio, dell’esperienza vissuta 25.

       Anche quanto alle donne, del resto, la faccenda non è così ovvia. In
un’intervista con Renate Siebert, la scrittrice algerina Assia Djebar, commentando un
proprio lavoro autobiografico, dice quanto sia stato difficile per lei usare il pronome
“io” in quell’occasione, dal momento che in Algeria

22
   Vedi fra gli altri B. Craveri, La civiltà della conversazione, Milano, Adelphi, 2001.
23
   G. Simmel, La socievolezza, tr. it. Roma, Armando, 1997, p. 45.
24
   A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Milano, Feltrinelli,
1997, p.73.
25
   A. Corbin, Relazione intima o gioia del rapporto, in Ph. Ariés, G. Duby (a cura), La vita privata.
L’Ottocento, tr. it. Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 407.
                                                  38
… persino nella vita di tutti i giorni, la parola femminile evita l’“io” della prima persona.
L’educazione, la morale, non ci spinge a parlare di noi 26.

      A sua volta, Siebert nota altrove come anche in Italia le donne più anziane,
almeno in contesti rurali, non abbiano necessariamente un gran facilità a raccontarsi.
Dire “io” e associarvi la propria esperienza soggettiva corrisponde all’assunzione di
una responsabilità, è un momento di emancipazione che non è sempre facile né
sempre scontato. Certamente dicono “io” volentieri le ragazze più giovani. Fin
troppo, pare a Siebert: al punto che la diffusione di un atteggiamento auto-riflessivo
sembra rovesciarsi a volte in una sorta di “azzeramento della curiosità per il mondo”,
una specie di “eccesso autobiografico” 27.

       Oltre a differenze di genere e di generazione, esistono differenze ascrivibili alla
cultura. Negli Stati Uniti due psicologi, Qi Wang e Jens Brockmeier, hanno messo a
confronto giovani americani e giovani immigrati cinesi. L’atteggiamento dei secondi
rispetto al racconto di sé pare loro espresso perfettamente da alcune frasi dell’autrice
della celebre autobiografia La donna guerriera, Maxine Hong Kingston. Cresciuta in
una comunità cinese immigrata, Maxine va poi a scuola e impara l’inglese.
Ricordandolo scrive:

        Non potevo capire “Io” [in inglese “I”, N.d.T.). La parola cinese che vuol dire “io” ha sette
linee, è intricata. Come poteva l’”Io” degli americani […] avere solo tre linee, e con quella in
mezzo così dritta, marcata? 28

26
   R. Siebert, Andare ancora al cuore delle ferite. Intervista a Assia Djebar, Milano, La Tartaruga,
1997, p. 21.
27
   R. Siebert, Cenerentola non abita più qui, Torino, Rosenberg & Sellier, 1999, p. 212. (Vedi
anche Ead., E’ femmina però è bella. Tre generazioni di donne al sud, Torino, Rosenberg & Sellier,
1991). Ma l’importanza della presa di parola autobiografica va valutata caso per caso. A ridosso di
un’altra ricerca, riguardante la presa di parola di donne vittime di soprusi mafiosi, Siebert
commenta: “È significativo che la presa di parola - la trasgressione della legge dell’omertà per
quelle che vengono da un ambiente mafioso o comunque contiguo alla mafia, il superamento della
timidezza o dell’abitudine alla riservatezza per quelle donne che sono mogli, madri o sorelle di
uomini morti nella lotta contro la mafia - rappresenti un punto di svolta decisivo […]. Prendere la
parola, vincere riservatezza e pudore - ma anche l’opportunismo dell’ambiente sociale - mobilita le
forze di Eros contro Thanatos” (R. Siebert, La mafia, la morte e il ricordo, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 1995, pp. 34-35).
28
   M. Hong Kinston, The woman warrior: memoirs of a girlhood among ghosts, New York,
Random House, 1976, p. 166, cit. in J. Brockmeier, Localising oneself: autobiographical
remembering, cultural memory, and the Asian American experience, in “International Social
Science Journal, 203/204, 2011, p. 128. La donna guerriera è stato tradotto in italiano dalle edizioni
E/O, ma non è più disponibile.
                                                 38
Il segno cinese per “io” è 我. E più avanti si chiede: com’è possibile che I sia
scritto in maiuscola, e you con la minuscola? “No, non è educato, davvero!”.
       Come sottolineano Wang e Brockmeier, non possiamo dare per scontato il
nostro modo di dire io 29. A parere di altri, provenienti da altre culture, vi mettiamo
un’enfasi decisamente eccessiva. Fra le culture non esistono differenze nette, ma,
quanto al discorso autobiografico, ci sono almeno differenze di grado, di stile.
Secondo le ricerche citate, gli occidentali imparano fin da bambini a parlare di sé in
uno stile che privilegia i valori dell’autonomia e dell’indipendenza; i cinesi imparano
a parlare di sé con maggiore modestia, sottolineando di più l’interdipendenza fra
ciascuno ed i suoi famigliari.
       Le ricerche comparate su questo argomento sono meno sviluppate di quanto si
desidererebbe. Ma è plausibile dire che, nei termini più generali, le culture occidentali
sono caratterizzate da un peculiare rilievo attribuito all’idea di “individuo”, e che la
stessa diffusione dell’autobiografia come genere letterario moderno è espressione di
questo rilievo 30.

        Ma quanto al rischio, per tornare al cuore del discorso che sto sviluppando, non
si tratta comunque solo di quello di essere inopportuni. Il rischio è anche che l’altro

29
   Q. Wang, J. Brockmeier, Autobiographical remembering as Cultural Practice, in “Culture &
Psychology”, 8 (1), 2002.
30
   Si vedano in proposito le voci della ricca Encyclopedia of Life Writing. Autobiographical and
Biographical Forms, a cura di M. Jolly, London, Fitzroy Dearborn Publishers, 2001. Il rapporto fra
individualismo e nascita della moderna autobiografia è un argomento frequente negli studi
sull’autobiografia come genere letterario. Effettivamente l’autobiografia sembra trarre una linfa
speciale da entrambi i versanti dell’individualismo moderno: da un lato l’idea dell’uguaglianza dei
diritti di ognuno (in questo senso siamo tutti “individui”, a prescindere dalle differenze di nascita o
censo, e abbiamo dunque diritto a narrarci); dall’altro l’idea dell’unicità della vita e della
personalità di ciascuno (in questo senso ognuno è “individuo” a suo modo, e raccontarsi serve a
testimoniarlo). Una miscela di uguaglianza e di diversità che trovò forse la prima espressione nelle
Confessioni di Rousseau: “Se pure non valgo di più, quanto meno sono diverso” (J. J. Rousseau,
Confessioni, tr. it. Milano, Garzanti, 2000, p. 5). Uguali per diritto e diversi per predisposizione, gli
individui della modernità occidentale sono chiamati a autorealizzarsi nei propri corsi di vita: una
certa attenzione autobiografica si lega a questo progetto sia come testimonianza di ciò che si è
conseguito sia, e forse soprattutto, come strumento per indagare le proprie stesse disposizioni. I testi
autobiografici diventano così modello per l’autocomprensione del sé, appoggiandosi sulla
precedente tradizione cristiana della confessione ma emancipandosene quanto al senso che vi è
attribuito, ora marcatamente connesso alle problematiche dell’autorealizzazione e
dell’emancipazione. I contatti coloniali fra Europa e altre parti del mondo hanno portato a una
diffusione assai ampia di questo modello e delle sue giustificazioni. Ciò non toglie però che certe
forme di autobiografia esistessero in tradizioni diverse: dai racconti delle proprie esperienze di
formazione scritte dai sufi fin dal XI secolo a racconti di viaggio come quelli di Ibn Khaldoun e Ibn
Battuta del XIV, da testi antichi cinesi fino a scritti persiani.
                                                   38
utilizza ciò che diciamo a nostro danno. Rammento in proposito un film americano,
Interview 31.
       Un giornalista deve intervistare una diva. Il clima non è del tutto sereno. A
entrambi è chiaro che parlare di sé significa offrirsi a potenziali minacce: più le
informazioni sono personali, più l’altro potrà usarle per nutrire pettegolezzi, montare
scandali, addirittura per esercitare ricatti. Anche per questo la diva, nel corso
dell’incontro, rovescia più volte le parti: è lei a intervistare il giornalista, a aggredire.
C’è qualcosa di agonistico, nel film, nel tentativo dei due di portare l’altro a
raccontare di sé.
       Ma, verso il termine dell’incontro, la donna sembra infine confessare un
segreto che davvero farebbe gola ai giornali. Lo fa dietro giuramento di riservatezza,
ma soprattutto, prima di farlo, convince l’uomo a svelare a sua volta ciò che ha di più
inconfessabile. Sarà lei a registrare la sua confessione con la videocamera. Una sorta
di parità sarà così stabilita.
       Ma è un inganno: il segreto che lei gli rivela è solo quello del personaggio che
lei impersona in una soap opera (che il giornalista non conosce: e di ciò lei si era
offesa). Lui lo scambia per un racconto autobiografico vero; si precipita a
comunicarlo al giornale. Quando scopre l’inganno è già troppo tardi: adesso è lei a
conoscere quello che lui non avrebbe mai voluto rivelare a nessuno.
       Nel film, la consapevolezza del rischio connesso con il parlare di sé è acuita
dal fatto che ambedue i personaggi lavorano nel mondo dei media. Ma, per quanto in
misura minore, è qualcosa che conosciamo tutti. Raccontarsi è esporsi a un pericolo.
Ciò che raccontiamo, così, dipende da quanto ci fidiamo dell’altro.

       Al di qua di esempi così radicali, se raccontare di sé è delicato è anche perché
la rappresentazione che forniamo di noi si confronta con le rappresentazioni di noi
che gli altri ci restituiscono. Il fatto è che, prima di essere in gioco ciò che gli altri
eventualmente faranno di quello che raccontiamo, conta la messa in scena di noi
stessi che operiamo nel momento della narrazione.
       Per comprenderlo bisogna rammentare la struttura specifica del racconto
autobiografico. Questa è definita dal fatto che il pronome “io” nel racconto si
riferisce all’io empirico di chi il racconto lo proferisce. Questa coincidenza non è
ovvia. La coincidenza dell’“io” testuale con la persona concreta del narratore non è
obbligatoria: in un romanzo, ad esempio, può darsi benissimo il caso che l’“io”
dentro al testo non coincida affatto con il romanziere (“Chiamatemi Ismaele”, dice la

31
     Interview, regia di S. Buscemi, U.S.A. 2007.
                                                    38
prima riga di Moby Dick, ma Ismaele non è ovviamente Melville). In un racconto
orale, tuttavia, questa coincidenza di norma è scontata.
       Ora, all’“io” del testo il racconto fornisce certe caratteristiche: può farlo
esplicitamente (dicendo ad esempio dov’è nato o quando), ma anche implicitamente:
per il modo in cui la voce narrante parla, il destinatario può essere spinto a
immaginare un uomo coraggioso, un codardo, un uomo compassato o irascibile, o
ironico, e così via. Poiché nel racconto orale l’“io” del testo e l’io del narratore
coincidono, ciò che il testo in questo modo suggerisce si proietta direttamente sulla
persona concreta del narratore.
       Ma la congruenza tra l’immagine dell’io che il testo produce e quella
attribuibile alla persona del narratore può venir messa in dubbio. Davanti a chi
pensiamo sia un “fanfarone”, ad esempio, distinguiamo bene l’“io” costruito dal suo
racconto - per definizione pieno di ogni virtù - dal narratore concreto. L’immagine
che il racconto cerca di proiettare non è quella che attribuiamo a chi racconta.
Insomma: il destinatario può non credere al narratore. E questi rischia la faccia.

       Visti i pericoli, c’è da chiedersi perché ci si racconti. Ma lo facciamo. Perché?
       Tanto quanto sono varie le occasioni, sono vari i motivi. Si può raccontare di sé
per condividere una certa emozione (un dolore o una gioia). Per suscitare
considerazione, per “reclamizzarsi”. Si può raccontare di sé per giustificarsi. Per
vantarsi o per farsi compatire. Per sedurre. Per chiedere aiuto. Per farsi consolare o
per consolare. Per chiedere consiglio o per darlo. Forse più spesso si racconta di sé
semplicemente per confermarsi di esistere.
       A volte in una conversazione il discorso autobiografico si dispiega come un
vero e proprio racconto: uno degli interlocutori tiene la parola più a lungo, l’altro
interloquisce solo per brevi commenti, esclamazioni o domande che agevolano la
narrazione. Più spesso il discorso è frammentario: brevi frasi, accenni, notazioni
quasi fra parentesi. Magari un elemento autobiografico fa capolino entro un racconto
su un altro argomento (i racconti orali conoscono spesso una complicata architettura
di digressioni e di incastonamenti).
       Anche lo stile conosce infinite varianti. Nelle sue Lezioni di stile Raymond
Queneau ha mostrato come la stessa storia possa venire raccontata in 100 modi
diversi 32. Vale lo stesso per le storie di sé.
       Ripensiamo alla conversazione fra il giornalista e la diva che poco sopra ho
citato, ad esempio. Quando accetta lo scambio che lei gli propone, il giornalista

32
     R. Quenau, Esercizi di stile, tr. it. Torino, Einaudi, 1983.
                                                      38
racconta un episodio di cui ha assoluta vergogna, e lo stile è serissimo, persino
tragico. La narrazione si svolge lentamente, inframmezzata da pause. L’uomo è
seduto, chino in avanti, le mani intrecciate. La diva ascolta in silenzio. La forma è
quella di una confessione.
        Ma si può raccontare di sé in tutt’altri modi. Estraggo un esempio da un
racconto a fumetti, un episodio di una serie famosa per gli appassionati del genere,
Julia, di Giancarlo Berardi. A conversare sono Julia, la criminologa protagonista
della serie, e i due principali coprotagonisti, l’irascibile tenente Webb e il grasso e
pacioso sergente Irving. Dopo aver visitato il luogo di un assassinio, i tre si sono
ritirati in un caffè a fare il punto della situazione. È tarda notte. Una coppia lascia il
locale e ad alta voce dichiara di andare a finire la nottata in discoteca. Conclusa la
discussione di lavoro i tre escono in strada: Webb osserva torvo un orologio pubblico
e nota ironicamente:

       Webb: “Cinque e un quarto. Andiamo a fare quattro salti anche noi?”
       Julia: “In discoteca? Scherza?”
       Irving interviene sornione: “Ne conosco una che sta aperta fino all’alba…”.
       Julia: “Accidenti, siete diventati uomini di mondo!...”
       Webb: “A dire il vero, non metto piede in un posto del genere da secoli”.
       Irving: “Io da martedì scorso!”
       È qui che interviene un breve aneddoto autobiografico:
       Irving: “Rose m’ha iscritto a una scuola di danza…”
       Julia commenta giudiziosamente: “È bello avere un interesse in comune, dopo tanti anni di
matrimonio!”
       Irving: “Bellissimo… Ieri sera mi ha proposto il divorzio!”
       Julia: “Chi? Rose!?”
       Webb: “Tutta colpa delle ninfette che ti ronzano intorno sulla pista, giusto?”
       Julia: “In effetti, una bella prova da superare…”.
       Irving: “Non le noto neanche, sono troppo impegnato con i passi!...”
       Julia: “Allora, perché Rose vuole divorziare?”
       Irving: “Perché sono così impegnato a non pestarle i piedi che non la guardo in faccia!...
Dice che si sente trascurata!” 33.

       Il racconto si conclude con un autocommiseratorio sospiro. Gli altri sorridono.
Ci si dà appuntamento per l’indomani.
       In questo caso la narrazione si svolge in piedi. Le battute si incalzano con
rapidità. Le pose di Irving sono piuttosto studiate, quella che mette in scena a

33
   Trascrivo da “Julia” n. 67, 2004, La chiamavano Betsy Blue, soggetto di Giancarlo Berardi,
sceneggiatura di Giancarlo Berardi e Lorenzo Calza, disegni di Thomas Campi.
                                               38
beneficio dei colleghi è dichiaratamente una recita. La risata che la chiude è il suo
premio. Lo stile del racconto è insomma autoironico 34.
      Fra questi due esempi, uno tragico, l’altro leggero, potremmo trovarne altri
mille. Lo stile del racconto può assumere sfumature infinite, così come i motivi
soggettivi per cui si racconta di sé, e per cui si sta ad ascoltare.

       Al di là dei motivi soggettivi, è probabile che le funzioni della narrazione di sé
nelle conversazioni ordinarie vadano rintracciate innanzitutto in certe necessità
elementari della vita, pratiche, cognitive e psicologiche insieme. Raccontarci e
ascoltare altri raccontare di sé serve a collocarci nello spazio e nel tempo sociali.
Sono modi di connetterci, di collocarci nel mondo, di posizionarci in una realtà
spazio-temporale dalle coordinate comuni.
       Questa collocazione non avviene una volta per tutte e non avviene, di norma,
con un racconto soltanto. La costruzione narrativa del nostro passato e di “chi” siamo
noi è dunque un processo, un insieme di racconti intrecciati attraverso cui quella che
si produce è una “auto-localizzazione” del sé 35.
       Alla richiesta di procedere a questa localizzazione ci si può anche sottrarre. Il
giovane Holden - il celebre personaggio del romanzo di Salinger - inizia il proprio
racconto ad esempio dicendo:

       … magari vorrete sapere prima di tutto dove sono stato e com’è stata la mia infanzia schifa e
che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella […], ma a me non mi va proprio di parlarne
[…]; quella roba mi secca 36.

     Più avanti, incontrando in treno la mamma di un compagno di scuola, dà un
nome sbagliato, e invece di dire che va a casa perché è stato espulso dice che va in
ospedale: “Ho un piccolo tumore nel cervello”. Al che lei “… si portò la mano alla

34
    L’aneddoto di Irving era disegnato ad allentare la tensione che il lavoro aveva accumulato.
Appartiene a quello che potremmo chiamare il suo ruolo nel terzetto, nel sistema di relazioni, di
definizioni reciproche e attese che si è cristallizzato fra loro. In questo sistema Irving ha una parte:
le sue possibilità di discorrere ne sono limitate. Potremmo notare che è così per tutti. Se
all’improvviso raccontiamo in modi o di argomenti che non si confanno alla parte consolidata, alle
aspettative che i compagni hanno nei nostri confronti, generiamo sconcerto; gli altri si
chiederebbero: cosa c’è che non va? In generale, il punto è che tutte le conversazioni hanno
qualcosa di un sistema, vale a dire di un insieme di posizionamenti reciproci e interdipendenti degli
attori coinvolti. Questi sistemi, nel corso del tempo, possono cristallizzarsi al punto che, per
cambiare stile o argomento dei propri racconti, una persona a volte non può che cambiare i propri
interlocutori abituali.
35
   Si veda in proposito l’ampia trattazione in J. Brockmeier, Narrazione e cultura, cit.
36
   J. D. Salinger, Il giovane Holden, tr. it. Torino, Einaudi, 2008, p. 3.
                                                  38
bocca eccetera eccetera” 37. Del resto, se c’è una cosa che lui odia è l’ipocrisia che
regola le conversazioni ordinarie. Se ne fa beffe aumentando la falsità a dismisura.
Ma con ciò, quello a cui si sottrae è tutto un mondo.
       Usualmente non ci si sottrae a questo modo. La costruzione narrativa del sé
avviene in collaborazione con gli altri. Senza questa collaborazione il sé si disintegra.
È difficile coltivare rappresentazioni di sé che nessuno attorno a noi ci conferma.
Avverrebbe come per il giovane protagonista di La vita è sogno di Calderon de la
Barca: prigioniero in una torre, riesce infine a scappare e giungere a corte, dove è
riconosciuto come il figlio del re; ma di notte gli danno un sonnifero, lo riportano in
cella; e al risveglio nessuno fra quelli con cui può parlare gli conferma l’identità che
credeva di aver conquistato: di fronte alla testimonianza contraria di tutti, non può
credere alla propria memoria. Conclude di avere solo sognato 38.
       L’autoposizionamento del sé che avviene nella maggior parte delle
conversazioni ordinarie può tuttavia a volte apparirci insoddisfacente. È un
posizionamento temporaneo, contestuale, legato alle nostre esigenze all’interno delle
cerchie sociali cui in quel momento ci riferiamo.
       In momenti di passaggio, o di crisi, in cui si impongono magari certe scelte o
certi riorientamenti complessivi della nostra esistenza, questo posizionamento non
basta, e abbiamo bisogno di rappresentazioni del sé più complesse. Le
rappresentazioni del sé sono infatti costitutive del nostro agire: le scelte che
compiamo dipendono dall’idea che abbiamo di noi stessi, della nostra storia, delle
nostre inclinazioni o della nostra personalità. La sensazione di non sapere chi siamo
ha per questo qualcosa di paralizzante. In momenti di disagio o di crisi abbiamo
bisogno così di saperlo.

37
     Ivi, p. 69.
38
     Calderon de la Barca, La vita è sogno, tr. it. in Id., Teatro, Torino, UTET, 1984.
                                                    38
Riconoscersi

       Stendhal cominciava la Vita di Henry Brulard dicendosi stupefatto di avere
cinquant’anni, ed osservando che “sarebbe pur tempo di conoscermi” 39.
       Non che fosse poi soddisfatto delle risposte che riusciva a fornirsi. Il suo testo
è costellato di dubbi; ripete di continuo “Mi distraggo…”, “Divago…”. “Che cosa
sono stato, che cosa sono - scrive - sarei in verità molto imbarazzato a dirlo” 40. Ma la
domanda orienta il suo sforzo di raccontare. Uno sforzo che corrisponde a un certo
piacere, ma il piacere non comanda del tutto il discorso: la tensione fra le parole e ciò
che con esse si cerca anima il testo.
       È una tensione che anima difficilmente le conversazioni ordinarie. L’imbarazzo
denunciato da Stendhal probabilmente lo riconosciamo. Anzi, nelle condizioni
odierne è probabilmente più accentuato che mai. Alberto Melucci scriveva qualche
anno fa che la definizione delle nostre identità oggi è per ciascuno una “sfida” 41, e i
motivi li sappiamo. Perché nelle società contemporanee le esperienze che compiamo
in diverse sfere di vita sono molteplici e sono difficili da integrare. Perché siamo
sottoposti a ripetuti e veloci cambiamenti, più che in tempi passati. E a causa
dell’eccesso di risorse simboliche (e di possibilità di azione) che sono a disposizione
di ognuno, il che in altre parole significa che ci è difficile avere un’identità perché
disponiamo di molte identificazioni possibili. D’altro canto, ci è necessario
identificarci, e in questo compito di fatto investiamo una parte cospicua delle nostre
energie. Ci è necessario se non altro perché le rappresentazioni del sé sono costitutive
del nostro stesso agire. Ripetiamolo: in gran parte, le scelte che compiamo dipendono
dall’idea che abbiamo di noi stessi. Però, le relazioni frettolose che intratteniamo
nella vita quotidiana consentono solo di rado racconti orientati ad affrontare la
questione.
       Quello che avviene così è che i racconti autobiografici che si sviluppano entro
queste relazioni tendano essenzialmente ad essere delle presentazioni di sé, più o
meno coerenti fra loro ma ogni volta dipendenti dalle necessità del momento.

       Per intendere la logica della presentazione di sé possiamo pensare a un
39
   Stendhal, Vita di Henry Brulard, tr. it. Milano, Adelphi, 1997, p. 4.
40
   Ibidem.
41
   Vedi A. Melucci, Costruzione di sé, narrazione, riconoscimento, cit.
                                                 38
curriculum. È un caso estremo, ma per questo è istruttivo. Wislawa Szymborska ne
ha ben descritto la forma:

       A prescindere da quanto si è vissuto
       il curriculum dovrebbe essere breve.
       È d’obbligo concisione e selezione dei fatti.
       Cambiare paesaggi in indirizzi
       e ricordi incerti in date fisse.
       Di tutti gli amori basta quello coniugale,
       e dei bambini solo quelli nati […].
       Scrivi come se non parlassi mai con te stesso 42.

       Il curriculum è una presentazione di sé determinata dall’effetto che si desidera
suscitare. Forma e contenuti dipendono da ciò che immaginiamo che l’altro si aspetti
e possa valutare (auspicabilmente in modo positivo). È un caso limite, ma la maggior
parte dei racconti autobiografici che svolgiamo nelle conversazioni ordinarie ha una
logica analoga. Raccontiamo secondo modalità che non turbino le attese altrui che
immaginiamo e che servano ai risultati che intendiamo raggiungere 43.
       Naturalmente, a questa presentazione non lavoriamo soltanto verbalmente. Per
mostrarlo, in La vita quotidiana come rappresentazione Erving Goffman traeva da un
romanzo questa citazione, riguardante tale signor Preedy, un uomo al mare, in
vacanza, al primo giorno di spiaggia:

        ... Per prima cosa Preedy doveva mostrare chiaramente a quei potenziali compagni di
vacanza che essi non lo interessavano minimamente. Guardava attraverso, intorno, sopra a loro, con
lo sguardo perso nel vuoto; la spiaggia avrebbe potuto essere deserta. Se per caso una palla veniva
lanciata nella sua direzione, sembrava stupito; poi faceva vagare sul suo volto un sorriso divertito
(che gentile quel Preedy!), si guardava attorno sorpreso di accorgersi che c’era gente sulla spiaggia,
rilanciava la palla sorridendo a se stesso e non alla gente, e riprendeva quindi con indifferenza il suo
disinvolto studio dello spazio. Era ora di fare un po’ di messa in scena [...]. Con complicati maneggi
dava modo a chiunque ne avesse voglia di leggere il titolo del suo libro - una traduzione spagnola di
Omero, perciò un classico - ma non troppo - e anche di tono cosmopolita; poi riuniva l’accappatoio

42
   W. Szymborska, Scrivere il curriculum, tr. it. in Gente sul ponte, Milano, Scheiwiller, 1996, p.
69.
43
   Il curriculum ha qualcosa di una comunicazione pubblicitaria. A questo tipo di comunicazione
oggi siamo assuefatti, ma vorrei notare che ciò comporta effetti che possono rivelarsi pericolosi.
Quella pubblicitaria è infatti una comunicazione conativa, cioè la funzione prevalente
dell’enunciazione è quella di spingere il destinatario a qualcosa; ma questo tipo di enunciazione ha
una caratteristica: non può essere esposto al giudizio di verità o falsità. Pensiamo a enunciati come
“Comprami!”, oppure “Amami”: non si può dire se sono veri o falsi, ciò che si può fare è soltanto
accettare o meno l’invito. Il che significa che, più questo tipo di comunicazione si diffonde, più ci si
disabitua a porsi la questione della verità o falsità di un enunciato. Il che è una conseguenza
rilevante: di fatto è la possibilità stessa di ogni discorso critico a venire messa in crisi.
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