PRODUTTIVITA', coltiviamo la ripartenza - Seminiamo oggi per raccogliere domani - Confagricoltura Siena

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PRODUTTIVITA', coltiviamo la ripartenza - Seminiamo oggi per raccogliere domani - Confagricoltura Siena
PRODUTTIVITA’, coltiviamo la ripartenza.
     Seminiamo oggi per raccogliere domani.
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INDICE

1) Introduzione                                                        p. 3

2) Le Macrocategorie                                                   p. 5
   1.1. Difficoltà nel fare impresa                                    p. 5
   1.2. Basso livello di competenze e fuga di cervelli                 p. 12
   1.3. Digitalizzazione: Italia quart’ultima in Europa                p. 18
   1.4. Costo del lavoro e manodopera                                  p. 21
   1.5. Uno sguardo all’energia elettrica                              p. 24
   1.6. Differenze sul costo del carburante                            p. 27
   1.7. Per l’agricoltura: miglioramenti nel settore idrogeologico     p. 30

3) Conclusioni                                                         p. 32

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INTRODUZIONE

       Si parla tanto di produttività, ma generalmente se ne comprende poco.
Cos’è la produttività e perché è così importante? Potremmo partire nel dire che è dalla produttività
che dipende la capacità di un paese di crescere e di competere profittevolmente, di controllare
l’inflazione e di aumentare il proprio tenore di vita.
Con la parola produttività, quindi, ci riferiamo alla capacità di un sistema di crescere, di creare
occupazione e sviluppo. Ecco spiegato il motivo per cui il tenore di vita di un paese viene
considerato ragione del livello di produttività raggiunto, ovvero della quantità di beni e servizi
prodotti dagli individui che in quel paese lavorano, in una determinata unità di tempo.
Da quanto appena detto è naturale che una produttività stagnante è un pessimo indicatore e di
conseguenza un problema non di basso rilievo per i policy maker.

       In senso statistico, la produttività è stata da sempre intesa come un indicatore in grado di
misurare la capacità produttiva di un’impresa, di un settore produttivo, di una regione, di una
nazione o di un’area sovranazionale, correlando i fattori produttivi (input) utilizzati nel processo
produttivo con il risultato, ossia il prodotto (output) di tale processo.

       In Italia la crescita della produttività troppo bassa è un problema da tempo irrisolto.
L’Istat ha provveduto a pubblicare le stime sulla produttività, ovvero il rapporto tra prodotto e
fattori di produzione, l’indicatore fondamentale dell’efficienza di un sistema produttivo e di
un’economia.
I dati sono semplicemente allarmanti: l’Istituto di statistica scrive “Nel 2018 la produttività del
lavoro, calcolata come valore aggiunto per ora lavorata è diminuita dello 0,3%. E la produttività
capitale, misurata come rapporto tra il valore aggiunto e l’input di capitale, è aumentata dello
0,1%”. Complessivamente la produttività totale dei fattori, che misura la crescita attribuibile al
progresso tecnico, alla maggiore conoscenza e a migliori processi produttivi “è diminuita dello

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0,2%”. Questo vuol dire che la nostra economia è meno efficiente e in queste condizioni è
impossibile avere crescita economica sostenibile.
La gravità della situazione è che la stagnazione della produttività non è un malanno passeggero, ma
una malattia cronica della nostra economia: dal 1995 al 2018 secondo l’Istat la produttività del
lavoro è aumentata a un tasso medio dello 0,4%, mentre la produttività del capitale è stata
addirittura negativa (0,7%). Invece la produttività totale dei fattori “è stazionaria”, ma in Europa la
produttività del lavoro è cresciuta mediamente dell’1,6%: 1,3 in Germania; 1,4 in Francia; 1,5 in
Regno Unito.

       Siamo un paese stagnante, che pensa solo a distribuire risorse che non si producono e a
come tagliare le fette di una torta che non cresce. La produttività dovrebbe essere l’ossessione del
paese, invece è un tema completamente fuori dal dibattito e dall’orizzonte della politica.

       In sostanza la produttività riflette la capacità di un’azienda di produrre di più, combinando
meglio i vari fattori della produzione attraverso nuove idee e innovazioni tecnologiche, dei processi
e dell’organizzazione. Il nostro Paese su questo fronte fatica non poco, anche se la situazione è -
come spesso avviene in Italia - a “macchia di leopardo”.
L’Ocse, nel suo “Compendio degli indicatori sulla produttività”, non lascia spazio a equivoci: tra il
2010 e il 2016 la produttività italiana, intesa come Pil per ora lavorata, è aumentata solo dello
0,14% medio annuo, dato peggiore in assoluto dopo quello della Grecia (-1,09%).
Ma prima della grande crisi, tra il 2001 e il 2007, il nostro Paese è risultato l’ultimo in assoluto, con
una flessione dello 0,01% annuo, unico segno meno tra la quarantina di Paesi considerati dallo
studio Ocse.

       Vero è che in generale, soprattutto dopo la crisi del 2008, la crescita della produttività ha
registrato un colpo di freno generalizzato: nell’intera Ocse è passata dall'1,77% medio del 2001-
2007 allo 0,8% del 2010-2016, nell’eurozona dall'1,01% allo 0,95%. Ma da noi il fenomeno ha da
tempo assunto dimensioni preoccupanti. Come sottolinea il bollettino statistico del Centro Studi di
Fondazione Ergo, nel periodo 1995-2016 la produttività italiana è cresciuta mediamente a un
modesto tasso annuo dello 0,3%. Quasi immobile.

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LE MACROCATEGORIE

       Il nostro declino è legato a molti fattori, che non solo abbiamo cercato di individuare, ma
abbiamo anche voluto raggrupparli in quattro macro-categorie. Quattro grandi famiglie di “mali
oscuri” che stanno soffocando il nostro Paese.

1.1.    DIFFICOLTA’ NEL FARE IMPRESA

       In Italia è sempre più difficile fare impresa. Rispetto all’anno scorso, il nostro Paese ha
perso cinque posizioni nella classifica mondiale del rapporto annuale “Doing Business”, redatto
ogni anno dalla Banca Mondiale, scendendo dal 46° al 51° posto della classifica.

                Tabella 1: L’ITALIA NELLA CLASSIFICA “DOING BUSINESS 2019”
                Fonte: Banca mondiale

                                   Fonte: Banca mondiale
       L’esclusione dell’Italia dalla “top 50” si deve a molti fattori.
Il nostro Paese per esempio si piazza al 118° posto per quanto riguarda le tasse e in 112° posizione
per le possibilità di accesso al credito.
Male anche la gestione dei permessi di costruzione (104° posto) e il rispetto dei contratti (111°).
Va meglio invece per quanto riguarda il commercio oltre i confini, la risoluzione delle insolvenze e
la registrazione delle proprietà. In ogni caso tutti i principali Stati dell’Unione Europea precedono
in classifica lo Stivale: la Danimarca è seconda, la Svezia 12ma, la Germania 24ma, la Spagna
30ma e il Portogallo 34mo.

       A questo punto proponiamo la vecchia domanda: l’Italia è il paese più tartassato d’Europa?
Secondo la classifica Ue del 2018, sulla pressione fiscale totale in rapporto al Pil, elaborata dall’
ufficio studi Cgia su dati Eurostat e relativa alle imposte dirette, indirette, imposte su redditi da

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capitale e contributi sociali, l’Italia si piazza al settimo posto con il 41, 8%, contro una media Ue
del 40,2%. Come possiamo osservare dal grafico che segue, in testa abbiamo la Francia con il
48,4%, segue il Belgio con il 46,6%, Svezia, 44,3%, Austria, 42,5%, Grecia, 41,4% e Germania,
41,2%.
Molto più pesanti invece i carichi sulle imprese. Dai dati di Banca Mondiale e Cgia in testa c’è la
Francia con il 60,7%, segue l’Italia con il 59, 1%, poi la Germania 48,8% e l’Irlanda con il 23%.
Poi, naturalmente ci sono imposte che variano a seconda delle regioni, delle dimensioni
dell’impresa, tipo di attività e dei componenti della famiglia, ovvero Imu, Tari, Tasi, ecc.

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Tra i vai fattori da tenere presente non dobbiamo perdere di vista le accise e le
microimposte, che abbiamo messo doverosamente a confronto.
Per quel che riguarda le accise, il peso fiscale su un litro di carburante in Italia è il più alto:
1,003 centesimi di euro per ogni litro, ed è previsto un aumento nel 2020. Scendendo nel dettaglio
di paesi comparabili al nostro troviamo la Francia, che chiede 65, 9 centesimi e la Germania 65,5.
Teniamo conto che la media europea è di 89,3.
Ci sono poi le micro-imposte: in Italia continuiamo a pagare la marca da bollo da 2 e 16 euro (esiste
dal 1863), anche se ormai abolita in molti Paesi Ue.
Il nostro passaporto, poi è il più costoso. Parliamo infatti di 116 euro, mentre in Francia costa 86
euro, in Grecia 84.40 euro, in Austria 75,9 euro, e in Germania 37,5 euro.
Troviamo un po’ di conforto nel constatare che siamo il Paese che paga meno il canone Tv: 90 euro,
contro i 335 euro della Danimarca, 215,7 euro della Germania e i 139 euro della Francia.

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Un altro problema che è necessario affrontare è il fisco tortuoso che sappiamo bene
caratterizza l’Italia da sempre.
Con il Portogallo e la Bulgaria, l’Italia è il Paese europeo dove è più complicato pagare le imposte.
L’analisi di Banca Mondiale dice che ad una piccola impresa italiana, ogni anno, occorrono in
media 29,7 giorni lavorativi solo per raccogliere le carte necessarie. La media Ue è di 18 giorni. In
Francia ne bastano 17, in Spagna 18, in Germania 27.
Secondo il Financial Complexity Index condotto in 94 Paesi dal gruppo finanziario Tfm, i primi tre
Paesi al mondo con il fisco più tortuoso sono nell’ordine: Turchia, Brasile, Italia. Anche qui,
dunque, siamo i primi in Europa, ma non è un primo posto incoraggiante.

       Secondo l’indice internazionale della competitività fiscale compilato dall’Ocse, su 36 Paesi
l’Italia è al 34esimo posto.

       I motivi della lentezza italiana sono ormai noti. Basti pensare all’eccessiva burocrazia,
norme complicate che cambiano ogni anno, “ingorgo” delle controversie nelle commissioni
tributarie. In 10 anni, i giudici sono calati del 40,2% e l’ anzianità media delle controversie pendenti
è di 689 giorni, in leggero calo rispetto a 2 anni fa.
Il cittadino paga le imposte e lo Stato in cambio offre i suoi servizi. Dai dati Ocse, l’Italia spende
l’8,9% del Pil per la sanità pubblica, la media europea è al 9,6%. La classifica, in ogni caso è
guidata dalla Francia (11,5%) e dalla Germania (11,3%). Nella spesa sanitaria pro-capite l’Italia è
all’undicesimo posto: 2.551 € nel 2017 contro una media Ue di 2.773€.

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Da noi, come del resto ovunque, le tasse servono a coprire le spese di tutta la macchina
pubblica: dagli ospedali alla scuola, dalle infrastrutture alla manutenzione delle strade, forze di
polizia, tribunali, protezione civile, trasporti, assistenza sociale, ricerca, e le costosissime cure
contro il cancro, garantite gratuitamente ad ogni malato. Chi evade, scarica anche questo peso su
tutti i concittadini. E i Paesi che impongono meno tasse lasciano poi “scoperti” i loro contribuenti:
in Italia, la sanità pubblica assicura 47 protocolli di diagnosi prenatale estesa e obbligatoria per
altrettante patologie rare, la sanità irlandese solo 8. E gli irlandesi, naturalmente, vengono poi a
curarsi qui nella nostra penisola.

       Siamo fra i paesi europei per certi versi più tassati, ma siamo anche quelli attenti al
pagamento delle imposte. La nota aggiuntiva al Documento 2019 sull’economia e la finanza
certifica una differenza fra le entrate previste e quelle effettivamente pervenute di circa 109,7
miliardi di euro.
L’imposta più disattesa è l’Iva, dove secondo il rapporto Murphy presentato a luglio al Parlamento
Europeo, l’Italia è prima nella lista Ue: ben il 25,9% del dovuto, ovvero circa 35 miliardi ogni anno.
Il “nero” vale oggi 211 miliardi, ovvero il 13% del Pil. Incrociando varie statistiche, si arriva alla
stima sull’evasione procapite: 3.182 euro in Italia, 3.070 euro nella florida Danimarca, Francia
1.760 euro e Germania 1.522 euro.
Le percentuali di recupero dell’Agenzia delle Entrate hanno riscontrato che dai 20,1 miliardi nel
2017, siamo scesi a 19,2 nel 2018. Però c’è da dire che lo Stato premia i comuni che contribuiscono
alle attività di recupero. Infatti, nel 2018 il più attivo è stato San Giovanni in Persiceto (Bologna)
che ha ricevuto da Roma 1.519.052 euro.

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Fra gli strumenti attivati a tale riguardo, il primo è quello di contrastare l’uso del contante, la
miniera che consente di produrre il sommerso. Dal primo luglio 2020 il tetto è sceso a 2.000 euro,
per arrivare a 1.000 euro nel 2021. Dagli ultimi dati della Banca d’Italia, la media Ue dei pagamenti
tracciabili procapite è stata di 261. In Italia siamo a quota 111, contro i 456 dei Paesi Bassi, 327
della Francia, 257 della Germania.

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Detto ciò, sotto la voce “difficoltà di fare impresa” vanno aggiunte anche altre peculiarità
italiane, come sottolinea il Centro Studi Fondazione Ergo. Per esempio la frammentazione del
tessuto produttivo con un’eccessiva presenza di piccole e medie imprese, incapaci di investire in
innovazione nell’era della globalizzazione (anche se quelle organizzate nei distretti riescono a
resistere meglio).
Ma anche l’orientamento della specializzazione settoriale verso produzioni tradizionali a basso
contenuto tecnologico, l’alto numero di “aziende zombie”, la proprietà familiare delle imprese,
spesso ostacolo a innovazione e competitività.
Per non parlare del familismo, clientelismo, corruzione, inefficienza del sistema giudiziario e del
settore pubblico, che vanno contro ogni forma di innovazione.

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1.2.    BASSO LIVELLO DI COMPETENZE E FUGA DI CERVELLI

       L’Italia non solo è in coda tra i Paesi avanzati per percentuale di laureati, ma ha anche uno
dei più allarmanti livelli mondiali di disallineamento tra i percorsi di studio scelti dai giovani e le
esigenze del mercato del lavoro: uno “skill mismatch” messo in evidenza anche di recente dallo
studio “New Skills at Work” condotto da Jp Morgan e Università Bocconi.

       Negli ultimi quindici anni, il disallineamento emerge con particolare evidenza nel confronto
con la Germania, dove la disoccupazione tra i laureati nella fascia d’età 25-39 anni è stata del 2-4%,
mentre quella degli italiani ha oscillato tra l’8 e il 13%. Questo perché la composizione per
disciplina differisce nettamente da quella italiana: più laureati in informatica, ingegneria, economia
e management, mentre in Italia ci sono il doppio di laureati in scienze sociali e in discipline
artistiche e umanistiche rispetto alla Germania.

       Domanda e offerta di lavoro non riescono insomma a incrociarsi, con lavoratori che sono o
sovra-qualificati o sotto-qualificati per le posizioni aperte.

              PERCENTUALE DI LAVORATORI SOVRA-QUALIFICATI NEI CINQUE MAGGIORI PAESI EUROPEI
              Dati 2003-2013. Fonte: Ocse

       Il nostro Paese soffre poi di spaventosi ritardi sul fronte dell’istruzione professionale e di
politiche attive del lavoro per la formazione continua, ma anche di una cronica scarsa cooperazione
tra università e mondo delle imprese, pur con lodevoli eccezioni.

       I livelli salariali italiani inoltre, legati a una struttura produttiva spesso a basso valore
aggiunto, spingono poi molti brillanti laureati ad espatriare, rendendo ancora più scarse le risorse
professionali indispensabili all’economia, con conseguenze estremamente negative sulla
competitività del Paese.

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Chi se ne va lo fa sempre per trovare nuove opportunità che in Italia sono loro precluse da
un sistema che, nella percezione comune, non premia il merito ma si mantiene in piedi grazie a
legami di parentela e raccomandazioni.

       Oltre a questa convinzione diffusa, i livelli di retribuzione italiani sono più bassi rispetto a
molti altri Paesi vicini: nel 2017 lo stipendio medio italiano era di 2.000 euro, perfettamente in
linea con la media europea, mentre il Paese più prossimo con stipendi superiori è la Francia, con
una retribuzione media di 2.300 euro. Cifra simile troviamo anche nel Regno Unito, mentre i
Paesi con gli stipendi più alti rimangono Danimarca (3.800) e Lussemburgo (3.200). Irlanda,
Olanda, Finlandia e l’immancabile Germania registrano tutte stipendi medi intorno ai 2.700 euro
(rapporto 2017 Adecco e Barceló & Associates, su dati Ine ed Eurostat).
I numeri, però peggiorano se si vanno a confrontare gli stipendi divisi per settore lavorativo:
secondo l’Osservatorio di JobPricing, nel 2017 lo stipendio minimo dei vari CCNL di categoria
(contratto collettivo nazionale di lavoro) non ha superato in media i 1.400 euro.
Sembra evidente che il mercato del lavoro italiano risulta molto meno allettante in termini di
retribuzioni se confrontato con i vicini Stati europei. È quindi evidente che, in mancanza di
barriere territoriali e linguistiche insormontabili, molti lavoratori professionisti e non si spostino
verso Paesi in cui opportunità di lavoro e compensi sono superiori rispetto alla realtà italiana.
Purtroppo questo ha portato la fuga della fascia di età più produttiva, quella compresa fra i 25 e i
39 anni, che nel 2016 ha contato ben 38 mila emigranti, di cui uno su tre con una laurea in tasca .
Questi sono i dati concreti, elaborati da Istat, di quella che comunemente viene definita “fuga di
cervelli”.

       Le mete più in voga fra gli italiani che partono sono ovviamente i Paesi che offrono livelli
di retribuzione e qualità della vita più elevati. I dati Istat per il 2016 dicono che le mete preferite
dagli emigrati italiani sono state Regno Unito (25 mila unità), Germania (19 mila), Svizzera,
Francia e Spagna.

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La fiducia nelle istituzioni e nella politica è bassissima fra generazioni più giovani: su
un campione di oltre duemila giovani tra i 20 e i 34 anni, chi assegna voto positivo all’opera dei
governi recenti è poco più di un giovane su tre; sotto tale soglia di fiducia si collocano anche i
partiti, le banche e i sindacati. Il 30% non esprima fiducia quasi in nulla, sintomo di una
condizione priva di prospettive che corrode ogni dimensione della vita e disincentiva alla
partecipazione alla vita sociale. Inoltre, il 60% degli intervistati non ha percepito alcuna iniziativa
pubblica impegnata nel migliorare le condizioni delle nuove generazioni e considera la politica
poco attenta a offrire spazi e opportunità per favorire l’inserimento attivo dei giovani nei processi
di crescita sociale ed economica del Paese. Questa mancanza di iniziativa peggiora la percezione
degli italiani sull’immobilità del Paese, rafforzando l’idea che solo fuori dall’Italia sia possibile
costruirsi un futuro. L’Italia è uno di quei paesi dove se nasci povero, rimani povero.

       Il fenomeno migratorio, oltre a creare un’infinità di opportunità mancate per il nostro
Paese, rappresenta anche una perdita di investimento per l’Italia sull’istruzione dei suoi
cittadini. Una ricerca congiunta del 2016 dell’istituto IDOS e l’Istituto di Studi Politici “S. Pio

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V” sulla base dei dati Ocse evidenzia quanto lo Stato Italiano investa per ogni suo cittadino a
seconda del livello di istruzione: 90.000 euro un diplomato, 158.000 un laureato triennale,
170.000 un laureato magistrale e 228.000 un dottore di ricerca. Secondo i numeri forniti dal
centro di studi IDOS, nel 2016 l’Italia ha speso per le risorse emigrate ben 8,8 miliardi di
euro. Un costo altissimo che il nostro mercato del lavoro paga anche in termini di ricchezza di
figure professionali preparate e forza lavoro specializzata.

       Proprio in merito a ciò, vogliamo riportare un esempio che sembra descrivere al meglio la
situazione appena descritta. Da molti territori d’eccellenza italiani, soprattutto nell’ultimo decennio,
abbiamo osservato decine e decine di operai super qualificati allontanarsi dall’Italia privilegiando
l’estero. Ed ecco che confermiamo ancora una volta che l’Italia è il luogo in cui si formano gli
operai, i quali si specializzano, imparano il mestiere per poi emigrare e andare a vivere in paesi
dove hanno la possibilità di guadagnare di più, dove il sistema previdenziale è migliore.
Ed ecco che arriviamo ad un altro punto dolente che rende lo stivale un luogo dove imparare per poi
“fuggire”.
Per affrontare il problema previdenziale italiano abbiamo preso di riferimento il Report Melbourne
Mercer Global Pension Index e l’Australian centre for financial studies che ha confrontato il sistema
previdenziale di 25 grandi Paesi.
La classifica non considera soltanto la parte pubblica dei sistemi previdenziali, ma ad essa aggiunge
la parte complementare e del risparmio previdenziale, anche attraverso strumenti assicurativi e di
risparmio gestito. Ci sono quaranta indicatori che afferiscono a tre macro-aree:

              adeguatezza, cioè il livello delle prestazioni erogate per la media dei lavoratori;
                sostenibilità, che raggruppa indicatori quali la percentuale di adesione a fondi di
                 previdenza complementare e a fondi pensione, aspetti demografici ed alcune
                 evidenze macroeconomiche come contribuzione e debito pubblico;
                integrità, che considera diversi elementi di normativa e governance del rischio
                 pensionistico, così come il livello di fiducia che i cittadini di ogni paese hanno nel
                 loro sistema.

       Dalla pagella dell'Italia emerge che il valore di Adeguatezza è superiore alla media, con un
punteggio di 67.4 (contro 60.6 punti di media) e rende l'Italia assimilabile alla Svezia (67.5 punti) e
all'Austria (68.2 punti).
Anche il valore dell'Integrità, di 74.5 punti, supera la media di 69.7 punti, ancora una volta
rendendolo vicino al valore austriaco di 74.4 punti, e a quello di Germania e Irlanda,
rispettivamente con 76.4 e 76.3 punti.

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Diverso invece il risultato ottenuto nell'area delle Sostenibilità, dove l'Italia raggiunge 19.0 punti a
confronto con una media di 50.4 punti, ottenendo così l'ultimo posto in classifica in questa area.
Quest'area misura la capacità del sistema pensionistico di continuare a garantire gli attuali livelli di
erogazione nel futuro, ed in tal senso mette in evidenza la debolezza di numerosi sistemi
pensionistici. Assimilabili alla situazione italiana in questa area ci sono Austria con 22.9 punti,
Spagna (26.9 punti), Turchia (27.1 punti) e Brasile (27.7 punti).

       Un sistema previdenziale non sostenibile è una questione che tocca direttamente gli interessi
di tutti. Vuol dire, infatti, che gli enti di previdenza potrebbero non avere abbastanza soldi per
pagare tutti i pensionati. E allora, di alternative non ce ne sono molte: o si tagliano le uscite, ovvero
le pensioni, o si aumentano le entrate, ovvero i contributi di chi è ancora al lavoro. In ogni caso, ne
va del tenore di vita di qualcuno.
Gli scenari che si aprono sul futuro non fanno ben sperare. E’ questione di matematica. Il sistema
previdenziale, infatti, si basa sull’equilibrio tra chi lavora e paga i contributi e chi percepisce le
pensioni. Se i pensionati prendono più di quello che hanno versato e sono anche in numero
maggiore rispetto a quanti sono gli occupati, è evidente che l’equilibrio si spezza. E con il livello di
disoccupazione giovanile ai massimi storici e retribuzioni sempre più magre, difficile pensare che
sarà possibile raggiungere a breve un riequilibrio.

       Rispetto all'Italia, il report suggerisce di "continuare ad aumentare la copertura del sistema
pensionistico privato, sia in termini di partecipazione che di asset investiti a disposizione per
pagare le prestazioni nel futuro, per garantire un elevato tasso di sostituzione tra reddito da lavoro
e reddito da pensione; continuare a far crescere il tasso di partecipazione al mondo del lavoro
della popolazione di tutte le età, ed ampliando la partecipazione in età matura; limitare l'accesso a
benefit di natura previdenziale prima del pensionamento; ridurre l'ammontare del debito pubblico,
per il suo impatto diretto sul primo pilastro pensionistico" ossia la previdenza pubblica
obbligatoria, come spiega Marco Valerio Morelli, amministratore delegato Mercer Italia.

PRODUTTIVITA’, coltiviamo la ripartenza.
Seminiamo oggi per raccogliere domani.                                                           Pagina 16
PRODUTTIVITA’, coltiviamo la ripartenza.
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1.3.    DIGITALIZZAZIONE: ITALIA QUART’ULTIMA IN EUROPA

        Se si considera la produttività
multifattoriale, che considera
l’efficienza totale con cui lavoro e
capitale sono utilizzati nel processo
produttivo e che indica tra gli altri
aspetti anche l’evoluzione
tecnologica, secondo i dati Ocse la
situazione italiana è ancora peggiore:
-0,20% medio annuo dal 1995 al
2016, con un -0,49% tra il 2001 e il
2007 e -0,01% tra il 2010 e il 2016.
Anche in questo caso siamo i
peggiori, con la Corea al primo posto
(+2,5% medio annuo), seguita
dall’Irlanda (+1,81%) tra il 1995 e il
2016.

                                          Indice di digitalizzazione dell’economia e della società (DESI) - Ranking 2018
                                          Fonte: Commissione Ue

        Se si parla di trasformazione digitale, in Europa solo Bulgaria, Grecia e Romania fanno
peggio dell’Italia. Questo il quadro emerso dall’ultimo aggiornamento 2020 dell’indice Desi
pubblicato dalla Commissione europea.
Il Desi, acronimo di Digital Economy and Society Index (Indice di digitalizzazione dell’economia e
della società), è un indice pubblicato ogni anno dalla Commissione europea, che dal 2014 monitora
la performance digitale e misura i progressi compiuti dai paesi dell’Ue in termini di competitività
digitale. È composto da 37 indicatori, raggruppati in 5 categorie: connettività, capitale umano, uso
dei servizi Internet, integrazione delle tecnologie e servizi pubblici digitali.
I dati inclusi nel report 2020 si riferiscono al 2019 e, pertanto, viene valutato lo stato della
digitalizzazione degli stati membri prima della pandemia. Inoltre, l’analisi 2020 include la Gran
Bretagna.

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L'attuale pandemia di Covid-19 ha dimostrato quanto le risorse digitali siano diventate
importanti per le nostre economie e come le reti e la connettività, i dati, l'intelligenza artificiale e il
supercalcolo, come pure le competenze digitali di base e avanzate, sostengano le nostre economie e
società, rendendo possibile la prosecuzione del lavoro, monitorando la diffusione del virus e
accelerando la ricerca di farmaci e vaccini.

        Al fine di attenuare l'impatto della pandemia gli Stati membri hanno messo in atto misure
specifiche, descritte dettagliatamente per ciascun paese in una sezione dedicata.
Il digitale sta avendo un ruolo di primo piano anche nella ripresa economica poiché il Consiglio
europeo e la Commissione si sono impegnati ad articolare il sostegno alla ripresa in funzione della
duplice transizione verso una trasformazione digitale resiliente e a impatto climatico zero.
In tale contesto, ai fini di una ripresa solida sono fondamentali il dispiegamento del 5G e delle reti
ad altissima capacità (Very High Capacity Networks - VHCN), le competenze digitali, la
digitalizzazione delle imprese e della pubblica amministrazione.
Il DESI ne monitora i progressi in ciascuno Stato membro.

        L'Italia ha adottato numerose iniziative in ambito digitale per far fronte alla crisi Covid-19.
Il governo ha adottato un pacchetto di misure volte a rispondere all'aumento del consumo di servizi
di comunicazione elettronica e di traffico di rete. Agli ospedali pubblici sono state fornite
connessioni Wi-Fi gratuite. Il governo ha anche rivolto la propria attenzione alle scuole,
promuovendo la diffusione di strumenti e piattaforme digitali, la fornitura di dispositivi agli studenti
meno abbienti e l'accesso a connessioni ultraveloci e ai servizi connessi. Sono state introdotte
procedure semplificate per agevolare l'acquisto di beni e servizi informatici da parte delle pubbliche
amministrazioni. Diverse iniziative hanno riguardato l'uso dei dati per contrastare la pandemia. Il
governo ha inoltre invitato il settore privato e le associazioni a offrire i loro prodotti o servizi a
titolo gratuito e ad aiutare i cittadini, i professionisti e le imprese a proseguire le rispettive attività.
Quanto al futuro, con riferimento agli indicatori DESI particolarmente rilevanti per la ripresa
economica dopo la crisi Covid-19, l'Italia è molto avanti sul fronte del 5G, ma è in ritardo in termini
di diffusione delle reti ad altissima capacità (VHCN). I risultati conseguiti dal paese sono limitati
per quanto riguarda le competenze digitali e la digitalizzazione delle imprese, così come resta
modesto l'uso dei servizi pubblici digitali.

        Per l'edizione 2020 dell'indice di digitalizzazione dell'economia e della società (DESI)
l'Italia si colloca al 25º posto fra i 28 Stati membri dell'UE. I dati precedenti la pandemia indicano
che il paese è in una buona posizione in termini di preparazione al 5G, in quanto sono state
assegnate tutte le bande pioniere e sono stati lanciati i primi servizi commerciali. Sussistono carenze

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significative per quanto riguarda il capitale umano. Rispetto alla media UE, l'Italia registra livelli di
competenze digitali di base e avanzate molto bassi. Anche il numero di specialisti e laureati nel
settore TIC è molto al di sotto della media UE. Queste carenze in termini di competenze digitali si
riflettono nel modesto utilizzo dei servizi online, compresi i servizi pubblici digitali. Solo il 74%
degli italiani usa abitualmente Internet. Sebbene il paese si collochi in una posizione relativamente
alta nell'offerta di servizi pubblici digitali (egovernment), il loro utilizzo rimane scarso.
Analogamente, le imprese italiane presentano ritardi nell'utilizzo di tecnologie come il cloud e i big
data, così come per quanto riguarda l'adozione del commercio elettronico. Nel 2019 a livello
politico è cresciuta l'attenzione verso il potenziamento della digitalizzazione dell'economia e della
società italiane. L'anno è stato contrassegnato dal lancio di nuove iniziative e, in particolare,
dall'istituzione di un nuovo Ministero per l'innovazione tecnologica e la digitalizzazione, con
funzioni di coordinamento.

       In ogni caso, l’Italia non migliora ancora in modo sostanziale la posizione complessiva nelle
classifiche internazionali sul livello di digitalizzazione, ma comunque, c’è da dire che nel 2019 è
stato fatto molto per recuperare il divario con gli altri paesi. Abbiamo realizzato le fondamenta del
processo, avendo finalmente capito che le tecnologie digitali rappresentano le nuove infrastrutture
portanti dello sviluppo del nostro Paese. Per incidere veramente ora serve una visione di lungo
periodo in cui la trasformazione digitale guidata dalla PA diventi la base per la crescita economica
nei prossimi anni. Per far correre l’Italia digitale, la macchina pubblica deve accelerare lo switch-off
dei suoi servizi a cittadini e imprese, collaborare meglio con quest’ultime ripensando i processi di
procurement, sperimentare tecnologie emergenti con pragmatismo e definire roadmap di
trasformazione digitale chiare, in un continuo confronto con gli altri Paesi e tra i nostri territori.
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1.4.   COSTO DEL LAVORO E DELLA MANODOPERA

Confronto con altri paesi UE

       L’indice con il quale si vuole esprimere la produttività è in questo caso semplicemente il
rapporto tra il PIL e il numero di lavoratori e di ore complessivamente lavorate nel paese.

       Per prima cosa vediamo un panorama geograficamente ampio di questi due indici di
produttività per il solo anno 2018. I valori sono rappresentati come numeri indice rispetto al valore
ottenuto dai 28 paesi dell’Unione Europea nel loro insieme (UE28=100) e sono ordinati in base al
valore per ora lavorata. Ecco il grafico:

       Una prima considerazione da fare è che l’Italia ha dei valori che sono in entrambi i casi
prossimi alla media dell’Unione Europea con 97 e 103 (erano 99 e 104 nel 2018).
In secondo luogo si nota che la produttività per lavoratore non è poi così lontana da paesi
comunemente considerati “produttivi” come la Germania (103 contro 112).
Il discorso però cambia quando si va a considerare la produttività per ora lavorata.
Il dato della Germania si incrementa notevolmente rispetto al precedente, mentre quello dell’Italia
cala leggermente. Il risultato è che alla fine la differenza tra i due paesi è più marcata (97 contro
132). Lo stesso comportamento si ha nei confronti di paesi come Francia, Olanda, Belgio,
Danimarca.

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Tutto ciò significa evidentemente che in Italia una persona occupata lavora in media molte più
ore rispetto ai colleghi dei paesi citati in precedenza. Ad esempio le ore lavorate nel 2019 in Italia
sono state 1.719 contro le 1.386 della Germania o le 1.497 della Francia. E’ un risultato abbastanza
sorprendente visto che in genere si è portati a pensare che gli italiani lavorino poco. Soprattutto con
le recenti riforme del lavoro e le crisi economiche, molti sostengono che una gran parte delle
persone tira avanti con “lavoretti” da poche ore; non è così, almeno non rispetto ad altri paesi con
cui ci confrontiamo.
Tale risultato non è comunque positivo perché significa che in Italia una persona lavora più ore
per produrre meno PIL.
Alla fine l’indice più rilevante in termini di produttività è quello orario, che non è influenzato dalle
tipologie dei contratti di lavoro utilizzati.
Nel complesso si può notare che proprio sull’indice orario l’Italia rimane ben inferiore a tutti i
paesi centro-occidentali dell’Europa.

        Va specificato che i risultati di alcuni paesi sono “falsati” a causa di alcune peculiari
caratteristiche. Ad esempio Irlanda e Lussemburgo hanno un indice alto perché sono paradisi
fiscali, mentre Norvegia, Danimarca e Stati Uniti, oltre ad avere economie moderne, hanno anche
notevoli risorse naturali (petrolio, gas).
Inoltre va aggiunto che quando si valutano valori diversi di PIL bisognerebbe tener conto del
diverso costo della vita nei vari paesi (cosa che sarebbe possibile usando appositi valori ma che in
questo caso non è stato fatto).
Bisogna chiarire che anche se questo indice di produttività fa riferimento al lavoro umano, in realtà
non è particolarmente correlato al fatto che i lavoratori siano più stacanovisti o più pigri, ma
dipende piuttosto dal contesto produttivo. Per fare un esempio: un agricoltore che zappa la terra a
mano potrà anche lavorare fino a spezzarsi la schiena, ma non sarà mai produttivo come un
agricoltore che utilizza un grande e moderno trattore. Allo stesso tempo, anche se un imprenditore
agricolo utilizza metodi moderni, i prodotti agricoli che tratta non sono particolarmente innovativi e
può subire la concorrenza di molti altri paesi, riducendo i margini e quindi la produttività.

        In definitiva la produttività dipende dal progresso tecnico nei processi produttivi e
relativa organizzazione del lavoro e dalla capacità di innovare i propri prodotti. Ecco spiegato
perché i paesi meno produttivi (e quindi più poveri) sono quelli che utilizzano sistemi di produzione
poco moderni ed hanno prevalentemente un’economia basata sull’agricoltura (prodotti tradizionali a
basso contenuto innovativo).

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Molto interessante è lo studio condotto e pubblicato da Eurostat, l’istituto di statistica
dell’Unione europea, uno studio comparativo sul costo orario medio del lavoro nei diversi paesi
europei, escludendo dal computo i salari della pubblica amministrazione e quelli del settore
agricolo.
Il primo dato che emerge è che il costo orario della manodopera italiano è allineato con il valore
medio europeo (27,4 euro, che sale a 30,6 euro nell’area Euro), ma l’incidenza
di tasse, oneri e contributi riduce nettamente la paga percepita dal lavoratore. Depurato dalla voce
altri costi, il nostro paese si trova in dodicesima posizione, appena prima della Spagna, ma dopo
tutte le grandi economie continentali.

       La forbice tra i diversi paesi UE è significativa, perché varia dai 5,4 euro l’ora della Bulgaria
ai 43,5 euro l’ora della Danimarca, e giustifica la delocalizzazione delle attività produttive nei paesi
con minor costo della manodopera (anche questo non è l'unico fattore della produttività).

       Nella parte alta della classifica si situano, oltre alla Danimarca, anche Lussemburgo (40,6
euro), Belgio (39,7 euro), Svezia (36,6 euro), Paesi Bassi (35,9 euro) e Francia (35,8 euro).
Chiudono invece la classifica Bulgaria (5,4 euro), Romania (6,9 euro), Lituania (9 euro), Ungheria
(9,2 euro) e Lettonia (9,3 euro).

       Considerando solo il settore manifatturiero, il costo del lavoro orario medio in Europa è
di 27,4 euro (33,2 nella sola area Euro), mentre nei servizi è di 27 euro (29,6 nell’area Euro) e nelle
costruzioni scende a 25 euro (27,6 nell’area Euro).

       Guardando invece alla dinamica del costo del lavoro, rispetto al 2017, la Classifica si
rovescia: i maggiori aumenti si sono rilevati in Lettonia (+12,9%), Lituania (+10,4%), Estonia e
Slovacchia (+6,8%), mentre sono rimasti più contenuti a Malta (+0,4%), Finlandia (+1,2%), Spagna
(+1,3%) e Portogallo (+1,4%).

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1.5.    UNO SGUARDO ALL’ENERGIA ELETTRICA

        Nonostante l’esistenza del libero mercato dell'energia elettrica, il prezzo dell'elettricità non è
uguale in ogni paese, anzi, possono esserci notevoli differenze nel confronto tra due nazioni.
Vediamo, allora, a quanto ammontano i costi della corrente elettrica in Italia e negli altri paesi
europei e quali sono i fattori che ne influenzano il prezzo finale.

        Con l'entrata in vigore della direttiva europea 54/2003 il mercato dell'energia elettrica è
oramai stato liberalizzato in tutta Europa. A oggi questo libero mercato funziona pressoché allo
stesso modo in ogni paese europeo, sebbene sussistano comunque delle piccole diversità che vanno
a determinare il prezzo del servizio finale. La prima differenza, che può incidere anche
notevolmente sul costo della corrente elettrica, è la materia prima utilizzata come fonte energetica e
le modalità da cui si ottiene l'elettricità.
Ad esempio in Francia la corrente elettrica viene prodotta perlopiù attraverso l'energia nucleare,
mentre in Italia la si ottiene principalmente dal gas naturale. La materia prima usata dalla Francia è
decisamente più economica rispetto a quella usata dall'Italia, tuttavia il costo finale che ci
ritroviamo nella bolletta risulta essere molto più alto nel nostro paese. Questo perché bisogna
prendere in considerazione anche le altre voci che vanno a formare l'importo finale della bolletta
(ossia i costi di trasporto, gestione del contatore, Iva e accise).
Tutti questi valori possono variare molto tra un paese e un altro. Nel caso dell'esempio sopra citato,
il confronto tra Italia e Francia, sono proprio i valori di tassazione più elevati che provocano un
costo maggiore dell'elettricità nel nostro paese rispetto.

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Nel corso degli ultimi cinque anni il costo dell'energia elettrica nel nostro paese è salito di oltre
il 23%, sebbene durante il primo semestre del 2017 sia sceso del 3,6% rispetto all'anno precedente.
Nonostante ciò resta comunque un valore molto più alto rispetto alla media europea che si aggira
sui 0,148 € kWh. Sulla base di quanto detto sinora non c'è da stupirsi nel constatare che l'Italia si
aggiudica il primo posto per le bollette dell'elettricità più alte per le imprese. Secondo la CGIA di
Mestre (Associazione Artigiani Piccole Medie Imprese), infatti, l'Italia è la nazione europea in cui i
costi per la fornitura di energia elettrica a piccole e medie imprese sono maggiori: 155,6 € ogni
1.000 kWh Iva esclusa, un valore che supera di gran lunga la media degli altri paesi europei (oltre il
27% in più). Ovviamente questo si ripercuote anche sulla competitività delle imprese nostrane sul
mercato estero, oltre che a gravare notevolmente sui bilanci aziendali. Per quanto riguarda i clienti
privati, invece, l'Italia si trova in quinta posizione in classifica, a pari merito con l'Irlanda. Vediamo
quindi quali sono stati i prezzi per l'elettricità nei vari paesi europei durante il primo semestre del
2017, raccolti da RIA Rating, Rosstat e dalla Banca Centrale Russa. Ecco la top 20, dalla nazione
più cara alla più economica:

      Danimarca 0,308 € kWh
      Germania 0,298 € kWh
      Belgio 0,275 € kWh
      Portogallo 0,236 € kWh
      Italia 0,234 € kWh
      Irlanda 0,234 € kWh
      Spagna 0,228 € kWh
      Austria 0,201 kWh
      Svezia 0,196 kWh
      Gran Bretagna 0,183 € kWh
      Grecia 0,172 € kWh
      Francia 0,171 € kWh
      Lussemburgo 0,170 € kWh
      Liechtenstein 0,168 € kWh
      Norvegia 0,163 € kWh
      Slovenia 0,163 € kWh
      Lettonia 0,162 € kWh
      Cipro 0,162 € kWh
      Paesi Bassi 0,159 € kWh

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   Finlandia 0,155 € kWh

    Come già anticipato, a determinare il prezzo della bolletta dell'elettricità non è solo il costo della
materia prima, bisogna infatti aggiungere anche le spese di trasporto e della gestione del contatore,
gli oneri di sistema e le imposte (Iva e accise). Il prezzo dell'energia elettrica varia a seconda del
fornitore, del piano tariffario e del contratto sottoscritto.

    Nello specifico, secondo i dati forniti dall'Autorità dell'Energia e del Gas relativi al prezzo
dell'elettricità nel corso del terzo trimestre del 2017, possiamo affermare che la quota dell'energia
rappresenta generalmente solo circa il 48,4% dell'importo totale della bolletta, il trasporto e la
gestione del contatore incidono per il 20,1%, gli oneri di sistema per il 18,4% e le imposte per
13,1%. Inoltre, sotto la voce relativa alla quota dell'energia non è incluso solo il prezzo della
materia prima, bensì anche quelle di distaccamento (ossia l'attività di gestione del flusso di energia
volto a un equilibrio di tutto il sistema elettrico e dei servizi ausiliari), di commercializzazione e di
vendita. Ecco perché in alcuni paesi pur costando meno la materia prima il costo finale
dell'elettricità risulta più altro rispetto ad altri.

    Tra le vittime mietute dalla pandemia di covid-19 che sta flagellando il mondo c’è sicuramente
(anche), il sistema energetico globale. Secondo IEA, che a metà ottobre ha lanciato il suo annuale
rapporto – il World Energy Outlook 2020 – lo stravolgimento che il virus ha scatenato sugli scenari
energetici non ha eguali nella storia recente ed avrà ripercussioni per anni.
Da un lato la domanda energetica globale che cala del 5% e dall’altro le emissioni di CO2 del
settore che registrano -7% rispetto all’anno precedente e soprattutto gli investimenti energetici a
picco (-18%), sullo stesso periodo. Queste le cifre di IEA per il 2020, che restituiscono
un’immagine fin troppo chiara degli effetti della contrazione delle attività economiche mondiali
dettata da SARS-CoV-2.

    Uno degli effetti più devastanti della pandemia è senza dubbio l’acuirsi delle disuguaglianze che
già esistevano. Gap socioeconomici che si manifestano in egual misura anche sul sistema energetico
stravolgendone domanda, mercato correlato e sicurezza negli approvvigionamenti. Un meccanismo
rilevato dal WEO20 che addirittura registra per la prima volta dopo anni, una significativa risalita
del numero di individui che sperimentano la cosiddetta “povertà energetica”. Nel dettaglio, ci sono
580 milioni di persone in Africa Subsahariana – circa i tre quarti del totale – che non hanno accesso
all’elettricità, gran parte dei quali concentrati in Etiopia, Nigeria, Congo e Uganda. La pandemia
“staccherà” dalla rete elettrica altri 100 milioni di persone che pur essendosi faticosamente appena
allacciate alla rete torneranno a cucinare, scaldarsi e illuminarsi con fonti di energia estremamente

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più inquinanti e inefficienti. Ancora una volta, gli effetti peggiori della crisi li pagano i più
vulnerabili.

1.6.     DIFFERENZE SUL COSTO DEL CARBURANTE

        Come abbiamo già accennato, l’Italia è uno dei Paesi europei con il più alto prezzo dei
carburanti: lo confermano analisi statistiche che permettono di comparare il costo dei rifornimenti
degli automobilisti in Europa.

        Ma quali sono le ragioni di questo divario e in che termini si può quantificare? E,
soprattutto, quali alternative hanno gli automobilisti italiani per difendersi dal caro benzina?

        I più recenti report hanno evidenziato che l’Italia è il Paese europeo con il costo del diesel
più alto costo. Addirittura, la media dei prezzi di questo carburante è superiore di ben 15 centesimi
rispetto a quella degli altri Paesi europei.

        Per quanto concerne la benzina, ci sono luoghi in cui è più cara, ma l’Italia riesce comunque
a posizionarsi nella parte più bassa di una ideale classifica di convenienza.
In particolare, per la benzina il prezzo per litro più alto è in Olanda, con una media di 1,681 euro; a
seguire (di poco) la Grecia e la Danimarca, dove rispettivamente il prezzo della verde è pari a 1,631
e 1,620 euro al litro. Ed ecco, appena fuori dal podio, l’Italia, dove per acquistare un litro di benzina
è richiesta una media di 1,615 euro.
Nel versante opposto della classifica si trova la Bulgaria (con appena 1,114 euro/litro), ma anche in
Austria e Lussemburgo è possibile spendere dai 40 a i 50 centesimi in meno al litro rispetto
all’Italia.

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Va decisamente peggio, come già accennato, per il diesel: tenuto conto che la differenza
media in Europa tra prezzo della benzina e prezzo del gasolio è di circa 16 centesimi, l’Italia riesce
a fare addirittura “meglio”, assicurando un costo medio del diesel pari a 1,497 euro al litro, il più
alto dei Paesi europei.
Seguono la Svezia e il Regno Unito, dove, però, ad un costo della vita e ad un livello di retribuzioni
decisamente più alti che in Italia, fa fronte un costo del diesel che non supera 1,469 euro/litro.
Ancora una volta è la Bulgaria ad assicurare il prezzo più basso (1,112 euro/litro) insieme al
Lussemburgo (appena 1,114 euro/litro).
A voler calcolare quanto maggiore è la spesa per diesel di un automobilista italiano rispetto ad uno
Bulgaro, si può ipotizzare un pieno da 35 litri: in Italia sarebbe necessario spendere circa 52 euro, in
Bulgaria appena 39, ben 13 euro in meno.

       A determinare le differenze di prezzo del carburante nei vari Paesi europei è, più che il
diverso costo di importazione/produzione della materia prima, l’incidenza della tassazione.
Le accise (in Italia sono ben 17) e l’IVA sono da considerare, infatti, le prime responsabili del più
elevato costo della benzina e del diesel in Italia rispetto alla media dei Paesi europei.
Naturalmente, tutti i Paesi operano un prelievo fiscale sul carburante, ma non tutti lo fanno in egual
misura.
Per quanto riguarda la benzina, in particolare, la comparazione dimostra che la componente del
prezzo del carburante determinata dalla tassazione in Italia supera il 63%, contro il 61,8% della
Francia, il 61,6% della Germania e il 52,9% in Spagna.
Anche per quanto concerne il diesel, la situazione è preoccupante: qui, il prezzo finale è composto
di oltre il 59,6% da tasse, contro una media europea del 54,9%.
La tassazione, peraltro, riguarda anche carburanti meno costosi, come il GPL e il metano: infatti, in
Italia il loro prezzo è influenzato dalla tassazione, rispettivamente, per il 45% e per quasi il 23%.
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Ponderando le medie europee del prezzo del carburante (benzina/diesel) si può dire che il
costo complessivo richiesto agli automobilisti per fare carburante è più alto in Italia che altrove.
Esistono alternative o strategie per risparmiare?
Senz’altro, può rappresentare una soluzione quella di optare per motori alimentati a metano o a
GPL, considerando che queste materie prime sono generalmente meno costose rispetto alle
classiche.

E, tuttavia, è bene considerare sia che l’installazione di impianti o l’acquisto di auto dotate di motori
compatibili fa lievitare i costi; sia che questo tipo di alimentazione non garantisce – allo stato
dell’arte – le medesime prestazioni dei motori diesel/benzina.
Anche a voler considerare alternative più attente all’ambiente e all’esigenza di ridurre le emissioni
inquinanti in atmosfera, i biocarburanti (come il biogas e il biodiesel) sono ad oggi sia molto costosi
(a causa delle particolari tecniche di produzione), sia instabili per la sicurezza e prestanza del
motore.
Probabilmente, la scelta migliore per chi vuole ridurre drasticamente i costi del carburante è
rappresentata dalla (futura) trazione elettrica integrale. Anche da questo punto di vista, però, le
tecnologie disponibili sono ad uno stato germinale e i costi di accesso a questo tipo di vetture (se si
escludono gli ibridi) sono ancora di un certo rilievo.
Ne consegue che, almeno per i prossimi anni, la gran parte degli automobilisti dovrà continuare a
fronteggiare il caro benzina facendo ricorso ad alcuni accorgimenti ormai “classici”: prestare
attenzione allo stile di guida, scegliere bene il momento in cui fare rifornimento, non rifornirsi
sempre alla stessa stazione.

   Il Testo Unico sulle accise (ovvero Decreto Legislativo 504 del 1995) disciplina i casi in cui
sono previste agevolazioni ed esenzioni rispetto al normale regime di tassazione, come ad esempio
nel caso dell’accisa agevolata gasolio agricolo:

PRODUTTIVITA’, coltiviamo la ripartenza.
Seminiamo oggi per raccogliere domani.                                                         Pagina 29
   Per l’impiego nei lavori agricoli, orticoli, in allevamento, nella silvicoltura e piscicoltura e
           nella florovivaistica, al gasolio si applica un’aliquota del 30 % rispetto a quella normale; con
           l’entrata in vigore della Legge numero 92 del 14 aprile 2000, per il gasolio si applica il 22%
           dell’aliquota normale.

          Per la produzione di forza motrice (con motori fissi in stabilimenti industriali, agricolo -
           industriali, laboratori, cantieri) si applica un’aliquota del 30% rispetto a quella normale, ad
           eccezione del gas metano.

1.7.       PER L’AGRICOLTURA: MIGLIORAMENTI NEL SETTORE IDROGEOLOGICO

           Considerando in particolar modo il settore agricolo, una maggiore attenzione dovrà essere
rivolta al settore idrogeologico. Siamo entrati in un diverso quadro climatico che rischia di
modificare profondamente le attività agricole, le quali dovranno confrontarsi con tre questioni
fondamentali: uso dell’acqua, siccità e alluvioni.
Negli ultimi dieci anni il numero delle aziende irrigue si è ridotto del – 68% circa e la superficie
irrigata in ettari è scesa al -32% circa; in questo contesto è opportuno sottolineare che circa il 65%
delle aziende agricole si approvvigiona tramite consorzi di bonifica e questo rappresenta un dato
molto preoccupante.
Ci vogliono più risorse per le infrastrutture e per prevenire il dissesto idrogeologico. Ma soprattutto
occorre spendere presto e bene i fondi a disposizione.
È dunque estremamente urgente investire nel rinnovamento delle infrastrutture idriche e migliorare
l'efficienza del sistema di approvvigionamento idrico, che presenta tassi di perdita media del 27% a
livello nazionale.

           Occorre poi incrementare la capacità di resilienza del territorio, che va strutturato per
rispondere alle nuove condizioni climatiche, iniziando dal rendere disponibili più velocemente tutte
le risorse stanziate per il potenziamento del sistema irriguo e dall’urgente varo di un Piano
Nazionale degli Invasi per poter trattenere le acque di pioggia, creando utili riserve e limitando il
rischio idrogeologico per le comunità, dal momento che attualmente riusciamo a preservarne solo
l’11%.
Come noto, gli investimenti nel settore idrico che utilizzano il FESR e il FEASR per il periodo
2014-2020 sono stati subordinati al rispetto della condizionalità ex ante per le acque, al fine di
assicurare la corretta applicazione della direttiva quadro, nonché l'adozione di piani di gestione dei
bacini idrografici e il recupero dei costi per i servizi idrici.
PRODUTTIVITA’, coltiviamo la ripartenza.
Seminiamo oggi per raccogliere domani.                                                             Pagina 30
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