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              Oxford Library - Silvana Cincotti e Livio Secco – venerdì 10 aprile 2020 – N.3
                         silvana.cincotti@hotmail.it * livio.secco@hotmail.it
                      Salvo diversamente indicato, le immagini sono tratte dal web

Totus mundus agit histrionem

The Swan, Il Cigno, era un teatro londinese costruito nel 1595. La struttura in origine apparteneva al
monastero di Bermondsey ma dopo la chiusura dei centri di culto facenti capo a Roma, il luogo
divenne proprietà della corona e passò attraverso diverse mani prima di essere venduto a Francis
Langley. Il sindaco di Londra si oppose al riconoscimento
di un permesso per aprire un teatro ma le sue proteste furono
vane, perché la proprietà, appartenuta in precedenza alla
corona, esulava dalla sua giurisdizione. Una volta costruito,
The Swan, doveva essere impressionante per dimensioni,
rispetto alla maggior parte dei teatri esistenti. Johannes De
Witt, un olandese che visitò Londra intorno al 1596, ha
lasciato una descrizione del teatro in un manoscritto
intitolato Observationes Londiniensis: descrive il locale
come "il più bello e grande degli anfiteatri di Londra", con
una capacità di 3000 spettatori, le colonne di sostegno in
legno erano abilmente dipinte da ingannare l'osservatore più
acuto nel pensare che fossero di marmo, dandogli un aspetto
classico. La vita degli uomini di teatro non era facile. Nel
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1597 la compagnia Pembroke's Men mise in scena The Isle of Dogs di Thomas Nashe e Ben Jonson,
i cui argomenti considerati eccessivamente satirici, diedero il via ad una serie di detenzioni a carico
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                                                                             Un altro scandalo scosse
                                                                             The Swan nel 1602, quando
                                                                             Richard Vennar pubblicizzò
                                                                             l’arrivo      di     un    nuovo
                                                                             spettacolo, England's Joy,
                                                                             che venne pubblicizzato per
                                                                             essere una storia fantastica
                                                                             in   onore         della   regina
                                                                             Elisabetta.        Con     questi
                                                                             argomenti i posti andarono
esauriti in fretta, tuttavia la pièce non andò mai in scena e il pubblico infuriato vandalizzò il teatro.
L’altro teatro famoso durante l’epoca elisabettiana, The Globe, fu quello in cui recitava la compagnia
di William Shakespeare. La sua ricostruzione è tuttora presente e operativa sul luogo dove sorgeva
l’antico teatro, nei pressi del Blackfriars Bridge sulle rive del Tamigi. La costruzione originale, del
1599, aveva una struttura in legno, chiamata The wooden O: ottagonale, presentava uno spazio aperto
al centro, per utilizzare la luce naturale. Il teatro poteva contenere fino a 3200 persone ed era dotato
di una tettoia che, in caso di pioggia, riparava i costosissimi costumi degli attori, esclusivamente
maschi, dato che fino al 1660 alle donne era vietato recitare. Gli spettacoli, ereditando in parte una
consuetudine dell’antica Grecia, iniziavano di giorno e duravano fino a sera inoltrata, costringendo
all’uso di pericolosissime torce. Più volte infatti il Globe subì incendi e l’intero teatro venne distrutto
per essere ogni volta ricostruito.
Sulla bandiera che sovrastava la struttura era riportato il sapido motto Totus mundus agit histrionem,
cioè Tutto il mondo recita.

F.B.I. e opere d’arte
Sono le prime ore del 18 marzo, l’anno è il 1990. Le guardie addette alla sicurezza presso il Museo
Isabella Stewart Gardner a Boston, nel Massachusetts, lasciano entrare senza sospetto due uomini
travestiti da agenti della polizia che sostengono di dover rispondere ad una chiamata di disturbo.
Una volta dentro, la coppia legò le guardie del museo, trascorrendo l’ora successiva a spogliare la
prestigiosa istituzione di alcune dei pezzi più importanti della collezione, 13 opere d'arte, per un

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valore di circa 500 milioni
di dollari, diventando così
uno        dei       furti      più
sensazionali        nel      mondo
dell’arte.
Nel    corso        degli     anni,
nonostante gli sforzi da
parte del Federal Bureau of
Investigation, non è stato
possibile         procedere      ad
arresti,     il    caso      rimane
aperto e irrisolto e il museo offre ancora oggi una lauta ricompensa di cinque milioni di dollari per
chi avesse informazioni valide al recupero delle opere.
Le opere rubate erano state acquistate dalla collezionista Isabella Stewart Gardner (1840-1924) e
destinate ad essere lasciate in mostra permanente presso il museo con il resto della sua collezione. Le
cornici dei quadri trafugati dai ladri sono ancora appese alle pareti, sinistre come orbite vuote, un
triste omaggio alle opere mancanti e come segnaposto nella speranza che un giorno vengano ritrovate.
Tra le opere rubate una merita più delle altre di essere ricordata, il famoso Concerto di Jan Vermeer.
All’appello manca anche la bellissima tela Tempesta sul mare di Galilea, dipinto ad olio realizzato
nel 1633 dal pittore olandese Rembrandt van Rijn. Non solo questo. Il bottino comprende altre opere,
tra quadri e disegni, di Rembrandt, Degas, Manet e Govaert Flinck.
Secondo gli inquirenti le opere d’arte sono rimaste nascoste, poste in vendita nell’area di Filadelfia
                                                          durante i primi anni del 2000. Gli investigatori
                                                          sono orientati a pensare che il furto sia stato
                                                          effettuato da un'organizzazione criminale con
                                                          sede   nel    New     England,    in    un’area
                                                          decisamente estesa che comprende Maine,
                                                          New Hampshire, Massachusetts, Vermont,
                                                          Connecticut e Rhode Island.
                                                          L’FBI ha affermato, nel corso del tempo, di
                                                          aver identificato due sospetti, anche se non è
                                                          stato possibile incriminarli pubblicamente e
                                                          oggi sono deceduti. Uno è, o meglio era,

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Bobby       Donati,   citato   come    possibile
collaboratore nella rapina, assassinato nel
1991 a seguito di guerre tra bande. Un’altra
delle persone probabilmente informate è il
gangster Robert Gentile: forse conosce
l'ubicazione delle opere, anche se lui nega
qualsiasi    coinvolgimento.    Tuttavia,    nel
seminterrato, come in un vero e proprio film
poliziesco, gli agenti dell’FBI hanno trovato
un foglio di carta con una sorta di lista della
spesa, l’elenco delle opere rubate dal museo e il loro presumibile valore di mercato.
Questo resta ad oggi uno dei più grandi furti irrisolti del mondo dell’arte. In modo particolare il
Concerto di Vermeer è uno dei most wanted del mondo. Se per caso aveste notizie…

Avremmo un’idea…
Il Getty di Los Angeles, celebre istituzione nel campo del collezionismo artistico che ha visto per
lungo tempo la collaborazione di Federico Zeri, come forse sapete, ha lanciato in rete l’idea di ricreare
a casa, con quello che si ha a disposizione, le opere d’arte, qualsiasi, senza limiti di tipologia o secolo.
Ne sono venute fuori delle proposte…adatte ai nostri interessi…per sorridere insieme…

                      Astronomo Jan Vermeer, 1668, olio su tela, 50x45, Museo
                      del Louvre, Parigi

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Viandante sul mare di nebbia Caspar David Friedrich,
1818, olio su tela, 98,4x74,8 cm, Hamburger Kunsthalle,
Amburgo

Suonatore di arpa di Keros Arte cicladica, 2600-2300
a.C., Museo Archeologico Nazionale, Atene

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La persistenza della memoria Salvador Dalì,
     1931, olio su tela, 24x33 cm, The Museum of
     Modern Art, New York

Ritratto dei coniugi Arnolfini Jan Van Eyck, 1434, olio su
tavola, 81,8x59,7 cm, National Gallery, Londra

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IL CROCEFISSO DI CIMABUE
Il Crocifisso fiorentino di Cimabue ancora c’è e
resiste, nonostante tutto, simbolo di un Paese
mille volte messo alla prova.
A destra lo vedete durante l’alluvione di Firenze
del 1966. In quei giorni di novembre, su tutto,
dolore, disperazione, distruzione, sovrastava la
sua immagine che è ancora oggi emblema della
“passione” della città toscana, il Cristo dipinta
da Cenni di Pepo detto Cimabue, colpito a morte
dalle acque dell’alluvione in Santa Croce.
Quel dipinto, gigantesco e pietra angolare della
storia dell’arte dominò a lungo gli schermi televisivi e le pagine dei giornali di tutto il mondo: il
                                colore ormai distrutto per il 70 %, il grande manufatto trasferito su
                                tralicci di fortuna e toccato con orrore come un gigantesco animale
                                abbattuto.
                                Umberto Baldini, direttore del laboratorio di restauro, fu tra i primi a
                                recarsi in Santa Croce e così scrisse di quei giorni: “Il Cristo, quasi
                                ormai senza volto, quasi ormai senza corpo, era ancora eretto sul suo
                                alto supporto che aveva resistito alla furia delle acque: ma la carne, la
                                sua epidermide dipinta, era come devastata da un’esplosione,
                                accartocciata, sollevata come ustionata, a brandelli che sembravano
                                dovessero ancora cadere da un momento all’altro. Gli uomini che
erano con me non parlavano: mi guardavano,
attendevano, pronti all’inizio del lavoro. Ma non
fu che silenzio: non udirono la mia voce, videro
solo lacrime sul mio volto, così come le rividero
poco dopo su quello pallidissimo di Procacci,
l’allora Sovrintendente dei Beni Culturali, che
tornava lì per la seconda volta”.
Oggi il Crocifisso di Cimabue, nonostante tutto,
continua a meravigliare.

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LO SCRIGNO DEL RE

Nel novembre 1922 l’egittologo inglese Howard Carter scoprì, nella Valle dei Re, la tomba di
Tutankhamon che noi oggi conosciamo con la sigla KV62. Per nostra fortuna Carter aveva ereditato
da Flinders Petrie la metodologia corretta con la quale si opera in uno scavo. Documentò tutto,
lentamente ma con precisione, finendo più volte per spazientire e irretire le autorità governative e lo
stesso Servizio delle Antichità con la quale finì in collisione più volte.
Tra gli innumerevoli tesori artistici che furono ritrovati vorrei descrivervi oggi di quello che Carter
codificò come reperto 40. Innanzi tutto, grazie all’esperto lavoro di Carter siamo perfino in grado di
collocarlo fisicamente. Nella ricostruzione tridimensionale il reperto 40 è invisibile perché si trova
dietro il lungo baule bianco che c’è ai piedi del terzo letto funerario dell’anticamera.
In una delle mille cinquecento immagini di Harry Burton, fotografo inglese del Metropolitan
“prestato” a Carter, vediamo il
reperto 40 ancora in sito dopo che
è stato rimosso il lungo baule
bianco. Sono evidenti i cartellini
identificativi. Nel 1922 Carter
applicò un sistema che è usato
ancora    oggi     dalla   polizia
scientifica sui luoghi del crimine.
Abbiamo così svelato di cosa si
tratta. È uno scrigno di pietra che
Carter trovò aperto. Il coperchio,
per fortuna, era buttato più

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indietro ma integro. Una volta recuperate ambedue
le parti, il manufatto fu fotografato, documentato,
restaurato e ricomposto. Oggi lo si può vedere tra i
tesori di Tutankhamon al Museo Egizio del Cairo
con il numero di catalogo JE 61466. Le sue misure
sono: lunghezza 330 mm, larghezza 170 mm e
altezza 240 mm. Lo scrigno è stato ricavato da un
unico blocco di calcite alabastrina, inciso e poi
dipinto a motivi floreali. I due pomelli, uno
superiore sul coperchio e l’altro sulla facciata, sono
in ossidiana lucidata. La loro funzione era quello
di sigillare il contenitore legandoli tra di loro.
Il coperchio riporta, in mezzo alle decorazioni
floreali, sotto il pomello, una colonna di geroglifici
che vanno letti da destra a sinistra, dall’alto verso
il basso. Ricordiamo che per convenzione
internazionale occidentale quando si traducono i geroglifici, la grafia va posta in orizzontale da
sinistra a destra. Dividiamo la colonna: prima gli epiteti e poi i protocolli.

nTr nfr wr         (n)xtw                aA mnw nb          ir(t) xt
necer nefer dio perfetto, ur nechetu grande di vittorie, aa menu grande di monumenti, neb iret
chet signore del compimento dei riti

nb-xprw-ra              sA ra nb          xaw        twt-anx-imn HqA-iwnw-Smaw d(w) anx
neb cheperu ra Ra è il signore delle manifestazioni, sa ra il figlio di Ra, neb cau il signore delle
corone, tut-anc-amon immagine vivente di Amon, heca iunu scemau colui che governa l’Eliopoli
dell’Alto Egitto, du anc dotato (=gratificato) di vita
Il primo cartiglio è il Quarto Protocollo Reale, il nome di intronizzazione, con il quale il re d’Egitto
è conosciuto presso le corti straniere. Il secondo cartiglio è il Quinto Protocollo Reale che riporta il
nome di famiglia, quello che i genitori hanno assegnato al principino appena nato. La capitale della

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XVIII dinastia era Tebe. La città viene identificata
in modo indiretto chiamandola “Iunu dell’Alto
Egitto” invece che con il suo nome Uaset. Iunu era
la città di Eliopoli, una città molto importante per la
religione egizia situata nel Basso Egitto.
Il protocollo termina con una formula eulogica,
cioè beneaugurante, vivente.
La tomba di Tutankhamon viene spesso definita
inviolata. In realtà essa fu aperta dai ladri per ben
tre volte. I predoni riuscirono a portare via solo gli oggetti preziosi più piccoli e gli unguenti più
interessanti e più facili da rivendere immediatamente. I ladri aprirono lo scrigno ma non trovandovi
nulla di prezioso lo abbandonarono aperto. Infatti conteneva due involucri di tessuto che
racchiudevano entrambi delle ciocche di capelli. Gli egittologi reputano che siano di Tutankhamon
stesso e della sua regina. Questa convinzione deriva dal fatto che lo scrigno sia intestato alla coppia
regale e non solo al sovrano.
Traduciamo l’iscrizione frontale che si presenta su tre colonne che si leggono da sinistra a destra e
dall’alto al basso. L’iscrizione va divisa in quattro zone:
    a) La prima colonna, cartiglio compreso: titolatura e Quarto Protocollo Reale del re.
    b) La seconda colonna, cartiglio compreso: titolatura e Quinto Protocollo Reale del re.
    c) La terza colonna fino alla fine: nome della regina e formula eulogica per la regina.
    d) Una riga orizzontale sotto le prime due colonne: formula eulogica per il re.

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nTr nfr nb tAwy nb-xprw-ra
necer nefer il dio perfetto, neb taui il signore delle Due Terre, neb-cheperu-ra Ra è il signore
delle manifestazioni.
Per Due Terre si intendono l’Alto Egitto (la Valle) e il Basso Egitto (il Delta). Quindi il re governa
un Egitto unito. È il Quarto Protocollo Reale.

sA ra    nb      xaw         twt-anx-imn HqA-iwnw-Smaw
sa ra il figlio di Ra, neb cau il signore delle corone, tut-anc-amon immagine vivente di Amon,
heca iunu scemau colui che governa l’Eliopoli dell’Alto Egitto.
È il Quinto Protocollo Reale.

Hmt wrt (ny-)sw(t) anx.s-n-imn                        anx.ti rnp.ti
hemet uret nisut sposa grande del re, anc.es-en-amon vive ella per Amon, anc.ti vivente, renep.ti
e giovane (per sempre).
È il nome della regina. Nella grammatica egizia non esiste il sostantivo regina. È definita come
“Grande sposa reale” per differenziarla da tutte le altre che sono spose secondarie. Ella garantisce la
successione dinastica generando l’erede al trono.

d(w) anx Dt (n)HH
du anx dotato (=gratificato) di vita, get neheh per sempre e perpetuamente.
È la formula eulogica per il re.
Il lavoro di analisi filologica va effettuato su tutte i reperti che sono ritrovati in un sito archeologico.
Essi sono di supporto alla ricostruzione storica degli eventi determinandone spesso la corretta
sequenza. La comprensione completa di una civiltà non può svincolarsi dalla sua scrittura.
(in blu la traslitterazione, in verde la pronuncia)

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