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IN BREVE #8– RITISH STEEL (1980-1985): 5 (PICCOLI) CLASSICI DELLA NWOBHM

-WHITE SPIRIT – S./T.
-PRAYING MANTIS – TIME TELLS NO LIES
-TANK – FILTH HOUNDS OF HADES
-CHATEAUX – CHAINED AND DISPERATE
-OMEGA – THE PROPHET

Dopo avere redatto una retrospettiva sulla prima parte della carriera discografica dei Demon[1] avevo
presentato, con il secondo capitolo della rubrica “In Breve”, cinque dischi al tramonto della fase aurea
del fenomeno della NWOBHM[2]. Ho deciso per questo nuovo episodio di tornare ad affrontare le
diverse sfaccettature dell’heavy metal britannico dei primi anni ‘80, effettuando una carrellata
temporalmente ampia (1980-1985) e stilisticamente variegata. Il nuovo approccio al rock duro delle
compagini inglesi comunemente raggruppate nella corrente new wave è infatti decisamente
eterodosso e sfrangiato in molteplici derive stilistiche. A differenza di altri sottogeneri del mondo
hard&heavy la NWOBHM non presenta una chiara identità sonora, un’unitaria sintassi compositiva o
un omogeneo orizzonte lirico-tematico. Basti pensare alle enormi differenze tra le proposte di Iron
Maiden, Venom, Demon, Angelwitch, Def Leppard, Saxon e Samson, solo per citare i gruppi, anche
commercialmente, più rilevanti. Con il settimo “In Breve” tenterò così di coprire uno spettro ampio,
cercando di evidenziare le comuni caratteristiche e le radicali differenze tra gruppi più o meno noti
del panorama britannico, invitando a riscoprire un momento chiave nello sviluppo dell’heavy metal
come oggi lo conosciamo.
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Conosciuti ai più per la militanza di Janick Gers, chitarrista di Gillian, Fish, Dickinson e soprattutto
membro fisso negli Iron Maiden da No Prayer for the Dying [3], i White Spirit possono essere
considerati uno dei più saldi anelli di congiunzione tra l’hard rock degli anni ‘70 ed il nuovo stile heavy
del decennio successivo. Formatosi ad Hartlepool a metà degli anni ‘70 il gruppo, composto da Ruce
Ruff alla voce, Gers alla chitarra, Phil Brady al basso, Malcolm Pearson alle tastiere e Graeme Crallan
alla batteria[4], propone uno stile pesantemente influenzato dall’hard che è in voga in inghliterra, con
una massiccia presenza delle tastiere e un’impronta blues molto marcata. L’attività del quintetto
subisce un’accelerazione nel 1980, quando i White Spirit vengono scelti dalla Neat Records per la
seminale compilation Lead Weight, in compagnia di altre colonne portanti del movimento NWOBHM
come Raven, Venom, Blitzkrieg e Bitches Sin[5]. Il singolo Back to the Grind/Cheetah (che raggiunge la
posizione n. 3 nella Indie Chart[6]), pubblicato sempre dalla Neat nel 1980 e l’apparizione sul secondo
volume di Metal for Muthas [7] fruttano alla band una opportunità con la MCA, che distribuisce il
primo full-lenght autotitolato, di pochi mesi successivo.
Lo stile del gruppo, come già accennato, è ibrido, tra i più conservativi dell’intera NWOBHM, seppure
non privo della nuova sintassi heavy che si sta sviluppando all’inizio degli anni ‘80. Molti gruppi della
nuova ondata britannica recuperano il riffing e la prassi compositiva di Black Sabbath, Judas Priest,
Thin Lizzi ed Ufo, aggiungendo velocità d’esecuzione, distorsione chitarristica e urgenza espressiva
mutuate dal punk; nel caso dei White Spirit i numi tutelari sono Deep Purple e Uriah Heep, non solo
per la rilevante presenza dell’hammond e di uno scheletro armonico direttamente derivato dal blues,
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ma anche per il chitarrismo esuberante e barocco di Gers, emulo di Blackmore e Box. Tuttavia
ascoltando l’opener Mindinght Chaser è impossibile non scorgere nel riffing il seme del nuovo heavy
metal, non solo per l’utilizzo sistematico del pedale in muting in alternanza con elementi melodici (sul
modello di 2 Minutes to Midnight degli Iron Maiden), ma anche per una essenzialità di scrittura
estramamente più asciutta e arrembante rispetto a quella magniloquente dei Deep Purple.
Quest’anima più prettamente metal si ritrova in altri episodi del disco, come nell’agitata cinesi di No
Reprieve, in cui il lessico hard rock viene riprogrammato alla luce di una scrittura energetica e
accelerata, o nella frastagliata Don’t be fooled, splendido connubio tra rock-blues e influenze glam.
Interessanti le contaminazioni con sonorità più americane nella successiva Red Skies in cui colpisce il
tentativo di ibridare le evoluzioni dell’hammond con il suono del synth, il tutto immerso in un
contesto che si muove a metà tra hard rock classico, memore forse della lezione vanhaleniana, e uno
stile più volitivo e metallico.
Al limite opposto dello spettro stilistico rispetto all’apertura di Midnight Chaser si colloca invece High
Upon High che anticipa una tendenza, tutt’altro che minoritaria nella NWOBHM, che avvicina il metal
al rock radiofonico e all’AOR propriamente detto, rappresentata in maniera più organica da gruppi
come Praying Mantis, Gran Prix, Bronz e Limelight.
Merita un discorso a parte la traccia di chiusura, tra i momenti più ambiziosi sul piano compositivo
della prima NWOBHM. L’esperienza della band, attiva fin dai primi anni ‘70, gioca un ruolo
fondamentale e consente al gruppo di avventurarsi, con la creazione di Fool for the Gods, in un brano
di oltre dieci minuti di durata. Il pezzo si presenta come un tributo ai grandi maestri dell’hard
settantiano, spesso capaci di flirtare con la complessità strutturale e l’elaborazione concettuale del
prog; lo dimostra la lunga sezione iniziale, dal carattere epico e solenne, dominata dalle tastiere e
sintetizzatori, su cui svetta la voce acuta e potente di Ruff, qui al massimo delle sue potenzialità
tecnico espressive. I riferimenti di questo segmento introduttivo sono gli Uriah Heep ma anche i Rush
di 2112, quasi citati attraverso l’uso di sintetizzatori atmosferici e futuristici; colpise la naturalezza con
cui il gruppo gestisce le transizioni tra le diverse sezioni, dimostrando un’abilità retorica e compositiva
di prim’ordine. Il pezzo muta man mano che si sviluppa, tra momenti dal carattere più energico,
sostenuti da una batteria cavalcante che omaggia gli Uriah Heep di Easy Livin’ e Return to Fantasy e
momenti di stasi, veicolo ideale per gli arabeschi solistici delle tastiere. La maestosità di Fool for the
Gods da un lato costituisce un prodromo alle composizioni più complesse e progressive che verranno
concepite da molti maestri della scena (gli Iron Maiden su tutti), superando tuttavia con grande abilità
la suddivisione formale in blocchi giustapposti, preferendo uno stile variato ed in sviluppo, più tornito
rispetto alle spigolosità strutturali dei capolavori successivi di Maiden e Priest.
Pur non rappresentando di certo il momento di massima innovazione stilistica della NWOBHM l’unico
capitolo discografico dei White Spirit rimane un tassello fondamentale nella rifondazione del rock
duro all’alba degli anni ‘80, un ponte tra classicità rock e irruenza metal.
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La carriera dei Praying Mantis, autentica istituzione del movimento NWOBHM, è spezzata in due fasi
ben distinte: la prima radicata nei primissimi anni ‘80, nell’epicentro del nuovo heavy britannico; la
seconda, dopo una pausa di quasi una decade, si dipana negli anni ‘90 e continua fino ad oggi. Dopo
il debutto in esame, il magnifico Time Tells no Lies, la band non riesce a dare continuità alla propria
produzione discografica, eclissandosi dalle scene fino al 1990 quando, dopo un tour celebrativo in
Giappone, riprende una serrata attività proprio nel paese del sol levante[8].
Un’embrionale formazione dei londinesi Praying Mantis si forma a metà degli anni ‘70, attorno all’asse
portante dei fratelli Chris e Tino Troy -rispettivamente al basso/voce e chitarra-, ma è sul finire della
decade che il gruppo inizia a farsi conoscere, grazie al singolo intitolato The Soundhouse Tapes Pt. 2
prodotto dal dj Neal Kay, già promotore dell’Ep The Soundhouse Tapes degli Iron Maiden[9]. Il
singolo, contenente i brani Captured City e Johnny Cool, frutta al gruppo uno slot nella compilation
che di fatto segna simbolicamente l’avvio del movimento NWOBHM, intitolata Metal for Muthas e
pubblicata dalla EMI[10] ( Johnny Cool sarà invece inserita in un altro atto fondativo per la discografia
NWOBHM, la raccolta Metal Explosion from the Friday Rock Show, edita nel 1980 dalla BBC)[11]. La
band continua a farsi strada nell’underground inglese, dapprima dividendo il palco con Iron Maiden e
Ronnie Montrose, e successivamente pubblicando un singolo ( Praying Mantis/High Roller) per la
piccola etichetta GEM[12]. Il buon riscontro dei brani e la crescente popolarità del movimento
convincono l’Arista Records a ingaggiare il gruppo, ora formato dai fratelli Troy, da Steve Carroll alla
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seconda chitarra e Dave Potts alla batteria, per registrare un album. Time Tells no Lies esce nel 1981,
prodotto da Tim Friese-Greene e registrato ai Battery Studios di Londra[13]. Il disco, divenuto col
tempo un classico della NWOBHM più melodica e meno irruenta, è accompagnato da una splendida
copertina fantasy di Rodney Matthews, disegnatore al lavoro con gruppi storici come Thin Lizzy,
Amon Düül II, Magnum, Scorpions e altri [14]. Il disco, come già avevano suggerito i brani degli esordi,
si distingue abbastanza nettamente dagli estremismi sonori delle realtà più cinetiche e prettamente
heavy della scena, rivelandosi come una fusione tra le istanze velocistiche e post-punk (per la verità
molto minoritarie nella musica dei Praying Mantis) ed elementi mutuati dal prog e dall’hard rock, il
tutto ammantato da una vena melodica distesa e pronunciata, di ascendenza melodic-rock. Rispetto
alle prove successive, quelle scaturite dalla nuova line-up degli anni ‘90, il disco è tuttavia ancora
scevro dalle inflessioni AOR, smaccatamente radiofoniche e pop-oriented, ma, all’opposto, innesta in
un telaio chitarristico heavy ingenti dosi di melodia, sia nelle linee vocali che negli intrecci strumentali.
Di particolare interesse sono i dialoghi tra le due chitarre, tra le massime espressioni della nuova
prassi ereditata da formazioni classiche come Wishbone Ash, Nazareth, Thin Lizzy e UFO, sovente
armonizzate per terze e spesso caratterizzate da linee melodiche eufoniche e barocche. Questa cifra
stilistica, utilizzata quasi sistematicamente dagli Iron Maiden (ma spesso anche dai Judas Priest) non si
stempera nemmeno nei passaggi meno metallici del lotto, ad esempio nell’hard melodico di Cheated,
in cui alla sezione accordale che accompagna la strofa viene contrapposto un lungo segmento
melodico in terze parallele. I brani che compongono Time Tells no Lies sono caratterizzati da una
scrittura fresca ed efficace, da un lato di facile memorizzazione -grazie a ritornelli immediati e
splendidamente concepiti- e dall’altro dotata di grande raffinatezza, ad esempio negli interludi
strumentali e nelle sovrapposizioni vocali. Nonostante la massiccia iniezione di solari melodie di
ascendenza classic-rock il disco non risparmia momenti che lo legano strettamente alla nuova energia
dell’heavy inglese, ad esempio la tirata di Panic in the Streets o la ruvidezza stradaiola di Rich City
Kids, in cui il batterismo esuberante e rigoglioso (specialmente nei fill) di Potts si sposa alla perfezione
con l’inquieto riffing chitarristico. Molto riusciti anche gli episodi che palesano una vena più
radiofonica come l’epica Children of the Earth e la semi-ballad Lovers to the Grave.
Nonostante un ottimo riscontro commerciale (l’album si spinge alla posizione n. 16) e l’interesse della
Jet Records per un secondo lavoro il gruppo stenta ad emergere dalle strette maglie
dell’underground e scompare inghiottito dalle nuove leve provenienti dagli USA. Il tardivo successo in
Giappone, con una line-up che vedrà coinvolti tra gli altri Clive Burr degi Iron Maiden e Bernie Shaw
degli Uriah Heep[15], renderà parzialmente giustizia a questa storica formazione, ormai proiettata
verso un raffinato heavy melodico, legato all’AOR radiofonico.
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Uscito un anno dopo il debutto dei Praying Mantis, il primo atto della discografia dei Tank si colloca
all’estremo opposto dello spettro stilistico della NWOBHM. Il gruppo, fondato da Algy Ward nel 1980,
emerge da un sostrato culturale e musicale molto diverso rispetto al background classic-rock dei
fratelli Troy; Ward è infatti una figura importante del movimento punk mondiale, dapprima con gi
australiani The Saints e successivamente con i The Damned, con cui registra il terzo lavoro Machine
Gun Etiquette, nel 1979[16]. Cacciato da questi ultimi alla fine degli anni ‘70, il bassista e cantante
forma un power-trio con Peter e Mark Brabbs (rispettivamente alla chitarra e batteria)[17], inglobando
all’interno dell’abrasività del punk del ‘77 la potenza di fuoco chitarristica del nuovo heavy metal,
ispirandosi alle realtà più estreme della scena britannica come Motorhead e Venom. Grazie
all’intercessione di “Fast” Eddie Clark dei padrini Motorhead, i Tank vengono scritturati dalla piccola
etichetta Kamaflage che decide di pubblicare il primo full-lenght del trio. Registrato tra il dicembre
1981 e il gennaio dell’anno successivo ai Rampant Studios di Londra, nonché prodotto dallo stesso
Clark[18], Filth Hounds of Hades vede la luce nel 1982 e si segnala come uno dei prodotti più estremi
offerti dalla nuova schiera di band inglesi.
Come è facilmente intuibile dal passato musicale di Ward il disco è una rivisitazione in chiave heavy
del punk inglese, meno improntato al riffing cesellato, in muting, ma all’opposto basato su elementari
frammenti motivici, a metà tra il punk, il garage e l’hard rock più brutale. L’impatto per l’epoca è
veramente notevole, di chiara matrice motorheadiana, in special modo in una evidente vena
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sotteranea rock and roll che permea i solchi di questo debutto. Anche sul piano lirico la band non va
oltre a classici clichès del rock più stradaiolo e attaccabrighe, parlando, senza troppa fantasia e ricerca
di guerra, sesso, alcohol e teppismo da strada. Nonostante la ripetitività e banalità della proposta, in
questo debutto la compagine londinese è in grande spolvero: muscolare, veloce, accattivante,
energetica e dotata di una (forse involontaria) ironia di fondo. Non a caso il titolo dell’album -
traducibile come “Gli sporchi segugi dell’Ade”- è ispirato ad una trasmissione radiofonica satirica con
dotta da Vic Stanshall; ricorda Mark Brabbs come il titolo venisse «da Vic Stanshall e suonava
azzeccato, perché a noi tutti piaceva il suo umorismo. Sembrava solo descrivere il tipo di persone che
venivano a trovarci quando abbiamo iniziato; erano uguali a noi, solo per fare festa, per iniziare a bere
ogni giorno all'ora di pranzo, quindi mi è sembrato azzeccato, perché li chiamavamo “gli sporchi”,
anche se non in modo dispregiativo!»[19]. Fin dall’apertura, affidata alla rasoiata punk-metal di
Shellshock, l’ascoltatore viene proiettato nella frenetica corsa vitalistica del trio, scandita dalla
martellante sezione ritmica e appena screziata dalle semplici ed efficaci melodie vocali, di ascendenza
rock and roll. Nel corso del lavoro il gruppo è bravo ad imprimere una certa varietà al proprio
elementare intruglio sonoro, ad esempio strizzando l’occhio all’hard rock settantiano nella divertente
Run like hell o nelle movenze più pacate e groovy di Thats what the Dreams are made of. Nonostante
queste oscillazioni all’interno della track-list non è la differenziazione stilistica a costituire il punto forte
di Filth Hounds of Hades, rigorosamente ancorato alla forma canzone e saldato ai dogmi del rock più
viscerale ed istintivo, figlio della lezione di Motorhead ed Ac/Dc. Quando il gruppo spinge
sull’accelleratore diventa molto convincente, sia sul versante più punk-oriented, ad esempio nella
furibonda Turn Your Head Around, che su quello più riffato e metallico, come in Heavy Artillery.
Divertenti anche i frangenti in cui la band ironizza sul truce mondo guerrafondaio ed aggressivo che
caratterizza il suo orizzonte lirico, ad esempio nella dichiarazione d’intenti del blues-metal di Who
Needs Love Songs o nella conclusiva (He Fell in Love with a) Stormtrooper, dotata di un inaspettato
appeal melodico.
La carriera del trio sarà tra le più consistenti della scena, con ben quattro album a seguire il debutto
fino al 1987, tutti basati sulle medesime coordinate sonore e tematiche. Inoltre l’influenza della band
sulle correnti più estreme sarà tutt’altro che irrilevante, ed in particolare sui Sodom, gruppo cardine
del thrash metal tedesco, che annovereranno il trio tra le maggiori fonti d’ispirazione, reinterpretando,
estremizzandoli, diversi classici del gruppo di Ward.
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Rispetto alle due compagini londinesi Tank e Praying Mantis, la storia degli Chateaux è meno
fortunata sul piano commerciale, seppure rilevante in termini produttivi, con tre album all’attivo per la
Ebony tra il 1983 ed il 1985 [20]. Il gruppo, originario di Cheltenham nello Glouchestershire, si forma
con il nome di Stealer nel 1981 per volontà del chitarrista Tim Broughton, del bassista Alex Houston
(all’inizio anche cantante) e del batterista Andre Baylis[21]. Cambiato il monicker in Chateaux il gruppo
viene scelto dalla Ebony Records per partecipare alla compilation Metal Maniaxe, edita nel 1982, in
compagnia di effimeri gruppi underground della scena NWOBHM; da questa prima apparizione
l’etichetta decide di ricavare un singolo, pubblicato pochi mesi dopo la raccolta, ed intitolato Young
Blood/Fight to the Last. È il prodromo all’esordio sulla lunga distanza, il full lenght Chained and
Desperate, a cui partecipa in qualità di cantante l’ex frontman dei Medusa Steve Grimmett
(successivamente personalità di spicco del metal inglese sia in ambito NWOBHM con i Grim Reaper
che thrash con gli Onslaught)[22].
Il disco è un perfetto esempio di heavy metal inglese, quintessenziale del nuovo stile propugnato
dalle giovani leve: pesante, energetico, squadrato e caratterizzato da una produzione asciutta ed
essenziale. Martin Popoff afferma che Chained and Desperate «cavalca lo stesso misterioso umore dei
primi Grim Reaper, dei Diamond Head, dei Savage e dei Witchfinder General, […] combina integrità e
coerenza, abilità compositiva e rozzezza sonora in un modo del tutto peculiare, tipico dei primigeni
maestri britannici. Un vorticoso calderone di glorioso rumore.»[23]. Effettivamente le 8 tracce del
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debutto degli Chateaux incarnano perfettamente il nuovo modo di comporre e suonare della nuova
generazione grazie ad una miscela sonora che unisce le istanze più heavy dell’hard rock settantiano,
in particolare il riffing dei Black Sabbath e dei Judas Priest, con l’energia cinetica e spartana espressa
dalla rivoluzione punk di fine decade. A cementare questa struttura che fonde il nuovo acciaio
cromato con il polveroso suono hard degli anni settanta svetta la voce di Grimmett, uno dei più
convincenti emuli di Rob Halford, capace di una prestazione viscerale ed intensa, meno pulita rispetto
alle performance che fornirà con i suoi Grim Reaper ma perfettamente integrata nell’impasto
strumentale della band. Sul piano chitarristico Broughton si avvale di un vocabolario molto vario, sia
sul piano ritmico -vero punto di forza del disco- che su quello solistico, riuscendo a innestare elementi
ritmico melodici agili e rudimentali in strutture decisamente più varie, composite e magniloquenti,
garantendo a Chained and Desperate una varietà compositiva e motivica non comune in ambito
NWOBHM.
In alcuni episodi il lavoro sprigiona un’epicità che guarda ai Black Sabbath dell’era Dio e ai nuovi
Judas Priest (quelli post Stained Class del 1978), ad esempio nella splendido manifesto Spirit of the
Chateaux o, ancor di più, nei sette minuti di The Dawn Surrender, un doom-metal macilento ed
evocativo, marchiato a fuoco dal riffing di Tim Broughton. Nonostante la track-list indugi spesso su
movenze mid-tempo, evitando l’ossessiva cineticità dei Maiden, dei Raven o dei Saxon, non mancano
episodi dal carattere più brillante, di tipica estrazione new wave. È il caso di Straight to the Heart e
Burn Out at Dawn, in cui la batteria alza vertigiosamente il beat, proponendo una spinta propulsiva
ossessiva e martellante mentre Grimmett gioca vocalmente con distorsione e gutturalità. Belli e
funzionali anche i cambi d’atmosfera, ottenuti con sapienti chiaroscuri semi-acustici, ad esempio nella
sezione d’apertura di The Dawn Surrender, ancora una volta ispirati ai Judas Priest di Victims of
Changes e Beyond the Realms of Death.
Nonostante il successo non arrida agli Chateaux la carriera del gruppo continua con altri due album,
sempre sotto l’egida della Ebony; FirePower del 1984, caratterizzato da una scrittura e da un suono
estremamente aggressivi (con Krys Mason dietro al microfono) e Higly Strung del 1985, segnato da
episodi al limite dello speed-metal americano[24]. Chained and Desperate resta uno degli
emblematici capolavori minori della NWOBHM, nonché una delle migliori performances di un grande
frontman come Grimmett.
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Nel 1985 la NWOBHM è ormai stata completamente surclassata dalle nuove derive stilistiche
dell’universo hard&heavy. Il glam e l’hair metal hanno conquistato le classifiche con Motley Crue, Bon
Jovi, Ratt e W.A.S.P. mentre in ambito underground il thrash è esploso in tutta la sua carica
rivoluzionaria e distruttiva con Metallica, Slayer, Megadeth, Exodus e Anthrax negli Stati Uniti e
Kreator, Sodom e Destruction in Europa. Nel frattempo l’onda lunga della new wave e del punk si è
mescolata al pop in chiave dark e solo alcune realtà della NWOBHM sono riuscite a superare
pienamente la dimensione “di genere” conquistando un successo planetario; è il caso di Iron Maiden,
Motorhead, Saxon e Def Leppard. In questo contesto storico-stilistico la proposta degli Omega risulta
datata e distante dagli interessi commerciali del pubblico.
Il gruppo si forma come Apocalypse nel 1980, dalla fusione dei Phaze e degli Stone Lady, ma non
riesce ad andare oltre alla pubblicazione di un singolo, intitolato Stormchild/Chosen Few ed edito nel
1982 dalla microscopica Gate Records [25]. Cambiato il nome nel definitivo Omega la compagine
londinese viene inserita nelle compilation Metal Warriors, pubblicata dalla Ebony nel 1983 [26], e
arriva finalmente alla pubblicazione del full-lenght The Prophet solamente nel 1985, quando appunto
il fenomeno NWOBHM ha esaurito la sua spinta creativa. Ad accrescere la singolarità della vicenda
artistica e produttiva del gruppo è lo stile del quartetto: raffinato, algido, rarefatto ed atmosferico,
distante anni luce dalle brutalità dei proto-thrasher come dalle tentazioni pop-metal della frangia più
melodica. Il metal è infatti solamente uno degli ingredienti che compongono la miscela sonora di
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questa band dimenticata, capace di attingere a piene mani dalla dark-wave, dal progressive e dallo
space-rock.
Il disco si svela poco per volta, attraverso riff ripetuti e mai concitati, legati da un sound notturno ed
onirico, una costruzione lenta ed inesorabile che solo con pazienza e concentrazione concede una
visione d’insieme. Anche quando i ritmi si svincolano dall’incedere doomy per concedersi delle
impennate più energiche l’atmosfera non si schiarisce, con i sintetizzatori che disegnano ampie volute
melodiche, immerse in un paesaggio sonoro crepuscolare e misterioso. Schegge dello stile NWOBHM
sono rintracciabili nella tavolozza espressiva dei londinesi che però riescono a mescolare
all’intelaiatura chitarristica spazi sonori ampi, di derivazione pinkfloydiana, e momenti vocali epici, con
molteplici sovrapposizioni corali. In Yesterday’s Children, forse il brano più metallico del lotto, quello
più legato alla NWOBHM vera e propria, il classico incedere giambico della chitarra è accompagnato
da una linea vocale quasi narrativa e da un ritornello segmentato, che stempera e spezza a forza le
maglie strette del reticolo chitarristico. I momenti migliori sono però raggiunti nei possenti crescendo
della title-track, autentica perla di space-metal, tra esplosioni doom e momenti di puro dark
atmosferico. Altro momento di grande efficacia è la cover di DayTripper dei Beatles, riprogrammata in
chiave heavy, con una sezione ritmica propulsiva e una struttura del riffing di notevole elaborazione e
complessità. Tuttavia parlare dei singoli episodi è riduttivo, perché il lavoro sembra concepito come
un unico, ampio affresco unitario, un viaggio in una realtà deumanizzata, oscura e decadente, in cui le
magnifiche melodie vocali e gli intarsi chitarristici scandiscono ritmicamente la tela sonora.
Rispetto agli altri album presentati in questo capitolo della rubrica The Prophet costituisce un
approdo, non un punto di passaggio o un manifesto di una deriva stilistica; con l’unico full-lenght
degli Omega la NWOBHM -ormai morente e superata- diventa un genere adulto, perde l’innocenza
giovanile, la propria carica espressionista, matura in un sound affascinante e del tutto slegato dal
proprio tempo, capace di contenere molte delle invenzioni dell’heavy inglese ma utilizzandole in
maniera inedita e personale. The Prophet è uno dei capolavori dimenticati degli anni ‘80, che riesce, in
maniera coerente e fresca, a fare i conti con il nobile passato del rock degli anni ‘70, spogliandosi di
ogni retorica tecnicista o intelletualista, asciugando all’essenziale una molteplicità di stili e
ricomponendoli magistralmente.
Purtroppo l’uncità degli Omega non troverà terreno fertile nel mercato ottantiano e il gruppo si
scoglierà poco dopo la pubblicazione del disco. Con la riscoperta, in anni recenti, del classic metal la
band ritornerà in studio, pubblicando a nome Apocalypse un album nel 2010 [27]; purtroppo un
esercizio di stile che riporta la musica degli inglesi sui binari di un classico heavy metal, sideralmente
distante dal fascino senza tempo di The Prophet.
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NOTE

[1] Cfr. "Retrospettiva" #1; https://musicfrombigpinkreviews.com/home/retrospettiva-1-demon-1981-
1985.
[2] Cfr. "In Breve"#3; https://musicfrombigpinkreviews.com/home/in-breve-3-1984-cinque-dischi-al-
crepuscolo-della-nwobhm.
[3] Cfr. STRONG Martin Charles, The Great Scots Musicography: The Complete Guide to Scotland's
Music Makers, Birlinn, 2002, p. 273; Cfr. LARKIN Colin, The Encyclopedia of Popular Music, Omnibus,
2011, p. 1974.
[4] Cfr. CERATI Stefano (a cura di), I 100 migliori dischi della NWOBHM, Tsunami, 2010, pp. 202-03.
[5] Cfr. Ibid., pp. 16-17.
[6] Cfr. LAZELL Barry, Indie Hits 1980-1989, Cherry Red, 1997, p. 46.
[7] Cfr. CERATI Stefano (a cura di), op. cit., pp. 14-15.
[8] Cfr. SIGNORELLI Luca, Heavy Metal. I Classici, Giunti, 2000, pp. 92-93.
[9] Cfr. HARRIGAN Brian, H.M.- A/Z, Bobcat, 1980, p. 87.
[10] Cfr. CERATI Stefano (a cura di), op. cit., pp. 128-129.
[11] Cfr. POPOFF Martin, Heavy Metal Record Price Guide, Goldmine 1999, p. 243.
[12] Cfr. STRONG Martin Charles, The Great Metal Discography, Mojo, 2001, p. 427.
[13] Cfr. www.prayingmantis.com.
[14] Cfr. LAWSON Robert, Razama-Snaz!: The Listener's Guide To Nazareth, Friesen, 2016, p. 198.
[15] Cfr. STRONG Martin Charles, op. cit., 2001, p. 427.
[16]Cfr. HUTCHINSON Barry, The Damned - the Chaos Years: An Unofficial Biography, Lulu, 2017, p.
178.
[17] Cfr. CERATI Stefano (a cura di), op. cit., pp. 172-173
[18] Cfr. ADDUCCI Flavio, Nel Segno del Marchio Nero: Storia del proto-black metal internazionale
1981-1991 , AD, 2019, P. 44.
[19] Cfr. Tank Interview, in Sounds, n. 25, settembre 1982.
[20] Cfr. DELLA CIOPPA Gianni, PASCOLETTI Francesco, Ebony Records. Passione metal, in Classix
Metal n. 1, dicembre 2008/gennaio 2009, pp. 41-45 .
[21] Cfr. www.nwobhm.com.
[22] Cfr. MACMILLAN Malc, The NWOBHM Encyclopedia, Gazelle, 2001, p. 93.
[23] Cfr. POPOFF Martin,The Collector's Guide to Heavy Metal, Collector’s Guide, 1997, p. 89.
[24] Cfr. POPOFF Martin, Smokin' Valves: A Headbanger's Guide To 900 NWOBHM Records, Wymer,
2018, p. 111.
[25] Cfr. www.nwobhm.com.
[26] Cfr. MACMILLAN Malc, op. cit., p. 206.
[27] Cfr. www.nwobhm.com.
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