MARIO TRONTI. DELLO SPIRITO LIBERO - Fabio Milana

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MARIO TRONTI.
                                                   DELLO SPIRITO LIBERO
                                                                      Fabio Milana

                   Dello spirito libero (2015) è il testo a cui, a mezzo secolo da Operai e capitale (1966)1, Ma-
                   rio Tronti (1931) ha conferito un mandato esplicito di autotestimonianza e quasi di testa-
                   mento politico-spirituale; e ciò al cospetto di amici, discepoli, militanti e studiosi distri-
                   buiti ormai su quattro generazioni. Destinatari che hanno contratto con lui lungo questi
                   decenni, e segnatamente con la sua opera prima, un debito intellettuale di proporzioni
                   difficilmente calcolabili; ma che il successivo percorso teorico e (soprattutto) politico di
                   questo autore ha poi distolto dal disobbligarsi nei suoi confronti con l’esercizio di una
                   attenzione continuata e non selettiva al suo contributo di pensiero2. Quanto segue, ol-
                   tre che a omaggiare un maestro, ambisce a ridurre anche solo di un minimo tale divario.
                       Il proposito parrebbe agevolato dal fatto che, a detta del suo autore, questo libro «è
                   dieci volte più sovversivo» di Operai e capitale, segnando o compiendo, entro l’arco della
                   sua riflessione, il passaggio da una «critica di società» a una «critica di civiltà»3. Di que-

                   1   Operai e capitale si può leggere ora nella riedizione di Derive Approdi, Roma 2006. Dello spirito libero.
                   Frammenti di vita e di pensiero (Milano, il Saggiatore) è citato nel testo indicando solo i relativi numeri di
                   pagina: così si è preferito per maggiore agilità, riservando a queste note alcune poche integrazioni al testo.
                   2 Così anche nella recente confezione e discussione di una c.d. «Italian Theory», e nel contributo più signifi-

                   cativo in merito: R. Esposito, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana, Einaudi, Torino 2010.
                   Per una presentazione e documentazione invece complessive del percorso di pensiero di Tronti, cfr. ora il suo
                   Il demone della politica. Antologia di scritti 1958-2015, a cura di M. Cavalleri, M. Filippini e J.M.H. Mascat,
                   Il Mulino, Bologna 2018.
                   3 Così l’Autore nel film-intervista ABeCedario, a cura di C. Formenti, Derive Approdi, Roma 2016 (in segui-

                   to richiamato con la sigla ABC), alla voce «Esilio». Altri titoli utilizzati e le relative sigle: La politica al tramonto
                   (PT), Einaudi, Torino 1998; Politica e destino (2001) (PD), in M. Tronti et al., Politica e destino, Luca Sossella
                   Editore, Roma 2006, pp. 11-29; Non si può accettare (NPA), a cura di P. Serra, Ediesse, Roma 2009; Per la
                   critica del presente (PCP), Ediesse, Roma 2013 (e cfr. qui p. 84); Il nano e il manichino. La teologia come lingua
                   della politica (NM), Castelvecchi, Roma 2015. Completano la bibliografia trontiana dell’ultimo quindicennio
                   il saggio Noi operaisti, Derive Approdi, Roma 2009, e la raccolta Dell’estremo possibile, a cura di P. Serra,
                   Ediesse, Roma 2011.

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Fabio Milana

              sto approdo kulturkritisch si tratta però di capire meglio portata e prospettiva, anche in
              rapporto al suo termine di paragone giovanile. Perché di una critica sociale nel solco del
              pensiero marxista crediamo senz’altro di conoscere il soggetto di riferimento e l’ambi-
              to di effettualità; ma di una critica dell’intera Zivilisation moderna? Da quale postazione
              di pensiero essa sarebbe davvero plausibile, entro quale campo di forze, con quale pre-
              sa possibile sulle dinamiche del reale? Se «nemico è [tutto] ciò che è» (179-180), donde
              sorge e dove consiste lo «spirito libero» (e l’«amico» suo, naturalmente)? Nell’offrire ri-
              sposte a queste domande, il testo dà fondo alla sua dichiarata «sovversività».
                   Non aiuta invece il «frammentismo» del libro, articolato in quarantuno brevi «sag-
              gi», alcuni dei quali già noti, altri interamente delegati a una o più fonti esemplari, mol-
              ti infine centrifughi, all’apparenza, quanto a soggetto o punto d’abbrivio. Né aiuta il
              «metodo dell’allusività» (275), quel «procedimento analogico» che pure l’autore riven-
              dica sulla base dell’assunto, ultimamente magico-esoterico, secondo cui «pensieri simi-
              li hanno proprietà e inducono comportamenti simili, così per i pensieri contrari» (304).
              Analogismo moderno, «per dire pensiero oggi indicibile»; e deliberato saggismo, per-
              ché «non si può ormai pensare e scrivere che per frammenti, essendo esploso il mondo
              di ieri in mille pezzi, che nessuno attualmente è in grado di rimettere insieme» (303). Si
              potrà ben deplorare, di Tronti, «l’opera mancata» a lungo e ormai per sempre4; non si
              potrà ignorare la qualità di «pensiero vissuto» in un preciso volgere di contingenze, il
              «corpo a corpo diretto con la storia» (PD 23) lungo (quasi) tutta la sua parabola, propri
              l’una e l’altro di una riflessione come la sua militante, che per più distese astrazioni teo-
              riche non ha avuto il tempo, o non ha avuto l’epoca.
                   A tenere insieme «frammenti e aggiunte e accostamenti e rimandi», d’altra parte,
              è una voce recitante sempre chiaramente avvertibile; così come sono ben avvertibili il
              «voi» destinatario, non di rado esplicito, quella «certa intesa quasi segreta con l’autore»
              che si pone a «precondizione indispensabile» (304), e la somma al «noi» che ne discen-
              de. L’«estremismo paratattico» della scrittura di Tronti, su cui si è autorevolmente insi-
              stito5, non è infine che questa nobile stilizzazione del parlato: una conversazione magi-
              steriale e confidenziale a un tratto, con cui l’autore convoca attorno a sé la sua «parte»,
              la istruisce, la orienta, la organizza. Chi legga, non può fare a meno di figurarsi a una ri-
              unione di «classe operaia». Ora, questa voce rassicura che il procedere a cenni ed enig-
              mi lascerà infine «emergere dall’abisso dei riferimenti l’unum della figura di ciò che sal-
              va» (29); incoraggia a resistere, a non perdersi, a incastrare noi stessi le «tesserine» del
              «puzzle», perché «il disegno c’è, chiaro, nella testa dell’autore. Ma spetta a voi, ricostru-
              irlo» (179). Non resta che prenderla, questa voce, in parola.
                   Ma la parola di Tronti, altro potenziale inciampo, è protetta da un duro smalto di
              letterarietà. La sua scrittura si lascia volentieri citare, ma ben difficilmente parafrasare;
              ammette il commento, scoraggia il compendio; e come affascina, così può respingere. Si
              tratta però di un’altra scelta programmatica, dichiara l’autore, polemicamente invocan-
              do «la bellezza della parola, di sempre, contro la bruttura delle cose, di oggi»; e aggiun-
              gendo: «sottovalutare la cura di questo aspetto è un errore politico» (305). Non stiamo

              4   Cfr. A. Accornero, L’opera mancata, in M. Tronti et al., Politica e destino, cit., pp. 85-95.
              5   A. Asor Rosa, Mario Tronti, stile e destino, in M. Tronti et al., Politica e destino, cit., pp. 33-40.

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Mario Tronti. Dello spirito libero

                   dunque parlando d’altro, ma della stessa cosa su un piano diverso. «Conoscere in pro-
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                   oria di modelli classici: dove il primo membro allude a «il dolore, la lotta, il tormento
                   del pensiero» intorno al proprio limite storico (257) – il secondo alla sua «messa in for-
                   ma», nel caso specifico alla sua linearizzazione sulla pagina, entro una rete di strutture
                   non per caso elettivamente binarie. Una sentenza come la seguente: «la libertà di pen-
                   siero è un falso senza un vero pensiero della libertà» (56) – non soltanto esprime, in una
                   delle sue molte rifrazioni, l’idea portante del libro; né solo esegue lo stilema «idealtipi-
                   co» della prosa trontiana (antimetàtesi, classificano i trattati di retorica); ma rappresen-
                   ta a un tempo una forma del pensiero. I termini ritornano identici, come si vede, perché
                   quelle sono le cose (persiste la realtà, infatti, nel pensiero di Tronti; nella fattispecie, lo
                   strapotere dell’opinione e il suo «nemico mortale»: 256); ma le due ali della proposizio-
                   ne hanno direzione, significato, valore di verità rovesciati. A patto che sia possibile una
                   simile reductio ad duo, ed essa raggiunga anzi la temperatura critica, ciascuna delle due
                   lezioni rende visibile, dalla parzialità del suo punto di vista, l’intero; e nella loro polari-
                   tà e complementarietà, cioè nel reciproco escludersi e necessitarsi, esse testimoniano, e
                   quasi configurano, l’epoca. Tempo senza epoca, e per ciò stesso senza esercizio di pensie-
                   ro, è per Tronti quello opaco della «complessità» ed emorragico delle «differenze» che
                   ci è assai familiare: ma, appunto, qui, la sfida di quel «conoscere in profondità e confi-
                   gurare in bellezza» lanciata dal pensiero e dalla parola che si vogliano ancora sempre,
                   testardamente, politici. E aspirino per questo a intensificare, a polarizzare il dato, anche
                   attraverso quella che, in assenza di simili premesse, scadrebbe a gesticolazione patetica.

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                   Se, dunque, «l’atto del pensare è una dichiarazione di guerra» (180), ecco una caratte-
                   rizzazione del «nemico» come la incontriamo nelle primissime pagine. Si tratta del Mo-
                   derno

                        piegato agli interessi di una classe nascente e vincente, che nel suo sviluppo, da borghesia dei
                        commerci a borghesia dell’industria, poi borghesia del denaro e da ultimo media borghesia di
                        massa, [ha] occup[ato] e occidentalizz[ato] il mondo, facendo della vita stessa una ben misera
                        cosa, un mezzo di produzione, una moneta di circolazione, un oggetto di consumo. Le rivo-
                        luzioni borghesi, economiche e politiche, hanno creato il mito [...] della crescita umana. Ma
                        era – è – per metà effettiva perdita del proprio sé, per metà apparente conquista del mondo
                        delle cose e infine reale, servile subordinazione ad esse [12-13].

                   La storia di cui Marx sapeva che «sono gli uomini [a farla], sia pure in condizioni ben
                   determinate», ha concluso il suo ciclo; oggi

                        le condizioni stesse fanno la storia, servendosi di uomini ben determinati. I processi di oggetti-
                        vazione come alienazione, di mercificazione come reificazione, di civilizzazione come tecniciz-
                        zazione, hanno investito mondi umani e forme di vita con violenza tale da lasciare sul terreno
                        solo copie artefatte di eventi senz’anima, rappresentati e non vissuti, detti e nemmeno scritti.
                        Nessuno saprà mai niente di vero su di noi [277].

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Fabio Milana

              Questa catastrofe dell’umano ha per Tronti una precisa soglia simbolica, quella stessa
              che segna «la caduta dei muri e il crollo delle alternative»; e un diretto risvolto sociolo-
              gico-antropologico:

                   Rendere veramente universale la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino ha voluto
                   dire la conquista dell’ultimo spazio di mondo che ancora mancava alla logica capitalistica
                   dell’essere tutti, ognuno e ognuna secondo le proprie capacità, grandi, medi, o piccoli bor-
                   ghesi [216-217].

              Facilmente potremmo reperire qui, o altrove nella produzione trontiana dell’ultimo ven-
              ticinquennio, formulazioni altrettanto radicali ed esecrazioni anche più violente. Ma è
              solo in questo Spirito libero che troviamo giunta a espressione esplicita un’idea già affac-
              ciatasi in sordina in scritti minori degli ultimi anni, ancora estranea però al Tronti «apo-
              calittico» del passaggio di secolo. Nella Politica al tramonto (1998), la politica (moderna)
              appariva contrapposta alla storia (capitalistica) per entro una stessa costellazione il cui
              compimento era già deciso negli eventi fondanti: accumulazione originaria e Rivoluzio-
              ne industriale (PT 15). Solo in seguito, e solo in quest’ultimo volume con plastica chia-
              rezza, al volo di nottola del pensiero si offre una diversa veduta del giorno che tramonta.
              Il «cambio di paradigma» (17 e ss.) propone ora la dialettica tra un originario «progetto
              moderno» agli «splendidi inizi» («l’assoluta padronanza del mondo da parte dell’uomo
              e l’assoluta sovranità dell’uomo su se stesso»: 19) e la successiva sua «invasione» ed ever-
              sione ad opera dei «barbarici spiriti animali» del capitalismo incipiente6.
                   Una diversa «narrazione» della Modernità diventa in questo modo possibile, e con
              essa, all’ombra di ciò che Tronti battezza qui come «l’Antico del Moderno», una pro-
              spettiva di pensiero in grado di sormontare il «neonichilismo» dei precedenti esiti (PT
              82). E allora: dopo la stagione rinascimentale delle invenzioni artistiche, delle scoper-
              te geografiche, delle conquiste scientifiche, e dopo «il grande Seicento» della politica
              – altrettante stazioni nella «storia del soggetto moderno» (PCP 42) – ecco «l’occupa-
              zione capitalistica del Moderno», e il progressivo imporsi di una concezione borghese
              dell’uomo e della vita: cultura dei Lumi e suo retaggio. Contro questa deriva, benché
              forse già fuori tempo massimo ormai, «l’umanismo di Marx [...] fondamentale per il
              Marx economista e sociologo»: «fare sì che il proletariato si autoliberasse dallo sfrut-
              tamento era lo stesso processo di autoliberazione del Moderno dal capitalismo». Sor-
              ge così «il movimento operaio [...] come il realizzatore storico del progetto moderno
              originario» (19-20), e nasce qui quell’incontro tra movimento operaio e politica mo-
              derna che stringerà l’uno all’altra in uno stesso destino. Quindi, dopo una stretta ul-
              teriore nella morsa di identificazione tra sviluppo capitalistico e civiltà moderna, età
              del positivismo – l’irrompere nel primo Novecento della cultura della crisi e della ri-
              voluzione delle forme:

              6   Diversamente ancora in PD 23: «È mancato, in senso assoluto, nei confronti della grande tradizione bor-
              ghese, un complesso lavoro di critica delle parti efficientistiche, e disciplinanti – umanesimo, razionalismo,
              illuminismo, idealismo, storicismo, positivismo. È mancata una disincantata operazione di appropriazione
              delle parti eccedenti e disordinanti – libertinismo, romanticismo, irrazionalismo, nichilismo, culture della crisi,
              avanguardie storiche» (c.n.).

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Mario Tronti. Dello spirito libero

                        La critica della modernità rimprovera al Moderno il fallimento del suo progetto, ne recupe-
                        ra la ispirazione originaria, la riscopre, la rifonda, ne fa, in nome della libertà umana, uno
                        strumento di rivolgimento degli equilibri raggiunti da questo potere, determinato, storico,
                        moderno ormai più solo in senso capitalistico [98].

                   Eroiche, infine, nella sproporzione al compito, le rivoluzioni del Novecento: rivoluzio-
                   ne operaia, rivoluzione conservatrice. La grandezza del secolo, da Tronti tenacemente,
                   polemicamente rivendicata, sta tutta in questo tentativo di contrastare e trattenere, «in
                   nome della libertà umana», la deriva tecnico-economica dell’Occidente: «cultura ope-
                   raia da un lato, aristocrazia intellettuale dall’altro, uniche forze indisponibili al destina-
                   le spirito borghese moderno» (22). Il fallimento di questi tentativi, forse inevitabile, an-
                   che per i limiti intrinseci alle rispettive proiezioni storiche7, nulla toglie alla loro tragica
                   grandezza. In particolare la rivoluzione operaia ha portato la politica moderna ad altez-
                   ze impossibili, là donde il precipitare non poteva che essere rovinoso. In questo senso
                   deve dirsi che «il crollo del comunismo ha reso visibile il fallimento del progetto moder-
                   no» nel suo insieme (19).
                       Una simile «narrazione» ha un grappolo di conseguenze notevoli. La prima e più
                   prossima, non inedita nelle pagine di Tronti, ma ora enfatizzata dal «cambio di pa-
                   radigma» in senso umanistico (e tuttavia ancora, anzi più che mai antirazionalista e
                   antistoricista)8, riguarda la «parte» stessa a cui l’autore si rivolge e in cui si riconosce.
                   Concerne il modernismo acritico che ne ha attraversato la cultura, il progressismo inge-
                   nuo che ne ha sospinto le magnifiche sorti presunte, e ne ha deciso la subalternità reale:

                        Il socialismo ha perso due volte. La prima volta nella teoria, quando ha pensato che più avan-
                        zava il capitalismo tanto più si avvicinava il socialismo. [...] La famosa contraddizione [...]
                        marxiana, tra rapporti di produzione e forze produttive è cresciuta, non è esplosa, non si è
                        chiusa una volta per tutte, si chiude volta a volta a ogni stadio ciclico di sviluppo/crisi [...] E
                        quando il socialismo realizzato si è messo a competere su questo terreno [dell’innovazione]
                        con il capitalismo moderno, lì ha perso per la seconda volta, e definitivamente, nella pratica
                        [26-27].

                   Nemmeno l’eresia operaista ha fatto eccezione in questo senso: il suo limite «è stato l’es-
                   sere marxiano per eccesso. Il dover essere assolutamente moderni, in quella scuola di
                   formazione radicalmente antagonista, è risultato alla fine un atto subalterno» (26). Ma,
                   questa la ritrattazione, «non si può essere più moderni del capitalismo» (Ibid.)9: bisogna-

                   7   «Il limite della rivoluzione conservatrice è stato di non aver trovato l’istituzione. Non si vince, non si
                   resiste, nemmeno si sopravvive, senza darsi una forma politica. È il nazismo che ha sconfitto la rivoluzione
                   conservatrice. La rivoluzione operaia ha trovato l’istituzione, si è fatta partito senza riuscire a farsi Stato. Così
                   ha tentato di fare nuova società senza la forma dello Stato e di creare l’uomo nuovo con la struttura del partito.
                   La coercizione violenta ha sostituito l’esercizio della politica» (Dello spirito libero 23-24).
                   8 Per una prima e ancora esitante esposizione di questo «cambio di paradigma», e una critica di esso ante

                   litteram, cfr. M. Cacciari, M. Tronti, Teologia e politica al crocevia della storia, a cura di M. Gasparri, Albo
                   Versorio, Milano 2007. Una più matura anticipazione in NSA 37.
                   9 Ritrattazione, se si considera che alla base dell’«operaismo» si deve porre l’affermazione secondo cui «den-

                   tro la società capitalistica [...] il punto più alto dello sviluppo non è affatto il livello del capitale, il punto più
                   alto dello sviluppo è la classe operaia, per cui [...] non è più vera la tesi di Marx secondo cui il capitale spiega

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Fabio Milana

              va, bisognerebbe, esserlo altrimenti, il che significa: in continuità con il «progetto» ori-
              ginario. Kultur contro Zivilisation:

                   Siamo stati subalterni a quell’idea di onnipotenza della ragione umana, che non è vero sia
                   caratteristica propria del Moderno [...] Quell’idea era caratteristica propria della borghesia
                   moderna. Non abbiamo messo sotto critica il percorso che va dalla grande ragione rinascimen-
                   tale, istruita dalla scienza, alla piccola ragione strumentale comandata dalla tecnica: ciò che
                   segna esattamente l’arco di sviluppo del dominio della mentalità borghese sulla condizione
                   umana [224].

              Ma, ed è una conseguenza più rilevante, proprio la dialettica interna a quella narrazione
              fondativa consente ora di ri-collocarsi in essa criticamente, per così dire «dentro e con-
              tro»: è la postazione della «critica di civiltà» di cui il nostro testo vuol essere testis. «Cri-
              tico del Moderno, non contrario al Moderno» si professa Tronti (303), e anzi auspice di
              una «moderna forza antimoderna» (29): contro la modernità realizzata in nome di una
              diversa modernità possibile. Certo non si tratta di una possibilità al presente, dato che
              questo presente è ferreamente imprigionato nella «gabbia d’acciaio» della Zivilisation
              borghese. Né può trattarsi di una qualsiasi «fuga in avanti», se «il futuro è già tutto in-
              scritto nel presente: questo farà di quello tutto ciò che vorrà». «Solo il passato è oggi al-
              ternativo al presente, non più catturabile dal suo selvaggio istinto predatorio»: spetta
              pertanto ad esso di «portare in situazione critica il presente», convincendo «la rivoluzio-
              ne [a] percorre[re] adesso, con passo di gambero, questo cammino all’indietro» (79-80).
              «All’indietro» non, ovviamente, verso un passato premoderno – sebbene su questo pun-
              to l’anziano maestro appaia ora, anche solo di passaggio, meno tranchant che in ogni oc-
              casione precedente10; ma indietro verso l’origine stessa: l’«Antico del Moderno», come
              si è detto, e la sua «tradizione»:

                   Che cos’è l’Antico del Moderno? [...] è anche lo spazio e il tempo e l’insieme dei pezzi di
                   mondo che sono stati sottratti al dominio assoluto del capitalismo: terre liberate e umanità
                   redenta, nelle lotte, nell’organizzazione, nella cooperazione tra i lavoratori, nella solidarietà
                   tra sfruttati, nella coscienza di essere soggetto collettivo, masse attive, portatrici di un’altra
                   idea della vita [77-78].

              tutto quello che c’è dietro, perché evidentemente c’è qualcosa oggi che spiega il capitale, e che è appunto la
              classe operaia» (Tronti, la rivoluzione copernicana, in L’operaismo degli anni Sessanta, a cura di G. Trotta e F.
              Milana, Derive Approdi, Roma 2008, pp. 290-291). Simile sconfessione dell’assunto-base dell’«operaismo»,
              lascia inevitabilmente agli eredi di quest’ultimo il problematico ruolo di zelatori – e non tra i meno ferventi –
              dello stato di cose esistente.
              10 Là dove afferma per esempio che «forse avevano ragione i populisti russi, pensando il passaggio dal mir,

              la comunità contadina, al comunismo [...] senza il transito per il capitalismo, ma facendo direttamente il salto
              [...] La ragione populista: se noi passiamo attraverso il capitalismo, non ne usciamo più; perché non si fuori-
              esce dal capitalismo» (ABC, «Bolscevichi»). Anche della «vecchia merda» notoriamente esorcizzata da Marx,
              quella peraltro «in cui sono vissuti e sono morti i nostri nonni e bisnonni», Tronti può dire di passaggio che
              «nei momenti più disperati della giornata – posso assicurare, ce ne sono – la nostalgia per quella vita, addi-
              rittura per quella morte, lasciateci almeno che ci accompagni e consoli» (Dello spirito libero, 306). Si tratta,
              come si vede, di una situazione-limite del pensiero, anzi ulteriore a questo limite; ma che può aiutare a meglio
              sintonizzarsi sulla sua Stimmung di fondo.

                                                                      280

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Mario Tronti. Dello spirito libero

                   Si deve sapere, e si deve dire, che di una storia interrotta si tratta, anzi di una storia scon-
                   fitta. Ma proprio per questo, su queste macerie, «è decisione politica quella di contrap-
                   porre alla distruzione creatrice dell’innovazione [capitalistica] la creativa costruzione
                   della tradizione. È operazione rivoluzionaria oggi curare che l’Antico del Moderno con-
                   servi vita postuma tra i contemporanei» (77). Anzi,

                        il lascito che si riconosce nel fallimento di tutti i moti rivoluzionari del secolo passato, da
                        quello di generazione a quello di genere, dalla rivolta giovanile alla rivoluzione femminile, è la
                        necessità di mantenere nell’atto di rottura con il passato il rapporto con la tradizione. La tra-
                        dizione non è il passato, ma è quello che del passato resta nelle nostre mani come irriducibile
                        al presente [Ibid.].

                   Così nella prospettiva lunga. Messa all’ordine del giorno, invece, la critica del Moderno as-
                   sume il compito di una critica della democrazia politica, conservando però le stesse movenze
                   concettuali: il soggetto versus i processi, l’origine versus il compimento, il principio versus
                   l’applicazione storica. In tal senso, «il comunismo ha [...] il compito politico, dentro la cri-
                   tica del Moderno, di sottrarre l’idea di libertà all’orizzonte borghese, lasciando al capitali-
                   smo la sua democrazia» (54). «Non è la solita critica delle libertà formali», precisa l’autore:

                        No. La libertà economica è libertà reale. La libertà politica lo è altrettanto. Ma il contesto
                        delle determinatezze in cui si esercitano è tale, e così sistemicamente potente, da abbattere
                        qualsiasi realtà di vita e di coscienza [...] Abbiamo a che fare con un apparato di apparenze,
                        individualizzato e totalizzante, quale nessun regime di convivenza umana, né politicamente
                        totalitario né religiosamente teocratico, ha mai messo in campo. Questa è la quaestio decisiva
                        per ogni discorso nel presente sulla libertà: scandalo per i capitalisti, follia per i socialisti [42].

                   «La critica della democrazia è un atto di libertà» (188), perché

                        la libertà non è quella che ci è data, ma quella autonomamente scelta; non è quella iscritta
                        nelle leggi, ma quella maturata nella coscienza; il «non credere di avere diritti» è la premessa
                        del genuino essere liberi; la libertà di pensiero è un falso senza un vero pensiero della libertà.
                        Le istituzioni giuridiche che garantiscono le libertà vanno tutte messe in valore, ma l’apparato
                        ideologico democratico-progressista dei diritti umani che giustifica la libertà va tutto messo
                        sotto critica. Le libertà hanno un valore di strumento, diciamo pure qui da noi raggiunto, la
                        libertà ha un valore di scopo, di là da venire [56].

                   Invero, su questo punto – il cuneo da introdursi al centro del composto liberal-demo-
                   cratico –, lo Spirito libero è in continuità diretta con le «Tesi su Benjamin» che si leggo-
                   no in chiusa della Politica al tramonto, così che il libro più recente può intendersi per
                   questo rispetto come l’esecuzione del programma là enunciato. Tornano qui alcune del-
                   le acquisizioni teoriche in quella sede messe a fuoco, in particolare la valenza spoliti-
                   cizzante dei sistemi democratici, sempre più società democratica (come naturalità de-
                   gli «spiriti animali») e sempre meno Stato (come artificialità dell’obbligazione politica),
                   o meglio: sempre crescente appiattimento dello Stato sulla società, quasi una «pratica
                   estinzione dello Stato» sottratta all’utopia comunista (187), con conseguente crisi di au-
                   tonomia e autorità di quella politica che, sola, potrebbe forzare la storia in direzione di
                   un di più di libertà.

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Fabio Milana

                  Non mancano tuttavia, anche su questo terreno, sviluppi meritevoli di attenzione.
              Ad esempio la circostanza per cui, come non è «democratico», così non è «socialista» il
              posizionamento teorico di questa critica della democrazia stessa. Ambedue, socialismo
              reale e democrazia reale sono stati e sono esattamente ciò che dovevano essere; e se l’u-
              no ha affossato precocemente la rivoluzione, l’altra – la democrazia, non il capitale – ha
              sconfitto nel lungo periodo il movimento operaio. La critica prenderà allora le mosse dai
              due poli che nell’atlante del pensiero politico occupano le estremità opposte, liberalismo
              e comunismo: che al contrario degli altri due «hanno avuto lo stesso destino, di vedere le
              idee di fondazione rovesciarsi nel loro contrario». Ma erano in ambo i casi idee di liber-
              tà, ed è per ciò che questi «restano due orizzonti teoricamente compatibili» (191) (cul-
              tura operaia e aristocrazia intellettuale, avevamo visto altrove).
                  Ma è soprattutto notevole la tesi – più volte affiorante negli scritti degli ultimi anni, non
              mai esposta con altrettanta vis polemica però – del ruolo distorcente giocato nei sistemi
              democratici dal meccanismo del consenso. Nessuna ubbia da materialista storico impedi-
              sce a Tronti di individuare nei «livelli di coscienza, o di incoscienza» prodotti dai «rapporti
              reali, sociali e politici» il terreno di scontro oggi decisivo, il punto in cui «il sovvertimento
              va lucidamente introdotto» (56); e come, in altri tempi, con scarto spiazzante aveva giudi-
              cato prioritario porsi a emendare il deficit di teoria politica ravvisato nell’analisi marxiana
              del sistema capitalistico, così non si perita adesso di sollevare al livello «ideologico» – quel-
              lo del «senso comune di massa» – il baricentro della sua agitazione di pensiero11. Infatti,

                   chi è oggi il tiranno? [...] La tirannia oggi viene esercitata non da chi gestisce il potere, ma da
                   chi lo concede. Il tiranno apparente, il governante, deve identificarsi con la tirannia reale, che
                   è l’opinione. La democrazia non è altro che un potente, il più potente, meccanismo identitario.
                   Niente e nessuno, più della democrazia, è nemico della differenza. Non c’è organicismo più
                   totale del potere democratico. L’opinione maggioritaria è il senso comune di massa, compor-
                   tamenti e pensieri omogeneizzati. Chi vuole conquistare l’opinione deve farsi opinione. Il con-
                   senso non è qualcosa che dal basso si dà a chi sta in alto. È il contrario. Chi aspira al governo
                   deve consentire a un’opinione maggioritaria già formata. È la società civile che comanda sullo
                   Stato, allo stesso modo in cui l’economia comanda sulla politica [92].

              Non ammette, questo «totalitarismo democratico» (206), alternative a se stesso né ad
              extra né ad intra. Ma proprio per ciò, a emblema del «mondo libero» si erge la «servi-
              tù volontaria»:

                   Viviamo sotto la dittatura della maggioranza. Il potere dell’opinione è più potente del potere
                   delle armi. Non uccide i corpi ma rende stupidi i cervelli. L’assolutismo dell’opinione mag-
                   gioritaria è un’arma di distruzione di massa. La posseggono solo le democrazie occidentali e
                   vogliono esportarla in tutto il mondo. Lo faranno. E allora tutti saranno convinti di vivere nel
                   migliore dei mondi borghesi possibili [230].

              L’enfasi posta sui «livelli di coscienza, o di incoscienza» ha di mira il bersaglio autenti-
              co della riflessione, il «buco antropologico» (61) del marxismo e di tutta la cultura po-
              litica del movimento operaio. L’alternativa, la lotta quotidiana, è tra gli «ultimi uomini»

              11   Cfr. anche PCP 121 e ss.

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Mario Tronti. Dello spirito libero

                   dei sistemi democratici, paghi finalmente di se stessi e del loro mondo, retrocessi quin-
                   di allo stato di natura – e lo «spirito libero» (10), col suo alleato d’elezione: l’homo reli-
                   giosus, che tenacemente tendono ad altro12. Ma per approssimare questo tema abbiamo
                   bisogno di un transito, in parte una deviazione, per i territori della «teologia politica».

                                                          Noch eine politische Theologie

                   Qui alcune iniziali distinctiones potranno tornare utili. È ad esempio solo limitrofa a
                   questa nostra, sebbene con tangenze che si faranno man mano più chiare, la zona che
                   Tronti ascrive alla rubrica «politica e spiritualità». Quivi peraltro introduce egli stesso
                   delimitazioni che possono avere per noi un valore di orientamento generale. Espunge
                   ad esempio dal giro della sua riflessione il tema «politica e religione», tanto nella figu-
                   ra dell’instrumentum regni (la cosiddetta «teoria “politica” della religione», di conio già
                   medievale e protolibertino), quanto in quella dell’instrumentum belli, di tradizione po-
                   polare ed escatologica; respinge soprattutto quella confusione tra le due sfere da cui ori-
                   gina ogni fondamentalismo (222), rifiutato anzi come «il male in sé» (223). Non ignora
                   e non disconosce, Tronti, che il comunismo «in fondo era questo, una religione terre-
                   na» (54: ma, appunto, terrena), e precisamente «[la] religione politica per gli oppressi
                   del pianeta» (78); ma riconosce, retrospettivamente, che proprio alla «teologia politica»
                   spettava il compito di «riempire di realismo politico operaio quella religione messianica
                   secolarizzata che era il comunismo dei proletari» (280).
                       Questo nesso tra «realismo politico» e «teologia politica» è in effetti illuminante.
                   Chiarisce infatti già in limine che col secondo dei due sintagmi non si intende un qual-
                   che ramo della teologia (generalmente ignoto al più dei teologi infatti, e «potato» del
                   resto molto precocemente da Erik Peterson13), sì piuttosto un particolare orientamento
                   del pensiero politico. Anche ciò che da qualche decennio va sotto il nome di «nuova te-
                   ologia politica» (J.B. Metz), con significative propaggini nelle teologie «della speranza»
                   (J. Moltmann) e «della liberazione» (G. Gutiérrez et al.), cioè in sostanza un’opera di re-
                   visione della teologia fondamentale sulla base di un inedito primato della ragion pratica,
                   la cui «idea regolativa» fungerebbe da «riserva escatologica» nei confronti di qualunque
                   assetto di potere mondano – se per qualche tratto gli scorre parallelo, resta sostanzial-

                   12   «L’agire politico, trasformativo, non può ora che pensarsi e praticarsi in sintonia, in alleanza, con forme,
                   libere, di sensibilità religiosa. La dimensione laicista, la secolarizzazione dei comportamenti alternativi, è or-
                   mai tutta catturata dentro l’orizzonte invalicabile del presente. L’oltre della sinistra è l’oltre di questo mondo»
                   (PCP 147). O negativamente, in questo Spirito libero: «Io non so se [...] il comunismo sia addirittura un’eresia
                   del cristianesimo. So con certezza che la contrapposizione tra questi due orizzonti grandemente umani è stata
                   una sciagura per la modernità, che l’attuale sempre più degradante disagio di civiltà ci mette quotidianamente
                   sotto gli occhi. Mi convince [...] la tesi forte di Luigi Pareyson, secondo cui bisognava scegliere diversamente,
                   sin dall’inizio, tra Feuerbach e Kierkegaard. Aver scelto, con Marx, il primo invece che il secondo, è stata una
                   sventura. Incalcolabili, a oggi, anche per la più sfrenata delle immaginazioni, le conseguenze» (151).
                   13 Sulla disputa, chiarificante la messa a punto recente di G. Ruggieri, Il dibattito sulla teologia politica,

                   prima e dopo Peterson, in Costantino I. Enciclopedia costantiniana sulla figura e l’immagine dell’imperatore del
                   cosiddetto Editto di Milano, a cura di A. Melloni et al., Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2013, vol. III,
                   pp. 407-415.

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Fabio Milana

              mente periferico al presente discorso. Non che Tronti non utilizzi categorie teologiche,
              beninteso, o altrove di storia della spiritualità (cristiana, di norma); e che non lo faccia
              in modi generalmente appropriati. Solo che anche in questi casi, il suo intento resta emi-
              nentemente, se non esclusivamente, un intento politico14.
                   Tanto valeva la pena di precisare, se non altro a disperdere i fumi d’incenso da cui
              tanti lettori, e perfino qualche amico stretto, restano disorientati di fronte al pensiero
              appunto politico di Mario Tronti. E solo a questo punto si potrà ripetere senza tema di
              equivoco ciò che pure è ovvio, ossia che la «teologia politica» qui in questione è la con-
              cezione che procede dalla sentenza di Carl Schmitt, nel saggio eponimo del 1922, secon-
              do cui «tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti
              teologici secolarizzati». Anche questa ovvietà andrà circoscritta; ma basti qui precisare
              che quella «secolarizzazione di concetti teologici» concerne il sorgere dello Stato qua-
              le il soggetto per eccellenza della politica moderna; e contempla questo «sorgere» non
              tanto nel suo processo genetico, quanto nella sua sistemazione teorica originaria, come
              depositatasi in una dottrina dello Stato caratterizzata, secondo Schmitt, dalla «analogia
              strutturale» tra concetti teologici e concetti giuridici (o almeno i «più pregnanti» di que-
              sti). Le «analogie» reperite da Schmitt, notoriamente, corrono tra i concetti di onnipo-
              tenza divina e di onnipotenza del moderno Legislatore, così come tra quelli di miraco-
              lo e di «stato d’eccezione»; e autorizzano l’affermazione inaugurale e fondamentale del
              saggio citato, che recita come si sa: «sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione». Muo-
              ve di qui l’orientamento di pensiero appunto politico a cui si è accennato, e che su que-
              sto sfondo teologico-giuridico assume il nome di decisionismo.
                   Che il leninismo di Tronti abbia a un certo punto incrociato la traiettoria di Schmitt
              ci appare, a distanza, abbastanza pacifico. Nozioni come quella, antieconomicista, del-
              l’«autonomia del politico» o l’altra, antistoricista, del «salto» rivoluzionario, lo predispo-
              nevano a questo appuntamento teorico. Retrospettivamente si può aggiungere che, a faci-
              litarlo, interveniva anche la circostanza per cui entrambi i pensatori, dello Stato moderno
              come del movimento operaio, si collocavano al tramonto dei rispettivi referenti storico-po-
              litici, ed entrambi nel «disperato» tentativo di «trattenerne» il declino, di fronte al prepo-
              tere di una deriva «spoliticizzante» radicata nei processi tecnico-economici (democratici).
              Al presente, poi, è il concomitante giungere a consumazione di entrambi, progetto moder-
              no e «sogno di una cosa», ciò che conferisce al pensiero dell’ultimo Tronti il suo specifico
              pathos; e lascia percepire alle spalle la dignità, l’altezza umana di quella tensione alla «so-
              vranità» dell’uomo su se stesso e sul mondo. «Teologia» adombra, in Tronti, anzitutto la
              grandiosità di quel tentativo; e in secondo luogo l’intensità con cui, in determinate circo-
              stanze, esso è stato perseguito (l’enthusiasmòs, come egli dice, consapevole del significa-
              to storico-religioso del termine), quasi accogliendo e convogliando sul terreno della storia
              profana la somma delle energie tradizionalmente investite in direzione del trascendente15 –
              e non già per «secolarizzare» queste, semmai per «sacralizzare» quella storia:

              14   Così proponiamo di leggere in questa sede, anche per rispetto della scelta dell’autore di «predicare per
              parabole» (50); ciò evidentemente senza pregiudizio per dimensioni ulteriori, o anche solo per un tipo di
              lettura del simbolico cristiano che si può non condividere, ma non si può ritenere semplicemente arbitrario.
              15 Così in PD 6: «Fu la politica, nella modernità, la vera legittima erede della filosofia cristiana della storia:

              tutta la politica, il realismo come il messianismo, tattica ed escatologia, utopismo e pragmatismo. E perché

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Mario Tronti. Dello spirito libero

                        La storia umana si è autonomizzata, ma finché è stata umana, tracce del sacro sono rimaste
                        identificabili in essa. E più saliva d’intensità il tentativo di diventare altro, di essere differenti
                        da prima, più il sacro faceva sentire il suo grido nel secolo [36].

                   Così leggiamo a proposito del Novecento operaio. Solo in questo slancio ad autotrascen-
                   dersi, in questo «assalto al cielo», l’esistenza individuale e collettiva si fa autenticamen-
                   te umana, e contestualmente politica: giacché, per Tronti, «vivere vuol dire lottare per
                   cambiare la vita» (NM 58).
                        «Intensità» è in Schmitt quella proprietà delle associazioni e delle dissociazioni umane
                   la cui misura verifica (o meno), in una situazione data, il «criterio del politico»: la coppia
                   categoriale «amico-nemico», com’è notissimo. «Politici» sono cioè (solo) quei fenomeni a
                   cui può applicarsi questa contrapposizione, e in modo vieppiù pertinente quanto più cre-
                   sca appunto la sua intensità; senza «ascesa agli estremi» però, sebbene pur sempre nell’o-
                   rizzonte ultimo di una concreta «possibilità esistenziale» in tal senso. Poiché il «politico»
                   di cui si parla qui precede ed eccede lo Stato moderno nello spazio e nel tempo, è anzi es-
                   senzialmente intemporale, come pertinente ad una attività originariamente umana distinta
                   da ogni altra – quel suo «criterio» è indeducibile, e si sottrae a qualsiasi dispositivo «ana-
                   logico»: non ha dunque, di per sé, carattere teologico-politico16. Lo acquisisce semmai di
                   riflesso nel Moderno, all’interno di quella «conversione storica unica [che] è il passaggio
                   dalla teologia del XVI secolo alla metafisica del XVII [...] [nella] vera e propria età eroica del
                   razionalismo occidentale». Di passaggio si potrà osservare, sulla base del principio genera-
                   le di una «sociologia dei concetti giuridici» quale Schmitt la pratica (principio secondo cui
                   «il quadro metafisico che una determinata epoca si costruisce del mondo ha la stessa strut-
                   tura di ciò che si presenta a prima vista come la forma della sua organizzazione politica»17),
                   che una analogia di proporzione propria tra teologia e diritto sussiste solo nella cornice di
                   quella «conversione storica unica» che sta appunto alle origini della moderna dottrina del-
                   lo Stato, vigendo per le epoche successive, coi rispettivi «quadri metafisici» come Schmitt
                   li sgrana (morale-umanitario, estetico, economico, tecnico), al più un riferimento impro-
                   prio, o metaforico, al prius «teologico»; anzi, l’avvicendarsi di quelle epoche è descritto
                   come processo di successive «neutralizzazioni» del conflitto, e perciò progressive «spoliti-
                   cizzazioni», reali o presunte, nel segno di un crescente dominio della tecnica che configu-
                   rerebbe, esso sì, una vera e propria, finale, «immanentizzazione» della storia umana. (Non
                   devono ingannare in tal senso dibattiti, per altro verso pregnanti, come quello recente sul
                   «culto del capitale», ricadendo essi nel diverso ambito della sociologia religiosa18.) Se, in
                   un «quadro metafisico» come quello della tarda modernità, Schmitt può riattingere la po-

                   altrimenti le categorie del politico avrebbero dovuto essere – come sono state – concetti teologici secolariz-
                   zati?». Questo approccio di tipo storico-genetico alla «teologia politica», sia pure solo accennato, può dirsi
                   opposto a quello giuridico-tipologico adottato da Schmitt.
                   16 «La connessione delle teorie politiche con i dogmi teologici del peccato» su cui Schmitt si sofferma nelle

                   sue Categorie del «politico» (a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, pp. 149-150) può essere
                   valutata in molti modi, ma in nessun caso interpretata come esempio di «analogia strutturale».
                   17 I due passaggi ivi, pp. 69 e 170 rispettivamente.
                   18 Cfr. Il capitalismo divino. Colloquio su denaro, consumo, arte e distruzione, a cura di M. Jongen, Mimesis,

                   Milano 2011, e Il culto del capitale. Walter Benjamin: capitalismo e religione, a cura di D. Gentili, M. Ponzi, E.
                   Stimilli, Quodlibet, Macerata 2014.

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Fabio Milana

              tenza del paradigma teologico-politico originario, ciò si verifica grazie alla mediazione re-
              cente dei pensatori cattolici della controrivoluzione, e quindi, un poco per paradosso, di
              una corrusca tradizione di pensiero antimoderno. In quest’ultimo Tronti, al contrario, è
              l’idea che il movimento operaio sia stato l’estremo, l’eroico erede dell’«Antico del Moder-
              no» nel «grande Novecento» a riattualizzare per altra via quello stesso paradigma. Ma ciò
              proprio perché il movimento operaio, come «parte» in lotta contro l’oppressione di classe,
              si è fatto nemico delle condizioni date, raccogliendo il testimone di una tensione di più lun-
              ga lena a «cambiare la vita» e «disordinare il mondo»: non senza «ascesa agli estremi», pe-
              raltro. «Divina» è, qui, esattamente la contraddizione: in quanto specifica del politico mo-
              derno, nell’«epoca del soggetto» (PD 7), e non certo alla stregua di una qualsiasi regolarità
              creaturale. Sicché non il Dio creatore, l’onnipotente legislatore del cosmo, fa qui da analo-
              gans; piuttosto, è «il nuovo Dio» (con inevitabile inflessione marcionita) che

                   spezza le Tavole davanti agli uomini idolatri e indica la via della liberazione dal vecchio uomo.
                   Non la Legge, ma lo Spirito, che soffia dove vuole, porterà il cambiamento di tutte le cose:
                   nuovi cieli e nuove terre. «Non conformatevi, ma trasformatevi»: da Paolo a noi, lo spirito
                   libero riapre i varchi divini che la storia umana richiude [238].

              Non perciò il bonum ordinis, ma il «disordine messianico» sta al fondo della «teolo-
              gia politica» trontiana, e per questo motivo essa si attribuisce legittimamente il titolo
              di teologia politica negativa19. Qui Tronti corregge Schmitt con Benjamin, e sulle orme
              di Benjamin (non senza la decisiva mediazione di Taubes), sembra anche lui procede-
              re «dal teologico al politico attraverso il messianico». Giacché «il messianico è lotta»
              (NM 35):

                   Ecco la missione, impossibile, del Cristo [...] Venne per insegnare agli uomini a portare la
                   croce con dignità, a essere liberi sotto la croce dell’esistenza, perché di qui passa, non l’accet-
                   tazione di una condizione, ma l’azione per il suo riscatto. La libertà dello spirito vince la morte
                   del corpo. Questo il significato, politico, della resurrezione [238].

              Analogatum, politico, di questo Cristo «politicamente» risorto, è lo spirito libero del ti-
              tolo: esso

                   non è un’entità metafisica, è forza, energia, è vita: accenna all’oltre, ma non è l’oltre [...] Come
                   la libertà riconosce il destino in quanto suo limite, però non invincibile, allo stesso modo lo
                   spirito libero, il Freigeist, nella sua illimitata capacità di pensiero/azione, vince la «morte per-
                   petua» a cui l’accettazione del mondo lo condanna [41].

              Si può pensare che un vitalismo previo, una sorta di energetismo categorico, giaccia al
              fondo del pensiero politico di Tronti; ma non su questo presupposto latente, dalle mol-
              te possibili ascendenze filosofiche (e dal tratto univocamente «modernista»), conviene
              soffermarsi; sì piuttosto sulla conseguenza per cui, così intesa, la vita trapassa da natura

              19   Per una riproposizione, invece, dei fondamentali di una teologia politica «positiva», si vedano i contributi
              degli amici e discepoli di Tronti raccolti sotto il nome collettivo di Epimeteo: ad es. Finis Europae. Una cata-
              strofe teologico-politica, Bibliopolis, Napoli 2007.

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Mario Tronti. Dello spirito libero

                   a storia: e precisamente storia di un continuo, necessario, ma non pacifico né automati-
                   co, bensì agonistico sforzo a trasfigurarsi. Questo agonismo, con le sue variazioni di in-
                   tensità (nel conflitto di libertà e destino, o di politica e storia, o come altrimenti si voglia
                   distribuire l’«inimicizia» di spirito soggettivo e oggettivo), è appunto la corrente messia-
                   nica interna alla storia e ad essa opposta, da che in quest’ultima si è data quella disconti-
                   nuità essenziale che è l’incarnazione del Verbo (o dicasi il suo antitipo: la nascita del sog-
                   getto moderno). Ciò, vale ripeterlo, a patto che il Dio che si incarna sia «il nuovo Dio»
                   in lotta con l’antico, che il suo messia sia quello venuto «a portare la spada», e che la sto-
                   ria sia intesa, benjaminianamente, come storia delle classi oppresse.
                       Non stupirà, per tutto ciò, che Tronti indichi in una «teologia della storia» l’esito
                   intensificato della «vecchia» teologia politica20. E neppure che proprio sul terreno del-
                   la storia, tra storia sacra e storia profana cioè, e intrinsecando l’una nell’altra, scatti nel
                   caso suo l’«analogia strutturale». Leggiamo dal «frammento» forse centrale del nostro
                   libro, non per nulla a titolo «Con alterna chiave»:

                        La corrispondenza analogica a questo punto non è più teorica, si fa storica. Capire il mio
                        Novecento [...] Nel mio secolo non c’è solo guerra e crisi e terrore e morte, c’è la rivoluzio-
                        ne, l’atto rivoluzionario, liberatorio, che nasce in un determinato punto, per realizzare «pre-
                        sto» la prospettiva di rovesciamento di una forma sociale-politica. Anche qui [il riferimento
                        è al cristianesimo primitivo come «ricostruito» da Ernst Bloch in Ateismo nel cristianesimo],
                        non il totalmente, astrattamente nuovo, ma l’inversione della potenza e dell’ordine prece-
                        dente: con il Magnificat, innalzare chi sta in basso, abbattere chi sta in alto. Il comunismo,
                        subito: che non ha detto, quando è caduto, «torno presto». [...] Ci sarà resurrezione per
                        la rivoluzione? Salvezza sarebbe questo. Ma esattamente qui c’è il «non ti salva» [da Paul
                        Celan], che oggi non è solo di tutti i vincitori, ma anche della gran parte dei vinti. L’analogia
                        va allora spostata dal basso dei dominati all’alto dei dominanti, dall’Avvento alla Quaresima,
                        che è attesa del crocefisso, ma anche del risorto. L’experimentum crucis novecentesco – que-
                        sto è l’evento, letteralmente detto – non è somigliante, è uguale, per civettare con i termini
                        teologici [omoiousia e omousia nel dibattito cristologico del V secolo, parimenti rievocato
                        da Bloch], con il meccanismo descritto dal Grande Inquisitore [Dostoevskij, naturalmente].
                        La realizzazione dell’atto rivoluzionario non è possibile qui e ora, se non si realizza, là, dap-
                        pertutto, domani. Il comunismo futuro ha bisogno di un socialismo presente. L’espansione
                        del socialismo deve passare per il socialismo in un paese solo. Va realizzato il passaggio
                        [281-282].

                   Il passo, divelto com’è qui da un contesto irto di riferimenti e intricato di suggestioni,
                   non è immediatamente perspicuo. Ma per l’essenziale ci basta: il dramma della Passio-
                   ne e Resurrezione, con i «misteri» connessi dell’Ascensione e del Ritorno, è convocato
                   a illuminare «l’experimentum crucis novecentesco»21. Scandalo per i credenti, follia per
                   i rivoluzionari! (Ma solo fin tanto che questi ultimi non accettino trattarsi solo di analo-

                   20  «Mi sembrano pensieri deboli oggi sia una teologia politica sia una filosofia politica: occorrerebbe forse
                   tornare a un pensiero che muova da una teologia della storia o da una filosofia della storia, i cui accenti nel mio
                   ragionamento sono evidenti»; così in M. Tronti, Crisi della ragione e critica della fede, in Laicità della ragione,
                   razionalità della fede? La lezione di Ratisbona e le repliche, a cura di L. Savarino, Claudiana, Torino 2008, p.
                   128.
                   21 Altrove, in questo stesso volume, l’autore è anche più «letterale»: «la follia del cristianesimo – la morte di

                                                                           287

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Fabio Milana

              gia; e i primi, proprio di analogia: quel dispositivo onto-teo-logico che, come tenacemen-
              te ripetuto da Erich Przywara, per ogni reperita somiglianza tra naturale e soprannatu-
              rale, rilancia tra loro «una dissomiglianza ogni volta più grande».) In Tronti, l’incrocio
              dei due lessici, anzi della doppia e alterna chiave, serve ad alzare la temperatura del pen-
              siero, e portarla a quel punto di fusione in cui esso potrebbe più intimamente aderire
              al movimento della storia, carpirne il significato riposto («io devo capire!»: 9), e virtual-
              mente incarnarsi. Teologia e politica, come teoria e pratica, o come strategia e tattica, in
              condizioni normali sono tra loro separate, per lui, e non di rado rovesciate; solo nello
              «stato d’eccezione» esse convergono per un momento, e la scintilla dell’attrito ha, per
              analogia naturalmente, un altro nome nobile: «La profezia è politica incarnata nella sto-
              ria. La parola e la visione profetica vivono, possono vivere, solo nel corpo dell’esistenza
              storica» (211; il corsivo è nostro). Stati d’eccezione, come detto:

                   Ma quella volta – «il 6 novembre è presto, l’8 novembre è tardi» – il messaggio arrivò a desti-
                   nazione. Anche in politica esiste il miracolo. [...] Dunque si può! Si può rovesciare il potere,
                   tra il basso e l’alto: quelli che stanno sopra, sotto; quelli che stanno sotto, sopra. [...] Con
                   quel messaggio, e con quel messaggero, si fece azione politica. Per la prima volta. Per questo
                   irresistibilmente vinse [300-301].

              «Secolo profetico per eccellenza, il Novecento; pensiero vissuto, esistenzialmente e poli-
              ticamente, e storia pensata, a grandi altezze» (219) lungo l’«eccezionale» trentennio del-
              la guerra civile europea. Quale dunque il suo «messaggio»? «Per la parte che mi riguar-
              da, la doppia profezia la direi così: che un mondo può essere abbattuto e che un altro
              mondo non può essere costruito» (Ibid.). Saremmo, siamo inchiodati a questa doppia
              negazione. Riprendendo l’analogia «storica» da dove l’avevamo interrotta:

                   L’inizio del I secolo e l’inizio del XX, in qualche misura si assomigliano. Il folgorante inizio,
                   messaggio messianico, prospettiva escatologica, «perché la vita si è manifestata», contro cui
                   una dura, tragica reazione – guerra, crisi, sterminio – per ritornare alla pace dei cento anni,
                   con un’operazione di innovazione restauratrice [...] Che cosa è mancato al messaggio? Lo so
                   che è scandalo solo pensarlo: è mancata la forma Chiesa, che, bisogna dire, è stata tentata, ma
                   non è riuscita. La Rivoluzione vuole l’Istituzione: per durare, non decenni, ma secoli. Questo
                   è Chiesa. L’evento liberatorio, che è sempre l’atto di un attimo – la presa del Palazzo d’inverno
                   – per essere conservato nel tempo, a quelli che verranno, ha bisogno che si dia una Forma. La
                   trasmutazione della forza in forma è politica che resta, e allora, solo allora, si fa storia, com-
                   plessiva, e cioè completa e non dimidiata [296].

              «Il “socialismo reale” – scrive Tronti – è stato questo: costruire una struttura politica,
              ideologica, istituzionale, molto simile al modello istituzione Chiesa, per gestire i tempi
              dell’attesa, questa attesa della rivoluzione mondiale» (282). Qualcosa non è andato per
              il verso giusto se, come leggiamo altrove, «l’errore è stato il socialismo sùbito» (24); e
              se, nella rincorsa dell’absolument moderne, gli operai «avevano i soviet più l’elettrifica-
              zione [...] ma non sapevano che fare della loro grigia esistenza socialista» (54); se infine

              Dio per la resurrezione dell’Uomo – si è ritrovata nella follia della rivoluzione novecentesca – l’abbattimento
              del dominio per la liberazione umana» (215).

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