Lutto in famiglia con minori e lutto nelle scuole: modalità di intervento per psicologi dell'emergenza

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Carla Pontara e Catia Civettini
Lutto in famiglia con minori e lutto nelle scuole:
modalità di intervento per psicologi dell’emergenza

        Riassunto   A seguito di morti improvvise per malattie, incidenti o suicidi, gli psicologi dell’e-
                    mergenza vengono spesso allertati dal 118 o dalle forze dell’ordine o dalla prote-
                    zione civile territoriale o dai dirigenti scolastici per portare sostegno ai familiari,
                    agli amici e ai compagni di scuola. Le associazioni di Psicologi per i Popoli del
                    Trentino, del Veneto e del Friuli Venezia Giulia in una giornata di studio hanno as-
                    sieme affrontato il tema del lutto in famiglia sia da un punto di vista teorico che
                    metodologico. Questo lavoro, nelle due parti in cui si compone, ne riporta i risultati
                    a cura delle autrici.

                    Parole chiave: suicidio, sostegno psicologico, rapporti con la famiglia e la scuola.

        Abstract    Following sudden deaths due to illness, accident or suicide, emergency psycholo-
                    gists are often alerted by the 118 or by the Police or by the territorial Civil Protec-
                    tion or by school managers to bring support to family members, friends and
                    schoolmates. In a study day, the associations of Psicologi per i Popoli of Trentino,
                    Veneto, and Friuli Venezia Giulia addressed together the issue of grief in the family
                    from both a theoretical and methodological point of view. This work in two parts
                    reports the results of that study day.

                    Key words: suicide psychological support, relationships with the family and the
                    school.

                    PARTE PRIMA. IL LUTTO IN FAMIGLIA E NELLA SCUOLA

                    Premessa

                         Descrivere il vissuto del lutto non è facile, perché si tratta di una reazione
                    complessa, individuale e di gruppo, di fronte a una perdita percepita come non
                    voluta, assurda eppure del tutto inevitabile.
                         Di lutto come processo parlano Lombardo et al. (2014, p. 107): “Il lutto è
                    un evento in grado di determinare nella persona cambiamenti permanenti, che
                    richiedono un processo di adattamento e di profonda ristrutturazione del
                    mondo interno. Questo processo, definito elaborazione del lutto, culmina per lo
                    più in una fase di riorganizzazione, ovvero di accettazione della nuova realtà e
                    di collocazione affettiva della persona deceduta in un luogo interno, meno do-
                    loroso e più utile a una riapertura dei contatti con il mondo esterno”.
                         I tre termini disponibili nella lingua inglese – bereavement, grief e mourning –
                    riassumono le diverse componenti che entrano in gioco nell’esperienza del lut-
                    to: a) la presenza di un evento-perdita b) le risonanze soggettive legate all’e-

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vento; c) le espressioni sociali in risposta alla perdita e al cordoglio, inclusi i ri-
tuali e i comportamenti che tutte le cultura e le religioni esprimono.
     Di fatto aiutare a elaborare la perdita significa prendere in carico gli aspetti
affettivo-relazionali insieme a quelli simbolici, operando là dove le ritualità socia-
li non sono in grado di permettere la trasformazione del cordoglio in lutto, ovve-
ro in perdita riconosciuta, linguisticamente simbolizzata e dunque rievocabile
nel passato dotato di senso (Testoni, 2015).
     Nel processo elaborativo del lutto sembra trovarsi una piena conferma della
dimensione relazionale e intersoggettiva presente nella natura umana. Nel lutto,
infatti, i legami davvero significativi e importanti della nostra vita possono solo
trasformarsi, ma mai finire nel nulla, nemmeno con la morte.
     L’esperienza del morire presenta l’ultimo compito evolutivo, difficile e inevi-
tabile, di ricerca e verifica di sé e delle relazioni costruite: un nuovo lasciare, per
ritrovarle dentro sé e negli altri.

Lutti reali e lutti simbolici

      Già Mahler (1972) ci indicava il significato evolutivo del lifelong mourning pro-
cess, pensando al dolore implicato nell’imparare a non avere più bisogno degli
altri. Si abbandona l’originaria simbiosi con la figura d’attaccamento attraverso
l’esercizio di morte che tutto il percorso esistenziale richiede; si diventa adulti
imparando ad abbandonare l’ambivalenza impotenza/onnipotenza, quindi accet-
tando la realtà del limite e della perdita. Da questo incessante lavoro psichico
deriva la capacità di elaborare le perdite quotidiane, costruendo l’autonomia nel-
la dialettica tra intimità e separazione e nella crescita relazionale.
      Di qui l’importanza, per le società, di vitalizzare e rendere fruibili – anche
dentro i mutamenti sociali e antropologici – i cosiddetti riti di passaggio, in cui
viene simbolizzata la perdita e non soltanto celebrata la meta.

Il processo di lutto fisiologico

      All’interno della teoria dell’attaccamento, Bowlby (1980) identifica quattro
fasi essenziali in cui si compie il processo del lutto rispetto al legame: 1) stordi-
mento e protesta, dissociazione e disorganizzazione; 2) intenso desiderio e ricer-
ca della persona perduta, attivazione del sistema di attaccamento; 3) disperazio-
ne e irrequietezza; 4) risoluzione e riorganizzazione – sul piano cognitivo e affet-
tivo – della relazione col defunto e ripresa di nuovi investimenti.
      Kubler Ross (1976) descrive il percorso del lutto anche in riferimento all’ela-
borazione possibile dopo una prognosi infausta, distinguendo alcune condizioni
emotivo-cognitive dominanti: shock-negazione, rabbia, disorganizzazione-
negoziazione, disperazione-depressione e infine accettazione-riorganizzazione.

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Strategie di adattamento nel lutto fisiologico

          Dall’attachment theory prende forma il task model di Worden (1982-91) rela-
    tivo all’elaborazione del lutto, in cui sono evidenziati essenzialmente quattro
    compiti: accettare la realtà della perdita, sostenere e attraversare il dolore del
    lutto, adattarsi a un ambiente (interno, mentale ed esterno) in cui manca il
    proprio caro e, infine, poter ricollocare emotivamente il defunto e andare avan-
    ti nella vita.
          Seguendo un approccio cognitivista, Rando (1993) delinea invece sei pas-
    saggi necessari (denominati “le 6 R del lutto”), lungo i quali le persone dolenti
    possono però spostarsi avanti e indietro: riconoscere la perdita; reagire alla
    separazione accettando il dolore del cordoglio; richiamare alla mente e
    “rivivere” il defunto e la relazione; rinunciare ai vecchi attaccamenti con il de-
    funto e al vecchio mondo di assunti legati alla sua presenza; riadattarsi a vivere
    nel nuovo mondo senza dimenticare il vecchio; reinvestire in se stessi e nelle
    relazioni.
          All’interno della cognitive stress theory, con Lazarus e Folkman (1984) il lut-
    to viene inteso come stressor, evento esistenziale che richiede all’individuo e-
    nergie talvolta superiori a quelle disponibili. Le strategie rilevanti per la risolu-
    zione del lutto sono raggruppate in due categorie: strategie orientate al pro-
    blema (adatte alle situazioni più facilmente modificabili) e strategie orientate
    alle emozioni, dove vengono modulate anche le dimensioni del confronto e
    dell’evitamento.
          Più recentemente, il modello integrativo di coping dual-process model
    (Stroebe e Schut, 1999; 2001) integra in una nuova sintesi le varie categorizza-
    zioni proposte: il cambiamento elaborativo avviene in un’oscillazione dinami-
    ca tra atteggiamenti di orientamento alla perdita e orientamento alla risoluzio-
    ne, in un complesso processo di regolazione tra confronto con la perdita ed
    evitamento. Tale modello teorico, sviluppato per la comprensione delle strate-
    gie di coping adattive e non, segna un superamento di precedenti letture se-
    condo fasi consecutive.

    Fattori che possono influenzare il processo di elaborazione del lutto

         Molti ricercatori di matrice clinica o sperimentale hanno contribuito a
    delineare le variabili che orientano l’elaborazione dell’evento di perdita, rag-
    gruppabili essenzialmente in tre categorie:

         1.      situazioni che hanno causato la perdita, come il tipo di morte;
         2.      tratti di personalità e aspetti psicologici (la specifica natura e il
                 particolare significato della perdita subita o della relazione inter-
                 rotta, il tipo di attaccamento, il ruolo del defunto nel sistema fami-
                 liare, le precedenti esperienze di perdite e di lutto, l’età e le circo-
                 stanze della morte);
         3.      fattori culturali e sociali, anche in relazione ai tipi di strutture so-

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             ciali che interpretano il lutto (tradizionali, moderne e post-moderne).
             La dimensione relazionale e comunicativa è in realtà l’autentico punto
             di forza sul quale fare leva per permettere a chi è in lutto di attraver-
             sarne il dolore, senza negare l’accaduto, ma imparando a mapparne i
             contorni.

Il lutto patologico

      La maggior parte della gente riesce ad affrontare in modo adeguato la perdi-
ta di un proprio caro e a raggiungere un buon adattamento; tuttavia, una piccola
ma significativa percentuale di persone in lutto va incontro a una sindrome ca-
ratterizzata da un prolungato distress psicologico correlato alla perdita, con una
significativa e persistente compromissione del funzionamento lavorativo e un
elevato rischio suicidario. Questa condizione, caratterizzata da disturbi psicolo-
gici e somatici, è stata definita “lutto complicato” o “disturbo da sofferenza pro-
lungata” (Lombardo et al., 2014).
      Già Parkes (1972) aveva individuato tre varianti patologiche del lutto nor-
male: il lutto inibito, il lutto ritardato e il lutto cronico. Più recentemente Horo-
witz (1997) indica il disturbo da lutto complicato all’interno della teoria post-
traumatica; in questa direzione, le ricerche della Prigerson e Jacobs (2001) defini-
scono meglio il disturbo da lutto traumatico.
      Nel DSM-5 e nell’ICD-11 è stata riconosciuta la possibilità di diagnosticare il
“disturbo da lutto persistente complicato” (PGD), quale nuova entità nosografi-
ca, che va distinto da altre reazioni psicopatologiche conseguenti a un importan-
te evento di perdita, come la depressione e il PTSD. Vengono inseriti sintomi ag-
giuntivi, quali la sofferenza cronica reattiva alla morte, oltre al disordine sociale o
dell’identità. Il particolare stress sintomatico deve persistere per almeno 6 mesi
consecutivi, indipendentemente da quando si verifichino in relazione alla perdi-
ta. La diagnosi di PGD non può quindi essere effettuata nei primi 6 mesi succes-
sivi alla perdita, finestra temporale necessaria per l’evoluzione naturale del lutto,
periodo in cui peraltro la sintomatologia esperita può sovrapporsi al PGD, per
intensità. Disporre oggi di criteri diagnostici di PDG significa dunque poter indi-
viduare soggetti a elevato rischio mediante procedure di assessment sempre più
valide e attendibili e rendere fruibili servizi di supporto psicologico dedicato
(Lombardo et al., 2014).

Il lutto in età evolutiva

     La morte di un familiare, specialmente di un genitore, è considerata l’evento
più traumatico che possa verificarsi nella vita di un bambino e di un adolescente,
ma, così come accade per gli adulti, è possibile anche per loro elaborare questa
dura prova in forma completa e sana.
     L’elaborazione della perdita dipende solo in parte dalla comprensione della
morte maturata dal bambino. La dimensione che assume più rilevanza è in realtà
quella affettiva, in quanto essere privati della relazione intima – impostata su

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scambi e aspettative attivi per lo più a livello inconscio – è ciò che determina
     per il bambino lo scompenso più importante. Il lutto infantile si lega dunque
     alle modalità di relazione affettiva che organizzano i passaggi chiave dello svi-
     luppo e modellano i processi di acquisizione del senso di sé. Perdere un genito-
     re è perdere quindi una relazione particolare con funzione strutturante.
           Il dolore psichico e il lutto dei bambini piccoli vanno inquadrati all’inter-
     no delle ansie prevalenti: l’ansia di separazione (6 mesi – 2 anni) e la paura di
     perdere l’amore e l’approvazione del genitore (“sono stato cattivo e papà se ne
     è andato”, “la mamma non mi amava”).
           Il bambino allora avrà bisogno di imparare che: a) le cose brutte possono
     accadere anche quando ci comportiamo bene; b) le persone possono essere
     costrette a lasciarci anche quando ci amano.
           La consapevolezza di quanto è successo può essere acquisita in modo e-
     quilibrato, solo se accanto al bambino c’è una persona capace di accompagnare
     con affetto l’esame di realtà.

     Quali fattori influiscono in modo preminente sulle reazioni del bambino?

           La gravità del turbamento per la perdita può essere rappresentata lungo
     una scala di intensità che dipende dall’interazione tra le circostanze della mor-
     te e la condizione del bambino o dell’adolescente. A un estremo, il trauma è
     minimo o contenuto: quando, per esempio, la morte è l’esito di una lunga ma-
     lattia che ha permesso un’esperienza di lutto anticipatorio, di giungere cioè in
     modo graduale, seppure doloroso, alla necessità del distacco. All’estremo op-
     posto, la morte inaspettata e con aspetti violenti può trasformarsi in un’espe-
     rienza molto impattante. È stato comunque rilevato che il lutto anticipatorio è
     particolarmente doloroso e faticoso in età evolutiva, e dal modo in cui viene
     gestito può derivare il successo o il fallimento del lutto stesso. Un supporto
     appropriato è sempre necessario, per permettere al bambino o all’adolescente
     di modulare gli esiti cognitivi e affettivi di maggiore portata. Minimizzare o
     non vedere il loro dolore può favorire l’emergere di strategie compensatorie
     disfunzionali: come idealizzare la persona defunta, alla quale vengono attri-
     buiti poteri di onnipresenza e onnipotenza, o avere fantasie di riunificazione o
     sviluppare pensieri autocolpevolizzanti.
           Un primo gruppo di fattori influenza dunque l’elaborazione del lutto in
     età evolutiva: le modalità del decesso, l’età, il tipo di perdita, la presenza di
     difficoltà psicologiche preesistenti.
           Altre variabili interessano invece la dimensione relazionale: la capacità
     del genitore sopravvissuto di offrire supporto al figlio mettendo in atto un pa-
     renting positivo con una vicinanza intensa per calore e affettività; la qualità del-
     la vita familiare; la natura delle relazioni interne. Di certo la coesione familiare
     e la possibilità di riferirsi a esperienze condivise positive contribuiscono a raf-
     forzare la resilienza di tutti i componenti del nucleo familiare.
           La perdita in circostanze traumatiche comporta sempre effetti severi, evi-
     denti, per esempio, nel gioco postraumatico (drammatizzazione ludica dell’e-

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vento tragico) e nei ricordi ricorrenti di quanto accaduto, con incubi, disturbi
del sonno e episodi dissociativi, ai quali si correla il rischio del lutto complica-
to.
     La morte di un fratello è forse meno drammatica, ma per il figlio supersti-
te le difficoltà sono comunque enormi, perché a loro volta i genitori devono
fronteggiare una delle perdite più difficili. Si tratta di una circostanza che met-
te a dura prova i legami familiari, esponendo il bambino e l’adolescente a una
sofferenza estrema, perché coloro che dovrebbero aiutarlo sono colpiti dura-
mente dalla stessa esperienza.
     Sul vissuto del genitore nel lutto di un figlio incide certamente la prema-
turità della perdita, percepita come innaturale e incomprensibile. Con il vissu-
to di fallimento, imputato a mancanze o colpe assunte in prima persona, i ge-
nitori subiscono la crisi della natura protettiva della relazione con il figlio e
quindi il venire meno del senso di competenza genitoriale, facendo ricadere
involontariamente sul figlio superstite – proprio nel momento in cui ha più
bisogno di supporto – i propri sentimenti di inadeguatezza e incertezza. Que-
sto particolare dolore determina spesso una distorsione delle modalità relazio-
nali con il figlio superstite, oscillante tra la trascuratezza e l’iperprotezione,
con la svalutazione o la sopravvalutazione dei vissuti del figlio. Ma l’aspetto
forse più pericoloso è l’eccesso o la riduzione delle aspettative nei suoi con-
fronti, che derivano dal paragonare le sue doti e quelle del defunto.

Elaborazione del lutto infantile in famiglia

      Quando in famiglia avviene qualcosa di così traumatico come una morte è
impossibile nascondere la realtà o posticipare la sua comunicazione al bambi-
no, che coglie subito che sta succedendo qualcosa di grave dall’espressione del
volto dei genitori, dai cambiamenti nelle abitudini quotidiane della famiglia
(dal parlare a bassa voce o interrompersi in sua presenza) e dall’emotività ele-
vata che costantemente e inevitabilmente emerge.
      Gli effetti più disturbanti in queste situazioni sono dati dalla sensazione
di non capire e di essere escluso. Questo crea molta confusione e insicurezza
nel bambino, che tenterà di gestire la situazione attraverso delle personali in-
terpretazioni, ovviamente disfunzionali rispetto alla realtà.
      La notizia della morte dovrebbe essere comunicata dai genitori o dal geni-
tore sopravvissuto, il prima possibile. Nel comunicarla, è importante utilizzare
un linguaggio semplice e comprensibile per il bambino ed essere disponibili
anche a spiegare i fatti più volte; non è opportuno ricorrere a metafore o men-
zogne rispetto all’accaduto nel tentativo di rendere la comunicazione meno
dolorosa, poiché questo alimenta solo confusione e sfiducia. Bisogna anche fare
attenzione al linguaggio del corpo, che comunica molto di più delle parole
stesse.
      Il momento più delicato, che riguarda l’informazione relativa alla morte e
alle sue modalità, richiede una comunicazione attenta e onesta, sempre cali-
brata rispetto alla causa del decesso e capace di salvaguardare la persona dece-
duta, specialmente quando si tratti di morte violenta. L’adulto deve quindi

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comunicare al bambino che il genitore morto non starà mai più con lui e non tor-
     nerà; che però non aveva intenzione di lasciarlo solo. Inoltre dovrà rassicurare il
     bambino circa il fatto che quello che è accaduto non è colpa sua, e che non accadrà
     anche a lui o al genitore presente.
          È necessario dunque superare il giusto timore di danneggiare nella comunica-
     zione chi riceve la notizia e preparare la famiglia a una narrazione condivisa, per
     evitare confusioni o contraddizioni. La relazione dovrà poi svilupparsi con l’offerta
     di protezione e sicurezza, insieme alla normalizzazione della vita quotidiana.
          Il potenziale di resilienza nel bambino può dunque essere attivato se viene
     offerto un adeguato sostegno individualizzato, grazie al quale il minore possa e-
     sprimere liberamente i propri vissuti. È importante la disponibilità di adulti com-
     petenti, che sappiano mobilitare risorse interiori attraverso un rapporto empatico,
     e che siano in grado di reggere al dolore e di garantire un supporto costante e mo-
     dulato sui bisogni. Le domande più frequenti dei bambini riguardano il perché si
     muore, dove vanno le persone da morte, se torneranno, se loro possono andare a
     trovarle, se succederà anche a loro, perché è successo.
          È importante essere sinceri col bambino dicendo, per esempio, che tutti si
     fanno questo tipo di domande, ma che non esiste una risposta, ci sono cose nella
     vita che non si possono controllare e la morte è una di queste. A seconda delle con-
     vinzioni religiose della famiglia, si può dire che loro trovano risposta in quello che
     indica il loro credo. Soprattutto è importante specificare al bambino che niente di
     quello che ha potuto fare o pensare ha avuto un ruolo nella morte, né avrebbe po-
     tuto evitarla.
          Molti genitori si chiedono se sia giusto o meno far partecipare il bambino al
     funerale. Il funerale è un importante rituale per vivere la separazione, essendo un’-
     occasione per dire addio alla persona e per ricevere un riconoscimento sociale in
     questo momento della vita familiare. Di certo il bambino va preparato a questo
     evento, spiegandogli dove si terrà, cosa accadrà, che ci saranno molte persone ami-
     che e che piangeranno, e infine lasciare che sia lui a decidere se esserci o no, aiu-
     tandolo a capire il perché della sua decisione. Peraltro, mostrare ai bambini i senti-
     menti rispetto al lutto è importante, in quanto consente loro di imparare che que-
     sti hanno un inizio, una durata e una fine.
          Per favorire la separazione psicologica è utile infine sostenere il ricordo di
     eventi positivi che hanno legato il bambino e la persona scomparsa. In tal modo il
     bambino può costruire un senso di continuità tra passato e presente.

     I bambini e la morte

          I bambini sperimentano abbastanza presto la paura di morire, ma non li si
     educa a considerare questi sentimenti come “normali” e inevitabili, imparando a
     gestirli e a superarli crescendo. In realtà, per loro è più facile capire cos’è la morte e
     padroneggiare i sentimenti che essa suscita man mano che alla loro mente si pre-
     sentano le domande che l’esperienza della morte o della perdita pone loro. Attual-
     mente, le informazioni che l’ambiente mette a disposizione non sono però predi-
     sposte a guidare il bambino in un percorso su ciò che è meglio sapere per vivere
     senza temerla.

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     Le rappresentazioni della morte in età evolutiva

      La ricerca psicologica indica che le conoscenze relative a questo concetto
evolvono in complessità durante l’intero periodo della crescita, fino ad arrivare
a una definizione adulta nell’adolescenza, pur essendo già presenti fin dall’in-
fanzia come intuizione di tipo sincretico. Da queste ricerche apprendiamo co-
me dialogare con il bambino in modo consono al livello di sviluppo raggiunto.
      Il concetto di morte viene acquisito durante il percorso evolutivo nelle
sue componenti essenziali: irreversibilità, cessazione delle funzioni vitali, uni-
versalità, inevitabilità e causalità.
      Fino a 3 anni la morte è un evento reversibile e non universale, di cui il
bambino tende a non comprendere le cause; l’idea di morte si sviluppa attorno
ai 3 anni, conclusa la fase della creazione del legame di attaccamento.
      Da 3 a 5 anni la morte è rappresentata come una partenza temporanea, un
vivere altrove, nell’attesa di un ritorno.
      Tra i 4 e i 6 anni la morte è irreversibile e universale, ma la sua causa può
essere anche non naturale o non biologica (per es., una magia).
      Tra i 5 a 8 anni la morte è causata da aggressioni, a 8 anni da malattie.
      A 7 anni si prepara la consapevolezza della propria morte, come evento da
temere.
      Tra 6 e 9 anni la morte è un fatto irreversibile, naturale (cioè biologico) e
universale. Può essere personificata con figure orrende, esorcizzabili e vincibi-
li. A 8 anni si comprende che la morte è un punto di non ritorno, una separa-
zione irrimediabile.
      Tra i 9 e 12 anni la morte diventa evento finale e universale.

Le rappresentazioni della morte e il tema del suicidio in adolescenza

     Nell’adolescenza la rappresentazione della morte include tutte le compo-
nenti sopra menzionate, ma si aggiunge inoltre qualcosa di temibile: il consi-
derarla desiderabile, in quanto liberatoria o risolutiva rispetto a una situazione
di grave disagio. Alla percezione di sé incerta e ansiosa dell’adolescente si ag-
giungono importanti vissuti di perdita, non ancora ben integrati: è il periodo
in cui possono apparire le prime ideazioni suicidarie. In contesti di fragilità,
immaturità e paura si fa pervasivo un vissuto di impotenza, che può portare a
vedere la morte come eccitante polo di attrazione, che mette alla prova onni-
potenza e immortalità.

I sentimenti dei bambini e il supporto nei casi più impegnativi

     Quando subiscono un lutto, i bambini provano sentimenti molto intensi e
non progressivi; a differenza degli adulti, quindi, non seguono delle vere fasi.
Questo in relazione al livello cognitivo e alla “finestra di tolleranza emotiva”
più ridotta.

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Gli adulti chiedono come affrontare i sentimenti del bambino nell’espe-
     rienza della morte di un caro. Devono sapere che è importante lasciar esprime-
     re i sentimenti (come la rabbia verso il genitore morto) ma anche accoglierli e
     orientarli. Il bambino potrebbe sviluppare nuove paure ed è essenziale non
     sminuirle o ridicolizzarle.
           Più carico di dubbi è l’interrogativo su come informare i bambini quando
     la morte può implicare uno stigma sociale. È però importante dire loro la verità
     sulla morte, anche quando potrebbero vergognarsene, e al contempo rispettare
     il loro bisogno di essere protetti da informazioni troppo concrete e potenzial-
     mente dannose. Anche con i bambini più piccoli è indispensabile essere onesti
     riguardo alle circostanze della morte, per evitare sia l’effetto traumatico della
     scoperta sia il rischio che si sentano traditi quando capiscono che non è stata
     detta loro la verità. Un tale equilibrio è da costruire nel tempo, sia comunican-
     do una verità parziale che gradualmente diventa totale, sia tacendo al bambino
     la verità, in attesa che i suoi segnali di crescita e di cambiamento rendano pos-
     sibile la comunicazione di quote di verità.
           Nel caso del suicidio, che rappresenta un evento altamente destabilizzan-
     te per tutti i familiari, i bambini sono particolarmente colpiti dalla natura della
     perdita perché hanno difficoltà a comprendere il suo significato e il suo impat-
     to devastante in famiglia: all’iniziale senso di shock, segue ben presto la paura
     dello stigma e il senso di vergogna, di rabbia e di colpa. È importante prestare
     attenzione ai bambini più grandi, che, per proteggere i loro genitori, tendono a
     reprimere le loro emozioni.
           Con i bambini vittime del suicidio di un genitore, che percepiscono l’e-
     vento come un abbandono irrevocabile e si chiedono cosa abbiano fatto di ma-
     le, nella comunicazione al bambino è necessaria una grande capacità di acco-
     glienza, prima ancora di una duplice spiegazione, cioè che il genitore non era
     in grado di pensare e sentire in modo sano a causa di una malattia mentale e
     che ha commesso un errore per essersi danneggiato tanto da uccidersi.

     Il lutto infantile e la scuola: come aiutare il bambino a scuola dopo la per-
     dita di una persona cara

          Quando muore un genitore o un familiare di un bambino della classe, tale
     evento può avere un forte impatto emotivo su tutto il gruppo scolastico. Gli
     insegnanti hanno in questi casi un duplice compito: preparare i compagni ad
     accogliere il ragazzo al suo rientro in classe e supportare in maniera adeguata
     la persona in lutto. Molti insegnanti possono essere preoccupati e sentirsi insi-
     curi rispetto ai propri pensieri e alle iniziative da assumere e possono rivolgere
     allo psicologo scolastico una domanda di aiuto e orientamento, anche perché
     spesso sono anche loro colpiti profondamente dalla notizia della perdita. Lo
     psicologo esperto, oltre ad accogliere le reazioni degli insegnanti, metterà a
     disposizione alcuni elementi conoscitivi e proporrà indicazioni operative, di
     seguito riassunte:

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     1.      Conoscere le reazioni dei bambini alla morte di una persona cara. I
             bambini soffrono un po’ alla volta, possono provare diversi stati
             emotivi con particolare discontinuità, con notevoli differenze indi-
             viduali, e sentirsi colpevoli. Il dolore viene spesso manifestato in
             forma di rabbia, diretta verso le persone più prossime a loro, e at-
             traverso vari aspetti del comportamento.
     2.      Capire cosa fare con un bambino in lutto. Parlare con il bambino e
             con i familiari per condividere l’evento e pensare al suo rientro a
             scuola. Parlare poi con la classe di quanto è accaduto e incoraggiare
             gli alunni a parlare delle emozioni che provano e dei pensieri nella
             loro mente.
     3.      Se con la classe si prova a capire cosa sta accadendo al compagno in
             lutto, molti saranno in grado di supportare l’amico. Va quindi pen-
             sato con i ragazzi come essere d’aiuto al compagno al suo ritorno in
             classe, dopo la perdita.
     4.      In seguito è importante avere un atteggiamento flessibile, di sup-
             porto e di ascolto, come pure una sensibilità verso alcune ricorren-
             ze, ma insieme è importante riprendere le vecchie routine e mante-
             nere le regole quotidiane. Più i bambini possono prevedere cosa
             accadrà, anche con l’espressione dei sentimenti, più si sentiranno
             tranquilli e sicuri.
     5.      Non agire mai come se nulla fosse accaduto e non suggerire al bam-
             bino che “ha già sofferto abbastanza”.

      Quando un lutto arriva nella scuola, negli spazi di socializzazione secon-
daria, proprio in questi scenari sembra prevalere spesso l’imperativo del silen-
zio, e la normalità consiste nel fare come se niente fosse, di solito con la giusti-
ficazione di voler evitare che la persona sia risucchiata nella propria sofferen-
za. In realtà tale reazione è riconducibile alla diffusa carenza linguistica e com-
portamentale che attualmente caratterizza tutti gli aspetti che circondano il
morire (Testoni, 2015).
      Gli interventi in questi contesti non devono mai essere improvvisati, e
prevedono azioni integrate di sistema per garantire un autentico supporto co-
munitario. Lo psicologo può quindi lavorare in primo luogo sugli aspetti emo-
zionali e affettivi, percependoli in quanto risorsa e non come pericolo, e consi-
derare l’intera rete relazionale del minore, integrando l’azione della famiglia,
l’apporto della scuola e quello della comunità, stimolandola a valorizzare la
significazione del limite e la solidarietà. Il lavoro di uno psicologo a supporto
degli insegnanti in molti casi è decisivo e aiuta a mediare tra famiglia e scuola,
ovvero tra mondi culturali a volte molto distanti.

Educare alla perdita e alla morte per insegnare a vivere

     La scuola è ancora poco capace di considerare il bisogno di avvicinare
questi temi a causa della quasi totale mancanza di spazi di riflessione sul senso
della vita. Ciò inaridisce innanzitutto il rapporto con lo studio stesso e non

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aiuta a pensare al valore del tempo presente rispetto al passato e al futuro. Il
     patrimonio esperienziale degli alunni, che potrebbe essere accolto per soffer-
     marsi sulla significatività del dolore e sulla necessità di parlarne, viene sminui-
     to, come se la scuola dovesse restare, per chi la frequenta, uno spazio di finzio-
     ne, dove lo stare al mondo può essere solo rappresentato e mai realmente vis-
     suto (Testoni, 2015).
          Tuttavia, in alcune realtà educative centrate sulla persona e attente alla
     dimensione esistenziale degli alunni, trovano attualmente valorizzazione, an-
     che in Italia, alcuni percorsi che aprono alla tematica della morte per dare sen-
     so alla vita e insegnano a riconoscere e gestire difficoltà emozionali relative
     alla perdita in genere (death education/DeEd). Si parla quindi di educazione alla
     morte come elaborazione positiva del pensiero della morte, nell’ambito del
     processo di maturazione cognitivo-emotiva. È naturalmente importante coin-
     volgere anche la famiglia: se i genitori sono abituati a collaborare con gli inse-
     gnanti, risulta più semplice la progettazione di percorsi di DeEd che poi pos-
     sano essere dirottati sull’elaborazione del lutto, quando se ne presenti l’esigen-
     za.
          È possibile eliminare i sentimenti che accompagnano la morte
     “separando” la morte dalla vita (questa alternativa è quella preferita dalla no-
     stra cultura) oppure si può tentare di accoglierli e educarli, farli crescere, in
     modo da rendere vivibile la vita nonostante la morte.
          In base alla seconda scelta educativa, infatti:

              non si ha paura del fatto che i bambini pensino alla morte, perché la
                morte si può imparare a tenerla nella mente e le paure si possono
                gestire;
              si può cercare insieme ai bambini di pensare al “nulla” della morte,
                quando si perdono i propri cari, perché essa può trasformarsi in
                qualcosa di eterno e infinito e accrescere la dignità del vivere;
              si potranno aiutare i bambini ad apprezzare la vita anche quando
                essa è precaria o segnata dalla sofferenza, scoprendo insieme a loro
                il suo senso e quello della morte (Campione, 2012).

           Rispetto alla prospettiva scientista che vede la morte come annichilimen-
     to dell’umano, le tre religioni monoteistiche propongono un approccio alla
     morte e al lutto che si basa su una narrazione dell’eternità o dell’infinito. Ciò
     che rende l’uomo unico e irripetibile non è la sua biologia ma la sua storia e
     l’identità individuale: in questa prospettiva l’approccio educativo alla morte
     sarà di tipo narrativo, con attenzione alla componente soggettiva.
           Un’ulteriore possibilità è la proposta di educare il bambino alla morte
     anche come mistero: a non rinunciare quindi a desiderare il bene della vita no-
     nostante la necessità della morte.
           L’adulto che traccia e accompagna questi percorsi educativi deve non solo
     saper sostare accanto al dolore del bambino e accogliere personalmente il suo
     trauma, ma deve poter vivere e trasmettere una fiducia nelle infinite possibilità
     della vita anche di fronte al peggior dramma umano, deve poter recuperare
     dentro di sé il desiderio del bene (Campione, 2012).

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L’intervento di comunità e la resilienza

      Il sostegno sociale in caso di lutto è uno dei fattori di protezione più im-
portanti, come sottolineato da Walsh (2006) che evidenzia l’importanza della
capacità di affrontare le perdite in modo resiliente, trasformando le esperienze
più difficili in occasione di cambiamento positivo. Quando costruiscono resi-
lienza relazionale, le famiglie rinsaldano i legami e acquisiscono competenze
per affrontare le sfide future.
      Il lutto integrato è esito di due forme coordinate di reazione: la prima è la
reazione resiliente, con capacità di “assorbire il colpo”, di ripristino degli equi-
libri; la seconda riguarda la capacità di recupero. Il lutto integrato induce tra-
sformazioni rilevanti, soprattutto in presenza di prospettive esistenziali che
permettono di rappresentare la morte come passaggio anziché come annienta-
mento definitivo. Le indicazioni di Walsh si inseriscono nella corrente di studi
da cui è derivato il campo di indagine della crescita post-traumatica. Alcune
ricerche dimostrano che gli interventi volti a incrementare il sostegno sociale,
la speranza, la spiritualità e la significazione dell’evento fino alla sua accetta-
zione favoriscono tale processo di crescita. La capacità di gestire la comunica-
zione dei vissuti e delle esperienze, a partire dalla ricerca di senso di quanto
accade, è tra i fattori di protezione più importanti. Di qui peraltro l’importan-
za delle reti di sostegno offerte dai gruppi di auto/mutuo aiuto, che arrivano là
dove le relazioni familiari non sono di supporto e alimentano la cultura della
resilienza e della solidarietà.
      In conclusione va ricordato che l’idealizzazione di un tempo passato in
cui a farsi carico del dolore della perdita era la comunità, le appartenenze
“naturali” delle persone, può nascondere una difesa verso contenuti psichici
insopportabili; in modo analogo, dietro la delega talvolta automatica ai profes-
sionisti, agli esperti mobilizzati per i traumi e la morte, possono nascondersi
altre difese, come il rifiuto, lo spostamento o la reazione maniacale.
      Di certo le condizioni della contemporaneità rendono più arduo il soste-
gno sociale al lutto, ma il lavoro terapeutico e gli interventi psicosociali posso-
no aiutare a restituire al lutto la sua necessaria relazionalità, a riconnettere, a
favorire un dialogo vitale altrimenti evitato. “Vi è infatti una modalità non ma-
niacale di andare incontro alle perdite, ed è quella di imparare e aiutare ad a-
scoltare quello che esse hanno da insegnarci” (Andolfi e D’Elia, 2007, p. 64).
Questa è allora la sfida per i professionisti della salute psicologica: attrezzarsi
non solo di strumenti, ma anche di sensibilità per esercitare non un potere ma
un aiuto, per prendersi cura là dove la relazione, l’attenzione di cura possono
essere decisive.

                                                                                       Numero 20, 2019
PARTE SECONDA. SUGGERIMENTI OPERATIVI DAI GRUPPI DI LA-
     VORO

     Gruppo di lavoro scuola

     Analisi della domanda

           Con quale scuola stiamo interagendo? Primaria o secondaria? Dentro qua-
     li orizzonti culturali e sociali? Chi è scomparso/morto (genitore, bambino, a-
     dolescente, insegnante ecc.)? Di che tipo di morte dobbiamo occuparci? Quali
     sono le circostanze della morte? Quali sono gli scenari nelle relazioni familiari?
           Sulla base di queste variabili va costruito un intervento con caratteristi-
     che specifiche rivolto a interlocutori di volta in volta diversi. Nella considera-
     zione dei diversi elementi e della loro interazione va pensato un intervento
     multifocale, rivolto sia alle persone che alle comunità.

     Intervento di una squadra di psicologi dell’emergenza richiesto da dirigente scolastico di
     istituto superiore per presunto suicidio in caso di scomparsa di un alunno.

          La risposta si è così orientata:

          1.     Incontro con il dirigente scolastico per definire il primo intervento:
                 analisi domanda; breve panoramica dei progetti/servizi scolastici
                 già esistenti, per lavorare in continuità con gli stessi; eventuale
                 coinvolgimento degli operatori degli spazi d’ascolto-CIC (Centro
                 Informazione e Consulenza dell’istituto), ove esistenti.
          2.     Costituzione di un comitato di crisi per condividere da più punti di
                 vista l’intervento psicologico, composto da: dirigente scolastico,
                 insegnante referente per il CIC psicologo dell’emergenza e operato-
                 re CIC, se disponibile.
          3.     Redazione dei comunicati: comunicato rivolto agli studenti, comu-
                 nicato rivolto ai genitori della vittima e altri eventuali comunicati.
          4.     Incontro con gli insegnati della classe dell’alunno scomparso/
                 suicida (eventualmente anche con altri insegnanti che lo chiedesse-
                 ro): la partecipazione all’incontro è su base volontaria. L’incontro si
                 svolgerà secondo il modello del debriefing psicologico semplificato,
                 dando spazio ai fatti, ai pensieri e ai vissuti. Negli incontri effettua-
                 ti con gli insegnanti, i temi più frequenti sono stati: non essersi ac-
                 corti di quanto accadesse nella mente dello studente, non avere
                 fatto abbastanza, sentirsi in colpa per l’accaduto, essere preoccupa-
                 ti per altri studenti a rischio. È importante aiutare gli insegnanti a
                 riconoscere i segnali d’allarme (per es., un improvviso calo di rendi-
                 ta nello studio o nei compiti), a elaborare i vissuti personali e a ge-
                 stire la classe in queste circostanze.
          5.     Incontro con i genitori effettuato su base volontaria . È preferibile

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             la formula dei gruppi piccoli, per fare un debriefing psicologico an-
             che al fine di normalizzazione le reazioni post-lutto, in particolare
             la rabbia.
     6.      Comunicazioni agli studenti, da parte del dirigente e/o insegnante.
             È preferibile che la comunicazione sia fatta da un insegnante che ha
             una relazione significativa con gli studenti, in modo da poter dare
             spazio a un momento di elaborazione.
     7.      Incontro con i compagni di classe a scuola. L’opportunità di un in-
             contro con la classe da parte dello psicologo dell’emergenza deve
             essere valutata attentamente. È preferibile che sia la classe stessa a
             richiederlo.
     8.      Sportello di ascolto e contatto con i servizi pubblici. È consigliabile
             l’istituzione di uno sportello di ascolto, a meno che non ve ne sia
             uno già presente (per esempio il CIC). Valutare l’opportunità di
             coinvolgere/informare i servizi sanitari esterni.
     9.      Rito funebre. La scuola non va chiusa il giorno del funerale, ma va
             lasciata libera la partecipazione da parte di studenti e insegnanti.
     10.     Ritorno alla normalità. Il ripristino delle lezioni nella classe colpita
             è utile che avvenga in un tempo massimo di due tre giorni.
     11.     Cose da evitare: glorificazioni, drammatizzazioni, altarini e monu-
             menti. È meglio favorire piuttosto iniziative in ricordo del defunto
             che siano collegate con associazioni, fondazioni o servizi che si oc-
             cupano di salute mentale in adolescenza.
     12.     Restituzione finale al dirigente e con i coordinatori delle classi (e
             con il comitato di crisi, se nel frattempo è stato istituito), per lavo-
             rare sul monitoraggio.

Intervento presso la scuola primaria
     L’intervento si rivolge principalmente agli insegnanti e ai genitori. L’o-
biettivo è aiutarli a parlare dell’accaduto con i bambini, utilizzando le parole
giuste, senza negare o oscurare i fatti.

Gruppo di lavoro: comunicazione istituzionale e sociale

Comunicazione del decesso

     1.      Chi comunica: lo psicologo non comunica il decesso (funzionario
             pubblico-sanitario, rif. legge n. 150 07/06/2000). La comunicazione
             a un minore è preferibile sia fatta da un adulto con relazione signi-
             ficativa (per es., l’altro genitore, un fratello, un insegnante ecc.).
     2.      Presentare colui che comunica e, se richiesto, aiutarlo nella comu-
             nicazione: chi riceve la notizia deve anche solo abituarsi alla voce di
             chi darà la notizia. Perciò e necessario presentarsi, con nome e co-
             gnome e ruolo. Se richiesto, gli psicologi dell’emergenza possono

                                                                                        Numero 20, 2019
offrire un aiuto nella preparazione, suggerendo cosa dire e cosa non
                  dire.
          3.      A chi si comunica: identificare i primi destinatari del nostro inter-
                  vento di supporto, anche allontanando eventuali disturbatori
                  (proteggere il nucleo ristretto).
          4.      Come e dove si comunica: di persona (non telefonicamente alla per-
                  sone più direttamente colpite). Eventualmente identificare una
                  figura effettivamente vicina che può fare da tramite. Il luogo deve
                  essere riservato, con possibilità di sedersi attorno a un tavolo prov-
                  visto di bottiglie con acqua da bere e fazzoletti. In pronto soccorso
                  e nella camera mortuaria, non fare arrivare i genitori e i figli insieme
                  (i minori possono aggregarsi in un secondo tempo, dopo che gli
                  psicologi avranno supportato i genitori nella comunicazione).
          5.      Informazioni sul decesso: è opportuno raccogliere informazioni
                  sulla dinamica del fatto, sulle condizioni del corpo, su eventuali
                  impedimenti (sequestro-indagine), sull’eventuale richiesta e sulla
                  disponibilità alla donazione di organi. Attenersi ai fatti (essenziali
                  a descrizione dell’evento) aiuta lo psicologo ad aver dati da riporta-
                  re senza entrare nel merito di interpretazioni o di risposte che non
                  si hanno.
          6.      Supporto ai familiari: lo psicologo non è tenuto a raccogliere infor-
                  mazioni dalla famiglia, né a essere coinvolto nell’indagine. In dero-
                  ga a ciò, può farlo se e quando sia investito ufficialmente del ruolo
                  di ausiliario delle forze dell’ordine (per raccolta SIT). Gli psicologi
                  dell’emergenza possono relazionare sull’intervento impostato.
          7.      Indicazioni alla famiglia: contenere la lettura e la ricerca di infor-
                  mazioni in rete (non dare per scontato di essere inclusi nell’onda di
                  parole e immagini).
          8.      Utilizzo delle parole adeguate, come “morte” e “decesso”: vanno
                  evitate espressioni come “andato via” e altre parafrasi o metafore.
                  Utilizzare il silenzio di partecipazione.
          9.      Comunicazione con i mass media: si possono veicolare messaggi
                  sulla funzione dello psicologo in emergenza anche per aprire uno
                  spazio di riflessione sociale sul tema della morte, che può diventare
                  uno strumento di buona informazione. Lo psicologo non dà infor-
                  mazioni che spettano alle autorità.
          10.     Indicazioni sulle caratteristiche della comunicazione per coloro a
                  cui spetta darla, per esempio i dirigenti scolastici: lo psicologo col-
                  labora alla definizione dei contenuti e delle modalità da utilizzare.

     Gruppo di lavoro famiglia – rete sociale in caso di suicidio

     Analisi del contesto

          1.      Se si ha solo un’idea approssimativa della situazione, sarebbe il ca-
                  so di intervenire in più psicologi, perché in queste situazioni sareb-

20                          Rivista di Psicologia dell’Emergenza e dell’Assistenza Umanitaria
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             be meglio non innescare meccanismi psichici latenti che potrebbe-
             ro esplodere.
     2.      Bisogna sempre rispettare il punto di vista altrui, con un atteggia-
             mento da pari a pari, non saccente.
     3.      Quando l’adulto non parla, sappiamo che il bambino comunque si
             fa delle fantasie e si crea delle aspettative: il ruolo dello psicologo è
             quello di aiutare i genitori o collaborare, se richiesto, con loro nella
             comunicazione con il bambino.
     4.      Per far emergere i vissuti dei figli al momento dell’intervento è ne-
             cessario impostare un ascolto attivo ed empatico, senza forzature.
     5.      Qualora i parenti rimasti chiedessero di prendersi carico dei mino-
             ri, bisognerebbe farlo con tatto e senza forzature.

Contatto fisico con i familiari

     Uno sfioramento con la mano potrebbe essere accettabile, essendo anche
un modo per comunicare la propria presenza e assistenza, un contatto con la
realtà. Molta attenzione va posta in contesti culturali ed etnici diversi. È ne-
cessario comprendere prima il proprio limite per poi accedere a quello dell’al-
tro. Occorre rispettare gli spazi e le dinamiche familiari. Non è detto che tutte
le persone reagiscano allo stesso modo e abbiano la stessa apertura/chiusura
verso la presenza e la figura dello psicologo.

Partecipazione al funerale

     La partecipazione al funerale è una scelta personale del momento. Chiara-
mente, se c’è una richiesta esplicita della famiglia si può partecipare. In occa-
sione di un funerale pubblico, si va per dare il senso di comunità. Nel caso in
cui la partecipazione funerale è un desiderio personale dello psicologo, tale
desiderio va esplicitato, e occorre chiedere il permesso prima di assecondarlo.

Contatto con i servizi

      È sempre opportuno lasciare indicazioni utili ai fini di un eventuale ricor-
so ai servizi psicologici del territorio in caso di necessità. A questo scopo è
bene informare il servizio territoriale della possibilità di una richiesta di que-
sto tipo. Imperativo è fare rete col territorio, sempre e comunque, dato che
l’intervento degli psicologi dell’emergenza è a tempo determinato.

                                                                                         Numero 20, 2019
Suggerimenti allo psicologo dell’emergenza che interviene

          1.      Privilegiare l’ascolto.
          2.      Contenere e supportare, “fare nel non fare”.
          3.      Saper cogliere la risorsa più utile in una data situazione; potrebbe
                  trattarsi, per esempio, di un medico disposto a collaborare e a indi-
                  viduare le modalità di comunicazione più adeguate alla famiglia.
          4.      Chiedersi qual è il livello di emotività in gioco. Prepararsi a ricevere
                  eventuali insulti, a svolgere una “funzione spugna”, di contenimen-
                  to.
          5.      Nell’intervento di emergenza lo psicologo può sentirsi trasformato:
                  infatti, potrebbe attivare risorse che non immaginava di possedere
                  e, in questo modo, scopre di avere potenzialità impensate.
          6.      Il tempo, nel momento dell’intervento, è molto relativo. È impor-
                  tante saper capire quando è giunto il momento di dire “adesso devo
                  andare”. Quando si va a fare un intervento è bene non aver fretta.
          7.      Inibire l’impulso urgente di “dover fare” e “dover dire”.
          8.      Lo psicologo dell’emergenza non fa psicoterapia.
          9.      Ritagliare sempre per sé, durante un intervento, un “tempo di pro-
                  tezione”.
          10.     È importante fare un debriefing/defusing con il gruppo di apparte-
                  nenza così come una telefonata post-intervento ai propri referenti.
                  Il silenzio può diventare nocivo.
          11.     Il rientro a casa propria deve essere “morbido”.
          12.     Ricordare la forza del gruppo, dell’associazione e del supporto tra
                  colleghi.
          13.     Ricordare l’importanza della formazione, delle esercitazioni e dei
                  role playing.

     Carla Pontara e Catia Civettini, psicologhe psicoterapeute, Associazione Psicologi per i
     Popoli – Trentino.

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