LIBANO 1975-2020: LA GRANDE DELUSIONE - AMIN ELIAS | 25 NOVEMBRE 2020 - WWW.OASISCENTER.EU

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LIBANO 1975-2020:
LA GRANDE DELUSIONE
AMIN ELIAS | 25 NOVEMBRE 2020

                                Beirut: proteste contro il governo, febbraio 2020 [paul saad / Shutterstock]

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A partire dalla fine degli anni ’60, il Paese dei Cedri viene
investito dalle crisi che colpiscono il mondo arabo. La guerra
civile che ne scaturisce provoca lo smembramento del piccolo
Stato mediorientale, che cessa di essere un modello di
convivenza e sviluppo economico

  Se la posizione di crocevia tra i continenti del vecchio mondo ha garantito al Libano molti vantaggi
  economici, finanziari e politici, essa ha decretato anche la fine del suo sviluppo e di quel modello
  unico che il Paese dei Cedri aveva rappresentato per il mondo arabofono. Non a caso nel 1963 il
  Libano aveva ricevuto una delegazione da Singapore – uno dei Paesi che sarebbe diventato tra i più
  prosperi del pianeta – la cui missione principale era consistita nel carpire il segreto del successo sia
  del modello di coesistenza tra comunità religiose diverse sia di quello che alcuni osservatori avevano
  definito il “miracolo economico libanese”.

  L’inizio della catastrofe

  Il 5 giugno 1967 segna una svolta per i Paesi di lingua araba. La mattina di quel giorno, Israele lancia
  un’offensiva contro Egitto, Siria e Giordania. In cinque giorni, l’esercito israeliano riesce a occupare la
  penisola del Sinai, la Striscia di Gaza, le alture del Golan e la Cisgiordania, annettendo così
  Gerusalemme. Per la seconda volta in vent’anni, gli eserciti dei tre Stati arabi sono sconfitti. Per i Paesi
  di lingua araba, Libano compreso, le conseguenze sono disastrose. È in questo contesto che i vari
  partiti palestinesi raggiungono la consapevolezza di non poter più contare sugli eserciti arabi per
  liberare la Palestina.

  D’ora in poi, sarà la “resistenza palestinese” a raccogliere il testimone della lotta contro Israele per la
  liberazione di tutta la Palestina, dal “mare al fiume”. Questa resistenza si afferma gradualmente
  attraverso la presenza di un numero crescente di uomini e armi in Libano e Giordania. I campi
  palestinesi in questi due Paesi si militarizzeranno, tanto più che i leader della resistenza decidono di
  fare di Amman e poi di Beirut, la «Hanoi della rivoluzione palestinese».

  Trasformando il Libano meridionale in una rampa di lancio per i suoi attacchi contro Israele,
  la resistenza palestinese diventa rapidamente un attore centrale della scena politica libanese. I libanesi
  si dividono allora in due fronti: mentre la maggioranza dei musulmani e dei partiti di sinistra si unisce
  alla resistenza palestinese, riconoscendole il diritto di usare il territorio libanese per attaccare Israele,
  la maggioranza dei cristiani, pur simpatizzando per la causa palestinese, rifiuta la militarizzazione dei
  palestinesi che vivono in Libano, considerandola un attacco alla sovranità del Paese. I cristiani temono
  inoltre che gli attacchi palestinesi inducano Israele a prendere di mira i villaggi nel Sud del Libano e
  sospettano che i loro compatrioti musulmani vogliano approfittare della consistenza demografica
  palestinese e della sua forza militare per alterare a favore della componente islamica l’equilibrio del
  sistema politico libanese.

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Nonostante gli appelli alla ragione lanciati dall’allora presidente della Repubblica Charles Hélou, che è
cosciente dei pericoli insiti nell’insediamento di un esercito palestinese nel Paese e insiste sulla
necessità di non esporre il Libano meridionale alle brame israeliane, i musulmani libanesi si lasciano
prendere «dalla demagogia del momento, quella dei partiti di sinistra, [e] di un’opinione cosiddetta
islamica fomentata dalla denuncia sistematica dei “privilegi” maroniti»1.

Dopo due anni di combattimenti intermittenti tra l’esercito libanese e i movimenti della guerriglia
palestinese, gli accordi del Cairo del 1969, conclusi sotto il patrocinio di Nasser tra lo Stato libanese e
l’OLP presieduta da Yasser Arafat, finiscono per legalizzare la presenza armata dei palestinesi in Libano.
Ciò consente loro di stabilire un embrione di Stato all’interno dello Stato libanese2, situazione che si
consoliderà con la sconfitta politica definitiva del chehabismo alle elezioni presidenziali del 1970.
Sebbene il presidente eletto, Soleiman Frangié (1970-1976), tenti di attuare un programma di riforme,
il suo primo governo riuscirà solo ad indebolire i rappresentanti del chehabismo che lavoravano nelle
varie branche amministrative del Paese.

A livello regionale, una serie di eventi modificherà il panorama arabo. In primo luogo, l’ascesa delle
monarchie petrolifere, contemporaneamente islamiche e filo-occidentali, dovuta principalmente
all’indebolimento dell’asse dei Paesi “progressisti” capitanati dall’Egitto, sconfitti nel giugno 1967; poi
la morte di Nasser nel settembre 1970; l’ascesa di Hafez al-Asad come capo indiscusso della Siria, che
mira inoltre a succedere a Nasser nel ruolo di leader del “mondo arabo”; l’annientamento della
resistenza palestinese in Giordania nel settembre 1970 e nel luglio 1971 e la conseguente fuga delle
organizzazioni palestinesi dalla Giordania verso il Libano. Saranno questi stessi avvenimenti, nel loro
insieme, a contribuire alla destabilizzazione del Paese dei Cedri. Traumatizzata dal massacro del
“settembre nero” in Giordania, la resistenza palestinese porta avanti in Libano una politica di
riavvicinamento con i partiti di sinistra e con i leader locali (zu‘amā’) musulmani che ha l’obiettivo di
creare intorno a sé una rete che le eviti di essere di nuovo schiacciata. Questo ha l’effetto di acuire
ulteriormente i contrasti e la sfiducia reciproca già esistenti tra i libanesi. Tuttavia, questi ultimi
riescono a condurre una vita politica quasi normale fino all’ottobre 1973, data della guerra arabo-
israeliana.

Il 6 ottobre, infatti, con un’azione perfettamente coordinata, l’Egitto di Sadat e la Siria di al-Asad,
scatenano una guerra che sorprende Israele. Nei primi giorni i due eserciti arabi sembrano padroni dei
loro movimenti. L’esercito egiziano riesce ad attraversare il Canale di Suez, prendendo possesso della
sua sponda orientale e occupando la famosa linea Bar-Lev. Da parte sua, l’esercito siriano sfonda
l’intero apparato di sicurezza israeliano sulle alture del Golan, preparandosi a discenderle per
penetrare in Galilea. L’esercito israeliano riesce a riconquistare le proprie posizioni solo grazie al ponte
aereo degli americani, accorsi per salvare il loro alleato. In pochi giorni l’esercito israeliano ribalta la
situazione e rioccupa i territori liberati da egiziani e siriani durante i primi giorni di guerra. L’allora
Segretario di Stato americano, Henri Kissinger, si adopera nei mesi successivi per ottenere un accordo
di disimpegno delle truppe (gennaio 1974) tra Egitto e Siria da un lato e Israele dall’altro, poi di non
belligeranza tra Egitto e Israele il 1° settembre 1975.

1
    Georges Corm, Le Proche-Orient éclaté 1956-2010, Paris, Gallimard 2010, p. 295.
2
    Farīd al-Khāzin, Tafakkuk awsāl al-dawla fī Lubnān 1967-1976, Beirut, Dār al-Nahār 2002, p. 204.

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Questi accordi annunciano la fine delle guerre convenzionali tra gli eserciti arabi e l’esercito israeliano.
In altre parole, è vietato a chiunque attraversare i confini egiziano, siriano e giordano per liberare la
Palestina. Inoltre, gli accordi emarginano completamente la causa palestinese e il diritto dei
palestinesi a tornare nelle loro case e ad avere un proprio Stato. È ormai in Libano che si faranno
sentire le conseguenze della diplomazia di Kissinger. Questo piccolo Paese diventa per la resistenza
palestinese l’unico spazio dal quale è possibile combattere Israele. A partire da questo momento, la
resistenza aumenta i suoi attacchi contro lo Stato ebraico, rafforza i suoi campi con armi pesanti e vi
raduna i combattenti. Inoltre, distribuisce abbondantemente armi a tutti i partiti islamici e di sinistra
che la sostengono. Da parte loro, i partiti cristiani, in particolare quello delle Falangi, iniziano a
comprare armi e a moltiplicare i campi di addestramento. Alla fine del 1974 il Paese è diviso tra due
fazioni antagoniste: da un lato l’alleanza palestinese-progressista-islamica che riunisce i palestinesi, i
partiti di sinistra e i leader locali musulmani e, dall’altro, il “Fronte libanese” che riunisce i partiti e i
leader locali cristiani.

Lo smembramento dello Stato

Il 13 aprile 1975 si verificano due eventi che segnano l’inizio dello smembramento dello Stato libanese
e il collasso del Paese. Quel giorno, infatti, il tentativo di assassinare il leader del partito delle
Falangi, Pierre Gemayel, e l’agguato a un autobus palestinese nella periferia orientale di Beirut,
tradizionale roccaforte cristiana, trascinano il Libano nel caos totale. Pochi mesi dopo, i vari partiti
dell’alleanza palestinese-progressista-islamica espongono le loro rivendicazioni. È il direttore generale
dell’Ufficio del mufti sunnita, Husayn al-Quwwatlī, a presentare la posizione dei musulmani rispetto
alla crisi libanese, in un articolo pubblicato il 18 agosto sul quotidiano al-Safīr. Per la prima volta nella
storia del Paese, i rappresentanti dei musulmani legano le loro rivendicazioni alla dottrina islamica del
governo. Rivolgendosi ai cristiani, in particolare ai maroniti, al-Quwwatlī attacca la “formula libanese”
che, ai suoi occhi, è stata sviluppata solo per sostituire la “formula dell’Islam” e per consacrare il
predominio politico maronita. Ricordando ai cristiani che i musulmani non possono abbandonare
l’obiettivo di stabilire “uno Stato islamico in Libano” conforme al “vero Islam”, al-Quwwatlī si mostra
pronto a concludere un nuovo compromesso con i cristiani a condizione che i maroniti rinuncino ai
propri privilegi. Altrimenti, afferma, i musulmani avranno una sola via d’uscita: l’istituzione dello “Stato
islamico”. I partiti di sinistra, dal canto loro, il 19 agosto annunciano il loro programma di
riforme,3 riassumibile in due punti principali: accusando il campo avversario di operare per sfilare il
Libano dal conflitto arabo-israeliano, essi confermano la loro cooperazione alla “rivoluzione
palestinese” non solo nella sua lotta contro “il nemico sionista”, ma anche nella difesa del territorio
libanese contro le rappresaglie israeliane; in secondo luogo, indicano nel “confessionalismo politico” il
responsabile dei mali del Libano e presentano “la soluzione democratica laica” come unico modo
possibile di soddisfare le aspirazioni del popolo libanese.

Rispondendo a queste affermazioni islamo-progressiste, sostenute dalla forza militare, demografica e
politica dei palestinesi, i cristiani accusano i musulmani di nutrirsi di “fanatismo” religioso e li
incolpano di non aver mai accettato la loro “appartenenza al Libano”, preferendole l’“appartenenza […]

3
    Si veda il testo di questo programma in Mawsū‘at wathā’iq al-harb al-lubnāniyya, op. cit., p. 74-87.

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organica al mondo arabo”. Rimproverano inoltre i partiti di sinistra di scarsa lealtà verso il Paese4.
Accusando i palestinesi e i loro alleati libanesi di aver commesso crimini contro i villaggi e le
istituzioni cristiane del Paese, i portavoce dei cristiani esprimono il loro attaccamento alla personalità
specifica del Libano come entità indipendente dal mondo arabo; inoltre, annunciano la loro resistenza
all’attacco guidato dall’alleanza tra la “rivoluzione palestinese” e la sinistra e l’islamismo politico
libanesi. Di fronte alle richieste islamiche di mettere fine al confessionalismo in vista
dell’islamizzazione del Paese, i cristiani propongono un nuovo regime politico basato sulla “laicità” e
sulla “federazione”, nel quale esisterebbero, parallelamente al “governo centrale”, “governi locali” per
ciascuna comunità, con un’origine, una cultura e uno stile di vita propri. Questi governi locali
sarebbero eletti dalle diverse comunità per gestire i loro affari interni. Quanto al governo centrale, i
suoi poteri si limiterebbero a garantire gli “interessi comuni” di tutte le comunità, a condurre la
politica estera e la politica di difesa, come nel modello canadese o in quello svizzero 5. In altre parole,
la scelta “federativa” non fu altro che l’espressione della delusione cristiana per il modello di
convivenza con i musulmani, per i quali le cause arabe e islamiche avevano la precedenza sulla causa
libanese e, di conseguenza, sulla loro convivenza con i cristiani.

Danza macabra sulle spoglie del Libano

Tutte le guerre avvenute in Libano tra il 1975 e il 1990 possono probabilmente essere riassunte con
l’immagine che il grande letterato libanese Khalil Ramez Sarkis descrive nel suo libro Da Beirut a
Kensigton6: «un giorno, da casa nostra, vedemmo nel bel mezzo di un negozio di Beirut in fiamme un
giovane armato, di circa 15 anni, con in mano un lanciamissili cinese e degli zoccoli ai piedi.
All’improvviso, il giovane gettò il lanciamissili davanti al negozio distrutto, si tolse gli zoccoli e si lanciò
in una danza sui vetri rotti che ricordava la danza di Zorba. Il sangue scorreva da entrambi i piedi, ma
lui rimase indifferente. Alla fine del ballo, si rivolse ai suoi amici dicendo: “Io stesso e quelli come
me uccideremo le istituzioni del Libano e balleremo sulle loro macerie. Sacrificheremo il nostro sangue
per la causa della rivoluzione fino alla vittoria. Aspettavamo questo momento da mille anni. Stiamo
attendendo l’ora in cui potremo distruggere e bruciare molte cose che abbiamo condannato a morte.
Com’è bello ballare sui cadaveri dei nemici”. Uno dei presenti rispose: “Bravo, figlio mio”. E il giovane a
sua volta: “Chiudi il becco prima che ti uccida”». Se questa scena mostra l’assurdità di questo giovane
e della battaglia a cui partecipa, rivela anche la quantità d’odio e di risentimento che molte persone
nutrivano in quel momento verso il Libano e le sue istituzioni; un odio e un risentimento che si
spiegano soltanto con il rifiuto di ciò che il Libano ha rappresentato dal 1920 fino al 1975.

Ad ogni modo, i libanesi, cristiani e musulmani, per la prima volta dal 1920 si trovano di fronte alla
questione di rinunciare al patto nazionale a favore di uno Stato che separi le comunità. Dal 1975 al
1990, diversi episodi e forme di guerra si susseguono con innumerevoli “cessate il fuoco” mai osservati
per più di pochi giorni o poche settimane. A poco a poco, lo Stato libanese perde il controllo del
proprio territorio a vantaggio delle organizzazioni palestinesi e di varie milizie di sinistra, islamiche e
cristiane. A tutto ciò si aggiunge inoltre, nel giugno 1976, l’occupazione del territorio libanese da parte

4
  Note de la Commission libanaise d’études concernant la position des chrétiens relatives à la conjoncture libanaise ac-
tuelle adressée par le Congrès permanent des Supérieurs généraux des Huit ordres libanais (quatre maronites et quatre
grecs-melkite), Beirut, 1975, p. 6, 18.
5
  Nizām siyāsī muqtarah li-Lubnān al-jadīd (“Un regime politico per il nuovo Libano”), Beirut, 1977, p. 47-50.
6
  Khalīl Rāmiz Sarkīs, Al-hawājis al-aqalliyya, min zuqāq al-balāt ilā kensigton, Beirut, Dār al-Jadīd 1993, p. 39.

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dell’esercito siriano, motivata dalla volontà di ripristinare la stabilità nel Paese, prima che l’esercito
israeliano occupi a sua volta il Libano meridionale nel marzo 19787. Il Paese si trova così diviso tra i
suoi due potenti vicini, in virtù di un tacito accordo tra Siria e Israele, ideato da Kissinger e in seguito
noto come accordo delle “linee rosse”. Nel giugno 1982, Israele invade nuovamente il Libano, questa
volta riuscendo ad occupare Beirut. Gli anni dal 1982 al 1990 costituiscono il periodo più buio della
guerra. Sebbene l’esercito israeliano si sia ritirato da Beirut per stabilirsi nel Sud e sia le organizzazioni
palestinesi che l’esercito siriano siano stati dispersi, il Libano cade sotto i colpi delle milizie,
mentre fioriscono i progetti confessionali. Le conferenze organizzate a Ginevra e Losanna tra i
rappresentanti dei diversi partiti libanesi al fine di raggiungere un nuovo compromesso che consenta
il ristabilimento dell’ordine e della convivenza, rispettivamente nel novembre 1983 e nel marzo 1984,
riescono solo a consacrare il potere dei capi delle milizie. Questi, diventando membri del governo,
completano la disgregazione e la paralisi dello Stato, favorendo la formazione di cantoni confessionali.
È solo nel 1990 1990 che i libanesi, con l’eccezione del generale Michel Aoun e di Hezbollah, riescono a
mettersi d’accordo sotto la pressione della comunità internazionale e di quella arabofona per
un nuovo patto, che porta il nome della città saudita di Tā’if dove i delegati libanesi si sono incontrati
nel settembre e nell’ottobre 1989. In base a quest’accordo, il Libano resterà per quindici anni (1990-
2005) sotto la diretta dipendenza dalla Siria8.

Il fallimento di un modello

Tra gli anni ’40 e ’70 il Libano è stato una casa in cui hanno convissuto famiglie spirituali diverse,
mentre la sua capitale ha rappresentato una sintesi di civiltà e l’espressione di un sogno arabo capace
d’ispirare le società in via di sviluppo che cercavano un modo di gestire la propria diversità interna.
Dopo quindici anni di guerre (1975-1990) e trent’anni di governo mafioso (1990-2020), il Paese si è
trasformato in uno Stato fallito in cui cittadini ripensano il loro vivere insieme ritirandosi da qualsiasi
progetto comune per riunirsi in ghetti confessionali o per emigrare in società sviluppate. Nel 2020 i
libanesi sembrano aver perso la scommessa di costruire insieme, cristiani e musulmani, un modello
politico e sociale in cui tutti siano cittadini con pari diritti, rivolti alla modernità e non ai vecchi
immaginari religiosi.

Ma la crisi libanese è solo una delle conseguenze delle crisi che attraversano più in generale lo spazio
arabo a maggioranza musulmana; uno spazio in cui è esclusa ogni autocritica radicale del patrimonio
religioso e dove il passato e la tradizione rimangono molto più potenti del futuro e della ragione. Il
modello libanese ha rappresentato forse la prima vittima di questo ripiegamento delle popolazioni
del Medio Oriente verso un passato religioso tanto sacralizzato quanto immaginario.

7
    Si veda Alain Menargues, Les secrets de la guerre au Liban 1976 – 1984, Beirut, Librairie internationale 2006-2012, 2 tomi.
8
    Si veda Albert Mansūr, Al-Inqilāb ‘alā al-Tā’if, Beirut, Dār al-Jadīd, 1993.

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Testo tradotto dall'originale francese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione
della Fondazione Internazionale Oasis

© RIPRODUZIONE RISERVATA

[Questa è la terza puntata sulla storia del Libano.
Qui è disponibile la prima, sul centenario del Grande Libano,
e qui la seconda, sul periodo 1943-1967]

Progetto realizzato grazie al contributo di
Fondazione Cariplo. Tutte le informazioni su:
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