Lectio doctoralis sull'Europa del Prof. Romano Prodi Presidente del Consiglio dei Ministri - Friburgo, 28 marzo 2008

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Lectio doctoralis sull’Europa
      del Prof. Romano Prodi
Presidente del Consiglio dei Ministri

          Friburgo, 28 marzo 2008
• Vorrei innanzitutto rivolgere un caloroso saluto ai
    presenti e in particolare:

  - a Sua Eccellenza Monsignor Robert Zollitsch,
  Arcivescovo di Friburgo e Presidente della Conferenza
  Episcopale tedesca

  - al Presidente del Landstag, Parlamento del Baden –
  Wutternberg, Herr Peter Straub

  - al Prof. Wolfgang Jäger, Magnifico Rettore
dell’Università

  - al Prof. Gisela Riescher, Preside della Facoltà di
  Scienze Politiche e Filosofia

  • Vorrei altresì ringraziare, oltre naturalmente al Rettore
    e al Preside della Facoltà di Scienze Politiche e
    Filosofia, gli altri membri della Commissione comune
    delle Facoltà di Filologia, Filosofia, Economia e

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Scienze   del     Comportamento       dell’Università   di
  Friburgo che hanno deciso di onorarmi con il
  conferimento di questo dottorato.

• L’invito ad esprimermi oggi sull’Europa mi è
  particolarmente      gradito.       Perché     costituisce
  un’occasione per continuare a riflettere su una storia
  aperta e appassionante, su un progetto politico decisivo
  al quale ho dedicato molti anni.
• Europa significa speranza e opportunità. Per questo
  abbiamo il dovere di conoscerla a fondo: solo
  studiandola, e studiando con essa l’evolvere del
  mondo, potremo continuare a interpretarla e costruirla
  al livello più alto delle sue aspirazioni storiche e
  morali.

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• Se nei suoi primi cinquanta anni l’Europa ha potuto
  lavorare al proprio interno, l’Europa futura esisterà
  solo se diventerà un attore globale. E’ la dimensione
  delle sfide del nostro tempo a imporre questo salto di
  qualità. Non si tratta quindi di una scelta, ma di una
  necessità. Pena l’irrilevanza e il declino.
• Vorrei arrivare a queste conclusioni attraverso una
  serie di riflessioni che voglio sviluppare in due parti.
• Per prima cosa vorrei tentare una diagnosi sullo stato di
  salute dell’Unione ragionando intorno ad alcuni temi
  centrali nel dibattito europeo. La mia tesi, lo dico
  subito, è che l’Europa c’è e lavora. Ma i risultati di
  questo    lavoro    non    sono     sempre    pienamente
  soddisfacenti e in qualche caso sono persino deludenti.

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• Di qui, e vengo alla seconda parte del mio intervento,
  l’esigenza di una terapia urgente. Perché l’Europa sia
  davvero all’altezza della situazione in un contesto
  internazionale che è profondamente cambiato e che
  oggi premia unicamente, sia politicamente che
  economicamente, i grandi aggregati.

                           ***

• Vediamo dunque su cosa si lavora oggi a Bruxelles e
  cerchiamo di fare un bilancio. Comincerò con
  l’argomento di maggiore attualità - l’Europa di fronte
  alla crisi finanziaria internazionale - per poi passare a
  tre temi che sono la cartina al tornasole per capire
  quanto   funziona    oggi   l’Unione:    riforma    delle

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istituzioni,   allargamento,   politiche   energetiche   e
  ambientali.

  L’Europa di fronte alla crisi nei mercati finanziari

• Le turbolenze dei mercati di questi mesi hanno
  confermato le carenze nella disciplina del sistema
  finanziario internazionale. Soprattutto in materia di
  trasparenza delle operazioni, di insufficienza di regole
  e previsione e gestione dei rischi. Non mi dilungo su
  aspetti noti e che da alcune settimane occupano le
  prime pagine dei quotidiani.
• Quel che vorrei sottolineare è che nel campo della
  governance economica e sociale l’Europa soffre di
  forti asimmetrie che non le consentono di sviluppare
  fino in fondo le proprie potenzialità. La più evidente è

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quella tra unione monetaria e disunione economica, tra
  una politica monetaria centralizzata e una serie di
  politiche nazionali che rimangono non integrate e
  soprattutto tra una unione monetaria e la mancanza di
  controlli dei mercati finanziari a livello europeo.
• E’ vero che abbiamo fatto passi in avanti: disporre oggi
  dell’Euro è un elemento che rassicura e che in qualche
  modo ci pone al riparo da molte delle turbolenze in
  atto. Ma una politica monetaria centralizzata serve a
  poco se non si uniformano anche i criteri che guidano
  le politiche economiche. E l’Europa oggi fatica persino
  a scambiarsi informazioni sulle proprie politiche
  nazionali, mentre rimangono puramente nazionali le
  attività di controllo dei mercati finanziari che si stanno
  così rapidamente globalizzando.

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• In altre parole: è un fatto certamente positivo poter
  oggi gestire l’economia europea attraverso tre attori - il
  Consiglio ECOFIN, la Banca Centrale Europea e la
  Commissione - e un parametro, il patto di stabilità. Ma
  non dobbiamo dimenticare che si tratta di un triangolo
  di regole, non di governo e che siamo in presenza di
  governi che troppo spesso non amano obbedire alle
  regole.

  La riforma delle istituzioni

• Anche grazie alla determinazione di Angela Merkel,
  sotto la presidenza tedesca, siamo riusciti a varare un
  nuovo Trattato e a superare la crisi innescata dai
  referendum francese e olandese del 2005. Il nuovo
  Trattato contiene diverse cose buone: una Presidenza

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del Consiglio stabile, un responsabile per la politica
  estera con un servizio diplomatico europeo, più
  decisioni   a    maggioranza,     un’unica     personalità
  giuridica… Ma la domanda che dobbiamo porci, al di
  là delle incognite relative alla sua entrata a pieno
  regime, è se le sue disposizioni siano sufficienti a dare
  all’Europa quello che le occorre: efficacia e rapidità nel
  processo decisionale, peso e credibilità fuori dalle
  proprie frontiere.
• Molto dipenderà dagli uomini che guideranno le nuove
  istituzioni europee. E quindi dalle scelte che saranno
  fatte nei prossimi mesi. Ma sarebbe sciocco negare che
  lo strumento che essi avranno a disposizione - il nuovo
  trattato appunto - sia frutto in realtà di un
  compromesso      al   ribasso.   Sarebbe     sciocco   non
  ammettere       che    il    sacrificio    dell’approccio

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costituzionale del Trattato di Roma del 2004 (che pure
 era già un compromesso al ribasso) è stato un prezzo
 altissimo da pagare per chi, come me, crede che
 l’Europa abbia anche bisogno di un condiviso corpo di
 regole per poter svolgere il proprio ruolo nel mondo.
 Per potere avere forza politica.
• Ricorderò sempre quella notte del giugno scorso a
 Bruxelles, con alcuni di noi impegnati a convincere la
 Polonia, altri a tenere unito il fronte europeista. Più
 discutevamo, più si delineavano i contorni del
 compromesso e più mi convincevo che molti di noi
 avevano smarrito lo spirito che ci aveva inizialmente
 guidato. Come spesso avviene in queste trattative finali
 dei Consigli europei, la paura del fallimento spingeva
 verso accordi sempre più al ribasso, verso accordi che
 rendono ancora più difficile un ruolo europeo nella

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politica mondiale. L’obbligo dell’unanimità non può
  che preparare l’impotenza.

  L’allargamento

• Passo a un altro dei grandi temi nel dibattito europeo:
  l’allargamento. Credo che pochi oggi, dati alla mano,
  possano metter in dubbio i successi conseguiti in questi
  anni. Il primo maggio 2004 è stata veramente una data
  consegnata alla Storia! Abbiamo riunificato un
  continente diviso e ne abbiamo fatto l’agglomerato più
  stabile e prospero del pianeta. Provo sempre un certo
  orgoglio per aver potuto contribuire a questo risultato
  straordinario   da   Presidente   della   Commissione
  europea. E provo una certa soddisfazione, come per
  una tragedia evitata, a pensare cosa sarebbe oggi

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l’Europa con i dodici nuovi paesi fuori dall’Unione.
  Occorre ora costruire su questo risultato e iniziare a far
  pesare la massa critica raggiunta – 500 milioni di
  cittadini!
• Per questo – e mi rivolgo soprattutto ai nuovi paesi
  membri – è essenziale divenire consapevoli che essere
  parte di un tutto comporta diritti, ma anche obblighi.
  Richiede un senso forte di autodisciplina e di
  solidarietà nei confronti dei partner e delle istituzioni
  comuni. Non nascondo di essere rimasto perplesso di
  fronte a certi episodi recenti: penso a chi ha tenuto
  troppo a lungo in ostaggio il negoziato UE con la
  Russia o a chi non esita a mettere a repentaglio il
  sistema comune di Schengen pur di essere agevolato
  nei propri contatti bilaterali con un paese terzo. Vorrei
  ricordare a tutti costoro che il più grande acquis

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comunitario è stato proprio il metodo: saper cioè
  rinunciare   a   un     proprio    interesse      specifico   e
  contingente in nome di un interesse generale europeo
  di lungo periodo.
• Ma è un’altra la questione che mi preoccupa di più:
  l’incapacità dell’Europa di andare fino in fondo e
  completare la propria riunificazione. Mi riferisco alla
  regione balcanica, una regione che da sempre
  appartiene all’Europa, ma che ancora non riesce a
  realizzare la propria prospettiva europea nonostante le
  promesse. Mancanza di visione dei leader europei,
  esitazioni imperdonabili di una regione che fa fatica a
  dimenticare il proprio passato… Le ragioni di questo
  ritardo sono tante. Ma resta il fatto di non aver saputo
  completare l’allargamento del 2004 e con esso resta il
  “buco   nero”       balcanico     sulla   carta     geografica

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dell’Europea contemporanea. E’ un deficit al quale
 occorre rimediare subito: perché il continente non sarà
 definitivamente stabilizzato fin quando i Balcani
 occidentali non faranno parte della nostra Unione.
• Aggiungo che la divisione drammatica dell’Unione
 europea    sulla    questione     del    riconoscimento
 dell’indipendenza del Kosovo denota in fondo una
 diversa visione tra i Ventisette su quale debba essere il
 destino della regione balcanica nel suo complesso. Se,
 come credo, questo destino sia quello di una regione
 che entra a pieno titolo, tra qualche anno, nella
 famiglia europea, allora è su questo grande obiettivo
 strategico che occorre concentrarsi. Accettando la
 soluzione sullo status del Kosovo più funzionale alla
 realizzazione della prospettiva europea dell’intera
 regione.

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Le politiche dell’energia e del clima

• Anche qui vorrei ricordare Angela Merkel e la sua
  azione di presidente del Consiglio europeo: grazie ad
  essa lo scorso anno l’Unione è riuscita a trovare
  un’intesa su obiettivi importanti e ambiziosi di
  riduzione delle emissioni di gas nocivi e di ricorso a
  fonti energetiche rinnovabili.
• Ma anche questo è un punto sul quale occorre essere
  conseguenti. Non ci si può accordare su obiettivi così
  ambiziosi e poi, quando si passa a legiferare, consentire
  agli interessi particolari di prevalere su quelli generali.
  Non    si   può    insomma       essere   visionari   nelle
  dichiarazioni di intenti e poi, quando tanto per fare un
  esempio si passa a disciplinare l’emissione di anidride

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carbonica degli autoveicoli, venir meno al principio del
 “chi inquina paga” e a quelli del risparmio energetico e
 della tutela dell’ambiente. Perché così facendo, tra
 l’altro, si disorientano anche tutti coloro - penso per
 esempio ai paesi dell’Asia - che nel mondo guardano
 all’Europa come a un esempio virtuoso in questo come
 in altri settori essenziali alla convivenza globale.

                            ***

• A   questo    punto    vorrei    svolgere    una      prima
 considerazione che servirà a guidarci nella seconda
 parte del ragionamento: l’Europa dunque continua a
 lavorare, va avanti, fa progressi ogni giorno e in ogni
 campo. Il punto è capire se i piccoli passi con cui
 continua ad avanzare, conformemente del resto alla

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propria tradizione, siano ancora sufficienti in un mondo
  che invece fa passi da gigante. O se invece non
  rappresentino comunque una condanna all’irrilevanza e
  al declino. In particolare non conta solo la direzione,
  ma anche la velocità.
• Quando vedo i tentennamenti europei di fronte alle
  grandi scelte strategiche - come nel caso della politica
  estera o energetica, delle scelte istituzionali, oppure
  della governance economica - mi viene spontaneo
  osservare gli indicatori economici asiatici, l’assertività
  della Russia e delle potenze emergenti in politica
  estera, l’influenza americana nel mondo; osservo dove
  si accumula la ricchezza nel pianeta, dove sono le
  università migliori e i migliori centri di ricerca. E non
  riesco perciò a essere soddisfatto delle nostre
  performance a Ventisette.

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***

• Ecco dunque qualche idea sul da farsi per colmare
 questi deficit. Io ho sempre fiducia nell’Europa: perché
 più la osservo e più ne scopro le potenzialità, più vado
 alle sue radici e più mi rendo conto della longevità dei
 valori che ne costituiscono il fondamento. Mi rincuora
 soprattutto l’esempio di una Europa che in passato è
 riuscita sempre a uscire da ogni sua crisi più solida e
 coesa di prima! Di un’Europa che possiede una
 capacità di recupero smisurata e un metabolismo che le
 consente di rigenerarsi continuamente. Certo che essa
 si trova a un crocevia difficile! Ma il fermento c’è
 ancora, nessun dubbio al riguardo! Ci vorrebbe solo
 più coraggio.

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• Anche qui mi soffermo brevemente su alcuni punti.

  I giovani

• L’Europa deve avere il coraggio di scommettere su di
  loro, sulla generazione Erasmus, su chi ha imparato a
  vivere in modo più moderno il rapporto con la
  frontiera, con la lingua e con le diversità. C’è bisogno
  di un patto europeo nuovo che possa avere i giovani
  come protagonisti.
• Ragionare in termini nuovi è indispensabile: perché
  l’obiettivo originario europeo – la pace continentale – è
  ormai un fatto scontato e non è più un progetto in
  grado di mobilitare i giovani europei.

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• Occorre lasciarci alle spalle le categorie ereditate dal
  passato: alle nozioni classiche di nazionalità, frontiera
  e sovranità, vanno sostituire quelle di cittadinanza
  europea, mobilità di confine, sussidiarietà, integrazione
  e messa in comune delle risorse.
• I giovani si facciano dunque sentire, chiedano ai loro
  leader il coraggio per iniziare a scrivere l’Europa di
  domani, quella che loro erediteranno.

  Il coraggio e la leadership

• I leader europei devono mostrarsi coraggiosi. Devono
  guardare oltre l’interesse contingente dei propri paesi e
  impegnarsi per l’interesse generale europeo.

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• Per farlo bisogna uscire dalla logica dei vertici, delle
  direttive, delle revisioni dei trattati, come se la
  governance europea fosse qualcosa che appartiene solo
  alla sfera del diritto. In Europa oggi c’è bisogno di
  politica, di grande politica, di nuove politiche. C’è
  bisogno di vera politica per avere un’autentica
  democrazia partecipativa.
• Le elezioni del 2009 saranno una grande occasione per
  cominciare a lavorare in questa direzione. Spero che
  nasceranno alleanze tra i partiti europei, su progetti
  basati su grandi valori, in grado di rianimare la politica
  continentale. Che dovrà passare anche per un ulteriore
  rafforzamento del Parlamento europeo.
• Un problema non trascurabile è la necessità di
  cambiamenti di procedura nei vertici europei. Non vi è

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nessuna ragione (e la mia esperienza europea lo
  dimostra) che l’Europa a 27 sia meno coesa
  dell’Europa a 15. I problemi di allora (Europa a 15)
  sono gli stessi di oggi. Il grande ostacolo è sempre
  l’unanimità. Ma oggi si debbono almeno cambiare le
  procedure, le durate dei discorsi, le modalità di voto. Si
  deve riprendere lo spirito di conversazione e di dialogo
  dei vertici più ristretti. Altrimenti i Consigli europei
  saranno solo dei riti senza contenuto.

  Un’Europa “a densità variabile”

• Nel frattempo bisogna subito iniziare a cercare nuove
  strade, tra gruppi di paesi. Già oggi due dei pilastri
  della nostra Europa – mi riferisco a Schengen e
  all’Euro – vedono una partecipazione limitata ad alcuni

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paesi. Taluni poi – penso alla Norvegia e all’Islanda
  che fanno parte di Schengen – non sono nemmeno
  membri dell’Unione.
• L’Europa di domani sarà quindi sempre di più
  un’Europa a densità variabile al suo interno e con
  frontiere mobili all’esterno. Su un punto vorrei essere
  chiaro: non sono solo coloro che vogliono avanzare più
  velocemente a dover aspettare i più lenti; sono anche i
  più lenti a dover accelerare.
• Se poi i ritardatari non avanzano, i più veloci dovranno
  procedere in ogni caso: creando delle avanguardie,
  gruppi di Paesi pionieri più intraprendenti su specifici
  progetti. Ma è evidente che dovrà trattarsi di progetti
  sempre    aperti   a   coloro   che   vorranno   aderirvi
  successivamente. Perché la porta aperta è una regola
  essenziale dell’Unione Europea.

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L’Est e il Mediterraneo

• La politica europea a Est e nel Mediterraneo non è
  finora riuscita a dispiegare completamente i propri
  effetti. Essenzialmente per timidezza. Occorre un
  nuovo slancio, cominciando per esempio a preparare
  una vera partecipazione dei Paesi vicini al mercato
  interno e ad altre politiche comuni. Cosa impedisce di
  coinvolgere    alcuni    paesi   del    Mediterraneo     e
  dell’Europa orientale in parti significative della politica
  estera comune? Perché non pensare a forme più strette
  di cooperazione sub-regionale attorno a priorità comuni
  come l’energia, l’acqua o le infrastrutture?
• Questo vale soprattutto per il Mediterraneo, culla
  dell’idea d’Europa. Credo da sempre che la politica

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mediterranea sia parte integrante della politica europea.
 Vi ho lavorato per molti anni con successi non sempre
 adeguati alla fatica e alle energie spese. Mi rallegro
 perciò che il progetto di Unione per il Mediterraneo di
 cui abbiamo discusso nei giorni scorsi a Bruxelles
 abbia infine preso la via di un rafforzamento del
 partenariato euro-mediterraneo di Barcellona.
• Oggi il Mediterraneo è per l’Unione europea una
 immensa opportunità di rilancio politico ed economico.
 Un terreno ideale per grandi progetti tra i paesi delle
 due sponde. Soprattutto considerata la crescita del
 continente asiatico e la circostanza che il grande
 commercio internazionale sta tornando a percorrere la
 Via della Seta. Bisogna però essere coerenti e dedicare
 a questo progetto la necessaria attenzione politica e le
 necessarie   risorse   finanziare,   agendo   anche   da

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catalizzatore di mezzi provenienti dall’esterno, ed in
  primo luogo dai paesi del Golfo.

  Governance economica e sociale

• Come ho detto all’inizio una delle grandi questioni
  irrisolte in Europa è l’assenza di un vero governo
  europeo delle scelte economiche. Senza di esso
  l’Europa non potrà crescere né sfruttare appieno le
  potenzialità dell’Unione Economica e Monetaria.
• Occorre un’impennata forte della politica anche qui:
  per iniziare a far convergere le politiche economiche e
  di bilancio nazionali e per arrivare ad una vera
  rappresentanza    unificata   dell’euro   sulla   scena
  internazionale.

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• L’euro è la moneta più forte, sta conquistando sempre
  di più i mercati ma la politica monetaria mondiale è,
  per il bene e per il male, nelle mani della Riserva
  Federale.

  L’Europa che media: tra Stati Uniti, Russia e
  potenze asiatiche

• Per essere interlocutore credibile e influente degli Stati
  Uniti, l’Europa deve perciò assumersi le proprie
  responsabilità.   Anche    per    questo   una    politica
  energetica comune europea e una politica di difesa
  europea diventano imprescindibili. Da una partnership
  equilibrata con Washington potranno poi scaturire
  nuove iniziative importanti, a partire da un vero
  mercato transatlantico.

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• Più complesso è il rapporto con la Russia alle prese con
  “la sindrome da accerchiamento”. Anche qui c’è
  bisogno di un’Europa più forte, capace di essere il
  ponte tra Washington e Mosca. Perché l’Europa è più
  vicina sia alla Russia che agli Stati Uniti di quanto non
  siano Russia e Stati Uniti tra di loro.
• Non è pensabile che l’Europa sia divisa e paralizzata di
  fronte alla Russia quando gli interessi e i problemi di
  tutti i nostri paesi sono talmente simili da essere quasi
  identici.
• Questa funzione di mediatore deve essere esercitata
  anche con altri grandi protagonisti della politica
  internazionale, a cominciare da Cina e India.
  L’obiettivo è coinvolgere tutti intorno al tavolo del

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multilateralismo ad alta densità che l’Europa ha
  contribuito a inventare.

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• Vorrei svolgere ore qualche considerazione conclusiva.
  C’è   una   frase   di     Henry   Miller,   scritta   oltre
  cinquant’anni fa, che mi viene in mente ogni volta che
  penso al ruolo dell’Europa: “il mondo deve ridiventare
  piccolo com’era l’antico mondo greco; tanto piccolo
  da includere tutti. Solo quando sarà incluso fin
  l’ultimissimo uomo, ci sarà una vera società umana”.
  Fin dalla prima volta che la lessi pensai: ecco il
  compito dell’Europa! Rendere il mondo piccolo,
  contribuire a creare un nuovo ordine globale che
  includa anche l’ultimissimo uomo.

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• A volte pare di riuscirci! La moratoria sulla pena di
  morte adottata nel dicembre scorso dall’Assemblea
  Generale delle Nazioni Unite - per la quale il mio
  governo si è molto battuto insieme agli altri governi
  europei - non poteva venire che dagli eredi di Cesare
  Beccaria, da un ambiente europeo, da una storia e una
  sensibilità europee. Qui l’Europa ha fatto bene il
  proprio lavoro, ha saputo interpretare al meglio il
  compito assegnatole dalla Storia. Per tornare a Henry
  Miller ha reso il mondo tanto piccolo da includere tutti!
• E’ una questione di coraggio e di visione! Bisogna
  crederci, sempre! Con questo non voglio dire che basti
  essere visionari per costruire un’Europa più forte. Al
  contrario, la lezione europea è innanzitutto quella di
  chi sa come muoversi nel difficile spazio che c’è tra
  realismo e ideale, tra interessi e valori, tra dubbio pieno

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di scrupoli e certezza delle proprie ragioni, tra auto-
  ironia e fervore.
• Un’ultima annotazione su Balcani e Kosovo. Non solo
  perché questa regione mi sta particolarmente a cuore,
  ma perché essa rappresenta per molti versi la parte e
  più vera dell’Europa, il suo rimosso. Ho sempre
  pensato che le lotte identitarie e le disgregazioni cui
  ancora assistiamo in quell’area rappresentino un
  residuo del nostro passato comune. Ma penso che alla
  fine sarà il destino del progetto europeo a dirci se è
  questa la lettura giusta. Se l’Europa va avanti, se
  continua a integrarsi e allargarsi, se ritrova il proprio
  slancio vitale, allora gli scossoni balcanici di questi
  giorni sono davvero destinati a essere gli ultimi, ad
  esaurirsi, a rappresentare il residuo di un passato
  continentale lontano nel tempo. Ma se il progetto

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europeo si arresta, se all’interno dell’Unione tornano i
nazionalismi, i localismi, i campanilismi, allora le
divisioni di oggi in Kosovo o in Bosnia da residuo del
passato rischiano di divenire l’annuncio del futuro che
attende anche la parte già integrata del continente. Di
un’Europa    che   alla   fine   torna   a   dividersi   e
frammentarsi, ripercorrendo all’indietro la propria
Storia. E’ un’eventualità alla quale non voglio pensare.
Ma proprio l’esempio della dissoluzione jugoslava
conferma che nulla può dirsi acquisito per sempre dalla
Storia e che potrebbe quindi capitare, da un giorno
all’altro, di risvegliarsi in un continente diverso da
quello che abbiamo conosciuto negli ultimi sessanta
anni. Proprio per questi motivi fin dal primo giorno
della mia presidenza alla Commissione Europea ho
posto come obiettivo prioritario l’ingresso nell’Unione

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Europea di tutti i paesi dell’area balcanica. Perché tra
  le grandi crisi del mondo quella balcanica è l’unica per
  cui abbiamo una valida e semplice soluzione pronta:
  l’appartenenza all’Unione Europea. Una ragione in più
  per guardare avanti, per continuare a sperare e a
  lavorare per l’Europa. Non quella anemica di questi
  ultimi tempi, ma quella immaginata dai padri fondatori,
  capace sempre di ritrovare il coraggio e la forza per
  rinascere ogni giorno.
• Vi ringrazio.

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