LE NORME DI DIRITTO INTERNAZIONALE PENALE - _4.3.3

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         LE NORME DI DIRITTO INTERNAZIONALE PENALE

Esaminate le norme poste a tutela dello straniero e le norme in materia di diritti umani,
manca da esaminare la terza categoria di norme che si indirizzano all’individuo: norme di
diritto internazionale penale.

Che cosa sono le norme di diritto internazionale penale? Si tratta di regole che a livello
internazionale stabiliscono che un certi comportamenti posti in essere dagli individui
costituiscono crimini internazionali e alla luce di ciò tali individui sono chiamati a
rispondere penalmente delle loro azioni. Ciò significa che se degli individui commettono
un crimine internazionale, anche se costituiscono organi di uno Stato, la cui azione si
identifica cioè con uno Stato (ipotizziamo i membri di un governo), risponderanno
penalmente delle loro condotte. Accanto alla responsabilità internazionale dello Stato,
avremo in questo caso la responsabilità internazionale penale degli individui.

Il diritto internazionale penale si è fondamentalmente formato in epoca molto recente,
anche se in realtà esiste una fattispecie criminosa sanzionata a livello internazionale già
dall’inizio del secolo scorso. Si tratta del crimine di pirateria, che consiste nella
commissione in alto mare di atti di violenza o depredazione contro una nave o contro le
persone e i beni a bordo di una nave da parte di individui che non agiscono per conto di
nessuno Stato. La norma internazionale che vieta la pirateria prevede che qualsiasi Stato
che abbia catturato dei pirati possa punirli, possa cioè sottoporli a processo penale dinanzi
ai propri tribunali, a condizione che la cattura sia legittima. La cattura per essere legittima
deve avvenire in alto mare o nel mare territoriale. (Il mare territoriale è il mare adiacente
le coste di uno Stato e sottoposto alla sovranità di quello Stato al pari della terraferma la
cui estensione è di 12 miglia marine dalla costa. L’alto mare è il mare non sottoposto alla
sovranità di alcuno Stato, dove quindi tutti gli Stati possono navigare liberamente).

L’ordinamento internazionale, attraverso la previsione del crimine di pirateria intende
assicurare la punizione di individui che minacciano l’interesse di ogni Stato alla sicurezza
del commercio e della navigazione in alto mare. Il crimine internazionale di pirateria è
rimasto per molto tempo una figura isolata.

Poi progressivamente sono venuti ad esistenza altri crimini internazionali. Un passo
decisivo si è avuto con l’istituzione del Tribunale di Norimberga per giudicare le alte
gerarchie della Germani nazista. Questo tribunale aveva giurisdizione rispetto a tre
fattispecie criminose: i crimini di guerra, i crimini contro l’umanità e i crimini contro la
pace (questi ultimi oggi definiti come crimini di aggressione). Quindi con il Tribunale di
Norimberga compaiono queste nuove tre figure che esistono tutt’ora. Nel giro di pochi
anni dalla Seconda guerra mondiale, a questi crimini se ne è aggiunto un altro: si tratta del
crimine di genocidio, introdotto dalla Convenzione sulla prevenzione e la repressione del
crimine di genocidio del 1948.

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In tempi recenti, ha fatto capolino a livello internazionale il crimine di tortura, che è oggi
regolato da un’apposita convenzione, la Convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura del
1984. La tortura può assumere tre distinte connotazioni: tortura come crimine contro
l’umanità; tortura come crimine di guerra e tortura come crimine autonomo. La
definizione di tortura è sempre la stessa in tutti e tre i casi: la tortura (sia essa un crimine
contro l’umanità, un crimine di guerra o un crimine a sé stante) consiste nell’inflizione di
dolore o sofferenze finalizzata ad ottenere informazioni o confessioni; a punire o umiliare
una persona; a costringere una persona a fare o non fare qualcosa; o a discriminare una
persona per qualsiasi motivo. Ciò che cambia è il contesto nel quale la tortura viene posta
in essere: a seconda del contesto, la commissione di atti di tortura può costituire un
crimine contro l’umanità (commessa in tempo di pace o di guerra nell’ambito di un attacco
esteso o sistematico contro una popolazione civile), un crimine di guerra (commessa nel
corso di un conflitto armato e su larga scala) o un crimine autonomo, appunto il crimine
internazionale di tortura (in questo caso, anche un singolo atto di tortura è suscettibile di
integrare gli estremi del crimine: non si richiede dunque l’inflizione di una molteplicità di
torture).

Si discute se il terrorismo internazionale possa essere considerato un crimine
internazionale: la questione è oggi ancora incerta poiché gli Stati non sembrano aver
raggiunto un accordo sulle condotte che possono essere punite a livello internazionale
come crimine di terrorismo. A dire il vero, esistono dei testi convenzionali da cui emerge
una definizione di terrorismo. Ad esempio, la Convenzione per la soppressione delle
attività di finanziamento del terrorismo del 1999 stabilisce che per terrorismo si intende
ogni atto finalizzato a provocare la morte di civili nell’intento di intimidire una popolazione
o di coartare un governo (costringerlo cioè a compiere o ad astenersi dal compiere un
determinato atto). Tuttavia, i Paesi in via di sviluppo sono ancorati all’idea che la nozione
di terrorismo non debba comprendere gli atti di violenza perpetrati dai cc.dd. freedom
fighters, ossia gli individui o i gruppi che lottano per l’attuazione del principio di
autodeterminazione dei popoli. I Paesi in via di sviluppo sostengono che gli atti commessi
nell’ambito della lotta per l’autodeterminazione dei popoli, e cioè in vista
dell’affrancamento dal dominio di una potenza straniera, non debbano essere considerati
come atti di terrorismo anche se ne presentano le stesse caratteristiche. Il rifiuto dei Paesi
sviluppati di accettare questa eccezione ha condotto ad una situazione di stallo.

I principali crimini internazionali sono:
    - i crimini di guerra;
    - i crimini contro l’umanità;
    - il crimine di genocidio;
    - il crimine di aggressione.

Il testo normativo di riferimento è oggi rappresentato Statuto della Corte penale
internazionale: un trattato internazionale adottato a Roma nel 1998, entrato in vigore nel
2002 e modificato nel 2010. Gli Stati contraenti sono oltre 120 (compresa l’Italia). Tra gli
Stati non contraenti spiccano Russia, Cina e Stati Uniti. Lo Statuto di Roma contiene una
dettagliata definizione dei quattro principali crimini internazioni. Non è invece incluso
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nello Statuto il crimine di pirateria né quello di tortura. La Corte penale internazionale può
dunque prendere ad esame la tortura solo se rileva in quanto crimine di guerra o crimine
contro l’umanità.

       I crimini di guerra.

Esiste nel diritto internazionale un insieme di regole che disciplinano la condotta che gli
Stati devono mantenere durante i conflitti armati. Tali regole costituiscono l’essenza del
diritto internazionale umanitario. Tale definizione non è casuale se si considera che lo
scopo del diritto umanitario è proprio quello di “umanizzare” l’uso della forza nell’ambito
di un conflitto armato. Come viene perseguito questo scopo? Questo scopo viene
perseguito attraverso regole che
  - stabiliscono quale trattamento deve essere riservato ai feriti, ai malati e ai prigionieri
      di guerra;
  - prevedono una tutela nei confronti dei civili;
  - pongono dei limiti riguardo alle armi che possono essere utilizzate, ai metodi di
      combattimento che possono essere adottati, agli obiettivi che possono essere colpiti.

Dove sono previste queste regole?

        Innanzitutto nelle Convenzioni dell’Aia del 1889 e del 1907 che si occupano dei mezzi
         e dei metodi di conduzione delle ostilità. Queste due convenzioni già prevedevano che
         chi violava le norme in essi stabilite poteva essere sottoposto dallo Stato nemico ad
         un processo penale. Tuttavia veniva posto un limite temporale: il potere di processare
         il personale militare dello Stato nemico durava fino a quando duravano le ostilità.
         Quindi la possibilità di sanzionare penalmente gli individui era già stabilita all’inizio
         del secolo scorso da queste convenzioni, ma era piuttosto limitata.
        Un salto qualitativo si è avuto con l’adozione delle quattro Convenzioni di Ginevra del
         1949 che si occupano del trattamento delle persone che non prendono parte al
         conflitto o che hanno cessato di prendervi parte, quindi civili, feriti, malati e
         prigionieri di guerra. Abbiamo:
            1. C.G. sul trattamento dei feriti e dei malati delle guerre di terra;
            2. C.G. sul trattamento dei feriti e dei malati delle guerre di mare;
            3. C.G. sui trattamento dei prigionieri di guerra;
            4. C.G. sul trattamento da riservare ai civili durante le ostilità.

         Tutte e quattro queste Convenzioni stabiliscono che le violazioni di alcune regole in
         esse contenute costituiscono gravi violazioni del diritto umanitario, in presenza delle
         quali tutti gli Stati parti delle Convenzioni, e non soltanto quelli coinvolti nelle
         ostilità, hanno l’obbligo di esercitare l’azione penale nei confronti dei responsabili.
         Questo però non significa che le violazioni delle quattro Convenzioni che non si
         qualificano come gravi non possano essere soggetto ad una sanzione penale: esiste
         infatti rispetto a queste violazioni la facoltà degli Stati di sanzionarle penalmente.

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Le quattro Convenzioni di Ginevra hanno comportato quindi un salto qualitativo
    nella repressione dei crimini commessi in tempo di guerra. Tuttavia presentano un
    limite nella misura in cui si occupano essenzialmente dei conflitti armati che si
    svolgono tra Stati, cosiddetti internazionali; oggi la maggior parti dei conflitti armati
    non ha carattere internazionale ma interno. Si tratta cioè di guerre civili che si
    svolgono all’interno di uno Stato e vedono contrapporsi il governo in carica e gruppi
    di insorti. Rispetto ai conflitti armati non internazionali le Convenzioni di Ginevra
    non dicono sostanzialmente niente; c’è solo una norma comune alle quattro
    convenzioni (che è cioè redatta in maniera analoga in ognuna di esse), che è l’articolo
    3, il quale stabilisce delle regole minime di comportamento che devono essere tenute
    dagli Stati parti anche durante conflitti armati non internazionali. Tuttavia nulla si
    dice a proposito della possibilità di reprimere penalmente le violazioni dell’art 3. Non
    essendo soddisfacente la tutela accordata dal diritto pattizio, il quale non chiamava a
    rispondere penalmente i responsabili di crimini di guerra commessi nel corso di
    guerre civili, si è a lungo discusso se esistessero a livello consuetudinario delle regole
    che sancivano la responsabilità penale internazionale per crimini di guerra commessi
    nel corso di conflitti armati non internazionali.

    Oggi questi dubbi possono essere considerati superati perché esiste una
    giurisprudenza innovativa, ampiamente condivisa dagli Stati, prodotta
    sostanzialmente dal Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nella ex
    Iugoslavia, che stabilisce che anche comportamenti posti in essere durante conflitti
    armati non internazionali debbano essere penalmente sanzionati. A riprova della
    condivisione di questo orientamento, può essere menzionato l’art. 8, par. 2, dello
    Statuto della Corte Penale Internazionale, che recepisce la giurisprudenza del
    Tribunale dell’ex Iugoslavia, stabilendo che i crimini di guerra comprendono le gravi
    violazioni del diritto internazionale umanitario commesse durante conflitti armati
    internazionali o guerre civili.

   L’art 8, par. 2, dello Statuto della Corte penale internazionale ha anche il merito di
    elencare le fattispecie qualificabili come crimini di guerra. Abbiamo quindi crimini di
    guerra se:

       -   si perpetrano atti di violenza contro la vita e l’integrità fisica o morale di civili o
           prigionieri di guerra: uccisioni, mutilazioni, trattamenti inumani, torture,
           violenze sessuali);
       -   si fa ricorso a metodi di conduzione delle ostilità vietati: attacchi intenzionali
           diretti contro la popolazione civile; attacchi indiscriminati con la
           consapevolezza che provocheranno perdite di vite umane tra la popolazione
           civile, attacchi contro combattenti che hanno deposto le armi e si sono arresi;
       -   si utilizzano mezzi bellici proibiti: l’impiego di armi chimiche e batteriologiche,
           l’utilizzo di proiettili a frammentazione, il ricorso a mine anti-uomo, l’impiego
           di armi incendiarie, come il napalm.

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-   Si compiono attacchi contro il personale o le istallazioni delle organizzazioni
            internazionali umanitarie, che si preoccupano di prestare soccorso alle
            popolazioni interessati dai conflitti bellici.

     È impostante sottolineare che questi crimini, affinché possano essere definiti
     propriamente crimini di guerra e possano perciò essere perseguiti penalmente,
     devono essere commessi su larga scala, devono cioè essere parte di un piano o di un
     disegno politico.

   I crimini contro l’umanità.

Fino alla Seconda guerra mondiale la tutela dei diritti umani fondamentali dell’individuo
era considerata come una questione interna allo Stato, una questione della quale il diritto
internazionale non doveva interessarsi. Non esistevano trattati internazionali volti a
garantire il rispetto dei diritti umani, non esisteva dunque una sensibilità per il tema dei
diritti umani.

Un elemento di rottura che ha anticipato il movimento di tutela dei diritti umani che è nato
dopo la fine della Seconda guerra mondiale, si è avuto con lo Statuto del Tribunale di
Norimberga, perché questo Statuto ha introdotto la figura dei crimini contro l’umanità.
Come crimini contro l’umanità si intendevano le violazioni gravi e sistematiche dei diritti
umani fondamentali, come stermini di massa e deportazioni di massa. Tuttavia lo Statuto
del Tribunale puniva tali crimini solo se venivano commessi in corrispondenza di conflitti
armati.

E qui emerge una contraddizione: la categoria dei crimini contro l’umanità era stata
introdotta avendo a mente i fenomeni della deportazione e dello sterminio di massa delle
popolazioni ebraiche ad opera della Germania, ma la giurisdizione del Tribunale di
Norimberga non copriva tutte le violazioni dei diritti umani subite dagli ebrei. Erano
escluse dalla giurisdizione del Tribunale la deportazione e lo sterminio degli ebrei tedeschi
commessi in Germania. Nella giurisdizione del Tribunale rientravano solo le deportazioni e
gli stermini compiuti nel contesto di un conflitto armato e, dunque, a seguito delle
occupazioni militari di territori stranieri da parte della Germania, a cominciare dai Sudeti,
per continuare con la Polonia e così via. Solo le deportazioni e gli stermini compiuti nei
territori invasi erano propriamente compiuti in un contesto bellico, solo quelli cadevano
nell’ambito di applicazione dello Statuto di Norimberga. Questo rispondeva un po’ alla
logica dell’epoca, in base alla quale uno Stato sul proprio territorio poteva fare quello che
voleva, anche deportare e sterminare i propri abitanti. Quindi le deportazioni e gli stermini
venivano puniti solo se posti in essere nei territori occupati di altri Stati.

Un aspetto interessante è che l’introduzione della categoria dei crimini contro l’umanità
nello Statuto di Norimberga e l’attribuzione al Tribunale della giurisdizione in materia fu
strenuamente contestata dagli individui imputati al processo di Norimberga, perché si
andavano in tal modo a criminalizzare condotte che fino a quel momento il diritto
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internazionale non aveva mai preso in esame. Mentre i crimini di guerra avevano qualche
precedente nelle Convenzioni dell’Aia, i crimini contro l’umanità non erano mai stati
oggetto di una regolamentazione e la prima comparsa la fecero nello Statuto del Tribunale
di Norimberga. Per gli imputati al processo di Norimberga ad essere violato era il
fondamentale principio della non retroattività della legge penale, previsto da qualsiasi
società civile, in base al quale nessuno può essere perseguito per un crimine che non era
tale al momento in cui è stata tenuta la condotta criminosa. La risposta del Tribunale fu
che il principio della salvaguardia della dignità umana dovesse prevalere su tutti gli altri e
quindi anche sul principio di irretroattività della legge penale. A dire il vero questo
argomento non è molto convincente dal punto di vista giuridico, ma all’epoca si rivelò più
forte la volontà di perseguire i criminali nazisti.

Successivamente invece questi crimini hanno rapidamente assunto il rango di norme
consuetudinarie ed oggi non si pongono più i problemi che si posero all’epoca del
Tribunale di Norimberga. Una definizione dei crimini contro l’umanità si trova all’art. 7
dello Statuto della Corte penale internazionale.

Per crimini contro l’umanità si intendono atti commessi nell’ambito di un esteso e
sistematico attacco contro una popolazione civile, atti che possono essere puniti
indipendentemente dal fatto che sia o meno in corso una guerra. Tra questi atti rientrano:
    - stermini;
    - riduzioni in schiavitù;
    - deportazioni della popolazione;
    - imprigionamenti;
    - torture;
    - violenze sessuali;
    - persecuzioni per motivi etnici, razziali, religiosi.

Affinché possa parlarsi di crimini contro l’umanità, gli atti menzionati devono inserirsi
nell’ambito di una prassi di atrocità commessa su larga scala e ripetuta nel tempo.
Uccisioni, violenze sessuali, sparizioni forzate non devono costituire eventi sporadici o
isolati. Un individuo non può essere accusato di aver commesso un crimine contro
l’umanità se commette una singola violenza sessuale, un singolo omicidio.

   Il crimine di genocidio.

Pochi anni dopo la celebrazione del processo di Norimberga, si è assistito alla comparsa
della nozione di genocidio. In particolare, il genocidio ha assunto una sua autonomia
rispetto ai crimini contro l’umanità con l’adozione della Convenzione sul genocidio nel
1948, la cui necessità si è avvertita all’indomani dello sterminio degli ebrei da parte della
Germania nazista. Dopo questo sterminio ne sono stati commessi degli altri: lo sterminio
dei bosniaci di religione musulmana a Srebrenica nel 1995 da parte delle truppe serbe e lo
sterminio della minoranza etnica dei tutsi in Ruanda nel 1994 ad opera della maggioranza
hutu.
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L’art. 6 dello Statuto della Corte penale internazionale, conformandosi alla Convenzione
sul genocidio, afferma che per genocidio si intendono atti commessi con l’intento di
distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Come si può
arrivare a distruggere un gruppo? Tale obiettivo può essere raggiunto attraverso:
   - Uccisione dei membri del gruppo;
   - Inflizione di gravi lesioni all’integrità fisica o psichica di membri del gruppo;
   - Sottoposizione del il gruppo a condizioni di vita tali da comportarne la distruzione;
   - Imposizione di misure volte ad impedire le nascite in un gruppo;
  - Trasferimento coatto di bambini appartenenti ad un gruppo ad un gruppo diverso.

Questi atti, a ben vedere, potrebbero essere qualificati come crimini contro l’umanità. Tra i
crimini contro l’umanità rientrano torture, stermini, deportazioni. Si tratta pertanto di
capire quanto tali atti possono può essere puniti in quanto crimini contro l’umanità e
quando invece possono assumere la connotazione più grave di genocidio. Perché scatti la
qualifica di genocidio occorrono due elementi ulteriori rispetto a quelli che permettono di
parlare di crimini contro l’umanità: uccisioni, inflizione di gravi lesioni, impedimento delle
nascite, oltre ad essere parte di un attacco esteso e sistematico:
  - devono essere commessi con un intento specifico, che è quello di distruggere in tutto
     o in parte un gruppo;
  - questo gruppo deve essere connotato in senso nazionale, razziale, etnico o religioso.

Come esempio di gruppo nazionale possiamo pensare agli italiani); come esempio di
gruppo etnico possiamo pensare agli appartenenti alle popolazioni Rom; come esempio di
gruppo razziale possiamo pensare alle persone di carnagione bianca; come esempio di
gruppo religioso possiamo pensare a coloro che professano il culto islamico. I gruppi
protetti sono soltanto questi quattro. Ne consegue che non può essere commesso un
genocidio contro un gruppo politico (per ipotesi contro gli individui politicamente orientati
a sinistra) o sessuale (per ipotesi contro gli individui omosessuali).

È complicato dimostrare che una certa condotta costituisce un genocidio e non invece un
crimine contro l’umanità. In particolare, ciò che è complicato dimostrare è che certi
stermini sono stati compiuti con l’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo.

Per esempio, nel caso della ex Iugoslavia, si è discusso molto sulla pulizia etnica dei
bosniaci musulmani: gran parte dell’aggressione condotta dai serbi contro la popolazione
civile era finalizzata allo scopo di far allontanare la popolazione musulmana da certe zone
perché si sperava di annettere quelle zone alla Serbia, ma non necessariamente allo scopo
di eliminarla fisicamente. La pulizia etnica è senza dubbio annoverata tra i crimini contro
l’umanità, e affinché tale condotta possa essere qualificata come genocidio occorre
dimostrare che attraverso la sua commissione non si vuole liberare certe zone dalla
presenza di un gruppo ma si vuole arrivare a distruggere quel gruppo.

Come si fa a provare che l’intenzione è quella di distruggere fisicamente un gruppo? Ci
vogliono degli elementi chiari. Ora nel caso della Germania nazista avevamo degli elementi
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chiari: Hitler parlò apertamente della soluzione finale degli ebrei, non fece mistero del
fatto che era sua intenzione distruggere totalmente la popolazione ebraica. Elementi chiari
erano presenti anche nel caso del Ruanda: lì alti rappresentanti dello Stato chiaramente
avevano dato l’ordine di eliminare tutte le popolazione che appartenevano alla minoranza
tutsi.

In tutti gli altri casi in cui un gruppo è stato sterminato non abbiamo invece la
dichiarazione di un alto rappresentante dello Stato che dice che bisogna eliminare tutti gli
appartenenti ad un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Ricostruire l’elemento
intenzionale è dunque un’operazione complessa e la mancanza di prove certe non è
possibile etichettare una condotta come genocidio. Così è accaduto ad esempio rispetto alla
crisi della regione sudanese del Darfur. Una commissione d’inchiesta istituita dal Consiglio
di Sicurezza nel 2004 per accertare i fatti commessi concluse che erano stati sì uccisi
tantissimi civili, ma tali uccisioni non potevano essere qualificate come genocidio in
quanto mancava la prova che a motivare le uccisioni fosse appunto un intento
genocidiario.

   Il crimine di aggressione.

Nel corso della Conferenza di Stati che ha portato alla redazione dello Statuto della Corte
penale internazionale non era stato raggiunto un accordo sul crimine di aggressione. L’art.
5 dello Statuto di Roma così, pur indicando l’aggressione tra i crimini di competenza della
Corte, aveva rinviato ad un momento successivo la formulazione della sua definizione e
l’individuazione delle condizioni per l’esercizio della sua giurisdizione in materia. Alla
lacuna rappresentata dall’assenza di una definizione condivisa ha posto rimedio la
Conferenza del 2010 che ha inserito nello Statuto l’art. 8 bis. L’art. 8 bis definisce sia l’atto
di aggressione da parte dello Stato sia il crimine di aggressione imputabile all’individuo.
L’aggressione può assumere due distinte qualificazioni giuridiche. Essa rappresenta un
atto illecito dello Stato che ne determina la responsabilità internazionale ma anche un
crimine dell’individuo che comporta la sua responsabilità penale personale.

Sebbene l’aggressione quale illecito dello Stato e l’aggressione quale crimine commesso
dall’individuo non sono altro che due facce della stessa medaglia, il loro accertamento è
effettuato da due soggetti distinti: il Consiglio di sicurezza nel primo caso, la Corte penale
internazionale nel secondo caso.

La Carta delle Nazioni Unite non fornisce alcuna definizione di aggressione e raramente ha
qualificato una situazione come aggressione armata; quindi la prassi non fornisce elementi
utili per risalire a tale nozione. Elementi utili si ricavano invece dalla Dichiarazione sulla
definizione dell’aggressione, adottata dall’Assemblea generale nel 1974, la quale fornisce
alcune linee guida per l’individuazione di ipotesi di aggressione, senza però pretendere di
essere esaustiva. L’elenco contenuto nella Dichiarazione è infatti meramente
esemplificativo e non limita la discrezionalità del Consiglio di sicurezza. Per quanto
riguarda invece il crimine di aggressione, ricordiamo che i Tribunali di Norimberga e di
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Tokyo disponevano della giurisdizione in materia, erano cioè competenti a pronunciarsi in
ordine alla sua commissione da parte dei gerarchi, rispettivamente, tedeschi e giapponesi,
e ne avevano così elaborato una definizione. Ai sensi dei rispettivi Statuti l’aggressione
consisteva nella progettazione, nella preparazione, nello scatenamento e nella
continuazione di una guerra di aggressione.

Durante la Conferenza di revisione, per definire l’atto illecito dello Stato viene riportato
l’elenco che compare nella Dichiarazione del 1974 ed è quindi indubbio che tale previsione
nulla aggiunga né tolga all’ampio potere discrezionale del Consiglio di Sicurezza in
materia. Il crimine individuale di aggressione viene invece definito come la pianificazione,
la preparazione, lo scatenamento, da parte di una persona in grado di dirigere l’azione
politica e militare dello Stato, di un atto di aggressione che, per carattere, gravità e portata,
costituisca una manifesta violazione della Carta delle Nazioni Unite.

L’aggressione, per poter costituire un crimine individuale, deve consistere in una
violazione manifesta della Carta ONU. Ed è come, dunque, che si fosse verificato uno
“scollamento” tra l’illecito dello Stato e il crimine dell’individuo. Dall’art. 8 bis, infatti, si
deduce che non tutti gli atti di aggressione (che pure siano in grado di determinare la
responsabilità dello Stato sul piano internazionale) rappresentano anche un crimine
dell’individuo. Si è in presenza di un crimine individuale di aggressione solo in presenza di
atti che inequivocabilmente integrano un attacco armato; ne deriva che possono essere
portati all’attenzione della Corte solo i casi in cui la qualifica di aggressione non sia dubbia.

Alla lacuna rappresentata dalla mancata individuazione delle condizioni per l’esercizio
della giurisdizione in materia di aggressione la Conferenza di revisione ha rimediato solo in
maniera parziale: è stato infatti adottato un emendamento che si aggiunge allo Statuto di
Roma, ma è stato stabilito che l’operatività di questo emendamento è sospesa fino ad una
nuova decisione degli Stati parti da assumere solo dopo il 2017. Quindi oggi la Corte penale
internazionale non potrebbe giudicare un individuo che si ritiene essere responsabile di un
crimine di aggressione.

Cosa dice questo emendamento? Esso permette l’esercizio della giurisdizione su iniziativa:
del Consiglio di Sicurezza, di uno Stato parte o del procuratore della Corte penale
internazionale (una sorta di pubblico ministero, ovvero un giudice che avvia il processo
penale dopo il compimento di indagini in merito a una o più fattispecie criminose).

Se ad attivare la Corte penale internazionale è il Consiglio di sicurezza non sorgono
problemi. Problemi sorgono quando la Corte penale internazionale si attiva di propria
iniziativa o su richiesta di uno Stato parte. In questo caso, infatti, si pone il problema di
stabilire quale rapporto intercorre tra la competenza della Corte a qualificare un certo
comportamento come aggressione e la competenza del Consiglio di Sicurezza a qualificare
quel comportamento come aggressione. L’art. 39 della Carta delle Nazioni Unite
attribuisce al Consiglio di Sicurezza il compito di accertare l’esistenza di un’aggressione e
di prendere le misure adeguate per reagire all’atto di aggressione. Tra queste misure
potrebbe rientrare l’attivazione della Corte penale internazionale.
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Quale è la soluzione accolta nell’emendamento? L’emendamento stabilisce che la Corte
penale internazionale, prima di attivarsi, deve verificare che il Consiglio di Sicurezza abbia
accertato l’esistenza di un atto di aggressione da parte dello Stato di cui è cittadino
l’individuo che ha pianificato o scatenato l’aggressione. Diverse sono state le alternative
discusse nel corso della Conferenza nel caso in cui un simile accertamento mancasse:
un’opzione era quella di impedire che le indagini prendessero avvio; un’altra opzione era
quella di consentire che le indagini iniziassero a condizione che un altro organo delle
Nazioni Unite (l’Assemblea generale o la Corte internazionale di giustizia) avesse accertato
l’esistenza di un atto di aggressione.

L’emendamento ha seguito un’altra strada, stabilendo che, in assenza di un accertamento
del Consiglio di Sicurezza ai sensi dell’art. 39 della Carta, è consentito al procuratore della
Corte penale internazionale procedere con le indagini, ma in questo caso è necessaria
l’autorizzazione da parte di un organo collegiale (composto cioè di più giudici) interno alla
stessa Corte. La prima opzione avrebbe comportato una completa subordinazione
dell’azione della Corte alle decisioni politiche del Consiglio di sicurezza; anche la seconda
opzione, a ben vedere, avrebbe fatto sì che l’operato della Corte subisse un
condizionamento esterno. La soluzione accolta, dunque, è quella che meglio si presta a
tutelare l’indipendenza della Corte penale internazionale dalle Nazioni Unite.

 I meccanismi attraverso i quali l’ordinamento internazionale fa valere la
responsabilità penale nei confronti degli autori dei crimini internazionali.

Si tratta di due meccanismi: uno decentrato, che ruota attorno all’azione dei singoli Stati;
l’altro accentrato, che è imperniato sui tribunali internazionali penali.

Cominciando dall’azione degli Stati, va detto che in base al diritto internazionale uno Stato
non è libero di sottoporre a giudizio un individuo senza che ci sia un collegamento tra
quell’individuo e lo Stato. Esistono normalmente dei criteri in base ai quali si stabilisce se
uno Stato ha o non ha competenza ad esercitare l’azione penale nei confronti di un certo
individuo:

  -   criterio della territorialità: uno Stato è competente se il crimine è stato commesso sul
      suo territorio;
  -   criterio della cittadinanza attiva: uno Stato è competente se quel crimine è stato
      commesso da un proprio cittadino;
  -   criterio della cittadinanza passiva: uno Stato è competente ad esercitare l’azione
      penale se il crimine è stato commesso a danno di un cittadino di quello Stato.

In presenza di questi criteri di collegamento, lo Stato può senza dubbio esercitare l’azione
penale. Se una fattispecie criminosa non presenta un immediato collegamento con lo Stato,
quello Stato non può esercitare l’azione penale. È assente un collegamento tra Stato e
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individuo se il crimine non è stato commesso sul suo territorio, non è stato commesso da
un suo cittadino o non è stato commesso contro un suo cittadino.

A questo principio fa eccezione il caso dei crimini internazionali: quanto un crimine
commesso da un individuo integra gli estremi di un crimine internazionale, allora tutti gli
Stati hanno il potere di esercitare l’azione penale indipendentemente dal luogo, dall’autore
o dalla vittima del crimine internazionale stesso. Rispetto ai crimini internazionali sussiste
dunque il principio della giurisdizione penale universale: ogni Stato può processare gli
autori di un crimine internazionale qualunque esso sia. Ogni Stato può giudicare gli
individui sospettati di aver commesso un crimine di guerra, crimine di aggressione,
crimine contro l’umanità, crimine di genocidio, crimine di tortura, crimine di pirateria).

Affinché uno Stato possa processare un criminale internazionale deve adeguare la propria
legislazione interna, deve cioè introdurre nel corpo delle regole che formano il diritto
penale la possibilità di esercitare la giurisdizione penale sulla base del principio della
giurisdizione penale universale. Ad oggi, non sono molti gli Stati che hanno esercitato la
giurisdizione penale in assenza di un collegamento con il crimine internazionale, e cioè
sulla sola base della gravità del crimine commesso. Però ci sono degli esempi eccellenti. In
Spagna esiste una legge che stabilisce la giurisdizione universale rispetto ai crimini
internazionali, quindi i giudici spagnoli hanno la facoltà di esercitare l’azione penale
rispetto a crimini internazionali commessi in qualunque parte del mondo. Una legge
analoga esiste in Belgio.

Va detto che queste leggi, se applicate, possono però pregiudicare le relazioni diplomatiche
dello Stato che esercita l’azione penale con lo Stato di cui è cittadino l’individuo sottoposto
a processo. Per questa ragione squisitamente politica le leggi sulla giurisdizione universale
spesso e volentieri trovano applicazione nei confronti di cittadini di Stati deboli, che hanno
cioè un peso limitato sul piano delle relazioni internazionali. Non è un caso che la
giurisdizione universale è stata finora esercitata rispetto ai membri di governo di Paesi in
via di sviluppo. Non c’è pertanto da stupirsi se i Paesi in via di sviluppo contestano
accanitamente il principio della giurisdizione penale universale, in quanto visto come una
sorta di strumento che consente ai Paesi occidentali di ingerirsi nei propri affari interni.

Il principio della giurisdizione universale prevede una serie di limitazioni:

   -   innanzitutto, l’azione penale può essere esercitata da uno Stato solo se l’individuo
       responsabile di un crimine internazionale è presente sul suo territorio. Per questa
       ragione sono caduti nel vuoto i processi che erano stati aperti in Belgio a carico di
       Sharon, allora primo ministro israeliano o a carico di Bush, all’epoca in cui era
       Presidente degli Stati Uniti.

   -   in secondo luogo, lo Stato che vuole esercitare la giurisdizione universale può farlo
       solo se lo Stato di cittadinanza del criminale internazionale non intende esercitare
       l’azione penale. In altri termini, il principio della giurisdizione penale universale

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costituisce uno strumento che opera in seconda battuta, cui si può ricorrere se lo
       Stato di cui è cittadino il criminale internazionale non intende agire.

Il secondo meccanismo per far valere la responsabilità internazionale degli autori di
crimini internazionali è rappresento dall’istituzione di tribunali penali internazionali. I
tribunali penali internazionali possono essere temporanei o permanenti.

I tribunali temporanei, definiti anche ad hoc in quanto si istituiscono per pronunciarsi su
determinate condotte, non sono molti. Il primo tribunale penale internazionale è stato il
Tribunale di Norimberga che fu istituito mediante un accordo tra quattro delle potenze
vincitrici della Seconda guerra mondiale: Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Russia. I
giudici del Tribunale di Norimberga erano giudici che provenivano da questi quattro Stati e
il carattere internazionale del Tribunale era legato essenzialmente al tipo di diritto da
applicare: appunto, il diritto internazionale. Esso aveva infatti competenza rispetto a tre
crimini: crimini di guerra, crimini contro l’umanità e crimini contro la pace. All’istituzione
del Tribunale di Norimberga fece seguito l’istituzione del Tribunale di Tokio, che doveva
giudicare invece i responsabili dei crimini commessi dalle alte autorità giapponesi durante
la Seconda guerra mondiale. Questo Tribunale fu creato mediante un decreto del
comandante militare statunitense che operava nell’area del Pacifico, quindi siamo qui in
presenza di un tribunale creato mediante un atto unilaterale degli Stati Uniti. Il Tribunale
di Tokyo, al pari di quello di Norimberga, era composto da giudici di diversa nazionalità, i
quali applicarono il diritto internazionale, giudicando anch’essi in merito a crimini di
guerra, crimini contro l’umanità e crimini contro la pace.

Nel 1993 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha istituito il Tribunale penale
internazionale per i crimini commessi nella ex Iugoslavia. L’anno successivo il Consiglio di
Sicurezza ha istituito il Tribunale internazionale penale per i crimini commessi in Ruanda.
Lo ha fatto interpretando estensivamente il contenuto dell’art. 41 della Carta, dedicato alle
misure non implicanti l’uso della forza che il Consiglio può adottare. Questi due Tribunali
hanno esaurito le loro funzioni.

Essi avevano alcuni elementi in comune:

  -   entrambi avevano la medesima competenza materiale: giudicavano cioè in merito a
      crimini di guerra, crimini contro l’umanità e crimine di genocidio;

  -   entrambi disciplinavano allo stesso modo il rapporto tra la loro competenza e la
      competenza dei giudici nazionali. Il fatto che fossero stati istituiti dei tribunali
      competenti a giudicare i responsabili dei crimini in Ruanda e nella ex Iugoslavia non
      escludeva che, in base al principio di giurisdizione universale, tutti gli Stati potessero
      esercitare l’azione penale. Tuttavia, la priorità spettava ai due Tribunali, i quali
      potevano richiedere che un individuo sottoposto a giudizio penale davanti ai giudici
      nazionali di uno Stato venisse trasferito al Tribunale per essere giudicato da
      quest’ultimo e lo Stato aveva l’obbligo di trasferirlo. Quest’obbligo discende dalle
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risoluzioni del Consiglio di sicurezza che hanno espressamente previsto l’obbligo per
      gli Stati membri dell’ONU di cooperare con i Tribunali istituiti.

I due Tribunali si distinguevano sotto diversi aspetti:

  -   chiaramente per la competenza locale (cioè il territorio preso in considerazione dai
      Tribunali): in un caso era il territorio dello Stato ruandese; nell’altro era il territorio
      della ex Iugoslavia;

  -   divergevano inoltre per la competenza temporale (cioè il momento a partire dal quale
      e fino al quale i tribunali potevano giudicare): il Tribunale per la ex Iugoslavia era
      competente per i crimini commessi dal ‘91 ma non contemplava una data finale;
      quindi teoricamente se fossero stati commessi altri dei crimini sul territorio dell’ex
      Iugoslavia, questo Tribunale avrebbe avuto ancora competenza. Tant’è che dopo la
      guerra del Kosovo del 1998, il Tribunale valutò se alcuni comportamenti tenuti delle
      truppe della NATO costituissero crimini di guerra o crimini contro l’umanità,
      giungendo però ad una conclusione negativa. Al contrario, il Tribunale per il Ruanda
      era competente solo per i crimini commessi nel 1994, quindi l’arco temporale è
      precisamente definito.

Il Consiglio di Sicurezza in seguito ha favorito la creazione di tribunali misti, ovvero
tribunali nazionali istituiti ad hoc che presentano tuttavia elementi di internazionalità: tra
questi il Tribunale per giudicare i crimini commessi nella Sierra Leone e il Tribunale per
giudicare i responsabili di un attentato che fu fatto in Libano nel 2006 per uccidere l’allora
il Capo di Stato.

Esiste oggi un tribunale penale permanente, che è la Corte penale internazionale, la quale
tuttavia, essendo stata istituita da un trattato, non ha competenza rispetto a tutti i crimini
internazionali che avvengono nel mondo. C’è una condizione indispensabile affinché la
Corte possa giudicare: occorre che gli Stati abbiamo aderito allo Statuto. In alternativa, e
cioè se gli Stati non vi hanno aderito, occorre che lo Stato territoriale (ossia quello dove
sono stati commessi i crimini) o lo Stato di cittadinanza attiva (ossia quello di cui è
cittadino il criminale internazionale) abbiano accettato ad hoc (cioè relativamente ad un
caso specifico) la competenza della Corte.

Esiste tuttavia un terzo meccanismo in base al quale la Corte può esercitare la sua
giurisdizione nel caso in cui lo Stato territoriale o lo Stato di cittadinanza non siano parti
contraenti dello Statuto né abbiano accettato la competenza della Corte in ordine ad un
determinato caso specifico. In base all’art. 13 dello Statuto della Corte, infatti, il Consiglio
di Sicurezza delle Nazioni Unite può decidere di attribuire alla Corte penale internazionale
la competenza rispetto ai crimini commessi ovunque e da chiunque. Questa norma è stata
pensata per consentire al Consiglio di Sicurezza di far valere la responsabilità penale dei
individui sospettati di aver commesso crimini internazionali senza dover istituire tribunali
ad hoc. Avvalendosi dei poteri che gli vengono attribuiti dall’art. 13, il Consiglio può
ampliare il raggio di azione di un tribunale già esistente. Si tratta di un meccanismo
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importante perché permette alla Corte penale internazionale di processare gli individui che
abbiano commesso criminali internazionali a prescindere dal fatto che gli Stati siano parti
o meno dello Statuto o abbiano accettato o meno ad hoc la competenza della Corte.

Pensiamo ad esempio ai crimini che sono stati commessi nella regione sudanese del Darfur
a partire dal 2003: se uno guarda al criterio del territorio, viene in considerazione il Sudan;
se uno guarda al criterio della cittadinanza degli autori dei crimini, viene in considerazione
sempre il Sudan. Il Sudan non è parte dello Statuto della Corte Penale Internazione quindi
in principio la Corte non avrebbe potuto esercitare la giurisdizione penale rispetto a tali
crimini. Se non fosse che il Consiglio di sicurezza si è avvalso dell’art. 13 proprio con
riferimento alla situazione del Darfur.

Vero è che ci sono Stati che non hanno aderito allo Statuto di Roma contro i quali il
meccanismo previsto dall’art. 13 non può funzionare: nello specifico, il riferimento è a
quegli Stati che dispongono del potere di veto in seno al Consiglio di sicurezza. Quindi la
Corte penale internazionale con tutta probabilità non potrà mai pronunciarsi su crimini
commessi negli Stati Uniti, in Russia o in Cina o su crimini commessi altrove da cittadini
statunitensi, russi o cinesi, perché è ovvio che tali Stati si avvarrebbero del potere di veto.

Il Consiglio di Sicurezza si vede riconoscere un altro potere importante dall’art. 16 dello
Statuto della Corte, in base al quale il Consiglio può sospendere l’azione della Corte per un
periodo di 12 mesi, eventualmente rinnovabile, nel caso in cui lo richiedano esigenze di
pace e di sicurezza nazionale. Il Consiglio di sicurezza si è avvalso di questo potere in
diverse circostanze e lo ha fatto per impedire alla Corte di attivarsi rispetto a crimini che
fossero stati eventualmente commessi da cittadini di uno Stato non parte dello Statuto di
Roma impegnati militarmente sul territorio di uno Stato parte dello Statuto nell’ambito di
operazioni di pace istituite o autorizzate dalle Nazioni Unite.

Ad esempio, quando nel 2003 il Consiglio di sicurezza ha autorizzato l’invio di una forza di
pace in Liberia ha stabilito che il personale militare degli Stati non parti dello Statuto
sarebbe stato soggetto alla giurisdizione esclusiva dello Stato di cittadinanza. Ora, se
consideriamo che tra gli Stati che hanno contribuito con il loro personale militare alla
missione vi erano gli Stati Uniti e che la Liberia ha aderito allo Statuto di Roma, è chiara la
ragione che ha spinto il Consiglio di sicurezza ad esercitare un simile potere. Se infatti
questo potere non fosse stato esercitato, e sul territorio liberiano fossero stati commessi
dei crimini da parte del personale militare statunitense, la Corte penale internazionale
sarebbe stata legittimata ad occuparsi di tali crimini in quanto commessi sul territorio di
uno Stato parte. Risoluzioni di questo tipo sono oggetto di forte contestazione poiché nei
fatti garantiscono l’immunità assoluta a favore dei miliari che sono cittadini di Stati non
parti dello Statuto di Roma.

Vediamo ora cosa succede nel caso in cui uno Stato esercita l’azione penale nei confronti di
un individuo e contemporaneamente anche la Corte vorrebbe esercitare l’azione penale nei
confronti del medesimo individuo. Rispetto ai Tribunali ad hoc vigeva principio di priorità
della giurisdizione dei Tribunali rispetto a quella degli Stati che volessero sottoporre a
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processo gli stessi individui. Per la Corte penale internazionale vale il principio
esattamente opposto. Se uno Stato sta giudicando un individuo o ha intenzione di
giudicarlo prevale la giurisdizione nazionale a scapito di quella della Corte penale
internazionale. La giurisdizione della Corte penale internazionale è cioè complementare
rispetto alla giurisdizione degli Stati. L’art. 17 dello Statuto stabilisce chiaramente che la
Corte può giudicare solo se lo Stato competente in base al criterio del territorio o della
cittadinanza non è in grado di condurre le indagini e avviare un processo o non è
intenzionato a farlo.

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