LE EMOZIONI DAGLI APPROCCI CLASSICI ALLA VISIONE POST RAZIONALISTA - TESI DI APPROFONDIMENTO PER
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TESI DI APPROFONDIMENTO PER L’AMMISSIONE AL III ANNO DELLA SPECIALITA’ Anno Accademico: 2009‐2010. Corso C 2 LE EMOZIONI DAGLI APPROCCI CLASSICI ALLA VISIONE POST‐RAZIONALISTA Relatori: dr.ssa: Sara Mazzucchelli dr.ssa: Angela Pedrini
“Tutti sanno che cos’è un’emozione finchè non gli viene chiesto di darne una definizione. Allora pare che nessuno lo sappia”. (Ferh, Russel, 1984) 2
INDICE INTRODUZIONE ............................................................................................................................................ 5 CAPITOLO 1: DA PLATONE AD ARCIERO ............................................................................................ 6 1.1 Le teorie periferiche dell’emozione ............................................................................................................. 7 1.2 Le teorie centrali dell’emozione................................................................................................................... 7 1.3 La posizione comportamentista e delle teorie sociali................................................................................. 10 1.4 I Neo-Jamesiani.......................................................................................................................................... 11 1.5 Le emozioni contestualizzate ..................................................................................................................... 13 CAPITOLO 2: LA PROSPETTIVA DI HEIDEGGER ............................................................................. 15 CAPITOLO 3: IL CONTRIBUTO DELLE NEUROSCIENZE ............................................................... 17 3.1 Le funzioni del sistema mirror ................................................................................................................... 18 3.2 Il mirroring nell’uomo................................................................................................................................ 19 3.3 La comprensione motoria dell’altro ........................................................................................................... 20 3.4 Emozioni e mirror system .......................................................................................................................... 22 CAPITOLO 4: LE EMOZIONI CAMBIANO COL MONDO ................................................................. 27 4.1 Modi d’essere incarnati ed emozioni ......................................................................................................... 29 4.2 L’emozione nel contesto sociale: eterodirezionalità .................................................................................. 30 4.3 Essere autori della propria esperienza ........................................................................................................ 32 4.4 La costruzione sociale delle emozioni ....................................................................................................... 33 4.5 Le emozioni in un’ottica evoluzionistica ................................................................................................... 37 4.6 La dialettica ipseità/alterità ........................................................................................................................ 40 CAPITOLO 5: INWARD E OUTWARD: DUE MODI DIVERSI DI ESPERIRE LE EMOZIONI .... 45 5.1 Inward......................................................................................................................................................... 46 5.2 Outward ...................................................................................................................................................... 48 CAPITOLO 6: ISTERIA: QUANDO L’ESPERIENZA EMOTIVA DIVENTA PATOLOGIA........... 50 6.1 Storia e teorie ............................................................................................................................................. 52 6.2 Incidenza, diagnosi e prognosi ................................................................................................................... 55 6.3 Comorbilità con patologie psichiatriche e lesioni organiche ..................................................................... 56 3
6.4 Correlati elettrofisiologici dei disturbi di conversione............................................................................... 56 6.5 Imaging emodinamico................................................................................................................................ 57 CONCLUSIONI ............................................................................................................................................. 60 CRITICHE...................................................................................................................................................... 61 Ricerche sulle basi neurali dell’emozione........................................................................................................ 62 Damasio: un primo passo verso l’abbandono del dualismo cartesiano............................................................ 63 Verso un approccio ermeneutico-fenomenologico dell’essere – e dell’essere e-mozionato ........................... 65 L’approccio ermeneutico-fenomenologico di G.Arciero ................................................................................. 68 BIBLIOGRAFIA ............................................................................................................................................ 71 INDICE DELLE FIGURE FIGURA 1 ....................................................................................................................................................... 17 FIGURA 2 ....................................................................................................................................................... 24 FIGURA 3 ....................................................................................................................................................... 24 FIGURA 4 ....................................................................................................................................................... 25 FIGURA 5 ....................................................................................................................................................... 28 FIGURA 6 ....................................................................................................................................................... 46 FIGURA 7 ....................................................................................................................................................... 48 FIGURA 8 ....................................................................................................................................................... 51 FIGURA 9 ....................................................................................................................................................... 65 4
INTRODUZIONE __________________________________________________________________ Per molti anni lo studio delle emozioni non ha ricevuto grande consenso nella comunità scientifica, diversamente da quanto è successo per altri aspetti della mente. Tale noncuranza trovava le proprie radici nell’opinione diffusa che le emozioni rappresentassero un risvolto secondario e meno nobile della vita mentale di un individuo che, pertanto, andava maggiormente studiata nella sua componente razionale. Più di recente la ricerca scientifica ha aperto i suoi orizzonti allo studio delle emozioni grazie, soprattutto, ai contributi offerti dalle neuroscienze. Questa inversione di rotta ha portato a considerare le emozioni non più come elemento scomodo, ingombrante e interferente dell’attività intrapsichica ma come componente importante e costitutiva dei processi cognitivi (si pensi alla tanto acclamata intelligenza emotiva) e dell’individuo più ampiamente inteso nella sua globalità. È sulla scia di questo crescente interesse che si incentra l’intento del nosro lavoro che, senza avere la pretesa di assimilarsi a un trattato illuminante ed esaustivo, si propone di analizzare, secondo un’ottica critico-costruttivista, le principali teorie e i passaggi più salienti che hanno portato a sviluppare la concezione dell’uomo come individuo contestualmente ed emotivamente situato. 5
CAPITOLO 1 DA PLATONE AD ARCIERO __________________________________________________________________ Le prime definizioni di emozione si possono far risalire a Platone e Aristotele, mentre le “passioni” sono state oggetto di riflessione di Tommaso d’Aquino, Cartesio, Hobbes, Hume, Spinoza, e Kant in epoche successive. A parte poche eccezioni, nel pensiero filosofico le “passioni” erano identificate come qualcosa di negativo che andava il più possibile limitato e controllato e non come un aspetto del comportamento umano che ha uno scopo e svolge una sua specifica funzione. Il secondo libro della retorica di Aristotele è un’analisi del flusso delle emozioni e delle passioni, inserite e considerate, però, in posizione marginale, come entità di terza classe rispetto alla conoscenza e alla volontà. Non viene riconosciuta una diffusività delle emozioni nell’ambito del pensiero come invece accade per la volontà. Nel “De Civitate Dei” S.Agostino afferma che “la volontà è in tutti i moti dell’animo, anzi tutti i moti dell’animo non sono altro che volontà”. Le emozioni vengono, quindi, celebrate nella misura in cui sono espressioni di uno stato o condizione morale vicina o aderente alla razionalità. Kant celebra, nella “Critica della Ragion Pratica”, il dovere definito “nome sublime e grande” e al tempo stesso definisce le emozioni malattie dell’anima. Le emozioni sono relegate ad un ambito non cognitivo dove vengono a costituire la matrice dell’appagamento o del soddisfacimento affettivo e, non a caso, delle valutazioni estetiche considerate come sprovviste di valenza conoscitiva. È solo verso la fine dell'800, con la nascita di una disciplina scientifica – la psicologia - che individua nel comportamento e nella vita mentale il proprio oggetto di studio che iniziano i primi tentativi di formulare i problemi legati alla natura delle emozioni in termini scientifici e, grazie alla fenomenologia, si apre il discorso sulle emozioni come tramite per accedere all’ontologia e alla ricerca del senso. 1.1 Le teorie periferiche dell’emozione William James (1884) capovolge la concezione ingenua ma diffusa che l’emozione sia prima di tutto uno stato mentale in grado di provocare nel nostro organismo cambiamenti fisiologici che generano poi le sensazioni. Secondo questo autore, invece, i cambiamenti fisiologici sono una conseguenza diretta della percezione di qualcosa di eccitante e le emozioni consistono nella presa di coscienza di tali cambiamenti. Il nostro organismo risponde in maniera altamente specifica ai cambiamenti ambientali. L’analisi dello stimolo avviene con un contributo 6
cognitivo minimo e in modo automatico. La risposta fisiologica riguarda sia gli innervamenti dei muscoli striati che il sistema nervoso autonomo. Possiamo avere aumenti del tono muscolare, contrazione dei visceri, variazioni del ritmo cardiaco, cambiamenti della frequenza respiratoria e altro ancora. Alcuni degli stimoli cui il nostro organismo reagisce possono indurre reazioni piuttosto marcate che il sistema nervoso centrale è in grado di cogliere e riconoscere. Nel modello di James, le emozioni altro non sono che la percezione di questi cambiamenti fisiologici che vengono indotti da eventi esterni. Un postulato di questo modello è che le reazioni tipiche delle emozioni siano diverse da quelle di episodi non emotivi e che ciascuna diversa emozione sia caratterizzata da un proprio specifico pattern di attivazione fisiologica. Lange nel 1887 pubblica un lavoro in cui propone una teoria che condivide con quella di James numerosi aspetti. Egli sostiene che il solo sistema nervoso autonomo sia responsabile dell’esperienza emotiva e individua sei emozioni basilari che corrispondono a sei diverse reazioni fisiologiche. Tutte le altre sfumature emotive derivano dalla combinazione di queste reazioni fondamentali. James e Lange propongono un modello periferico delle emozioni in cui il ruolo dei processi cognitivi è secondario: essi intervengono solo in un secondo momento e non sono i responsabili né dell’insorgenza né della qualificazione delle emozioni. L’ipotesi di James-Lange poggia su un assunto difficile da difendere: negli esseri umani il contraltare di spiccate abilità di discriminazione di stimoli esterni si traduce in ridotte capacità propriocettive. Ricerche condotte con il bio-feedback dimostrano, infatti, che solo soggetti adeguatamente addestrati sono in grado di percepire variazioni fisiologiche quali, per esempio, pressione sanguigna, contrazione muscolare, temperatura corporea che, secondo questa teoria, dovrebbero essere gli indicatori delle diverse esperienze emotive. Inoltre, non è stata data dimostrazione dell’esistenza di pattern di attivazioni specifiche delle diverse emozioni. Il merito più grande di questa teoria resta quello di aver posto la questione dello studio delle emozioni non più in termini filsofici ma empiricamente verificabili. 1.2 Le teorie centrali dell’emozione Il primo attacco frontale al modello periferico delle emozioni arriva da Cannon (1927) che conduce i suoi studi sezionando gatti. Egli sostiene che se le emozioni sono dovute alla percezione di cambiamenti fisiologici che avvengono in periferia, tagliando le vie nervose afferenti, in presenza di uno stimolo che di norma suscita un’emozione, qualsiasi espressione emotiva dovrebbe essere assente. Tuttavia, egli ha dimostrato che nonostante la resezione al collo delle vie afferenti, i gatti continuano a reagire a stimoli emotigeni. Questi risultati, però, 7
non hanno potuto dimostrare l’inattendibilità della teoria di James-Lange, non solo perché risulta difficile accertare che la reazione osservata nei gatti sia davvero una risposta emotigena a uno stimolo ma anche perché non tutte le vie afferenti secondarie sono state recise. D’altro canto la velocità di risposta del sistema nervoso autonomo è troppo lenta per spiegare l’origine dell’emozione: alla comparsa di uno stimolo emotivo, infatti, si manifesta una reazione prima che gli organi interni abbiano avuto il tempo di subire modifiche e di comunicarle all’encefalo. Cannon conclude affermando che l’emozione deve avere neessariamente origine a livello centrale e che le modificazioni periferiche possono, al più, svolgere un ruolo marginale nella determinazione del vissuto emotivo. La proposta teorica di Cannon diviene il capostipite di tutti i modelli centrali dell’emozione. Tutti i modelli cognitivi delle emozioni sono necessariamente modelli centrali. Essi condividono l’assunto che alla base di ogni fenomeno affettivo vi sia un’elaborazione cognitiva dello stimolo, e che questa elaborazione cognitiva sia il cuore e il motore di tutta l’esperienza emotiva. I diversi modelli differiscono, poi, nella descrizione dei meccanismi coinvolti e nel peso attribuito alla componente biologica. Partendo dal contributo di Cannon, Papez (1937) ha avanzato l’ipotesi secondo cui i centri di elaborazione e di controllo delle emozioni si situano lungo un circuito composto da ipotalamo, talamo anteriore, giro angolato e ippocampo (circuito di Papez). Nel 1949 MacLean integra questo circuito includendovi amigdala, nuclei del setto, porzioni della corteccia fronto- orbitaria e dei gangli della base, e denominandolo con il termine di sistema limbico. Questo sistema viene considerato come un sistema generale di attivazione e di mediazione di funzioni essenziali per la sopravvivenza dell’organismo, e come sede di elaborazione e regolazione dell’emozionalità. La stimolazione dell’ipotalamo nei gatti sembra indurre risposte di difesa affettiva, attacco predatorio, aggressione fra maschi e aggressione difensiva. Lesioni dell’amigdala, invece, producono la perdita della paura di fronte a pericoli e minacce, ipersessualità e forte oralità. Il circuito corticale (proiezioni amigdala-talamo-corticali) connette questa struttura con il sistema visivo, uditivo, gustativo e somatosensoriale, con le aree associative dei lobi frontali, temporali e parietali. È grazie a questa fitta rete di connessioni che l’amigdala entra a far parte in modo rilevante dei processi cognitivi superiori (confronto, categorizzazione, inferenza, ecc.) di valuazione degli eventi emotigeni e di attribuzione di significati emotivi (punizione, ricompensa, ecc.). Il contributo di Papez e MacLean allo studio delle emozioni dà l’avvio a un nuovo ambito disciplinare definito “neuroscienza affettiva”. Russel (1980) sostiene che il vissuto emotivo sia il risultato di un processo interpretativo in cui stimoli esterni e propriocettivi vengono categorizzati utilizzando le stesse strutture 8
cognitive che utilizziamo per interpretare il comportamento altrui. Le strutture di conoscenza chiamate in causa quando parliamo di emozioni sono le stesse che vengono utilizzate quando, nel corso di episodi emotivi, categorizziamo la nostra esperienza e interpretiamo il nostro vissuto. L’emozione che viviamo è il risultato di questo lavoro cognitivo. La posizione di Russel è esemplificativa delle assunzioni che in modo più o meno esplicito contraddistinguono buona parte degli psicologi cognitivisti che intorno alla metà degli anni ’80 del secolo scorso si sono occupati delle emozioni. Fehr e Russel (1984) hanno, inoltre, cercato di definire che cos’è un’emozione, evidenziando che il concetto di emozione può essere considerato come una categoria superordinata dai contorni sfocati in cui le emozioni che solitamente vengono riconosciute come fondamentali occupano posti centrali nella struttura della categoria, sono cioè esempi prototipici del concetto generale di emozione, mentre altre sono più marginali. Non esiste, in quest’organizzazione, un confine preciso che marchi il limite di ciò che è emozione distinguendolo da ciò che non lo è. Così rabbia e felicità sono emozioni molto tipiche, mentre preoccupazione e noia lo sono meno. Il fatto che, in quest’ottica, l’emozione sia ciò che la gente pensi che un’emozione sia, rappresenta una posizione scientificamente inassolta. Lazarus, Averill, Opton (1970) partono dalla definizione di emozione come sindrome, ovvero come complesso di sintomi che comunemente si manifestano insieme, ma nessuno dei quali è necessario e sufficiente per fare diagnosi; molti di questi sintomi, inoltre, sono comuni a patologie differenti. In altre parole, non vi è un sintomo patognomonico atto a identificare una specifica emozione. Folkman e Lazarus (1985) sostengono che sia opportuno concettualizzare le emozioni come un processo psicologico. Tale processo ha inizio in seguito ad un evento scatenante, e ha un proprio decorso temporale. Nel corso dell’episodio emotivo avvengono cambiamenti su diversi piani: fisiologico, comportamentale, cognitivo. L’emozione ha termine quando le conseguenze psicologiche dell’evento scatenante sono state compensate dal soggetto. Anche secondo questa visione è, però, necessario che accada un evento, una modificazione della situazione affinché si verifichi una risposta emotiva; come se gli individui vivessero normalmente in uno stato non-emotivo (come se non fossero sempre e comunque emotivamente connotati) governato da razionalità e autocontrollo e permanessero in tale stato finchè una contingenza stimolasse in loro risposte emotive. 9
1.3 La posizione comportamentista e delle teorie sociali La psicologia di matrice comportamentista considera le emozioni alla stregua di variabili intervenienti nei processi di apprendimento. Ciò comporta un disinteresse delle emozioni in sé. Duffy (1941) propone addirittura di eliminare dal lessico psicologico la parola emozione e tutti i concetti ad essa legati in quanto non necessari per la spiegazione del comportamento emotivo. Una svolta importante nello studio delle emozioni arriva dai ricercatori che operano nell’ambito della psicologia sociale che, per la prima volta, prendono in considerazione le variabili legate alla rete di significati e di relazioni con cui quotidianamente l’individuo si trova a contatto. Shcachter e Singer (1962) e Schachter (1964) descrivono e verificano empiricamente un modello che individua due componenti necessarie e sufficienti a originare un’emozione: l’attivazione fisiologica e l’interpretazione cognitiva. L’attivazione fisiologica consiste in uno stato di eccitazione indifferenziata dell’organismo che normalmente si instaura quando un’individuo avverte che una situazione richiede un’azione diretta. Si tratta, in altre parole, di una sorta di preparazione indifferenziata a un comportamento che possa soddisfare richieste ambientali. Una volta che l’organismo è in uno stato di attivazione, il sistema cognitivo fornisce un’interpretazione di questa eccitazione alla luce delle caratteristiche della situazione e questo processo produce l’esperienza emotiva soggettiva. Tuttavia, anche se mai esplicitato da Schachter, affinché la reazione fisiologica indifferenziata abbia luogo è necessario che la situazione ambientale venga valutata come potenzialmente pericolosa o particolarmente piacevole. L’emozione è, quindi, il risultato di un processo fisiologico e di due distinti processi cognitivi: è presente un’attivazione fisiologica indifferenziata, la situazione ambientale viene analizzata dai processi cognitivi, viene percepito un nesso causale tra situazione e attivazione. Secondo questo modello le teorie di James e Cannon sarebbero entrambe corrette ma incomplete in quanto ciascuna analizza una sola delle due componenti coinvolte nel processo emozionale. Differentemente da quanto proposto da James, la teoria di Schachter non prevede una differenziazione fisiologica delle emozioni dato che ogni stato emotivo è veicolato da un’attivazione indifferenziata. Inoltre, prevede che vi sia la possibilità di troncare l’emozione sul nascere nel momento in cui l’intepretazione della situazione non trova nesso causale con l’eccitazione. Infine, ritiene possibile generare e pilotare artificialmente un’emozione inducendo farmacologicamente l’eccitazione e suggerendo al soggetto un’interpretazione causale. Le critiche mosse a questo modello riguardano il fatto che l’idea che sia possibile modificare l’emozione agendo su una delle due componenti, o sul legame causale che tra loro si deve instaurare è stata ripetutamente sottoposta a verifica empirica con risultati altalenanti. Reisenzein 10
(1982) conclude che il modello non è sostenuto da risultati di ricerca sufficientemente robusti e che per la maggior parte dei risultati a favore è possibile trovare spiegazioni alternative. Infine, anche l’assunto che l’attivazione fisiologica sia un fenomeno indifferenziato è stato attaccato sul piano teorico e su quello empirico. Tuttavia, l’importanza del modello risiede nel fatto che a partire dal lavoro di Schachter l’emozione viene concepita come un fenomeno che si generra nel corso dell’interazione dell’individuo con il proprio ambiente e che dà luogo a sensazioni soggettive la cui natura dipende anche dal significato che viene attribuito alla situazione. Darwin (1872) sviluppa l’idea che il comportamento emotivo e, in particolare, l’espressione facciale sia universale e frutto di programmi motori innati, evolutisi insieme alla specie umana. Tuttavia, le sue osservazioni hanno un carattere puramente descrittivo. I primi dati psicologici a riguardo risalgono a Ekman (1972) e Ekman e Friesen (1971). Questi autori hanno utilizzato stimoli fotografici evitando l’uso di etichette linguistiche nel riconoscimento delle espressioni emotive allo scopo di impedire possibili fraintendimenti semantici; in questo modo hanno potuto mostrare che alcune emozioni sono correttamente riconosciute anche da membri di culture assai diverse dalla nostra. Ekman postula, pertanto, l’esistenza di sei emozioni umane fondamentali: tristezza, felicità, ira, paura, disgusto, sorpresa. Ognuna di queste sei emozioni è espressa da una specifica contrazione facciale. Tutte le altre emozioni derivano da queste o dalla loro mescolanza. Secondo l’autore ogni emozione fondamentale si associa a un’espressione specifica del volto, in modo rapido e automatico. 1.4 I Neo-Jamesiani Più recentemente Prinz (2003) si è proposto di difendere, in parte, la teoria di James- Lange, secondo cui le emozioni si esauriscono in cambiamenti corporei, o nella loro percezione. Egli sostiene che sicuramente le emozioni rappresentano espressioni somatiche, ma estende l’idea di “cambiamenti corporei” anche al substrato neurale. In questo modo, Prinz non assume che le emozioni siano sempre esperite consciamente, difendendo però l’idea che queste siano comunque percezioni di cambiamenti che avvengono nel corpo, nella sua totalità, ma che questi cambiamenti possano avvenire anche senza un’esplicita consapevolezza da parte dell’individuo. In virtù di ciò, un’emozione inconscia può non essere percepita in termini di variazioni fisiche, ma nonostante ciò può esserci alla base una modificazione nelle dinamiche neurali. Prinz parte dal prendere atto che sicuramente per una vasta gamma di emozioni e in una grande varietà di situazioni la teoria di James-Lange rimanga valida, ma restano un’infinità di contesti nei quali la percezione corporea è tanto inutile quanto insufficiente per ottenere una risposta emotiva. In 11
primo luogo, invalidando una serie di studi compiuti da Hohmann (1966) su pazienti con danni alla spina dorsale, Prinz, in accordo con Damasio (1999), dimostra che una diminuzione nella sensibilità e nella percezione del proprio corpo non necessariamente comporta un restringimento della gamma delle emozioni, né una loro diminuizione in intensità: è in questo contesto che viene proposto da Damasio che le risposte emotive potrebbero essere in grado di “scavalcare” il corpo per mezzo di quello che viene chiamato “as-if loop”. Se un’emozione è la percezione di un cambiamento corporeo, allora il substrato corticale che soggiace a questa percezione dovrebbe essere in grado di attivarsi anche in assenza di un reale cambiamento corporeo, agendo “come se” il cambiamento fosse avvenuto. Egli definisce queste emozioni “rappresentazioni di secondo ordine”. Le rappresentazioni di primo ordine, invece, sono emozioni (colpa, solitudine, emozioni di lunga durata come l’innamoramento, ecc), che implicano cambiamenti corporei non così bruschi e repentini da essere colti chiaramente dal soggetto, ma che tuttavia sussistono, e dunque meriterebbero attenzione (al contrario di quanto sostenuto in passato, quando si riteneva che per queste emozioni non occorressero variazioni corporee). Prinz ne conclude, dunque, che le emozioni sono sì incarnate, ma sono anche, e soprattutto, valutazioni, dove per valutazione egli intende qualsiasi rappresentazione di una relazione organismo/ambiente. I neo-jamesiani, quindi, sostengono che comunque l’emozione deve essere incarnata, e può emergere consapevolmente grazie all’intervento dell’attenzione. Prendendo origine dalle teorie dei neo-jamesiani, la prospettiva cognitiva, introdotta da Solomon (1976, 2003a, 2003b, 2004) propone come nucleo centrale la convinzione che le emozioni siano giudizi valutativi. All’obiezione che un giudizio implica una presa di coscienza, e l’utilizzo di sistemi cognitivi di alto livello, mentre abbiamo detto che le emozioni possono anche essere non percepite consapevolmente, Solomon ribatte con una nuova interpretazione di cognizione, definita “giudizi del corpo” (Solomon 2003b), che comprende un mix di fenomeni che vanno dalle manifestazioni autonomiche della prontezza all’azione alle tendenze comportamentali, ai sentimenti. Il reintegrare il corpo nella sfera cognitiva permette a Solomon di affermare che “un giudizio non è un atto intellettuale isolato, ma un modo di afferrare cognitivamente il mondo” (Solomon, 2004). Commentando gli approcci di Prinz e di Solomon, Scarantino (2005) identifica abbastanza correttamente le caratteristiche comuni di queste due teorie nel tentare di essere una risposta alle critiche mosse nei loro confronti e nei riguardi degli approcci precedenti: non a caso le definisce “placeholder strategy”. Se da un lato, infatti, i neo-jamesiani avevano completamente distorto il significato assegnato da James alla percezione dei cambiamenti corporei, d’altro canto i cognitivisti fanno lo stesso con la nozione di giudizio. 12
Secondo l’approccio post-razionalista, tali teorie sono strettamente legate ad una visione pre-heideggeriana dell’uomo, che risulta essere separato dal mondo. 1.5 Le emozioni contestualizzate Una serie di studi inaugurati da Fridlund (1994, 1997) si muovono nella direzione dell’inserire l’uomo all’interno di un contesto, all’interno del mondo. In opposizione alla teoria di Ekman dei programmi affettivi, Fridlund sposta l’attenzione sulla situatezza sociale delle emozioni. Secondo Fridlund et al. (Parkinson, 1995; Parkinson, Fischer e Manstead, 2005), ben lungi dall’essere modificazioni simili a riflessi prodotte dall’organismo, le emozioni sono prodotte ed espresse in qualità di segnali di negoziazione tra organismi impegnati in una transazione sociale in divenire. Gli organismi, quindi, generano comportamenti emotivi per influenzare la condotta degli altri organismi. Ricerche condotte studiando l’intensità e la durata del sorriso di atleti premiati in presenza o in assenza di pubblico dimostrano che le espressioni emotive non corrispondono solo ad esperienze emotive, ma anche a gesti comunicativi della persona che prova l’emozione, e che queste espressioni vengono prodotte in qualità di un “muoversi” all’interno della specifica situazione in atto. Fridlund interpreta questo “muoversi” come strategico, cioè come prodotto per influenzare l’interagente e di conseguenza per “servire il muoversi sociale di qualcuno all’interno di uno specifico contesto” (Fridlund, 1997). Il risvolto della medaglia è che l’interagente, a sua volta, influenza le manifestazioni dell’attore: le varie emozioni, quindi, sono modellate man mano dall’interazione stessa, seguendo il contesto che cambia. L’enfasi posta sugli aspetti strategici della produzione di emozioni, all’interno del contesto di un’interazione sociale che muta nel tempo col divenire della situazione, caratterizza gli sviluppi successivi delle ricerche iniziate da Fridlund. Questo approccio, che possiamo chiamare transazionalismo (Scarantino, 2005), interpreta i segnali emozionali come prevalentemente prodotti per scopi di negoziazione o per promuovere l’attenzione dell’interagente. Viste sotto questo aspetto, le emozioni possono essere intese come risposte più o meno adeguatamente goal-oriented, a seconda delle opportunità (delle affordances) offerte on- line, nel corso dell’interazione, da colui che sta provando l’emozione (Griffiths e Scarantino, 2008). Un’evidenza che viene spesso citata a supporto dell’ipotesi strategica è lo studio di Stein, Trabasso e Liwag (1993) che dimostra che la possibilità di ottenere una ricompensa produce una risposta – in caso di perdita – che non è tristezza, ma rabbia. Questo non può essere spiegato appellandosi alle teorie cognitive, né a quelle neo-jamesiane, che ricorrono ad un solipsismo 13
dell’uomo: si deve necessariamente fare appello ad una visione che tenga conto del mondo, del contesto e delle interazioni che lo caratterizzano. Lo spostamento di prospettiva da processi interni a processi interpersonali porta all’attenzione due aspetti di grande importanza, tra loro interconnessi: 1. Le dinamiche temporali del dispiegarsi delle emozioni, concetto implicito nella concettualizzazione di emozione come di una transazione sociale; 2. L’ininterrotto movimento dell’uno verso l’altro dei partecipanti all’interazione (letteralmente: “e-motion”, muovere verso), che i transazionalisti considerano essere una risposta goal-oriented emessa nel corso dell’interazione. Aggiungendo un’ulteriore riflessione rispetto a quanto proposto dai transazionalisti, però, possiamo sostenere che un’emozione non ha bisogno, necessariamente, che vi siano interlocutori, o contesti sociali da condizionare direttamente, per poter nascere e per essere esperita: questo e-motioning, questo “muoversi verso”, corrisponde più in generale, e più correttamente, ad uno “spostamento da” un certo contesto, attraverso la generazione di un nuovo set di possibili azioni e percezioni che permettono nuove forme di interazione con l’ambiente, suggerite dall’ambiente stesso. Emozionarsi apparirebbe, quindi, come una continua variazione di modi di sentirsi situati, il che significherebbe avere nuove possibilità d’azione, attraverso un continuo ri-orientarsi in relazione all’andamento del contesto in atto. Accettando questo punto di vista, sembra, quindi, inappropriato concettualizzare le emozioni in termini di “disposizioni dinamiche del corpo all’azione, che specificano in ogni istante il dominio dell’azione dell’organismo “ (Maturana, 1994). Come abbiamo detto, è la situazione che si sta svolgendo che permette a ciascuno di trovarsi (di esser-ci in senso heideggeriano), e che determina come uno si sentirà in ogni specifico istante. Il modo in cui noi ci sentiamo in un determinato momento rappresenta, dunque, il punto di partenza da cui noi vediamo le possibilità che determinano il nostro sentirci situati: in breve il contesto ci offre delle possibilità d’azione che ci permettono di sentirci situati in quel contesto stesso, in grado di interagire con esso in una determinata connotazione emotiva. Detto in altre parole, per citare Arciero (1988), il fatto che una persona si senta in un certo stato emotivo dipende sempre dal trovarsi in una data situazione e in un modo nel quale siamo inclini a reagire in una certa maniera a quelle circostanze. La caratteristica principale dell’emozionarsi risiede proprio in questo: qualsiasi modo di sentirsi si riferisce ad una situazione, e la situazione, reciprocamente, manifesta la sua significatività svelandosi in relazione al modo di sentirsi del soggetto, a come questo si sente situato. 14
CAPITOLO 2 LA PROSPETTIVA DI HEIDEGGER __________________________________________________________________ Nell’àmbito della filosofia di carattere non analitico e non positivista, Heidegger ha più di ogni altro tematizzato le emozioni. In “Essere e Tempo” (Heidegger, 1953), situazione affettiva (Befindlichkeit) e comprensione (Verstehen) sono cooriginariamente determinate dal discorso. Perfino la persistente mancanza di emozioni non è vuoto emotivo, perché in quella condizione l’esistenza risulta essere un peso (Last). La tonalità affettiva costituisce l’orizzonte di apertura dell’ente, che è l’uomo, rispetto a se stesso e al mondo; il suo esser-ci, il “ci” dell’esserci (Dasein), sono determinati e dipendono esclusivamente dall’emotività. L’affettività non è né un “factum brutum”, non è il dato di fatto della nuda presenza, né è una determinazione categoriale. L’emotività è un auto-sentimento, che non è assorbito né dalla razionalità, né dalla fede religiosa. L’emotività proietta l’uomo al di là della dicotomia o del dilemma razionalismo/irrazionalismo. L’emotività scopre l’uomo in un percorso che non è una ricerca di qualcosa, bensì una fuga da qualcosa. L’emotività scopre l’uomo a se stesso nello stato di un enigma. Ciò che caratterizza l’emotività per Heidegger è, infatti, l’irraggiungibilità della sua origine e del suo manifestarsi. La tonalità affettiva sorprende l’uomo, non proviene né dall’interno, né dall’esterno, ma emerge dall’essere al mondo da parte dell’uomo. Nell’emotività è riposta la matrice affettiva fondamentale della filosofia. Come osserva Heidegger in “Problemi fondamentali della filosofia”, lo stupore, la meraviglia costituiscono la matrice del discorso filosofico. “Lo stupore è la dismisura dell’indecisione tra quel che l’ente nella sua totalità è, in quanto ente, e quel che si spinge avanti come ciò che non ha stabilità, non ha struttura e che costantemente è trascinato via, ossia, qui, nel contempo, ciò che subito si sottrae” (Heidegger, 1988). Il nesso emotività/conoscenza, il nesso affettività/comprensione si manifestano nella capacità di riconoscimento che è aperta e determinata esclusivamente dalla modalità affettiva di ricezione degli eventi. Nulla potrebbe risultare minaccioso o attraente agli occhi della razionalità o dell’intuizione come tali. E’ la modalità affettiva che scopre il significato della presenza, il senso di ciò che c’è. Perciò Heidegger (1927) dichiara che “Alles Verstehen ist immer befindliches” (ogni comprensione è sempre emotiva) e che “Alles Verstehen ist gestimmtes” (ogni comprensione è emotivamente tonalizzata). Questa condizione corrisponde a ciò che, in tutt’altra area di ricerca, è stato osservato da antropologi e psicologi americani, e cioè che nessuno stimolo determina o affetta semplicemente l’organismo umano, dal momento che è propria della risposta di questo 15
organismo la funzione di modificare la natura e il senso della causa che è all’origine della risposta. Ed è per questa ragione che noi non cogliamo mai lo stimolo che stimola, la domanda che domanda, la risposta che risponde (Follet, 1924). L’affettività strappa l’uomo da se stesso, colpendolo lo fa evadere da se stesso, e da questo punto si originano i destini dell’uomo che può lasciarsi travolgere dal mondo, dalla banalità della vita quotidiana, dalla sfera del “si dice” e del “si fa”, del “man macht” e del “man sagt” nella deiezione (Verfallen) della chiacchiera, della curiosità e dell’equivoco perché il mondo deiettivo, osserva Heidegger, è tentatore e al tempo stesso tranquillizzante. Oppure l’uomo può dirigersi nella direzione dell’autenticità riconoscendosi come quell’ente la cui essenza è quella di interrogarsi sul proprio essere al mondo. Ma una cosa è certa, due filosofi così lontani e eterogenei fra loro come Heidegger e Nelson Goodman asseriscono che le emozioni vanno effettivamente sentite, e non semplicemente menzionate. Goodman (1979) scrive in “Problems and Projects” che “indeed, emotions must be felt…”. Secondo Heidegger (1953) la paura esprime ciò che è essere al mondo, l’esserci dell’uomo. “Solo avendo paura è possibile accedere alla paura, osservando espressamente, “veder chiaro” in ciò che fa paura”. In altre parole Heidegger afferma che la conoscenza è inaugurata dalla tematizzazione delle emozioni. Le emozioni costituiscono il repertorio delle modalità secondo le quali l’uomo recepisce il mondo, ossia l’orizzonte delle sue possibilità. L’emotività costituisce il paradigma esistenziale dell’uomo. Da questo punto in poi l’uomo non è qualcosa di più delle sue possibilità, ma neanche è qualcosa di meno perché ciò che nel suo poter essere non è ancora, esistenzialmente lo è. Heidegger conclude: “divieni quello che sei”. E naturalmente si tratta di una forte assunzione teorica come tale, ma è anche la sua segreta risposta a Nietzsche che scriveva di come si diventa quello che si è. Attraverso il filtro dell’emotività Heidegger riconnette parti e componenti dell’essere al mondo che una tradizionale quanto sterile dicotomia aveva separato, ossia il mondo delle cose come esse sono in sé, fredde, nude e obiettive, e la sfera valoriale portata avanti dall’uomo. Sicuramente, non è che qualcosa si faccia avanti come una pura presenza, come un nudo fatto che successivamente viene caricato di un’interpretazione, qualcosa di freddo e obiettivo che successivamente viene predicato come una porta, un tavolo o un libro. Comprensione e interpretazione procedono insieme, di pari passo. Non è che, come credevano filosofi metafisici e filosofi positivisti, da un lato ci siano i fatti nudi e obiettivi e dall’altro noi, soggetti umani, che tappezziamo i fatti con valori. 16
CAPITOLO 3 IL CONTRIBUTO DELLE NEUROSCIENZE _________________________________________________________________ Mentre assistiamo ad un evento sportivo, durante la proiezione di un film, oppure durante l’ascolto di un brano musicale ci sentiamo coinvolti. La spiegazione di questo coinvolgimento proviene dalla scoperta dei “neuroni specchio” (Figura 1), una popolazione di neuroni visuo- motori individuati nei primati, in alcuni uccelli e nell’uomo. L’attivazione di questi neuroni avviene sia durante l’esecuzione di azioni sia durante l’osservazione delle stesse azioni compiute da altri. Nell’osservatore si assiste ad un fenomeno di “rispecchiamento neuronale” del comportamento dell’osservato, come se il primo stesse compiendo le azioni effettuate dal secondo. Nell'uomo inoltre, a differenza di altre specie, oltre alle aree motorie e premotorie, i neuroni specchio occupano anche l'area di Broca e la corteccia parietale inferiore. La portata di questa scoperta è tale da indurre scienziati del calibro di Ramachandran (2000), secondo cui i Figura 1 neuroni specchio sono coinvolti sia nei processi imitativi che in quelli linguistici, ad affermare che: “I neuroni specchio saranno per la psicologia quello che il DNA è stato per la biologia.” I primi esperimenti, condotti sui macachi, hanno permesso di localizzare i neuroni specchio nella corteccia premotoria ventrale (area F5) e nel lobo parietale inferiore. La loro particolarità consiste nel fatto che essi vengono attivati quando le scimmie eseguono alcune azioni, ma l’attivazione si ottiene anche quando le scimmie osservano le stesse azioni specifiche compiute da altri soggetti. Nonostante da tempo si supponesse l’esistenza dei neuroni specchio anche nell’uomo, la conferma di questa ipotesi è arrivata solo di recente con la pubblicazione di un articolo di Mukamel et al. (2010). 17
3.1 Le funzioni del sistema mirror Diverse sono le ipotesi che ruotano attorno alla funzione del sistema dei neuroni specchio. Una di queste riguarda il processo di apprendimento mediante imitazione, in cui la comprensione delle azioni compiute da altre persone gioca un ruolo fondamentale. Un’altra che sostiene che le azioni osservate possano essere riprodotte da un meccanismo di simulazione come il sistema dei neuroni specchio, mette in relazione i processi linguistici con la teoria della mente (Arbib, 2004). Un’altra ancora secondo cui la parziale localizzazione di alcune attività complesse quali la comunicazione e il linguaggio in una porzione dell’area di Broca, suggerisce l’ipotesi che i neuroni specchio possano costituirne la base biologica (Théoret, Pascual-Leone, 2002). Infine, sono state avanzate ipotesi sul ruolo svolto dal sistema dei neuroni specchio nei meccanismi patogenetici di alcuni disturbi psichici, in particolare l’autismo infantile (Oberman et al., 2005), la cui caratteristica principale è costituita dall’incapacità di cogliere gli stati affettivi altrui (Dapretto et al., 2006). Agli inizi degli anni ’80, alcune ricerche sulla corteccia premotoria della scimmia rivelano l’esistenza di neuroni attivati durante l’esecuzione di azioni finalizzate (non di singoli movimenti). L’esperimento, vòlto allo studio dei neuroni deputati al controllo dei movimenti della mano (es. raccogliere o maneggiare oggetti), coinvolge la corteccia premotoria ventrale (area F5) di un macaco. La registrazione dell’attività corticale a livello del singolo neurone avviene mentre l’animale accede a porzioni di cibo, permettendo così il monitoraggio di movimenti specifici (Rizzolatti et al., 1996). Durante l’esperimento i ricercatori hanno modo di registrare l’attività di alcuni motoneuroni del macaco mentre osserva immobile uno dei ricercatori nell’intento di prendere una banana dal cesto della frutta. Nonostante la scimmia sia immobile i suoi motoneuroni reagiscono alla vista dell’azione condotta dallo sperimentatore. Le successive misurazioni sperimentali confermano quanto inizialmente osservato quasi per caso. Anche altri dati sperimentali in tempi successivi confermano questa scoperta, specificando il coinvolgimento di altre aree corticali, e disegnando quindi la formazione di un vero e proprio sistema neurale composto da circuiti cortico-corticali di integrazione sensoriale che interessano sia la corteccia motoria e premotoria del lobo frontale, sia la corteccia parieto- temporale (Gallese et al., 1996; Fogassi et al., 2005). Negli anni ’90, i primi studi sono stati effettuati sul macaco, con la scoperta di una popolazione di neuroni visuo-motori nella corteccia premotoria ventrale (area F5) (Pellegrino et al., 1992). Successivamente, la presenza dei neuroni specchio viene identificata anche nella porzione rostrale del lobo parietale inferiore (aree PF e PFG) in cui sono presenti connessioni 18
con l’area F5 (Rizzolatti et al., 2004). L’insieme delle aree coinvolte viene chiamato sistema dei neuroni specchio (Mirror Neuron System, MNR) e forma un circuito integrato dal punto di vista funzionale, svolgendo un ruolo chiave nei processi di comprensione del comportamento degli altri. La funzione primaria del sistema è chiamata “matching function”, e consiste nell’accordare le rappresentazioni visive delle azioni con le corrispondenti rappresentazioni motorie. Il dato è valido nel 70% dei neuroni specchio, la cui classificazione avviene in base ai diversi tipi di azione codificata: manipolare, afferrare, tenere, ecc. Tutti i casi menzionati appartengono alla categoria delle cosiddette azioni transitive (con la presenza dell’oggetto), al contrario delle azioni intransitive (in assenza dell’oggetto) in cui non si verifica alcuna risposta del sistema specchio. Siccome nella maggioranza dei neuroni specchio dell’area F5 vi è attività anche quando l’animale non può vedere la conclusione dell’azione (es.: la mano dello sperimentatore è nascosta al momento del raggiungimento dell’oggetto), si può dedurre una certa capacità anticipatoria riguardante la finalità delle azioni osservate (Umiltà et al., 2001). Una conseguenza importante è che l’osservatore, essendo in grado di ricostruire l’azione, è anche capace di giungere ad una comprensione dell’intenzione benché in modalità implicita. Nelle scimmie, l’attivazione dei neuroni specchio avviene sia quando è il soggetto stesso a compiere l’azione sia quando osserva altri mentre compiono la stessa azione, ma nei soggetti adulti non si assiste a processi di apprendimento mediante imitazione. Al contrario, nei cuccioli di macaco esiste un periodo specifico neonatale in cui c’è la possibilità di imitare i movimenti facciali dell’uomo (Ferrati et al., 2006). Esistono differenti tipologie di neuroni specchio: i neuroni specchio “audiovisivi” dell’area F5 (Kohler et al., 2002) che entrano in funzione con il semplice ascolto del suono relativo ad un’azione; quelli cosiddetti “ingestivi” che riguardano le azioni transitive della bocca (leccare, mordere, masticare) e che si attivano quando il soggetto osserva lo sperimentatore mentre esegue azioni quali lo schiocco o la protrusione delle labbra o della lingua; quelli “comunicativi” (Ferrari et al., 2003) che si attivano in conseguenza di azioni legate alla pulizia reciproca e alla nutrizione in comportamenti ritualizzati. 3.2 Il mirroring nell’uomo Mentre nelle scimmie è stato possibile osservare e studiare sperimentalmente l’attività di singoli neuroni specchio, nell’uomo esistono dei limiti che sono stati aggirati solo grazie a metodiche non invasive di visualizzazione dell’attività delle aree cerebrali (es.: la registrazione delle variazioni nel flusso sanguigno provocate dall’attivazione neuronale). Tecniche quali la 19
fMRI, la PET e la TMS hanno consentito di localizzare le aree anatomiche popolate dai neuroni specchio che si attivano durante l’osservazione delle azioni altrui: la porzione rostrale anteriore del lobo parietale inferiore (che sembra corrispondere all’area 40 di Broadman, omologo umano all’area PF nella scimmia); il settore inferiore del giro precentrale; il settore posteriore del giro frontale inferiore (che corrisponderebbe all’area 44 di Broadman, considerata l’omologo umano dell’area F5 della scimmia); in alcuni esperimenti si osservano attività anche in un'area anteriore del giro frontale inferiore e nella corteccia premotoria dorsale (Rizzolatti et al., 2006). Per quanto concerne il sistema specchio dei neuroni nell’uomo, alcuni esperimenti (Buccino et al., 2001) indicano un’organizzazione di tipo somatotopico. Durante l’osservazione di azioni transitive (mordere una mela, afferrare una tazzina di caffè, calciare un pallone) eseguite da altri, infatti, si attivano alcune regioni del sistema motorio fronto-parietale che comprende anche l’area di Broca, parti della corteccia premotoria e del lobo parietale inferiore. Una caratteristica molto importante del sistema dei neuroni specchio nell’uomo è che esso non si limita solo agli atti motori transitivi o intransitivi, ma anche agli atti mimati. La maggiore estensione dimensionale e la crescente complessità del sistema dei neuroni specchio umano rispetto a quello della scimmia rivela quindi che esso è in grado di selezionare sia un tipo di azione che la sequenza di movimenti di cui è composta. La scoperta del sistema dei neuroni specchio ha favorito un cambiamento riguardante la “concezione del sistema motorio che per decenni ha attribuito alle aree motorie della corteccia cerebrale un ruolo puramente esecutivo: tradurre in movimenti le informazioni che il nostro cervello elabora, integrando gli stimoli sensoriali e le rappresentazioni mentali” (Rizzolatti et al., 2006a). Alla luce delle ricerche condotte sul sistema dei neuroni specchio, l’intero sistema motorio ha subìto una trasformazione dal punto di vista concettuale, passando da un’immagine molto semplificata ad una di maggiore complessità, in cui prevale una divisione meno netta delle aree cerebrali frontali e parietali, fino a formare un vero e proprio mosaico. 3.3 La comprensione motoria dell’altro La scoperta del sistema specchio, nel campo della neurofisiologia, ha permesso di sottoporre a verifica sperimentale la capacità di comprensione delle intenzioni degli altri. La comprensione delle azioni compiute dagli altri è il meccanismo su cui si basa buona parte della nostra vita sociale. Alla base della nostra capacità di comprendere le azioni degli altri c’è la cosiddetta “teoria della mente”, ovvero la capacità di inferire gli stati mentali degli altri, vale a dire i loro pensieri, opinioni, desideri, emozioni, sia all’abilità di usare tali informazioni per 20
interpretare ciò che essi dicono, attribuendo significato e prevedendo il loro comportamento. Tale processo ha luogo normalmente verso i 3-4 anni (Baron-Cohen et al., 1985). Grazie a questa capacità metarappresentazionale, il comportamento degli altri acquisisce significato, dotando l’osservatore dell’abilità di “leggere” la mente altrui. Se nel passato, in riferimento agli esperimenti sulle scimmie, si era portati a sottolineare l’aspetto imitativo dell’azione, oggi invece si tende ad evidenziare che i neuroni specchio riflettono un’attività potenziale già presente nel repertorio motorio della scimmia, meccanismo che permette la comprensione del significato degli eventi osservati. Inoltre, il riconoscimento del significato delle azioni non richiede necessariamente un ragionamento, ma si basa su una combinazione di atti percettivi e motori. Più recentemente, la capacità di comprensione delle azioni, dovuta ai neuroni specchio, è stata estesa anche alla possibilità di inferire le intenzioni degli altri. Nel cervello della scimmia ad esempio, mentre questa osserva lo sperimentatore, si assiste all’attivazione di una serie di concatenazioni motorie ritenute capaci di effettuare previsioni e anticipazioni circa l’esito dell’azione osservata. I ricercatori, ipotizzando la presenza di un analogo meccanismo anche nell’uomo, effettuano una serie di ricerche utilizzando metodi di visualizzazione dell’attività cerebrale, quali l’fMRI, che mettono in evidenza una maggiore ricchezza e complessità di funzioni rispetto a quanto avviene nella scimmia. Oltre alla capacità di comprendere le azioni e le intenzioni, il sistema dei neuroni specchio è responsabile anche di processi imitativi quali la replica intenzionale delle azioni osservate oppure l’apprendimento di nuove azioni. “L’attivazione di questi neuroni permette la comprensione immediata del significato intenzionale delle azioni degli altri senza la necessità di ogni esplicita o deliberata mentalizzazione” (Rizzolatti et al., 2007). Questo nuovo modello concettuale non pone più delle rigide barriere tra le differenti funzioni quali la percezione, l’azione e la cognizione, ma suggerisce che solo grazie ad un approccio motorio all’intenzionalità è possibile una comprensione globale di tali meccanismi. La capacità di riconoscere immediatamente il significato intenzionale di un atto motorio ci rende in grado di spiegare le azioni degli altri in termini di credenze o desideri. Parimenti non potremmo spiegare il comportamento altrui in termini di intenzioni, e immaginare le conseguenze, se non fossimo in possesso delle conoscenze motorie che regolano le rappresentazioni coinvolte sia nelle azioni esecutive sia in quelle comprensive. Più semplicemente, le azioni compiute da una persona (singolo atto o concatenazione di atti motori) acquistano per noi un significato a prescindere da ciò che la persona in questione ha in mente. Il discorso è valido anche in senso opposto: le nostre azioni possiedono un significato immediato per coloro che ci osservano. 21
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