LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA A.A. 2013 2014 POESIE E RACCONTI

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LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA
          A.A. 2013‐2014

         POESIE E RACCONTI
Agli studenti

        Calma, per favore!

        Lo so che il fascicolo è corposo e che le sedici ore previste per il laboratorio, di cui dodici in aula e
quattro occupate dallo svolgimento a casa di un compito dato, non consentiranno di prestare adeguata
attenzione se non ad alcuni, pochi, dei testi qui raccolti.

         E dunque sgombriamo subito il campo da un possibile equivoco: delle poesie e dei racconti che vi
proponiamo non vi sarà richiesta parafrasi o riassunto, né ci aspettiamo che impariate a conoscere vita
morte e miracoli dei molti scrittori ai quali si è guardato. Ci basterà che osserviate le indicazioni fornite dal
conduttore durante il primo incontro, e che leggiate i materiali anche di corsa, di sfuggita, per soffermarvi
su quelli soltanto che più sono stati capaci di colpirvi, di toccarvi, di accendere il vostro interesse, di
suscitare un’emozione, una riflessione, una domanda. Su quelli soltanto (per ogni partecipante o gruppo
di partecipanti: non meno di tre e non più di cinque poesie, tratte da due sezioni diverse, non meno di
due e non più di quattro racconti) verterà il laboratorio negli incontri successivi: dove a voi spetterà di
argomentare le vostre scelte, al conduttore di individuare e privilegiare le opere più apprezzate, e a tutti
di condividere un’esperienza attiva di lettura, analisi, interpretazione del testo. Un’esperienza mirata, in
senso stretto, a favorire la comprensione dei dati costitutivi della comunicazione letteraria, dei
meccanismi che la governano e che le permettono di sopravvivere all’usura del tempo, dei termini in cui si
può e si deve configurare il rapporto fra autore e lettore. E un’esperienza intesa, in senso lato, a garantire
la strumentazione di base per leggere bene, secondo cuore e secondo coscienza, in silenzio e a voce alta,
e per rendersi conto dell’opportunità, o addirittura della necessità, di educare sé stessi per primi, e in
futuro i bambini, a familiarizzare, a fare amicizia, con le rime e con le storie.

        Non sono sicura, anzi dubito molto, di avervi convinto. Ma confido, e anzi credo fermamente, che
la partecipazione al laboratorio, il coinvolgimento concreto nelle sue attività, si presterà a dissipare i
dubbi e le riserve che oggi, a freddo, probabilmente coltivate. E il mio invito, a laboratorio ultimato, è di
conservare questo fascicolo, di tornare di quando in quando a sfogliarlo, di utilizzarlo, direi, come un
servizio di primo intervento: per saggiare la varietà e la ricchezza della letteratura del Novecento, per
avere accesso a opere e autori che non sempre trovano spazio nelle antologie scolastiche, per reperire
materiali di qualità adatti anche, in alcuni casi, a un pubblico infantile. Perché è stato questo lo spirito con
cui l’abbiamo concepito: abbondare nell’offerta, e diversificarne i contenuti, affinché ognuno potesse
scegliere secondo il gusto e le esigenze, personali o professionali, del momento, affinché ognuno potesse
cercare e trovare, nelle sue pagine, una ragione e uno stimolo per leggere oltre, per leggere altro, per
leggere ancora.

                I testi sono stati ordinati, secondo la data della prima pubblicazione accertata, sotto il nome
dei relativi autori; e gli autori, a loro volta, sono stati disposti secondo la generazione di appartenenza, dai
nati nella seconda metà dell’Ottocento a quelli che hanno oggi, o avrebbero se fossero vissuti, l’età dei
vostri nonni o genitori. L’accorgimento adottato, nella parte dedicata alla poesia, di distinguere gli autori
fra “I padri fondatori”, “I classici” e “Altri classici”, ha una funzione puramente orientativa, di contrasto
rispetto allo spaesamento che la quantità e l’eterogeneità dei materiali presentati potrebbe provocare.
Ma attenzione a non dare per scontato ciò che scontato non è, a non cadere nell’inganno di pensare che
un autore, narratore o poeta, coltivi sempre lo stesso orticello, e che la sua vena non si modifichi, di tanto
o di poco, con lo scorrere del tempo o l’avvicendarsi delle occasioni. I racconti di Italo Calvino per
esempio, come del resto i suoi romanzi, si declinano in molte differenti direzioni, memorialistica,
fantastica, realistica; e quelli di Primo Levi, la cui fama si associa nel sapere comune al bellissimo e tragico
Se questo è un uomo, sono esemplari nel ricreare, spesso e volentieri, atmosfere incantate e rarefatte, tra
fiaba e fantascienza. Per non dire dei poeti, sperimentatori instancabili, tutti o quasi tutti, di forme e
generi diversi. Alfonso Gatto, per esempio, esordisce con una raccolta di poesie per bambini, che aggiorna
e rivisita nei suoi anni più maturi dopo essersi fatto conoscere prima come poeta lirico e poi come cantore
appassionato, epicamente intonato, della lotta contro il nazifascismo. E perfino Roberto Piumini, firma
celeberrima della moderna letteratura per l’infanzia, ha sconfinato non di rado in territori riservati,
scandirebbe una didascalia televisiva, “a un pubblico di soli adulti”: per limitarmi alla produzione in versi,
e per citare non più di due titoli, ricordo L’amore in forma chiusa del 1997 e L’amore morale. Sonetti
erotici del 2001. Insomma state in guardia, e non cedete alla tentazione di abboccare a etichette di
comodo, a definizioni che pretendano di inchiodare l’immagine di un autore, e la prospettiva del suo
immaginario, a uno soltanto dei molti aspetti di cui si compongono. Sarebbe un errore di cui potreste
pentirvi: leggere per credere.

        L’assenza di un apparato di note, introduttive o esplicative, è puramente intenzionale, finalizzata a
che la voce del testo vi arrivi forte, vi arrivi pulita, senza filtri e mediazioni preliminari. Il contributo dei
conduttori, unitamente a quello delle lezioni del modulo istituzionale o della bibliografia collegata,
sopperiranno comunque ai bisogni avvertiti.

        Grazie per la pazienza con cui mi avete seguito. Buona lettura e buon laboratorio!

                                                                                   Giovanna Benvenuti
INDICE POESIE

I PADRI FONDATORI
Giovanni Pascoli                                             9
Dall’argine
Il tuono
La mia sera
Gabriele D’Annunzio                                          11
La pioggia nel pineto

I CLASSICI
Guido Gozzano                                                14
La differenza
Invernale
Salvezza
Umberto Saba                                                 16
Città vecchia
[Guarda là quella vezzosa]
Donna
Aldo Palazzeschi                                             18
Chi sono?
Rio Bo
Giuseppe Ungaretti                                           19
Veglia
Sono una creatura
San Martino del Carso
Natale
Soldati
Mattina
Eugenio Montale                                              22
I limoni
[Meriggiare pallido e assorto]
[Non recidere, forbice, quel volto]
[Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale]
Salvatore Quasimodo                                          25
Ed è subito sera
Alle fronde dei salici
Quasi un epigramma
Sandro Penna                                                 26
Nuotatore
[Io vivere vorrei addormentato]
[Il mare è tutto azzurro]
[Era fermo per me. Ma senza stile]
Leonardo Sinisgalli                                          27
San Babila
[I fanciulli battono le monete rosse]
Alfonso Gatto                           28
Consiglio spassionato
Il 4 è rosso
Per i martiri di Piazzale Loreto
Attilio Bertolucci                      30
La rosa bianca
Pagina di diario
Giorgio Caproni                         31
Il mare brucia le maschere
Sassate
Le parole
Antonia Pozzi                           32
Sera d’aprile
Rifugio
Vittorio Sereni                         33
[Non sa più nulla, è alto sulle ali]
[Ahimè come ritorna]
Dall’Olanda
Mario Luzi                              35
Notizie a Giuseppina dopo tanti anni
La notte lava la mente
Valerio Magrelli                        36
[Essere matita è segreta ambizione]
[Spesso c’è bonaccia sulla pagina]

ALTRI CLASSICI
Fosco Maraini                           37
Il giorno a urlapicchio
Ballo
Toti Scialoja                           38
[Una zanzara di Zanzibàr]
[L’ippopota disse «Mo]
[La zanzara, per decenza]
[Un esercito di pulci]
[Oh, formica!]
[La rosa non è rossa]

Gianni Rodari                           39
I mari della luna
Alla formica

Nico Orengo                             40
Un uccellino

Roberto Piumini                         41
Lo scrittore scrive scrive
Fu il gioco del solletico. All’inizio
INDICE RACCONTI

Federigo Tozzi
Senza titolo                                                 46

Dino Buzzati
Il colombre                                                  47

Cesare Pavese
La fine d’agosto                                             52

Elsa Morante
Il mondo Marte è cascato                                     54

Primo Levi
Titanio                                                      56
La grande mutazione                                          58

Beppe Fenoglio
La sposa bambina                                             62

Italo Calvino
Luna e Gnac                                                  66
Il giardino incantato                                        71
L’avventura di due sposi                                     75

Luigi Malerba
La erre                                                      78
Storia del mondo dalle origini ai giorni nostri              79
Il vermetto nero nero                                        80
Il gioco dello scippo                                        81

Stefano Benni
Shimizé                                                      85
I quattro veli di Kulala                                     86

Giuseppe Pontremoli
Autopresentazione                                            89

Marco Lodoli
Ghigo Alberighi                                              90

Aldo Nove
Marta Russo                                                  93
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PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI

                               POESIE

                                        8
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PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI

                                      I PADRI FONDATORI

        GIOVANNI PASCOLI (1855‐1912)
        Edizione di riferimento G.Pascoli, Poesie, vol. I, Oscar Mondadori 1997

        Dall’argine (Originariamente in Myricae, Giusti 1891, sezione In campagna)

        Posa il meriggio su la prateria.
        Non ala orma ombra nell’azzurro e verde,
        un fumo al sole biancica: via via
        fila e si perde.
        Ho nell’orecchio un turbinio di squilli,
        forse campani di lontana mandra:
        e, tra l’azzurro penduli, gli strilli
        della calandra.

        Il tuono (Originariamente in Myricae, Giusti 1891, sezione Tristezze)

        E nella notte nera come il nulla,
        a un tratto, col fragor d’arduo dirupo
        che frana, il tuono rimbombò di schianto:
        rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
        e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
        e poi vanì. Soave allora un canto
        s’udì di madre, e il moto d’una culla.

        La mia sera (Originariamente in Canti di Castelvecchio, Zanichelli, 1903)

        Il giorno fu pieno di lampi;
        ma ora verranno le stelle,
        le tacite stelle. Nei campi
        c'è un breve gre gre di ranelle.
        Le tremule foglie dei pioppi
        trascorre una gioia leggiera.
        Nel giorno, che lampi! che scoppi!
        Che pace, la sera!
        Si devono aprire le stelle
        nel cielo sì tenero e vivo.
        Là, presso le allegre ranelle,
        singhiozza monotono un rivo.
        Di tutto quel cupo tumulto,
        di tutta quell'aspra bufera,
        non resta che un dolce singulto
        nell'umida sera.
        E', quella infinita tempesta,
        finita in un rivo canoro.
        Dei fulmini fragili restano
        cirri di porpora e d'oro.

                                                                                     9
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        O stanco dolore, riposa!
        La nube nel giorno più nera
        fu quella che vedo più rosa
        nell'ultima sera.
        Che voli di rondini intorno!
        Che gridi nell'aria serena!
        La fame del povero giorno
        prolunga la garrula cena.
        La parte, sì piccola, i nidi
        nel giorno non l'ebbero intera.
        Nè io ... che voli, che gridi,
        mia limpida sera!
        Don ... Don ... E mi dicono, Dormi!
        mi cantano, Dormi! Sussurrano,
        Dormi! bisbigliano, Dormi!
        là, voci di tenebra azzurra ...
        Mi sembrano canti di culla,
        che fanno ch'io torni com'era ...
        sentivo mia madre ... poi nulla ...
        sul far della sera.

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        GABRIELE D’ANNUNZIO (1863‐1938)
        Edizione di riferimento G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, Mondadori 1982

        La pioggia nel pineto (Originariamente in Alcyone, Libro terzo delle Laudi, pubblicato in
        unico volume con il Libro secondo, Elettra, per Treves 1903 ma in data editoriale 1904)

        Taci. Su le soglie
        del bosco non odo
        parole che dici
        umane; ma odo
        parole più nuove
        che parlano gocciole e foglie
        lontane.
        Ascolta. Piove
        dalle nuvole sparse.
        Piove su le tamerici
        salmastre ed arse,
        piove su i pini
        scagliosi ed irti,
        piove su i mirti
        divini,
        su le ginestre fulgenti
        di fiori accolti,
        su i ginepri folti
        di coccole aulenti,
        piove su i nostri vólti
        silvani,
        piove su le nostre mani
        ignude,
        su i nostri vestimenti
        leggieri,
        su i freschi pensieri
        che l’anima schiude
        novella,
        su la favola bella
        che ieri
        t’illuse, che oggi m’illude,
        o Ermione.

        Odi? La pioggia cade
        su la solitaria
        verdura
        con un crepitìo che dura
        e varia nell’aria
        secondo le fronde
        più rade, men rade.
        Ascolta. Risponde
                                                                                                    11
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PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI

        al pianto il canto
        delle cicale
        che il pianto australe
        non impaura,
        né il ciel cinerino.
        E il pino
        ha un suono, e il mirto
        altro suono, e il ginepro
        altro ancóra, stromenti
        diversi
        sotto innumerevoli dita.
        E immersi
        noi siam nello spirto
        silvestre,
        d’arborea vita viventi;
        e il tuo volto ebro
        è molle di pioggia
        come una foglia,
        e le tue chiome
        auliscono come
        le chiare ginestre,
        o creatura terrestre
        che hai nome
        Ermione.

        Ascolta, ascolta. L’accordo
        delle aeree cicale
        a poco a poco
        più sordo
        si fa sotto il pianto
        che cresce;
        ma un canto vi si mesce
        più roco
        che di laggiù sale,
        dall’umida ombra remota.
        Più sordo e più fioco
        s’allenta, si spegne.
        Sola una nota
        ancor trema, si spegne,
        risorge, trema, si spegne.
        Non s’ode voce del mare.
        Or s’ode su tutta la fronda
        crosciare
        l’argentea pioggia
        che monda,
        il croscio che varia

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PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI

        secondo la fronda
        più folta, men folta.
        Ascolta.
        La figlia dell’aria
        è muta; ma la figlia
        del limo lontana,
        la rana,
        canta nell’ombra più fonda,
        chi sa dove, chi sa dove!
        E piove su le tue ciglia,
        Ermione.

        Piove su le tue ciglia nere
        sì che par tu pianga
        ma di piacere; non bianca
        ma quasi fatta virente,
        par da scorza tu esca.
        E tutta la vita è in noi fresca
        aulente,
        il cuor nel petto è come pèsca
        intatta,
        tra le pàlpebre gli occhi
        son come polle tra l’erbe,
        i denti negli alvèoli
        son come mandorle acerbe.
        E andiam di fratta in fratta,
        or congiunti or disciolti
        (e il verde vigor rude
        ci allaccia i mallèoli
        c’intrica i ginocchi)
        chi sa dove, chi sa dove!
        E piove su i nostri vólti
        silvani,
        piove su le nostre mani
        ignude,
        su i nostri vestimenti
        leggieri,
        su i freschi pensieri
        che l’anima schiude
        novella,
        su la favola bella
        che ieri
        m’illuse, che oggi t’illude,
        o Ermione.

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                                                 I CLASSICI
        Guido Gozzano (1883‐1916)
        Edizione di riferimento G. Gozzano, Le poesie, a cura di E. Sanguineti, Einaudi 1990.

        La differenza (originariamente in La via del rifugio, Streglio 1907)

        Penso e ripenso: ‐ Che mai pensa l’oca
        gracidante alla riva del canale?
        Pare felice! Al vespero invernale
        protende il collo, giubilando roca.

        Salta starnazza si rituffa gioca:
        né certo sogna d’essere mortale
        né certo sogna il prossimo Natale
        né l’armi corruscanti della cuoca.

        ‐ O pàpera, mia candida sorella,
        tu insegni che la Morte non esiste:
        solo si muore da che s’è pensato.

        Ma tu non pensi. La tua sorte è bella!
        Ché l’esser cucinato non è triste,
        triste è il pensare d’esser cucinato.

        Invernale (originariamente in I colloqui, Treves 1911, nella prima sezione, intitolata Il giovenile
        errore)

        «... cri... i... i... i... i... icch»…
                                        l’incrinatura
        il ghiaccio rabescò, stridula e viva.
        «A riva!» Ognuno guadagnò la riva
        disertando la crosta malsicura.
        «A riva! A riva!...» Un soffio di paura
        disperse la brigata fuggitiva.
        «Resta!» Ella chiuse il mio braccio conserto,
        le sue dita intrecciò, vivi legami,
        alle mie dita. «Resta, se tu m’ami!»
        E sullo specchio subdolo e deserto
        soli restammo, in largo volo aperto,
        ebbri d’immensità, sordi ai richiami.
        Fatto lieve cosí come uno spetro,
        senza passato piú, senza ricordo,
        m’abbandonai con lei, nel folle accordo,
                                                                                                              14
LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA
PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI

        di larghe rote disegnando il vetro.
        Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, piú tetro...
        dall’orlo il ghiaccio fece cricch, piú sordo...
        Rabbrividii cosí, come chi ascolti
        lo stridulo sogghigno della Morte,
        e mi chinai, con le pupille assorte,
        e trasparire vidi i nostri volti
        già risupini lividi sepolti...
        Dall’orlo il ghiaccio fece cricch, piú forte...
        Oh! Come, come, a quelle dita avvinto,
        rimpiansi il mondo e la mia dolce vita!
        O voce imperïosa dell’istinto!
        O voluttà di vivere infinita!
        Le dita liberai da quelle dita,
        e guadagnai la ripa, ansante, vinto...
        Ella sola restò, sorda al suo nome,
        rotando a lungo nel suo regno solo.
        Le piacque, alfine, ritoccare il suolo;
        e ridendo approdò, sfatta le chiome,
        e bella ardita palpitante come
        la procellaria che raccoglie il volo.
        Non curante l’affanno e le riprese
        dello stuolo gaietto femminile,
        mi cercò, mi raggiunse tra le file
        degli amici con ridere cortese:
        «Signor mio caro, grazie!» E mi protese
        la mano breve, sibilando: − Vile! −

        Salvezza (originariamente in I colloqui, Treves 1911, sezione Alle soglie)

        Vivere cinque ore?
        Vivere cinque età?...
        Benedetto il sopore
        che mi addormenterà…

        Ho goduto il risveglio
        dell’anima leggera:
        meglio dormire, meglio
        prima della mia sera.

        Poi che non ha ritorno
        il riso mattutino.
        La bellezza del giorno
        è tutta nel mattino.

                                                                                     15
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        UMBERTO SABA (1883‐1957)
        Edizione di riferimento U. Saba, Il Canzoniere, Einaudi 1961.

        Città vecchia [1910‐1912] (Originariamente in Coi miei occhi, Edizioni della «Voce» 1912; nel Canzoniere
        nella sezione Trieste e una donna)

        Spesso, per ritornare alla mia casa
        Prendo un’oscura via di città vecchia.
        Giallo in qualche pozzanghera si specchia
        Qualche fanale, e affollata è la strada.

        Qui tra la gente che viene che va
        Dall’osteria alla casa o al lupanare,
        dove son merci ed uomini il detrito
        di un gran porto di mare,
        io ritrovo, passando, l’infinito
        nell’umiltà.
        Qui prostituta e marinaio, il vecchio
        che bestemmia, la femmina che bega,
        il dragone che siede alla bottega
        del friggitore,
        la tumultuante giovane impazzita
        d’amore,
        sono tutte creature della vita
        e del dolore;
        s’agita in esse, come in me, il Signore.

        Qui degli umili sento in compagnia
        il mio pensiero farsi
        più puro dove più turpe è la via.

        [Guarda là quella vezzosa] (originariamente in L’amorosa spina, Libreria Antica e Moderna,
        1921; nel Canzoniere nella sezione omonima)

        Guarda là quella vezzosa,
        guarda là quella smorfiosa.

        Si restringe nelle spalle,
        tiene il viso nello scialle.

        O qual mai castigo ha avuto?
        Nulla. Un bacio ha ricevuto.

                                                                                                                   16
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        Donna (originariamente in Parole, Carabba 1934; nel Canzoniere nella sezione omonima)

        Quand’eri
        giovinetta pungevi
        come una mora di macchia. Anche il piede
        t’era un’arma, o selvaggia.

        Eri difficile da prendere.
                                Ancora
        giovane, ancora
        sei bella. I segni
        degli anni, quelli del dolore, legano
        l’anime nostre, una ne fanno. E dietro
        i capelli nerissimi che avvolgo
        alle mie dita, più non temo il piccolo
        bianco puntuto orecchio demoniaco.

                                                                                                17
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        ALDO PALAZZESCHI (1885‐1974)
        Edizione di riferimento A.Palazzeschi, Tutte le poesie, Mondadori 2002

        Chi sono? (Originariamente come poesia d’apertura, a sé stante, in Poemi, pubblicato a spese
        dell’autore nel 1909)

        Sono forse un poeta?
        No, certo.
        Non scrive che una parola, ben strana,
        la penna dell’anima mia:
        «follìa».
        Son dunque un pittore?
        Neanche.
        Non ha che un colore
        la tavolozza dell’anima mia:
        «malinconìa».
        Un musico, allora?
        Nemmeno.
        Non c’è che una nota
        nella tastiera dell’anima mia:
        «nostalgìa».
        Son dunque … che cosa?
        Io metto una lente
        davanti al mio cuore
        per farlo vedere alla gente.
        Chi sono?
        Il saltimbanco dell’anima mia.

        Rio Bo (originariamente in Poemi 1909, sezione Piccoli paesi e paesi in grande)

        Tre casettine
        dai tetti aguzzi,
        un verde praticello,
        un esiguo ruscello: Rio Bo,
        un vigile cipresso.
        Microscopico paese, è vero,
        paese da nulla, ma però...
        c'è sempre di sopra una stella,
        una grande, magnifica stella,
        che a un dipresso...
        occhieggia con la punta del cipresso
        di Rio Bo.
        Una stella innamorata?
        Chi sa
        se nemmeno ce l'ha
        una grande città.
                                                                                                       18
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        GIUSEPPE UNGARETTI (1888‐1970)
        Edizione di riferimento G. Ungaretti, Vita d’un uomo, Mondadori 1969.

        Veglia (Originariamente in Il porto sepolto, Stabilimento Tipografico Friulano, 1916)

        Un’intera nottata
        buttato vicino
        a un compagno
        massacrato
        con la sua bocca
        digrignata
        volta al plenilunio
        con la congestione
        delle sue mani
        penetrata
        nel mio silenzio
        ho scritto
        lettere piene d’amore.
        Non sono mai stato
        tanto
        attaccato alla vita.

        Cima Quattro il 23 dicembre 1915

        Sono una creatura (Originariamente in Il porto sepolto, Stabilimento Tipografico Friulano, 1916)

        Come questa pietra
        del San Michele
        così fredda
        così dura
        così prosciugata
        così refrattaria
        così totalmente
        disanimata

        Come questa pietra
        è il mio pianto
        che non si vede

        La morte
        si sconta
        vivendo.

        Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916

                                                                                                           19
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        San Martino del Carso (originariamente in                    San Martino del Carso (originariamente in
        Il porto sepolto, Stabilimento Tipografico Friulano,         Allegria di naufragi, Vallecchi 1919, sezione Il porto
        1916.)                                                       sepolto)

        Di queste case                                               Di queste case
        non c’è rimasto                                              non è rimasto
        che qualche                                                  che qualche
        brandello di muro                                            brandello di muro
        esposto all’aria
        Di tanti                                                     Di tanti
        che mi corrispondevano                                       che mi corrispondevano
        non è rimasto                                                non m’è rimasto
        neppure tanto                                                neppure tanto
        nei cimiteri
        Ma nel cuore                                                 Ma nel mio cuore
        nessuna croce manca                                          nessuna croce manca
        Innalzata
        di sentinella                                                È il mio cuore
        e che?                                                       il paese più straziato
        Sono morti
        cuore malato
        Perché io guardi al mio cuore                                Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto
        come a uno straziato paese                                   1916
        qualche volta

        Valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto
        1916

        Natale    (Originariamente in Allegria di naufragi, Vallecchi 1919, sezione Naufragi)

        Non ho voglia
        di tuffarmi
        in un gomitolo
        di strade
        Ho tanta
        stanchezza
        sulle spalle
        Lasciatemi così
        come una
        cosa
        posata
        in un
        angolo
        e dimenticata
        Qui
        non si sente

                                                                                                                              20
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        altro
        che il caldo buono
        Sto
        con le quattro
        capriole
        di fumo
        del focolare

        Napoli il 26 dicembre 1916

        Soldati   (originariamente in Allegria di naufragi, Vallecchi, 1919, sezione Girovago)

        Si sta come
        d’autunno
        sugli alberi
        le foglie

        Bosco di Courton luglio 1918

        Mattina (originariamente in Allegria di naufragi,   Vallecchi 1919, sezione Naufragi)

        M’illumino
        d’immenso.

                                                                                                 21
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        EUGENIO MONTALE (1896‐1981)
        Edizione di riferimento E. Montale, L’opera in versi, Einaudi 1980.

        I limoni (originariamente in Ossi di seppia, Gobetti 1925, sezione Movimenti)

        Ascoltami, i poeti laureati
        si muovono soltanto fra le piante
        dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
        Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
        fossi dove in pozzanghere
        mezzo seccate agguantano i ragazzi
        qualche sparuta anguilla:
        le viuzze che seguono i ciglioni,
        discendono tra i ciuffi delle canne
        e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

        Meglio se le gazzarre degli uccelli
        si spengono inghiottite dall’azzurro:
        più chiaro si ascolta il susurro
        dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,
        e i sensi di quest’odore
        che non sa staccarsi da terra
        e piove in petto una dolcezza inquieta.
        Qui delle divertite passioni
        per miracolo tace la guerra,
        qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
        ed è l’odore dei limoni.

        Vedi, in questi silenzi in cui le cose
        s’abbandonano e sembrano vicine
        a tradire il loro ultimo segreto,
        talora ci si aspetta
        di scoprire uno sbaglio di Natura,
        il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
        il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
        nel mezzo di una verità.
        Lo sguardo fruga d’intorno,
        la mente indaga accorda disunisce
        nel profumo che dilaga
        quando il giorno più languisce.
        Sono i silenzi in cui si vede
        in ogni ombra umana che si allontana
        qualche disturbata Divinità.

        Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
        nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra

                                                                                        22
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        soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
        La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
        il tedio dell’inverno sulle case,
        la luce si fa avara ‐ amara l’anima.
        Quando un giorno da un malchiuso portone
        tra gli alberi di una corte
        ci si mostrano i gialli dei limoni;
        e il gelo dei cuore si sfa,
        e in petto ci scrosciano
        le loro canzoni
        le trombe d’oro della solarità.

        [Meriggiare pallido e assorto] (originariamente in Ossi di seppia, Gobetti 1925, sezione Ossi di
        seppia)

        Meriggiare pallido e assorto
        presso un rovente muro d'orto,
        ascoltare tra i pruni e gli sterpi
        schiocchi di merli, frusci di serpi.

        Nelle crepe dei suolo o su la veccia
        spiar le file di rosse formiche
        ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
        a sommo di minuscole biche.

        Osservare tra frondi il palpitare
        lontano di scaglie di mare
        mentre si levano tremuli scricchi
        di cicale dai calvi picchi.

        E andando nel sole che abbaglia
        sentire con triste meraviglia
        com'è tutta la vita e il suo travaglio
        in questo seguitare una muraglia
        che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

        [Non recidere, forbice, quel volto] (originariamente in Le Occasioni, Einaudi 1939, sezione
        Mottetti)

        Non recidere, forbice, quel volto,
        solo nella memoria che si sfolla,
        non far del grande suo viso in ascolto
        la mia nebbia di sempre.

                                                                                                           23
LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA
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        Un freddo cala... Duro il colpo svetta.
        E l'acacia ferita da sé scrolla
        il guscio di cicala
        nella prima belletta di Novembre.

        [Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale] (originariamente in Satura,
        Mondadori 1971, sezione Xenia II)

        Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
        e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
        Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
        Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
        le coincidenze, le prenotazioni,
        le trappole, gli scorni di chi crede
        che la realtà sia quella che si vede.
        Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
        non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
        Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
        le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
        erano le tue.

                                                                                                 24
LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA
PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI

        SALVATORE QUASIMODO (1901‐1968)
        Edizione di riferimento S.Quasimodo, Tutte le poesie, Mondadori 1966

        Ed è subito sera (originariamente in Acque e terre (1920‐1929), Edizioni di Solaria 1930)

        Ognuno sta solo sul cuor della terra
        trafitto da un raggio di sole:
        ed è subito sera.

        Alle fronde dei salici (originariamente in Giorno dopo giorno, Mondadori 1947)

        E come potevamo noi cantare
        con il piede straniero sopra il cuore,
        fra i morti abbandonati nelle piazze
        sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
        d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
        della madre che andava incontro al figlio
        crocifisso sul palo del telegrafo?
        Alle fronde dei salici, per voto,
        anche le nostre cetre erano appese,
        oscillavano lievi al triste vento.

        Quasi un epigramma (originariamente in La terra impareggiabile, Mondadori 1958)

        Il contorsionista nel bar, melanconico
        e zingaro, si alza di colpo
        da un angolo e invita a un rapido
        spettacolo. Si toglie la giacca
        e nel maglione rosso curva la schiena
        a rovescio e afferra come un cane
        un fazzoletto sporco
        con la bocca. Ripete per due volte
        il ponte scamiciato e poi s’inchina
        col suo piatto di plastica. Augura
        con gli occhi di furetto
        un bel colpo alla Sisal e scompare.
        La civiltà dell’atomo è al suo vertice.

                                                                                                    25
LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA
PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI

          SANDRO PENNA (1906‐1977)
          Edizione di riferimento S. Penna, Poesie, Garzanti 19971

          Nuotatore [1927‐1938]

          Dormiva…?
          Poi si tolse e si stirò.
          Guardò con occhi lenti l’acqua. Un guizzo
          il suo corpo.
          Così lasciò la terra.

          [Io vivere vorrei addormentato] [1927‐1938]

          Io vivere vorrei addormentato
          entro il dolce rumore della vita.

          [Il mare è tutto azzurro] [1927‐1938]

          Il mare è tutto azzurro.
          il mare è tutto calmo.
          nel cuore è quasi un urlo
          di gioia. E tutto è calmo

          [Era fermo per me. Ma senza stile] [1938‐1955]

          Era fermo per me. Ma senza stile
          forse baciai quelle sue labbra rosse.
          Improvviso e leggero egli si mosse
          come si muove il vento entro l’aprile.

   1
    Una prima raccolta delle Poesie di Penna ebbe edizione per Parenti nel 1939, una seconda accresciuta per
   Garzanti nel 1957, una terza, con il titolo Tutte le poesie, riassuntiva dei testi editi e inediti allora conosciuti, per
   Garzanti 1970. L’edizione Garzanti 1997 si ritiene comprensiva dell’intera produzione in versi dell’autore.

                                                                                                                               26
LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA
PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI

        LEONARDO SINISGALLI (1908‐1981)
        Edizione di riferimento L. Sinisgalli, Ellisse. Poesie 1932‐1972, Mondadori 1974.

        San Babila (originariamente in L. Sinisgalli, Vidi le muse, Mondadori 1943)

        Trascina il vento della sera
        attaccate agli ombrelli a colore
        le piccole fioraie
        che strillano gaie nelle maglie.
        Come rondini alle grondaie
        resteranno sospese nell’aria
        le venditrici di dalie
        ora che il vento della sera
        gonfia gli ombrelli a mongolfiera.

        [I fanciulli battono le monete rosse] (originariamente in L. Sinisgalli, Vidi le muse, Mondadori
        1943)

        I fanciulli battono le monete rosse
        contro il muro. (Cadono distanti
        per terra con dolce rumore.) Gridano
        a squarciagola in un fuoco di guerra.
        Si scambiano motti superbi
        e dolcissime ingiurie. La sera
        incendia le fronti, infuria i capelli.
        Sulle selci calda è come sangue.
        Il piazzale torna calmo.
        Una moneta battuta si posa
        Vicino all'altra alla misura di un palmo.
        Il fanciullo preme sulla terra
        la sua mano vittoriosa.

                                                                                                           27
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PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI

        ALFONSO GATTO (1909‐1976)
        Edizione di riferimento A. Gatto, Tutte le poesie, Mondadori 2005.

        Consiglio spassionato (originariamente in Il sigaro di fuoco. Poesie per bambini, Bompiani 1945,
        volume poi ripubblicato, accresciuto e corredato da illustrazioni e da un disco con la voce recitante
        dell’autore, con il titolo Il vaporetto, La Nuova Accademia 1963. L’ultima edizione del Vaporetto, con
        CD audio, è Mondadori 2001)

        Non date retta al re,
        non date retta a me.
        Chi v'inganna
        si fa sempre più alto d'una spanna,
        mette sempre un berretto,
        incede eretto
        con tante medaglie sul petto.
        Non date retta al saggio
        al maestro del villaggio
        al maestro della città
        a chi vi dice che sa.
        Sbagliate soltanto da voi
        come i cavalli, come i buoi,
        come gli uccelli, i pesci, i serpenti
        che non hanno monumenti
        e non sanno mai la storia.
        Chi vive è senza gloria.

        Il 4 è rosso (originariamente in Poesie d’amore (1941‐1949), prima sezione di Poesie d’amore,
        Mondadori 1973)

        Dentro la bocca ha tutte le vocali
        il bambino che canta. La sua gioia
        come la giacca azzurra, come i pali
        netti del cielo, s’apre all’aria, è il fresco
        della faccia che porta. Il 4 è rosso
        come i numeri grandi delle navi.

                                                                                                                 28
LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA
PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI

          Per i martiri di Piazzale Loreto (originariamente in Il capo sulla neve (1943‐1947), raccolta di
          liriche sulla Resistenza comparse in un quaderno venduto in allegato al quotidiano “Milano Sera”)2

          Ed era l’alba, poi tutto fu fermo
          la città, il cielo, il fiato del giorno.
          rimasero i carnefici soltanto
          vivi davanti ai morti.
          Era silenzio l’urlo del mattino,
          silenzio il cielo ferito:
          un silenzio di case, di Milano.
          Restarono bruttati anche di sole,
          sporchi di luce e l’uno all’altro odiosi,
          gli assassini venduti alla paura.
          Era l’alba e dove fu lavoro,
          ove il piazzale era la gioia accesa
          della città migrante alle sue luci
          da sera a sera, ove lo stesso strido
          dei tram era saluto al giorno, al fresco
          viso dei vivi, vollero il massacro
          perché Milano avesse alla sua soglia
          confusi tutti in uno stesso cuore
          i suoi figli promessi e il vecchio cuore
          forte e ridesto, stretto come un pugno.
          Ebbi il mio cuore, ed anche il vostro cuore,
          il cuore di mia madre e dei miei figli
          di tutti i vivi uccisi in un istante,
          per quei morti mostrati lungo il giorno
          alla luce d’estate, a un temporale
          di nuvole roventi. Attesi il male
          come un fuoco fulmineo, come l’acqua
          scrosciante di vittoria, udii il tuono
          d’un popolo ridesto dalle tombe.
          Io vidi il nuovo giorno che a Loreto
          sopra la rossa barricata i morti
          saliranno per primi, ancora in tuta
          e col petto discinto, ancora vivi
          di sangue e di ragioni. Ed ogni giorno,
          ogni ora eterna brucia a questo fuoco,
          ogni alba ha il petto offeso da quel piombo
          degli innocenti fulminati al muro.

   2
     La poesia fa riferimento all’eccidio di Piazzale Loreto del 10 agosto 1944: quindici tra partigiani e antifascisti,
   prelevati dal carcere di San Vittore, furono fucilati per ordine dei tedeschi dai militi della legione “Ettore Muti”,
   che per rinforzare l’azione dimostrativa lasciarono esposti al pubblico i loro cadaveri.

                                                                                                                           29
LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA
PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI

        ATTILIO BERTOLUCCI (1911‐2000)
        Edizione di riferimento A.Bertolucci, Le poesie, Garzanti 2009

        La rosa bianca (Originariamente in Fuochi in novembre, Minardi, 1934)

        Coglierò per te
        L’ultima rosa del giardino,
        la rosa bianca che fiorisce
        nelle prime nebbie.

        Le avide api l’hanno visitata
        sino a ieri,
        ma è ancora così dolce
        che fa tremare.
        È un ritratto di te a trent’anni,
        un po’ smemorata, come tu sarai allora.

        Pagina di diario (Originariamente in Fuochi in novembre, Minardi, 1934)

        A Bologna, alla Fontanina,
        un cameriere furbo e liso
        senza parlare, con un sorriso,
        aprì per noi una porticina.

        La stanza vuota e assolata dava
        su un canale
        per cui silenziosa, uguale,
        una flotta d’anatre navigava.

        Un vino d’oro splendeva nei bicchieri
        Che ci inebbriò;
        l’amore, nei tuoi occhi neri,
        fuoco in una radura, s’incendiò.

                                                                                  30
LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA
PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI

        GIORGIO CAPRONI (1912‐1990)
        Edizione di riferimento G. Caproni , L’opera in versi, Meridiani Mondadori 2009

        Il mare brucia le maschere ( Originariamente in Cronistoria, Vallecchi 1943, sezione E lo spazio
        era un fuoco)

        Il mare brucia le maschere,
        le incendia il fuoco del sale.
        Uomini pieni di maschere
        avvampano sul litorale.

        Tu sola potrai resistere
        nel rogo del Carnevale.
        Tu sola che senza maschere
        nascondi l’arte di esistere.

        Sassate (Originariamente in Il muro della terra, Garzanti 1975, sezione Lilliput e Andantino)

        Ho provato a parlare.
        Forse, ignoro la lingua.
        Tutte frasi sbagliate.
        Le risposte: sassate.

        Le parole (Originariamente in Il franco cacciatore, Garzanti 1982 , sezione Occhiello)

        Le parole. Già.
        Dissolvono l’oggetto.

        Come la nebbia gli alberi,
        il fiume: il traghetto.

                                                                                                           31
LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA
PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI

        ANTONIA POZZI (1912‐1938)
        Edizione di riferimento A. Pozzi, Parole, Garzanti 2004.

        Sera d’aprile (originariamente in Parole, Mondadori 1939)

        Batte la luna soavemente
        di là dai vetri
        sul mio vaso di primule:
        senza vederla la penso
        come una grande primula anch’essa
        stupita sola
        nel prato azzurro del cielo.

        Milano, 1° aprile 1931

        Rifugio (originariamente in Parole, Mondadori 1939)

        Nebbie. E il tonfo dei sassi
        dentro i canali. Voci d’acqua
        giù dai nevai di notte.
        Tu stendi una coperta per me
        sul pagliericcio:
        con le tue mani dure
        me l’avvolgi alle spalle, lievemente,
        che non mi prenda il freddo.
        Io penso
        al grande mistero che vive
        in te, oltre il tuo piano
        gesto; al senso
        di questa nostra fratellanza umana
        senza parole, tra le immense rocce
        dei monti.
        E forse ci sono più stelle
        e segreti e insondabili vie
        tra noi, nel silenzio,
        che in tutto il cielo disteso
        al di là della nebbia.

        Breil, 9 agosto 1934.

                                                                    32
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        VITTORIO SERENI (1913‐1983)
        Edizione di riferimento V. Sereni, Poesie, Einaudi 2002.

        [Non sa più nulla, è alto sulle ali] (originariamente          in Diario d’Algeria, Vallecchi 1947, sezione
        Diario d’Algeria)

        Non sa più nulla, è alto sulle ali
        il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna.
        Per questo qualcuno stanotte
        mi toccava la spalla mormorando
        di pregar per l’Europa
        mentre la Nuova Armada
        si presentava alla costa di Francia.
        Ho risposto nel sonno: ‐ È il vento,
        il vento che fa musiche bizzarre.
        Ma se tu fossi davvero
        il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna
        prega tu se lo puoi, io sono morto
        alla guerra e alla pace.
        Questa è la musica ora:
        delle tende che sbattono sui pali.
        Non è musica d’angeli , è la mia
        Sola musica e mi basta. ‐

        Campo Ospedale 127, giugno 1944

        [Ahimè come ritorna] (originariamente in Diario d’Algeria, Vallecchi 1947, sezione Diario d’Algeria)

        Ahimè come ritorna
        sulla frondosa a mezzo luglio
        collina d’Algeria
        di te nell’alta erba riversa
        non ingenua la voce
        e nemmeno perversa
        che l’afa lamenta
        e la bocca feroce
        ma rauca un poco e tenera soltanto.

        Saint Cloud, luglio 1944

                                                                                                                      33
LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA
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        Dall’Olanda (originariamente in Gli strumenti umani, Einaudi 1965, sezione Apparizioni o incontri)

                                                                                  Amsterdam
        A portarmi fu il caso tra le nove
        e le dieci d’una domenica mattina
        svoltando a un ponte, uno dei tanti, a destra
        lungo il semigelo d’un canale. E non
        questa è la casa, ma soltanto
        ‐mille volte già vista –
         sul cartello dimesso «Casa di Anna Frank».

        Disse più tardi il mio compagno: quella
        di Anna Frank non dev’ essere, non è,
        privilegiata memoria. Ce ne furono tanti
        che crollarono per sola fame
        senza il tempo di scriverlo.
        Lei, è vero, lo scrisse.
        Ma a ogni svolta a ogni ponte lungo ogni canale
        continuavo a cercarla senza trovarla più
        ritrovandola sempre.
        Per questo è una e insondabile Amsterdam
        nei suoi tre quattro variabili elementi
        che fonde in tante unità ricorrenti, nei suoi
        tre quattro fradici o acerbi colori
        che quanto è grande il suo spazio perpetua,
        anima che s’irraggia ferma e limpida
        in migliaia d’altri volti, germe
        dovunque e germoglio di Anna Frank.
        Per questo è sui suoi canali vertiginosa Amsterdam.

                                                                                                             34
LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA
PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI

        MARIO LUZI (1914‐2005)
        Edizione di riferimento M.Luzi, Poesie, Mondadori 1998

        Notizie a Giuseppina dopo tanti anni (originariamente in Primizie del deserto, Schwarz
        1952)

        Che speri, che ti riprometti, amica,
        se torni per così cupo viaggio
        fin qua dove nel sole le burrasche
        hanno una voce altissima abbrunata,
        di gelsomino odorano e di frane?

        Mi trovo qui a questa età che sai,
        né giovane né vecchio, attendo, guardo
        questa vicissitudine sospesa;
        non so più quel che volli o mi fu imposto,
        entri nei miei pensieri e n'esci illesa.

        Tutto l'altro che deve essere è ancora,
        il fiume scorre, la campagna varia,
        grandina, spiove, qualche cane latra
        esce la luna, niente si riscuote,
        niente dal lungo sonno avventuroso.

        La notte lava la mente (originariamente in Onore del vero, Pozza 1957)

        La notte lava la mente.

        Poco dopo si è qui come sai bene,
        file d’anime lungo la cornice,
        chi pronto al balzo, chi quasi in catene.

        Qualcuno sulla pagina del mare
        Traccia un segno di vita, figge un punto.
        Raramente qualche gabbiano appare.

                                                                                                 35
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PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI

        VALERIO MAGRELLI (1957)
        Edizione di riferimento V.Magrelli, Poesie (1980‐1992) e Altre poesie, Einaudi 1996.

        [Essere matita è segreta ambizione] (originariamente in Ora serrata retinae, Feltrinelli 1980)

        Essere matita è segreta ambizione.
        Bruciare sulla carta lentamente
        e nella carta restare
        in altra nuova forma suscitato.
        Diventare così da carne segno,
        da strumento ossatura esile del pensiero.
        Ma questa dolce
        eclissi della materia
        non sempre è concessa.
        C’è chi tramonta solo col suo corpo:
        allora più doloroso ne è distacco.

        [Spesso c’è bonaccia sulla pagina] (originariamente in Ora serrata retinae, Feltrinelli 1980)

        Spesso c’è bonaccia sulla pagina.
        Inutile girarla per cercare
        l’angolo del vento.
        Si sta fermi,
        il pensiero oscilla,
        si riparano le cose
        che la navigazione ha guastato.

                                                                                                         36
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PROF.SSA GIOVANNA BENVENUTI

                                            ALTRI CLASSICI
        FOSCO MARAINI (1912‐2004)
        Edizione di riferimento F. Maraini, Gnosi delle Fànfole, Baldini & Castoldi, 2007.

        Il giorno a urlapicchio (originariamente in Le Fànfole, De Donato, 1966)

        Ci son dei giorni smègi e lombidiosi
        col cielo dagro e un fònzero gongruto
        ci son meriggi gnàlidi e budriosi
        che plògidan sul mondo infrangelluto,

        ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi
        un giorno tutto gnacchi e timparlini,
        le nuvole buzzìllano, i bernecchi
        ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;

        è un giorno per le vànvere, un festicchio
        un giorno carmidioso e prodigiero,
        è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio
        in cui m’hai detto «t’amo per davvero».

        Ballo (originariamente in Le Fànfole, De Donato, 1966)

        Vortègida e festuglia o dulcibana
        e sdrìllera che sdràllero! Sul fizio
        la musica ci zùnfrega e ci sdrana
        con tròdige buriagico e rubizio.

        Lo sai che gli occhi gneschi e turchidiosi
        son come abissi vèlvoli e maligi?
        Lo sai che nei bluàgnoli miriosi
        tracàcero con lèfane deligi?

        Ah sdrìllera che sdràllero, mumurra
        parole lampigiane ed umbralìe,
        t’ascolto lucifuso nell’azzurra
        voragine d’un’alba di bugie.

                                                                                             37
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        TOTI SCIALOJA (1914‐1998)
        Edizione di principale riferimento T.Scialoja, Versi del senso perso, Einaudi 2009; per La rosa
        non è rossa si veda invece T.Scialoja, Poesie (1979‐1998), Garzanti, 2002.

        Una zanzara di Zanzibàr         (originariamente in Amato topino caro, Bompiani 1971)
        andava a zonzo, entrò in un bar,
        ‘Zuzzerellona!’ le disse un tal
        ‘mastica zenzero se hai mal di mar’”.
                                                       ____

        L’ippopota disse «Mo                       (originariamente in Amato topino caro, Bompiani 1971)
        nella mota ho il mio popò!»
                                                       ____

        La zanzara, per decenza,    (originariamente in Una vespa! Che spavento, Einaudi 1975)
        ha una tunica d’organza,
        quando è sbronza vola senza
        a zig zag per la Brianza.
                                                       ____

        Un esercito di pulci (originariamente in La stanza la stizza l’astuzia, Cooperativa Scrittori 1976)
        sta passando in treno merci,
        quando grido: “ Arrivederci! “
        fanno tutte gli occhi dolci.
                                                       ____

        Oh, formica!                (originariamente in Ghiro ghiro tonto, Stampatori 1979)
        Quanto è antica
        e nemica
        la fatica
        nell’ortica.
        Ma tu vuoi che non si dica.
                                                       ____

        La rosa non è rossa           (originariamente in Violini del diluvio, Mondadori, 1991)
        è appena rosa ‐ è senza
        tinta se a tratti è scossa
        dal sussulto della tua assenza
        che non chiede colore
        non misura distanza
        ‐ è soltanto dolore
        in qualche angolo della stanza.

                                                                                                              38
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        GIANNI RODARI (1920‐1980)
        Edizione di riferimento G.Rodari, Filastrocche in cielo e in terra, Einaudi 1996

        I mari della luna (originariamente in Filastrocche in cielo e in terra, Einaudi 1960)

        Nei mari della luna
        tuffi non se ne fanno;
        non c’è una goccia d’acqua,
        pesci non ce ne stanno.
        Che magnifico mare
        per chi non sa nuotare.

        Alla formica (originariamente in Filastrocche in cielo e in terra, Einaudi 1960)

        Chiedo scusa alla favola antica
        se non mi piace l’avara formica.
        Io sto dalla parte della cicala
        Che il più bel canto non vende:
        regala.

                                                                                                39
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        NICO ORENGO (1944‐2009)
        Edizione di riferimento N.Orengo, A‐Ulì‐Ulé. Filastrocche, Conte, Ninnenanne, Einaudi 1998

        Un uccellino (originariamente in A‐Ulì‐Ulé, Einaudi, 1972)

        Nella grande città,
        c’è una strada;
        nella strada,
        c’è una casa,
        nella casa una scala,
        in cima alla scala,
        una stanza;
        in mezzo alla stanza,
        una tavola;
        sulla tavola,
        un tappeto;
        sul tappeto,
        una gabbia;
        nella gabbia,
        un nido;
        nel nido,
        un uovo;
        nell’uovo,
        un uccellino.
        L’uccellino uscì fuori dell’uovo
        e lo rovesciò;
        l’uovo rovesciò il nido;
        il nido rovesciò la gabbia;
        la gabbia rovesciò il tappeto;
        il tappeto rovesciò la tavola;
        la tavola rovesciò la stanza;
        la stanza rovesciò la scala;
        la scala rovesciò la casa;
        la casa rovesciò la strada;
        la strada rovesciò la grande città.
        Così un uccellino rovesciò un’intera città.

                                                                                                     40
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        ROBERTO PIUMINI (1947)

        Lo scrittore scrive scrive (in C’era un bambino profumato di latte, Mondadori 1980, poi
        con CD audio Mondadori 2011)

        Lo scrittore
        scrive scrive
        scrive dieci
        cento ore
        ma chi scrive
        allo scrittore?
        Scrive versi
        scrive strofe
        ma dal tetto
        giù gli piove.
        Scrive in prosa
        scrive in rima
        ma nessuno
        gli cucina.
        Scrive frasi
        cento a cento
        ma di fuori
        gli entra il vento.
        Scrive a penna
        scrive a biro
        ma non ha
        nessuno in giro.
        Scrive lento
        scrive in fretta
        ma si è spenta
        la stufetta.
        Lo scrittore
        scrive scrive
        dieci cento
        mille ore
        ma chi scrive
        allo scrittore?

        Fu il gioco del solletico. All’inizio (in L’amore morale, Il Melangolo 2001)

        Fu il gioco del solletico, all’inizio:
        ridevi e mi sfuggivi come un gatto:
        era una danza fatta a precipizio,
        un ritmo regolare e contraffatto.

                                                                                                  41
LABORATORIO DI LETTERATURA ITALIANA
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        Poi, progressivamente, tu cedesti
        senza tentare più quelle tue fughe:
        più ferma, ti chinasti, ti chiudesti
        come usano ricci e tartarughe.

        Ma io cambiai solletico, pietoso,
        mutando tocco e variando zone,
        e tu ridevi in modo più goloso,

        ridevi nella gola un’emozione
        che poi divenne rantolo gioioso
        e durò molto, e fu lunga canzone.

                                               42
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                                      44
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                              RACCONTI

                                         45
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        FEDERIGO TOZZI (1883 – 1920)
        SENZA TITOLO [Il lettore e l’orso]

        In Bestie, Treves 1917 (qui Le Lettere 2011)

             Da ragazzo, mi compravo pochi libri. Mio padre voleva ch’io non leggessi; e, con la
        scusa che mi sarei sciupato gli occhi, non cavava mai un soldo in tasca. Quei cinque o
        sei che avevo, li tenevo insieme con la biancheria; e m’avveniva che, quando tiravo il
        cassetto per prendere una camicia o altro, ne aprivo uno e leggevo senza muoverlo dal
        suo posto.
             Ma, un capodanno, la mia donna si decise a comprarmi per regalo, avendo io
        insistito fin da un mese prima, quel libro del Verne che si chiama Nel paese delle
        pellicce. Io cominciai a leggerlo, ma non andavo mai in fondo; perché tornavo sempre
        alla pagine a dietro. Finalmente, dopo un tre mesi, giunsi all’ultima pagina come se
        quelle avventure fossero toccate a me.
             E più d’ogni altra cosa, forse, mi rimase a mente una figura dov’era un orso che
        voleva entrare dentro una capanna. Tutte le volte che ho visto orsi veri, ho sempre
        pensato a quello; e come, guardandolo, per un bel pezzo mi scuotevo e mi smuovevo
        tutto.

                                                                                                   46
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        DINO BUZZATI (1906–1972)
        IL COLOMBRE (su rivista 1961)

        In Il Colombre, Mondadori, 1966 (qui Mondadori 1991)

             Quando Stefano Roí compí i dodici anni, chiese in regalo a suo padre, capitano di mare
        e padrone di un bel veliero, che lo portasse con sé a bordo.
             «Quando sarò grande» disse «voglio andar per mare come te. E comanderò delle navi
        ancora più belle e grandi della tua.»
             «Che Dio ti benedica, figliolo» rispose il padre. E siccome proprio quel giorno il suo
        bastimento doveva partire, portò il ragazzo con sé.
             Era una giornata splendida di sole; e il mare tranquillo. Stefano, che non era mai stato
        sulla nave, girava felice in coperta, ammirando le complicate manovre delle vele. E chiedeva
        di questo e di quello ai marinai che, sorridendo, gli davano tutte le spiegazioni.
             Come fu giunto a poppa, il ragazzo si fermò, incuriosito, a osservare una cosa che
        spuntava a intermittenza in superficie, a distanza di due‐trecento metri, in corrispondenza
        della scia della nave. Benché il bastimento già volasse, portato da un magnifico vento al
        giardinetto, quella cosa manteneva sempre la distanza. E, sebbene egli non ne
        comprendesse la natura, aveva qualcosa di indefinibile, che lo attraeva intensamente. Il
        padre, non vedendo Stefano più in giro, dopo averlo chiamato a gran voce invano, scese
        dalla plancia e andò a cercarlo.
             «Stefano, che cosa fai lì impalato?» gli chiese scorgendolo infine a poppa, in piedi, che
        fissava le onde.
             «Papà, vieni qui a vedere.»
             Il padre venne e guardò anche lui, nella direzione indicata dal ragazzo, ma non riuscì a
        vedere niente.
             «C’è una cosa scura che spunta ogni tanto dalla scia» disse «e che ci viene dietro.»
             «Nonostante i miei quarant’anni» disse il padre «credo di avere ancora una vista
        buona. Ma non vedo assolutamente niente.»
             Poiché il figlio insisteva, andò a prendere il cannocchiale e scrutò la superficie del
        mare, in corrispondenza della scia. Stefano lo vide impallidire.
             «Cos’è? Perché fai quella faccia?»

                                                                                                         47
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             «Oh, non ti avessi ascoltato» esclamò il capitano. « Io adesso temo per te. Quella cosa
        che tu vedi spuntare dalle acque e che ci segue, non è una cosa. Quello è un colombre. È il
        pesce che i marinai sopra tutti temono, in ogni mare del mondo. È uno squalo tremendo e
        misterioso, più astuto dell’uomo. Per motivi che forse nessuno saprà mai, sceglie la sua
        vittima, e quando l’ha scelta la insegue per anni e anni, per una intera vita, finché è riuscito
        a divorarla. E lo strano è questo: che nessuno riesce a scorgerlo se non la vittima stessa e le
        persone del suo stesso sangue.» «Non è una favola?»
             «No. Io non l’avevo mai visto. Ma dalle descrizioni che ho sentito fare tante volte, l’ho
        subito riconosciuto. Quel muso da bisonte, quella bocca che continuamente si apre e
        chiude, quei denti terribili. Stefano, non c’è dubbio, purtroppo, il colombre ha scelto te e
        finché tu andrai per mare non ti darà pace. Ascoltami: ora noi torniamo subito a terra, tu
        sbarcherai e non ti staccherai mai più dalla riva, per nessuna ragione al mondo. Me lo devi
        promettere. Il mestiere del mare non è per te, figliolo. Devi rassegnarti. Del resto, anche a
        terra potrai fare fortuna.» Ciò detto, fece immediatamente invertire la rotta, rientrò in
        porto e, col pretesto di un improvviso malessere, sbarcò il figliolo.
             Quindi ripartì senza di lui.
             Profondamente turbato, il ragazzo restò sulla riva finché l’ultimo picco dell’alberatura
        sprofondò dietro l’orizzonte. Di là dal molo che chiudeva il porto, il mare restò
        completamente deserto. Ma, aguzzando gli sguardi, Stefano riuscì a scorgere un puntino
        nero che affiorava a intermittenza dalle acque: il "suo" colombre, che incrociava
        lentamente su e giù, ostinato ad aspettarlo.
             Da allora il ragazzo con ogni espediente fu distolto dal desiderio del mare. Il padre lo
        mandò a studiare in una città dell’interno, lontana centinaia di chilometri. E per qualche
        tempo, distratto dal nuovo ambiente, Stefano non pensò più al mostro marino. Tuttavia,
        per le vacanze estive, tornò a casa e per prima cosa appena ebbe un minuto libero, si
        affrettò a raggiungere l’estremità del molo, per una specie di controllo, benché in fondo lo
        ritenesse superfluo. Dopo tanto tempo, il colombre, ammesso anche che tutta la storia
        narratagli dal padre fosse vera, aveva certo rinunciato all’assedio.
             Ma Stefano rimase là, attonito, col cuore che gli batteva. A distanza di due‐trecento
        metri dal molo, nell’aperto mare, il sinistro pesce andava su e giù, lentamente, ogni tanto
        sollevando il muso dall’acqua e volgendolo a terra, quasi con ansia guardasse se Stefano Roi
        finalmente veniva. Così, l’idea di quella creatura nemica che lo aspettava giorno e notte

                                                                                                           48
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        divenne per Stefano una segreta ossessione. E anche nella lontana città gli capitava di
        svegliarsi in piena notte con inquietudine. Egli era al sicuro, sì, centinaia di chilometri lo
        separavano dal colombre. Eppure egli sapeva che, di là dalle montagne, di là dai boschi, di
        là dalle pianure, lo squalo era ad aspettarlo. E, si fosse egli trasferito pure nel più remoto
        continente, ancora il colombre si sarebbe appostato nello specchio di mare più vicino, con
        l’inesorabile ostinazione che hanno gli strumenti del fato.
             Stefano, ch’era un ragazzo serio e volonteroso, continuò con profitto gli studi e,
        appena fu uomo, trovò un impiego dignitoso e rimunerativo in un emporio di quella città.
        Intanto il padre venne a morire per malattia, il suo magnifico veliero fu dalla vedova
        venduto e il figlio si trovò ad essere erede di una discreta fortuna. Il lavoro, le amicizie, gli
        svaghi, i primi amori: Stefano si era ormai fatto la sua vita, ciononostante il pensiero del
        colombre lo assillava come un funesto e insieme affascinante miraggio; e, passando i giorni,
        anziché svanire, sembrava farsi più insistente.
             Grandi sono le soddisfazioni di una vita laboriosa, agiata e tranquilla, ma ancora più
        grande è l’attrazione dell’abisso. Aveva appena ventidue anni Stefano, quando, salutati gli
        amici della città e licenziatosi dall’impiego, tornò alla città natale e comunicò alla mamma la
        ferma intenzione di seguire il mestiere paterno. La donna, a cui Stefano non aveva mai fatto
        parola del misterioso squalo, accolse con gioia la sua decisione.
             L’avere il figlio abbandonato il mare per la città le era sempre sembrato, in cuor suo,
        un tradimento alle tradizioni di famiglia.
             E Stefano cominciò a navigare, dando prova di qualità marinare, di resistenza alle
        fatiche, di animo intrepido. Navigava, navigava, e sulla scia del suo bastimento, di giorno e
        di notte, con la bonaccia e con la tempesta, arrancava il colombre. Egli sapeva che quella
        era la sua maledizione e la sua condanna, ma proprio per questo, forse, non trovava la forza
        di staccarsene. E nessuno a bordo scorgeva il mostro, tranne lui.
             «Non vedete niente da quella parte?» chiedeva di quando in quando ai compagni,
        indicando la scia. «No, noi non vediamo proprio niente. Perché?» «Non so. Mi pareva...»
             «Non avrai mica visto per caso un colombre» facevano quelli, ridendo e toccando
        ferro.
             «Perché ridete? Perché toccate ferro?» «Perché il colombre è una bestia che non
        perdona. E se si mettesse a seguire questa nave, vorrebbe dire che uno di noi è perduto.»
             Ma Stefano non mollava. La ininterrotta minaccia che lo incalzava pareva anzi

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