"LA VERA CRISI È SPIRITUALE!" DIAMO SENSO AL SENSO - chiesadigenova.it
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Cattedrale di Genova, 29 marzo 2017 Dott. Salvatore Martinez «LA VERA CRISI È SPIRITUALE!» DIAMO SENSO AL SENSO Lo affermiamo senza indugio: la vera crisi, la madre di tutte le crisi vigenti è spirituale! La crisi antropologica, morale, culturale, sociale, politica, economica che gli uomini e i credenti del nostro tempo soffrono, sono una diretta conseguenza della crisi spirituale in atto. Per evitare che le crisi del nostro tempo continuino a proliferare, urge trovare un principio unificatore che le risolva. Una verità ci conforta: non è in crisi lo Spirito Santo! Dunque non può essere “sciopero della speranza”, anche quando disperare è facile; sperare, invece, e costruire seminando speranza creatrice, è d’obbligo! La parola “crisi” è stata al centro del Discorso che Papa Francesco ha rivolto ai Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea, in occasione del 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma: «Negli ultimi sessant’anni il mondo è molto cambiato […]. Il nostro tempo è più dominato dal concetto di crisi. C’è la crisi economica, che ha contraddistinto l’ultimo decennio, c’è la crisi della famiglia e di modelli sociali consolidati, c’è una diffusa “crisi delle istituzioni” e la crisi dei migranti: tante crisi, che celano la paura e lo smarrimento profondo dell’uomo contemporaneo, che chiede una nuova ermeneutica per il futuro. Tuttavia, il termine “crisi” non ha una connotazione di per sé negativa. Non indica solo un brutto momento da superare. La parola crisi ha origine nel verbo greco crino, che significa “investigare, vagliare, giudicare”. Il nostro è, dunque, un tempo di discernimento, che ci invita a vagliare l’essenziale e a costruire su di esso: è, dunque, un tempo di sfide e di opportunità» (Città del Vaticano, 24 marzo 2017). Come nella notte in cui due rabbi s’incontrarono, anche noi poniamoci davanti a Gesù con la stessa domanda che era nel cuore di Nicodemo: «Cosa devo fare per rinascere?» (cf Gv 3, 4). Nell’incontro tra Nicodemo e Gesù è l’umiltà della natura umana (Nicodemo) che incontra la potenza della natura divina (Gesù). Nicodemo voleva comprendere meglio chi fosse Gesù, convinto che dietro quella potente parola accreditata da segni e miracoli si nascondesse qualcosa di più di un semplice maestro. Nicodemo è deciso a mandare in crisi le sue certezze. Invoca una nuova vita. E Gesù non lo delude: «Ciò che è nato dalla carne è carne, ma ciò che è nato dallo Spirito è spirito. Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto… Chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (cf Gv 3, 6-7.21). Del resto, la stessa domanda – «E ora cosa dobbiamo fare?» (At 2, 37) – si udì nel giorno di Pentecoste, nella Piazza di Gerusalemme, quando Pietro con la sua predicazione mosse a conversione la folla che «si sentì trafiggere il petto» dall’annuncio kerigmatico e obbedì intimamente all’invito a una «conversione» (cf At 2, 37-41). Noi, in realtà, finiamo con l’opporre resistenza al cambiamento con il cuore, con la mente e con la volontà, non lontani dal rimprovero del protomartire Stefano dinanzi ai suo carnefici: «Testardi nel cuore e nelle orecchie, voi opponete sempre resistenza allo Spirito Santo» (At 6, 51a).
La crisi è sinonimo di conversione. È uno spazio benefico di orientamento del nostro spirito verso lo Spirito di Dio. È lo spazio di un miracolo d’amore, così che la crisi possa divenire un kairós dello Spirito. Il miracolo di una vita nuova, di una società nuova, di un’Italia e di un’Europa nuove non risiedono nelle nostre capacità umane, ma nella forza spirituale che è nella nostra fede, nella docilità di un credente allo Spirito Santo, perché appaia chiaramente che è opera sua, proprio attraverso le nostre debolezze e infermità. Una consegna risuona più che mai vera, affidataci da san Giovanni Paolo II: «Nel nostro tempo, avido di speranza, continuate ad amare e a fare amare lo Spirito Santo. Aiuterete a far sì che prenda forma quella cultura della Pentecoste che sola può fecondare la civiltà dell’amore e della convivenza tra i popoli» (Udienza privata ai responsabili del Rinnovamento nello Spirito, nel XXX anniversario della nascita del Movimento in Italia, 14 marzo 2002). Chiediamoci: che fiducia abbiamo nella presenza e nell’azione dello Spirito Santo nel tempo agitato e complesso in cui viviamo, nei travagli della cultura a noi contemporanea? Un nuovo millennio di vita cristiana è sorto. Siamo la prima generazione del primo secolo del terzo millennio (privilegio unico che la storia ci consegna), ma quale premessa abbiamo posto perché la verità di Cristo e il pensiero umano ancora s’incontrino, perché la terra non sfidi così prepotentemente il cielo, perché l’amore di Dio non sia elemento accessorio e contraddittorio nella costruzione del nuovo mondo, di un mondo pacificato? Proprio all’alba di questo nuovo millennio, guardando alla nostra generazione protagonista di un passaggio millenario, Papa Wojtyla così si esprimeva: «Lo Spirito Santo aiuta a impegnarsi sempre, nonostante la paura di fallire, ad affrontare i pericoli e superare le barriere che separano le culture per annunciare il Vangelo» (XIII Giornata Mondiale della Gioventù 1998, Lettera preparatoria, 30 novembre 1997). A giudicare dalle lamentazioni, dalle fughe e dai rimproveri mi pare di poter sostenere che c’è ancora troppo spazio riservato agli uomini e poco spazio riservato all’iniziativa dello Spirito di Dio. Eppure, ci ricorda ancora il Papa polacco: «Lo Spirito Santo rende la Chiesa amica di ogni autentica ricerca del pensiero umano e stima sinceramente il patrimonio di sapienza elaborato e trasmesso dalle diverse culture. In esso ha trovato espressione l’inesauribile creatività dello spirito umano indirizzato dallo Spirito di Dio verso la pienezza della verità» (Udienza generale, 16 settembre 1998). Inoculare nel cuore dell’uomo e della storia questa antica e sempre nuova amicizia spirituale, che è per tutti gli uomini, significa diffondere una nuova cultura, cioè un sistema di vita e di relazioni vitali che permetta allo Spirito Santo di includere e di non escludere Cristo dal destino umano. Perché è lo Spirito Santo, e solo lui, che dà “direzione” e “definizione” alla nostra vita, alla vita del mondo. Ed è sempre lo Spirito Santo che dinanzi ai fatti della storia ci dà il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità.
LA CRISI DELL’ESPERIENZA DELL’AMORE DI DIO E DELL’IDEALE DI FRATERNITÀ UMANA Il Cristianesimo è la storia di un dinamismo esperienziale, di un vissuto: una Parola che si fa Carne. Una Parola che chiama a vivere l’esperienza del dolore e della gioia, della sofferenza e della compassione, i gesti feriali dell’esistenza umana, la vita e la morte a imitazione di Gesù, del Dio fatto uomo. Ora, l’esperienza di Dio non può essere appresa alla maniera delle cose esteriori che incrociano la nostra esistenza umana. L’esperienza di Dio è sempre percepita come vera, originale, nella misura in cui la persona risulta intimamente toccata, profondamente coinvolta dal suo amore. Affermava il cardinale Joseph Ratzinger, il giorno precedente la morte di Giovanni Paolo II: «Soltanto attraverso uomini che sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini» (L’Europa nella crisi delle culture, Subiaco, 1 aprile 2005). Protagonista di questo incessante divenire dell’amore di Dio nella storia umana, nella nostra storia personale alla sequela di Gesù, da duemila anni, è lo Spirito Santo. È lui che invera il mistero della Chiesa, di una Chiesa somigliante a Cristo che non riproponga solo il pensiero, ma anche il vissuto di Gesù. Ben lo spiega il grande teologo e cardinale svizzero Hans Urs von Balthasar: «Per quanto il concetto di esperienza possa essere sovraccarico di condizionamenti nella storia della teologia e delle eresie, esso resta tuttavia indispensabile se la fede è incontro di tutto l’uomo con Dio. E Dio vuole davanti a sé tutto l’uomo. Egli vuole tutta la risposta dell’uomo alla sua Parola. Vuole, quindi, l’uomo con il suo intelletto, ma immediatamente anche con la sua volontà, non solo con la sua anima, ma anche e allo stesso modo con il suo corpo» (in Gloria. Un’estetica teologica, vol. I: La percezione della forma). Incarnazione, centro di gravità spirituale Guardando ai nostri giorni, Papa Francesco sta facendo della “misericordia” la cifra pastorale del suo Magistero petrino. Sin dal suo esordio, in ogni modo sta cercando di riaffermare il valore profetico di una teologia del vissuto spirituale, dell’esperienza dell’amore di Dio vivente e operante tra gli uomini. «Non è facile affidarsi alla misericordia di Dio, perché è un abisso incomprensibile. Ma dobbiamo farlo!... Torniamo al Signore», disse il giorno della sua prima uscita pubblica (Omelia nella Parrocchia Sant’Anna in Vaticano. Era il 17 marzo 2013 e subito dopo si sarebbe affacciato dalla finestra del Palazzo Apostolico per l’Angelus). Così il Santo Padre neo eletto commentava il Vangelo del giorno dedicato alla «donna adultera» (in Gv 8, 1-11). Ebbi il privilegio di essere presente a questa celebrazione insieme a poche altre persone. Vedevo dinanzi a me una “pro-vocazione dello Spirito” nel modo di porsi del Pontefice, il quale lasciava il pulpito per venire incontro a noi, dettare a braccio la sua omelia e al termine della Santa Messa porsi fuori dalla porta della Chiesa per salutare uno a uno tutti i fedeli che avevano presenziato. La misericordia, ci ricorda Papa Francesco, rischia di rimanere un «abisso incomprensibile» se i cristiani non si lasciano immergere dallo Spirito Santo in questo mistero. È infatti lui, lo Spirito Santo, che ci introduce nello spazio del Mistero e ci fa varcare la soglia della non conoscenza di
Dio, dunque della solitudine, dell’indifferenza, della paura, del rifiuto, del rancore, del rinvio, dell’errore, del peccato, della morte. È lo Spirito Santo «che ci dà accesso ai segreti di Dio» (cf 1 Cor 2, 11), quelli che la ragione umana non può comprendere ma che il cuore sa e vuole credere. Sì, ogni cuore umano soffre per mancanza d’amore e gode al contempo per l’amore ricevuto, anche quando sofferto: è qui racchiusa la chance della misericordia! La misericordia è, dunque, l’incarnazione di Gesù nella trascendenza dello Spirito; ed è, pertanto, la nostra incarnazione secondo lo Spirito. Entrando nello spazio pubblico di questo nostro mondo, facendo finalmente del “tempo” e non del “tempio” lo “spazio della misericordia”, Gesù – appellandosi allo Spirito – dirà nella sua prima dichiarazione di intenti, nel suo “piano pastorale” per il mondo, nel suo “manifesto di laicità cristiana”: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, per rimettere in libertà gli oppressi e predicare un anno di grazia del Signore» (Lc 4, 18 s). Sono qui racchiusi i “4 tipi dell’uomo”, perché ciascuno di noi, prima o poi, sul piano spirituale o materiale, si ritrova «povero, prigioniero, cieco, oppresso». È significativo che, quando i messi inviati da Giovanni Battista giunsero da Gesù per domandargli: «Sei tu colui che viene, o dobbiamo aspettare un altro?» (Lc 7, 19), egli, rifacendosi alla stessa testimonianza con cui aveva inaugurato il suo insegnamento a Nazaret, abbia risposto: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona novella». E poi abbia concluso: «E beato è chiunque non si sarà scandalizzato di me!» (Lc 7, 22- 23). Il vero centro di gravità della misericordia “alla divina” è, senza dubbio, il tema dell’Incarnazione come segno di attrazione e di contraddizione. Gesù Cristo fatto uomo è la rivoluzione copernicana da riaffermare, che sovverte tutte le regole, gli schemi, le strutture materiali e mentali: è carne eppure trascendenza; è svuotamento eppure pienezza; è disonore eppure gloria; è umiliazione eppure beatitudine. Gesù, con il suo stile di vita e con le sue azioni, ha rivelato come nel mondo in cui viviamo deve rendersi presente l’amore; l’amore operante, che si rivolge all’uomo e abbraccia tutto ciò che forma la sua umanità, a partire – non a prescindere – dalla fragilità della sua condizione umana, sempre ferita, sofferente, piagata dal peccato. La vera vita Oggi è in crisi l’arte di vivere questo amore, perché è in crisi l’esperienza che ne facciamo soprattutto in mezzo a coloro che di mancanza d’amore soffrono e muoiono. L’arte di vivere l’amore, di saper vivere l’amore e di non sopravvivere al male. Molti, troppi, si accontentano di questa sopravvivenza, incuranti del fatto che questa nostra terra somigli sempre più a un cimitero o a un inferno piuttosto che alla città in cui Dio, il Dio vivente, cammina in mezzo agli uomini. Vivere bene e vivere il bene: ecco l’ars vivendi che Gesù è venuto a insegnarci. Ars vivendi in un tempo in cui l’umanità continua a specializzarsi nell’ars moriendi. Dal virus letale che sta ammorbando il cuore delle nuove generazioni, delle famiglie, delle strutture sociali si può guarire, se ci industrieremo a rendere più fraterno il cuore dell’uomo. Perché, lo ricorda Gesù, è «nel cuore che si annidano tutte le intenzioni cattive» (cf Mc 7, 20-21). Non fuori, nella storia, ma dentro l’uomo il male si annida. Ecco perché «evangelizzare significa insegnare agli uomini l’arte di vivere», come affermava il card. Ratzinger in occasione del “Giubileo degli insegnanti e dei catechisti” sul
finire dell’Anno santo del 2000. È tutta qui la forza del cristianesimo, la passione che deriva dall’incontro con Cristo e dall’esperienza del suo amore. Anche quando la ragione sembra capitolare di fronte alle sofferenze abissali e alle miserie imperdonabili dell’uomo, l’uomo può, deve vivere, agire e morire in modo veramente umano ritrovando in se stesso le forze spirituali per il cambiamento. Come sono efficaci le parole del poeta e riformatore del melodramma italiano del ‘700, Pietro Metastasio: «È legge di natura, che a compatir ci mova, chi prova una sventura che noi provammo ancor; o sia che amore in noi la somiglianza accenda, o sia che più s’intenda nel suo l’altrui dolor» (in Giuseppe riconosciuto). Lo Spirito ci spinge ad essere profezia di fraternità universale, protagonisti di un cammino di liberazione spirituale da ogni egoismo, da ogni egolatria, da ogni paura dell’altro, da ogni autoreferenzialità rigettante. Don Luigi Sturzo, dal suo esilio londinese, nella sua opera teologica di maggior pregio, scrive: «La vera vita è dunque l’amore: naturale e soprannaturale, umano e divino, sulla terra e nel cielo, in una funzione ineffabile nella quale noi, pur essendo assorbiti in Dio, non perderemo la nostra personalità, ma la trasformeremo. Ma questo interscambio d’amore non deve esserci soltanto tra Dio e l’uomo, ma anche in seno alla società degli uomini. Il nostro tempo esige più che mai questo riesame e questa elevazione. Di fronte all’esacerbarsi dei nazionalismi, allo svilupparsi delle teorie di razza si sente più viva la necessità di meglio approfondire il problema della conciliazione dell’amore del gruppo sociale» (in La vera vita. Sociologia del soprannaturale, 1936). Fraternità, dovere di natura Papa Francesco, nella sua seconda Enciclica, di stampo sociale, così ci esorta: «Occorre sentire nuovamente che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che abbiamo una responsabilità verso gli altri e verso il mondo, che vale la pena di essere buoni e onesti. Già troppo a lungo siamo stati nel degrado morale, prendendoci gioco dell’etica, della bontà, della fede, dell’onestà, ed è arrivato il momento di riconoscere che questa allegra superficialità ci è servita a poco. Tale distruzione di ogni fondamento della vita sociale finisce col metterci l’uno contro l’altro per difendere i propri interessi, provoca il sorgere di nuove forme di violenza e crudeltà e impedisce lo sviluppo di una vera cultura della cura dell’ambiente» (in Laudato si’. Sulla cura della casa comune, 229). «Agape», la parola greca che s’incontra nella lingua del Nuovo Testamento, sta a indicare un amore che affratella, che vive di condivisione, che offre soluzioni concrete, fatti, per vincere il male. Nelle prime comunità cristiane la sollecitudine fraterna e la solidarietà concreta furono la vera rivoluzione rispetto alla società pagana. Sollecitudine che abbracciava tutti coloro che avevano bisogno d’aiuto. Si trattava – ieri come oggi – di vedove e di orfani, di vecchi e di malati, di inabili e disabili, di ex carcerati ed esuli, di disoccupati e indigenti. Perché il Vangelo si diffuse così rapidamente tra i primi cristiani? Mentre la dottrina cristiana nei suoi princìpi sembrava utopistica e irreale, nella sua applicazione pratica appariva straordinariamente efficace, un progetto concreto capace di cambiare la storia di singole persone, di famiglie, di popolazioni intere. I primi cristiani erano così incarnati perché sentivano l’attrazione del Cielo e la nostalgia di Cristo in un modo straordinariamente vivo. Desideravano il Paradiso perché sentivano forte la loro responsabilità di essere costruttori di un mondo nuovo sulla terra. Il loro “essere nel mondo, senza confondersi tra quelli del mondo”, dipendeva in modo assoluto dal comandamento dell’amore e della fraternità. Tertulliano, uno dei più antichi scrittori cristiani, vissuto tra il II e III secolo, ci dà la motivazione teologica di questa “fraternità”:
«Noi siamo fratelli anche per voi pagani, secondo il diritto di natura, che è la nostra madre unica; ma con quanta maggiore ragione si chiamano e sono per noi fratelli coloro che attraverso la fede riconoscono Dio come loro Padre» (in Apologeticum). Siamo veramente liberi quando siamo responsabili delle azioni e del destino dei fratelli. Si è liberi “per qualcuno”, a vantaggio del bene altrui. Se la nostra libertà non è educata dall’amore, se non si lascia correggere dallo Spirito d’amore, allora non matura mai come relazione, non è mai presupposto di fraternità e di comunione. È veramente libero colui che sa donarsi, che non resiste all’amore. Ci è chiesto di metterci a servizio di questa umanità, a difesa della vita dal suo apparire sino al suo naturale svolgersi e compiersi. LA CRISI DEL VALORE DELLA VITA E DI UNA VITA VERAMENTE UMANA La vita non è una maledizione; non è una speculazione intellettuale, non è una manipolazione, non è una sorta di malattia ereditaria a cui sottrarsi; non può essere una sopravvivenza. Mai! La vita è un evento, non un esperimento. È un interrogativo sempre aperto, mai una risposta confezionata e ciclostilata. La vita è un dono donato e da donare. Sempre! L’uomo è domanda, problema, ricerca, ma è anche desiderio e nostalgia. Desiderio di vita e nostalgia di senso. La vita non è né una delusione, né una divagazione. Non è una evasione dalla realtà. C’è un aforisma del noto drammaturgo americano Thomas Stearns Eliot che è interessante rievocare: «Gli uomini non si pongono il perché della loro vita se non gli ultimi quindici minuti della loro stessa vita». Sembra fargli eco il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche quando scrive: «Le verità più preziose sono quelle che si scoprono per ultime». Ogni settimana ho il privilegio di incontrare centinaia di persone, gente di ogni tipo, di ogni credenza, che è ancora disposta ad ascoltare, a interrogarsi, a stupirsi, a commuoversi, a riprendere il cammino della vita responsabilmente, senza delegare ad altri colpe o impegno. Uomini e donne che svelano il volto semplice di questa umanità che vive, che crede, che soffre, che prega, che ama, che accoglie, che lotta, che, come già indicava il Concilio Vaticano II, prova a «trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza» (Gaudium et Spes, n. 31). La vita è e rimane un prodigio, un formidabile prodigio! Quanta onestà intellettuale, quanta libertà interiore, quanta distanza dall’onnipotenza di una certa scienza, di una certa giurisprudenza, sono richieste per riaccostarci con umiltà, senza presunzioni individuali o lobbistiche, al mistero della vita. Il progresso non può avanzare più in fretta della nostra intelligenza, perché è un prodotto della nostra intelligenza. Non può avanzare più in fretta della nostra umanità, perché è un frutto della nostra umanità.
Eppure la “comunicazione” viaggia più in fretta della “comunione”, che è la cifra spirituale del nostro essere uomini. È così che gli spazi temporali si annullano, le forme di contemporaneità si modificano; si avanza verso la “cultura dell’istante”, in cui le relazioni non maturano, rimangono epidermiche. Siamo andati avanti così rapidamente, in questi ultimi anni, che ora dobbiamo sostare un attimo per consentire alle nostre anime di raggiungerci. Sì, l’anima è rimasta indietro, lasciata per strada tra il flusso delle cose e degli eventi. Nella saggezza antica la questione dell’“umano” era ben individuata ed espressa. Il commediografo latino Publio Terenzio Afro scrive, nel 165 a. C.: «Sono uomo e niente di ciò che è umano può lasciarmi indifferente» (in “Heautontimorùmenos” [Il punitore di se stesso]). Già il filosofo greco Aristotele, due secoli prima, aveva sentenziato: «Non si diventa uomini se non superandosi». C’è una speranza, allora, che vorremmo sbocciasse nella nostra coscienza sociale, per provare a ricostruire una coscienza del bene comune sempre più sfilacciata, allentata. Ognuno di noi vive le gioie e le angosce della vita con un’intensità che spesso porta a isolarsi, addirittura a contrapporsi agli altri in nome delle libertà individuali, del pluralismo. Sarebbe facile, come rispose Caino alla domanda postagli dal Creatore, dopo l’omicidio di Abele, dire anche noi: «Sono forse io il guardiano di mio fratello?» (Gen 4, 9). Ma c’è un pericolo in atto ben più grave: alimentare dentro e fuori di noi una idea perversa della libertà umana, che ci porti a negare di fatto e di diritto la vita, a eliminare di fatto e di diritto la stessa vita di cui si vorrebbe essere difensori in nome del progresso e del benessere. «Chi non stima la vita non la merita», scrisse Leonardo da Vinci (in Scritti letterari). Con una cifra ancora più esplicita muterei la parola “stimare” con “amare”: «Chi non ama la vita non la merita». La vita umana viene percepita come valore, ricca di senso, quando ci si sente amati e quando si impara ad amare. Una verità laica, questa, iscritta nel codice genetico di ogni uomo. Se ne fece sostenitore finanche l’ateo Carl Marx: «Quando tu ami senza provocare amore, cioè quando il tuo amore come amore non produce amore reciproco, e attraverso la tua manifestazione di vita, di uomo che ama, non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è una sventura» (in Manoscritti economico-filosofici del 1844). Ogni persona è bisognosa d’amore, prima che di divieti o di concessioni, perché l’uomo non può vivere senza amore. Senza amore, l’uomo rimarrà un essere incompiuto, incomprensibile per se stesso. E «nessun ordinamento statale, per quanto giusto, potrà rendere superfluo il servizio dell’amore», ha ricordato Benedetto XVI nella sua prima enciclica Deus Caritas Est (n. 28). Il tempo che viviamo, purtroppo, è sempre più pervaso da “siccità di valori spirituali”, un’epoca che sconcerta per l’aridità desertica che contraddistingue moltissimi uomini incapaci di indicare risposte di senso a una generazione che sta smarrendo la verità sull’uomo. Stiamo supinamente accettando che il regno del soggettivismo esasperato continui a produrre e a giustificare il moltiplicarsi di violenza e di crudeltà. Sì, perché l’egoismo è scuola di crudeltà!
Scrisse Leòn Blum, ebreo, politico socialista francese e critico letterario, nel suo libro Nouvelles conversations de Goethe avec Eckerman (1901): «Una società che pretende di assicurare agli uomini la libertà, deve cominciare con il garantire loro una vera esistenza». Non ci sarà cultura inter-umana, non ci sarà civiltà dell’amore senza un uso giusto e responsabile della nostra libertà umana, personale e sociale. Specialmente nelle decisioni che riguardano la vita, tutta la vita – nel suo inizio, nel suo svolgersi e nel suo termine – che impegnano la propria esistenza e anche quella degli altri. C’è Vita e vita! Gesù è esplicito: «È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla. Le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita» (Gv 6, 63). Gli uomini sanno vedere questo nostro mondo con gli occhi dello Spirito? Chi è in grado di farlo, sa che non vive soltanto per sé. Sa che la vita è dedizione, è dare, è servire. Questo amore costa fatica, lacrime, sangue; per questo amore si è maltrattati, misconosciuti, disprezzati, offesi. Chi ha sperimentato “la verità della vita”, secondo l’azione dello Spirito di Dio, sa che la vita non è un viaggio verso l’ignoto. Ognuno di noi ben conosce le proprie miserie, le situazioni che lo affliggono, il suo segreto bisogno d’aiuto: tutti abbiamo bisogno di nuovo vigore spirituale, di fare esperienza della fecondità che è nello Spirito di Dio, la soluzione offertaci da Gesù per non fallire, per “indovinare” la vita. Non ci sarà “cultura dello spirituale” se non restituiremo all’uomo ciò che è costitutivo della sua umanità, se non lo salveremo dalla sua penosa alienazione, da questo stato di “riproduzione meccanica”, animale, alla quale l’insipienza collettiva vuole costringerlo. Si vuole togliere diritto di cittadinanza al “Vangelo della vita” solo perché abbiamo la pretesa di dire e dare cose “vere” agli uomini, senza interesse alcuno se non quello di assicurar loro la libertà di essere uomini tra gli uomini, a partire dall’uomo, a salvaguardia della sua dignità integrale e trascendente. Nella sua Esortazione apostolica Evangelii Gaudium, Papa Francesco è assertivo: «Un essere umano è sempre sacro e inviolabile, in qualunque situazione e in ogni fase del suo sviluppo. È un fine in se stesso e mai un mezzo per risolvere altre difficoltà. Se cade questa convinzione, non rimangono solide e permanenti fondamenta per la difesa dei diritti umani, che sarebbero sempre soggetti alle convenienze contingenti dei potenti di turno. La sola ragione è sufficiente per riconoscere il valore inviolabile di ogni vita umana, ma se la guardiamo anche a partire dalla fede, “ogni violazione della dignità personale dell’essere umano grida vendetta al cospetto di Dio e si configura come offesa al Creatore dell’uomo”» (n. 213). Nei Vangeli, Gesù ci mostra pienezza di vita. Offre una nuova vita e descrive la vita futura. Incarna un nuovo e insuperabile modo di essere uomini, di servire la vita, di meritarla sulla terra e in cielo. Di sé Gesù dirà, come riportato dall’evangelista Giovanni: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14, 6). «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10, 10) «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!» (Gv 6, 35). «Chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8, 12). «Chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita» (Gv 5, 24). «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno» (Gv 11, 25-26).
Chi può mai parlare così? Chi potrebbe essere mai essere creduto, se non desse poi prova di sé, come ha fatto Gesù con la sua risurrezione e continua a fare nella vita dei credenti in lui, mediante l’azione sorprendente e miracolosa del suo Spirito? Vita destinata alla gloria Rileggiamo un meraviglioso brano di Sant’Agostino sulle «due vite», che include il nostro essere cittadini della terra “presente” e cittadini della terra “futura”. «Esiste una vita terrena e un’altra vita, immortale, libera da ogni male: lassù vedremo faccia a faccia ciò che qui si vede come in uno specchio e in maniera oscura, anche quando si è fatta molta strada verso la visione della verità. La prima vita è simboleggiata nell’apostolo Pietro, l’altra in Giovanni. Dunque la Chiesa conosce “due vite”, che le sono state rivelate e raccomandate da Dio, delle quali: una è nella fede, l’altra nella visione; una appartiene al tempo della peregrinazione, l’altra all’eterna dimora; una è nella fatica, l’altra nel riposo; una nel lavoro dell’azione, l’altra nel premio della contemplazione; una che si tiene lontana dal male e compie il bene, l’altra che non ha alcun male da evitare ma soltanto un grande bene da godere; una combatte con l’avversario, l’altra regna senza contrasti; una è forte nelle avversità, l’altra non ha alcuna avversità da sostenere; una deve tenere a freno le passioni della carne, l’altra riposa nelle gioie dello spirito; una è tutta impegnata nella lotta, l’altra gode tranquilla, in pace, i frutti della vittoria; una chiede aiuto nelle tentazioni, l’altra, libera da ogni tentazione, trova il riposo in colui che è stato il suo aiuto; una soccorre l’indigente, l’altra vive dove non esiste alcun indigente; una perdona le offese per essere a sua volta perdonata, l’altra non subisce offese da perdonare, né ha da farsi perdonare alcuna offesa; una è colpita duramente dai mali affinché non abbia a esaltarsi nei beni, l’altra gode di tale pienezza di grazia ed è così libera da ogni male che senza alcuna tentazione di superbia aderisce al sommo Bene; una discerne il bene dal male, l’altra non ha che da contemplare il Bene. Quindi una è buona, ma ancora infelice, l’altra è migliore e beata. La prima si conduce interamente quaggiù fino alla fine del mondo, quando avrà termine; il compimento dell’altra è differito alla fine del mondo, ma, nel mondo futuro, non avrà termine» (in Commento al Vangelo di san Giovanni, 124, 5). “Due vite”, ma nulla a che vedere con l’idea imperante della “doppia vita”, cioè una vita vissuta “nella fede” e una non vissuta “nella visione”, ma nel tradimento di ciò che la fede incarna e promette. La Chiesa difende la vita presente perché ha a cuore quella futura. E dunque, se a nessun uomo può essere negato il “diritto di accedere al cielo”, ne consegue che la scarsa “qualità di vita” della maggior parte degli uomini che sono sulla terra non può tradursi nella negazione del “diritto di stare sulla terra”. Sempre Papa Francesco ha affermato: «Purtroppo nella nostra epoca, così ricca di tante conquiste e speranze, non mancano poteri e forze che finiscono per produrre una cultura dello scarto; e questa tende a divenire mentalità comune. Le vittime di tale cultura sono proprio gli esseri umani più deboli e fragili – i nascituri, i più poveri, i vecchi malati, i disabili gravi… –, che rischiano di essere “scartati”, espulsi da un ingranaggio che dev’essere efficiente a tutti i costi. Questo falso modello di uomo e di società attua un ateismo pratico negando di fatto la Parola di Dio che dice: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza” (cf Gen 1, 26)» (Discorso alla Delegazione dell’Istituto Dignitatis Humanae, 7 dicembre 2013).
E in un’altra circostanza, parlando ai “medici cattolici”: «L’attenzione alla vita umana, particolarmente a quella maggiormente in difficoltà, cioè all’ammalato, all’anziano, al bambino, coinvolge profondamente la missione della Chiesa. Essa si sente chiamata anche a partecipare al dibattito che ha per oggetto la vita umana, presentando la propria proposta fondata sul Vangelo. Da molte parti, la qualità della vita è legata prevalentemente alle possibilità economiche, al “benessere”, alla bellezza e al godimento della vita fisica, dimenticando altre dimensioni più profonde – relazionali, spirituali e religiose – dell’esistenza. In realtà, alla luce della fede e della retta ragione, la vita umana è sempre sacra e sempre “di qualità”. Non esiste una vita umana più sacra di un’altra: ogni vita umana è sacra! Come non c’è una vita umana qualitativamente più significativa di un’altra, solo in virtù di mezzi, diritti, opportunità economiche e sociali maggiori» (Discorso in occasione dei 70 anni della Fondazione dell’Associazione dei Medici Cattolici Italiani, 15 novembre 2014). Così Papa Francesco concludeva il discorso: «La fedeltà al Vangelo della vita e al rispetto di essa come dono di Dio, a volte richiede scelte coraggiose e controcorrente… “Giocare con la vita”. Siate attenti, perché questo è un peccato contro il Creatore: contro Dio Creatore, che ha creato le cose così… E questo è dire a Dio: “No, la fine della vita la faccio io, come io voglio”. Peccato contro Dio Creatore. Pensate bene a questo» (ibidem). Il mondo ha dimenticato, nel suo agitarsi tra “destra” e “sinistra”, che esiste un “basso” e un “alto” verso cui tendere, perché dal cielo discende la “città” che vogliamo abitare sulla terra. Solo chi sa guardare alle cose di lassù sa incarnarsi nella storia, sa stare a destra o a sinistra senza temere, perché cammina sulla «via diritta» (cf Is 35, 2). LA CRISI SPIRITUALE DELLA FAMIGLIA «Le famiglie sono la Chiesa domestica, dove Gesù cresce, cresce nell’amore dei coniugi, cresce nella vita dei figli. E per questo il nemico attacca tanto la famiglia: il demonio non la vuole! E cerca di distruggerla, cerca di far sì che l’amore non sia lì. Le famiglie sono questa Chiesa domestica. Gli sposi sono peccatori, come tutti, ma vogliono andare avanti nella fede, nella loro fecondità, nei figli e nella fede dei figli. Il Signore benedica la famiglia, la faccia forte in questa crisi nella quale il diavolo vuole distruggerla». Così si è espresso Papa Francesco all’indirizzo delle famiglie presenti allo Stadio Olimpico, domenica 1 giugno 2014, in occasione della 37ª Convocazione del Rinnovamento. Non c’è dubbio che nelle nostre case, oggi, tocchiamo tante miserie umane, la carne sofferente dei nostri familiari. Sempre più spesso le famiglie che accostano gruppi e comunità presentano situazioni di difficoltà: bussano alle nostre porte per cercare protezione, ascolto, accompagnamento spirituale. In molti casi constatiamo gli effetti devastanti dell’irruzione del maligno nella vita coniugale e familiare. In queste famiglie si nota, come effetto di due contemporanee e contrapposte tendenze presenti nella vita odierna – il “secolarismo” e la “ricerca di spiritualità” – il bisogno di un riscatto morale e una forte sete di verità. In un tempo in cui l’identità cattolica tende a indebolirsi, in cui il cuore dei figli è sottoposto a richiami oppressivi che vengono dal mondo e in cui i genitori hanno rinunziato a trasmettere esperienzialmente un’educazione cristiana ai loro figli, c’è bisogno di ripartire dal “Vangelo della famiglia”, con umiltà e convinzione.
Pentecoste d’amore familiare Negli Orientamenti pastorali della CEI del Decennio 2010-2020 “Educare alla vita buona del Vangelo”, risalta in modo efficace l’esigenza di ricentrare i nostri processi formativi e i nostri progetti educativi sulla persona dello Spirito Santo, il Maestro interiore che prosegue il ministero di Gesù Maestro nella vita di ogni credente. In special modo nei numeri 22-24 del Documento, si afferma che «la Chiesa promuove nei suoi figli anzitutto un’autentica vita spirituale, cioè un’esistenza secondo lo Spirito» (cf Gal 5, 25) (n. 22). Non uno sforzo volontaristico, né episodico, bensì «un cammino attraverso il quale il Maestro interiore apre la mente e il cuore alla comprensione del mistero di Dio e dell’uomo» (ibidem). Aggiungono ancora i Vescovi italiani: «L’accoglienza del dono dello Spirito porta ad abbracciare tutta la vita come vocazione… Per questo è importante che nelle nostre comunità ciascuno impari a riconoscere la vita come dono e ad accoglierla secondo il suo disegno d’amore» (n. 23). Una prospettiva chiara, che deve trovare nella famiglia l’elemento portante delle nostre comunità ecclesiali e delle nostre comunità cittadine, il primo e convinto soggetto attuatore. Noi crediamo fermamente che il dono dello Spirito Santo è comandamento di vita per la famiglia cristiana. È rigenerazione dell’amore sacramentale che consente agli sposi di progredire verso una più piena, ricca, consapevole comunicazione d’amore a tutti i livelli: dei corpi, dei caratteri, dei cuori, delle intelligenze, delle volontà, delle anime. Se vogliamo misurare lo stato di salute delle nostre famiglie, dobbiamo chiederci se esse sono tras- formate in Cristo o con-formate al mondo. La Scrittura ci allerta: «Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12, 2). Basterebbe questo semplice criterio di valutazione per superare tante sofferenze morali e spirituali che discendono dal non cercare “ciò che Dio vuole” (Gesù ci ha insegnato a pregare sempre: «Sia fatta la volontà del Padre», Mt 6, 7-15), dal non condividere il suo pensiero, dal non chiedersi quale sia il “suo” punto di vista sulla famiglia, dal ricercare una felicità fuori dal pensiero di Cristo! (cf 1 Cor 2, 16b). È necessario percorrere questo difficile ma possibile cammino di adeguamento alla volontà di Dio, per realizzare la vocazione della famiglia quale segno di contraddizione “nel mondo” e occasione di salvezza “per il mondo”. Dalla collaborazione degli sposi con lo Spirito dipende il successo del matrimonio cristiano. Non facciamoci illusioni: gli sposi non possono attuare, al livello proprio della comunione delle persone, la verità biblica «i due saranno una sola carne» (Gen 2, 24) se non mediante le forze soprannaturali provenienti dallo Spirito. È in atto una grande confusione tra l’amore di Dio e l’amore del mondo, confusione che inquina fortemente la fede “della” famiglia e “nella” famiglia, specie quando le menzogne del mondo addormentano la coscienza di ciò che è vero amore. Non mi stanco di ripeterlo, come una drammatica evidenza della confusione vigente: è considerato un atto d’amore giustificare la soppressione della vita, per non vedere soffrire il proprio parente: e così si legittima l’eutanasia! È considerato un atto d’amore giustificare la distruzione di un matrimonio, per mettere fine alle tante sofferenze della coppia: e così si legittima il divorzio! È considerato un atto d’amore giustificare l’interruzione di una gravidanza, quando al nascituro sarebbe assicurata una vita difficile: e così si legittima l’aborto!
L’amore è donazione, non privazione; è offerta, non rinuncia; è vita, non morte; è dialogo, non rifiuto preconcetto. Come fare perché questo accada, perché accada proprio nelle nostre case? Accogliendo l’invito di Gesù: «Rimanete nel mio amore» (Gv 15, 9b). Gesù sembra dirci: prima di fare del mio amore una lezione ai vostri figli, procuratevi di farne esperienza. Commenta, a tal proposito, sant’Agostino: «Se tu abiti nello Spirito, lo Spirito abiterà in te. Resta nell’amore e l’amore resterà in te» (in Commento alla Prima lettera di S. Giovanni, 7, 10). “Rimanere” è il verbo spirituale di una famiglia, per cui la grande sfida non è quella di creare una famiglia, bensì di conservarla nell’amore. Una famiglia “che si fa da sé”, che non si lascia fare continuamente dallo Spirito, crescerà male, farà del male ai propri figli, impoverirà la Chiesa, non potrà stupire il mondo. Secondo Dio, secondo natura «Onora tuo padre e tua madre» (Dt 5, 16) non è solo un comandamento biblico, un principio comune a tutte le religioni. È anche un impegno laico, perché non esiste saggezza umana o civiltà degna di questo nome che non ricordi a dei figli di onorare i propri genitori, il proprio passato, le proprie tradizioni. Un padre e una madre. Non un padre che funge da madre o una madre che funge da padre. Che triste mistificazione! La posta in palio, l’avvenire delle nuove generazioni, è troppo alta. I giovani non sanno più stare al mondo perché stiamo smettendo di insegnare loro “come si vive”, come si moltiplica l’amore e come non si consuma, a partire da una veritiera declinazione del “maschile” e del “femminile”, del “paterno” e del “materno”. Mai, in nessuna civiltà, era avvenuto che si ridicolizzasse, si bollasse d’infamia un bene così profondamente umano, laico, universale, del futuro dell’uomo come la famiglia: divorzio, aborto, eutanasia, fecondazione artificiale ne sono un evidente segno. E mai era avvenuto che, in nome della modernità e del principio di non discriminazione, si offendesse la dignità di milioni di cittadini, strumentalizzando anche la loro genuina fede in Dio: mettere la vita ai voti in un referendum, come abbiamo fatto in Italia nel 2005 sul tema della “procreazione medicalmente assistita”. L’attenzione dei media ormai si concentra quasi esclusivamente sulla crisi economica che flagella la nostra società e, al contempo, le famiglie, turbate da ogni sorta di difficoltà. In primo luogo da un problema di natura identitaria: la famiglia ha perso di vista se stessa, ha poca cognizione di sé e delle sue responsabilità e prerogative. L’uomo e la donna accusano confusioni di ruoli e difficoltà estreme di relazione, legate a una comunicazione imperfetta, alla mancanza di perdono, al rifiuto dell’idea del sacrificio, all’autoaffermazione esasperata di sé. A questo si aggiungono difficoltà inerenti all’educazione dei figli, alla sostenibilità economica delle diversificate esigenze familiari, alla conciliazione delle famiglie “allargate” e tanto, tanto altro ancora. Guardando al disorientamento corrente, proprio intorno alla definizione del genere umano, consapevoli che stiamo accettando supinamente che l’opera creatrice di Dio venga sconvolta dalla dittatura di nuovi e pervasivi orientamenti culturali contro natura, vogliamo ribadire la più evidente e inconfutabile delle verità di Dio sull’uomo: siamo stati creati “maschi e femmina!”: «Maschio e femmina Dio li creò» (Gen 5, 1). Una verità che fonda il genere umano secondo natura e che non vogliamo, non possiamo accettare venga snaturata. Il Vangelo della famiglia si fonda sull’unione di un uomo e di una donna, unione significata in due fondamentali elementi dalla straordinaria portata spirituale e sociale: uno è la stabilità di questo amore unitivo nel matrimonio e il secondo è la fecondità di questo amore unitivo nella
procreazione, nella capacità di generare vita. Questi non sono solo princìpi di fede, ma elementi di civiltà profondamente umani e laici: la stabilità dell’unione e la capacità di generare vita, sono fattori importanti nella difesa e nello sviluppo dello stato sociale. Noi riteniamo che lo spirito di morte, la sterilità sociale e politica, la stessa crisi delle autorità e delle rappresentanze siano figliate dalla confusione regnante nella definizione dell’umano, del maschile e del femminile. La nozione di “maschile e femminile” porta alla definizione dell’essere “uomini e donne” che diventano “padri e madri”. È un processo evolutivo, culturale e spirituale, imprescindibile e fondante la vita e le relazioni umane. La crisi della paternità e della maternità nelle diverse forme costituite e date agli uomini, siano esse di natura religiosa, politica, sociale, educativa, sono il risultato di questo deficit di verità sul “maschile” e “femminile”. Bisogna tornare a questa verità essenziale ed esistenziale voluta da Dio per l’uomo, per il bene dell’uomo, al di là di ogni strumentalizzazione confessionale, dunque non appena tra le mura di una chiesa, ma nella vita pubblica, come dimensione manifesta della verità che si crede. Chi non difende la famiglia oggi offende i giovani che verranno domani, se qualcuno ha davvero a cuore il futuro! La storia umana è fatta di corsi e ricorsi. Ma ora sta accadendo qualcosa di inedito e di drammatico: si vuole alterare il corso naturale della storia umana riscrivendo lo statuto umano “secondo cultura” e non più “secondo natura”. Figli educati, figli salvati È triste assistere al comportamento di molti genitori cristiani che stanno rinunciando alla trasmissione della fede ai loro figli, assecondando una certa psicologia che invita a rispettare la libertà dei ragazzi così che possano “costruire l’autostima”. Cosa significa costruire l’autostima? Se significasse lasciare un ragazzo in balia del proprio io, così che diventi maestro di se stesso, decidendo senza Dio ciò che è bene e ciò che è male, ebbene – se questo accadesse – noi staremmo allevando in casa degli atei; ancor peggio, come ci mostrano ogni giorno i media, dei carnefici! San Giovanni Crisostomo, il grande Padre della Chiesa della Tradizione orientale del IV secolo d.C., ci ammonisce: «Un grande pegno ci è stato affidato: i nostri figli. Preoccupiamoci, dunque, di loro e facciamo di tutto perché il maligno non ce li porti via. Ma tra di noi avviene tutto il contrario. La nostra preoccupazione è lasciare proprietà ai nostri figli e per accumulare beni materiali non ci diamo pensiero di loro» (in Omelie sulla Prima lettera a Timoteo, 9, 2). Ancora il Crisostomo così si rivolgeva ai genitori cristiani: «Vuoi che tuo figlio sia obbediente? Allevalo fin dall’inizio, educandolo e ammonendolo nel Signore. Non credere che sia inutile per lui ascoltare le Sacre Scritture. Non dire: “È roba da monaci e non voglio farlo monaco”. Non è necessario che diventi monaco: Fallo cristiano! Ricorda: non farai mai tanto per lui, quanto insegnandogli ad essere cristiano. Di fronte alla cura spirituale dei figli, tutto per noi sia secondario!» (in Omelie sulla Lettera agli Efesini, 21, 1-2). Se c’è crisi d’identità della famiglia cristiana non si deve certo alle “dimissioni” dello Spirito Santo dalla storia umana, piuttosto alle nostre “diserzioni”. L’invito di san Paolo è chiaro: «Non spegnete lo Spirito» (1 Ts 5, 19). Questa espressione dell’Apostolo alla comunità di Tessalonica così viene commentata da sant’Agostino, a proposito di quei genitori che trascurano l’educazione alla fede dei propri figli.
«Quando san Paolo afferma: “Non spegnete lo spirito” (1 Ts 5, 19) non intende certo che lo Spirito possa essere spento. Lo fa per mettere in guardia i cristiani. Anche i genitori sono chiamati giustamente “spegnitori” quando non lasciano ai loro figli la Chiesa per madre e Dio per padre. Così facendo costringono i figli propri e altrui al servizio del demonio» (in Le Lettere, I, 98, 3 [A Bonifacio]). La presenza dello Spirito, in famiglia, si alimenta pregando, permettendo a Dio di visitarci nelle nostre case, ogni giorno. Non c’è modo migliore, più efficace, più facile che pregare e pregare insieme. La famiglia, quando prega, è vigilante, profetica, innamorata, incarnata, in comunione. Niente più della preghiera deve essere al centro dei pensieri di una famiglia cristiana, se non vuole cadere sotto i colpi della scristianizzazione imperante. L’unità di un popolo e di una nazione è innanzitutto un fatto spirituale: niente più che la preghiera è antidoto alla solitudine, all’esclusione sociale e ai tanti conflitti intergenerazionali a cui assistiamo all’interno delle nostre case. È possibile spiegare cosa significa pregare in famiglia? Forse è meglio provarlo con la propria esperienza. Dobbiamo tornare a educare le famiglie alla preghiera, alla confidenza con Dio, aiutarle a ritrovare nella preghiera intimità familiare, capacità di dialogo e di ascolto tra i membri della famiglia stessa. In questo cammino non ci sono “adulti” e “bambini”, ma persone amate e amanti, chiamati ad amare e a rimediare con il perdono ai fallimenti dell’amore che incrinano la comunione familiare. I figli devono tornare a imparare dai genitori la necessità di “lodare e ringraziare Dio” in ogni circostanza, favorevole o contraria, così da farne uno stile di vita. Si sviluppa, in tal modo, una “serena dipendenza da Dio” che genera pace e gioia anche nel tempo della prova, che infonde nel cuore dei figli “l’onore verso Dio e l’onore verso i genitori”. Diviene, così, più naturale osservare i comandi di Dio e ricercare il suo volere. Davanti alle prove della vita, di estrema importanza è la preghiera di “intercessione”. La Scrittura ampiamente attesta come Dio doni ai genitori il potere di benedire i figli nel tempo della prova, specie nella malattia. Nel gesto invocatorio degli sposi sulla loro creatura si manifesta l’amore di Dio che consola e libera dal male. Come ci ha ricordato Papa Francesco nell’Esortazione apostolica seguente a due Sinodi dedicati alla Famiglia, Amoris Laetitia, il futuro della “nuova evangelizzazione” passa in maniera ineludibile dalla soggettività sacramentale e carismatica della famiglia nel mondo. In questo Documento ricco di stimoli spirituali e sociali a vantaggio della famiglie cristiane, il Santo Padre insiste sulla necessità della “trasmissione della vita” e dell’“educazione dei figli”. Rileggiamone alcuni punti salienti: «Il matrimonio è in primo luogo una intima comunità di vita e di amore coniugale… Questa unione è ordinata alla generazione per la sua stessa natura… Fin dall’inizio l’amore rifiuta ogni impulso di chiudersi in se stesso e si apre a una fecondità che lo prolunga oltre la sua propria esistenza» (n. 80). «Il figlio chiede di nascere da un tale amore e non in qualsiasi modo, dal momento che egli non è qualcosa di dovuto ma un dono… Perché secondo l’ordine della creazione l’amore coniugale tra un uomo e una donna e la trasmissione della vita sono ordinati l’uno all’altra (cf Gen 1, 27-28)… Il Creatore ha reso partecipi l’uomo e la donna dell’opera della sua creazione..., affidando alla loro responsabilità il futuro dell’umanità attraverso la trasmissione della vita umana» (n. 81). «In questo contesto, non posso non affermare che, se la famiglia è il santuario della vita, il luogo dove la vita è generata e curata, costituisce una lacerante contraddizione il fatto che diventi il luogo dove la vita viene negata e distrutta. È così grande il valore di una vita umana, ed è così inalienabile il diritto alla vita del bambino innocente che cresce nel seno di sua madre, che in nessun modo è possibile presentare come un diritto sul proprio corpo la possibilità di prendere decisioni nei confronti di tale vita, che è un fine in se stessa e che non può mai essere oggetto di dominio da parte di un altro essere umano» (n. 83).
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