La riforma della scuola e l'IRC

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La riforma della scuola e l’IRC
                          Prof.ssa Giuliana Sandrone Boscarino
                                  Università di Bergamo
                                 Palermo, 4 marzo 2004

La Riforma della Scuola
   1. L’impianto normativo
La riforma agisce in un contesto normativo obbligato, il legislatore non poteva fare
in modo diverso per quanto riguarda l’impianto:
    L.59/97
    DPR 275/99
    L.3/01
Documenti esterni
   - Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del Primo
       Ciclo di istruzione (PECUP 1° ciclo);
   - Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del secondo
       ciclo di istruzione(PECUP 2° ciclo);
   - Indicazioni Nazionali per i Piani Personalizzati delle Attività Educative nella
       scuola dell’infanzia (PPAE);
   - Indicazioni nazionali per i Piani di Studio Personalizzati (PSP) nella Scuola
       Primaria;
   - Indicazioni nazionali per i Piani di Studio Personalizzati (PSP) nella Scuola
       Secondaria di 1° grado;
   - Indicazioni nazionali per i Piani di Studio Personalizzati (PSP) nei Licei
       (classico, scientifico, linguistico, delle scienze umane, economico,
       tecnologico, artistico, musicale-coreutico).
Documenti interni
   - il POF: Piano dell’offerta formativa;
   - i Piani di studio Personalizzati PSP;
   - il Portfolio delle competenze personali.

    2. L’impianto pedagogico
La parola centrale del nostro discorso sullo sviluppo integrale della persona è
evidentemente il “Personale” riferito ai Piani di studio e al Portfolio.
Il concetto centrale è quello della personalizzazione che si trova tanto nei documenti
esterni che in quelli interni: la persona umana vista come punto di convergenza e di
riflessione in ordine alle molte tematiche (etiche, politiche, ecologiche, sociali,
religiose …) che affollano il nostro vivere quotidiano dopo l’esaurirsi delle ideologie
e la crisi dei grandi miti (scienza, benessere, sviluppo economico, …) che hanno
accompagnato la cultura della modernità.
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Il richiamo alla centralità della persona comporta un riconoscimento di valore in
quanto nucleo “produttore di senso”, dunque esperienza dalla quale si deve partire
per identificare le ragioni della Convivenza e il bisogno di un rinnovato senso etico
che sappia confrontarsi positivamente con la complessità, la multiculturalità, lo
sviluppo sostenibile, …
Che cosa significa da un punto di vista pedagogico mettere al centro la persona?
A) In prima battuta significa mettere in discussione il paradigma assai diffuso della
autosufficienza didattica di programmazioni, tassonomie, obiettivi, standard; per
quanto significativi da un punto di vista didattico sono elementi che da soli non sono
sufficienti ad assicurare la forza maieutica che scaturisce da un rapporto
interpersonale forte e significativo.
Faccio un esempio utilizzando un passo delle Indicazioni nazionali della scuola
Secondaria di I grado che tra gli obiettivi generali di questo tipo di scuola pone
quello della relazione educativa e a tal proposito dice:
In educazione, e particolarmente quando si è preadolescenti, è molto difficile
impadronirsi delle conoscenze (sapere) e delle abilità (fare) e trasformarle in
competenze di ciascuno in nome e per conto di una logica di scambio: la scuola dà
una cosa allo studente che contraccambia con qualcos’altro (impegno, attenzione,
studio, correttezza).
È difficile anche nel caso in cui alla logica dello scambio si sostituisca quella del
rapporto. Avere rapporti tra soggetti dentro l’istituzione scuola, tra docente e allievi,
tra docenti e genitori, significa infatti far sempre riferimento all’incontro di ruoli e
competenze comunque formalizzate in statuti, norme, contratti, gerarchie, ecc.
Quindi sia con lo scambio, sia con il rapporto, il rischio dell’estraneità tra i soggetti
coinvolti nel processo educativo e della sostituzione del coinvolgimento pieno e
diretto, libero e gratuito di ciascuno, con la prestazione pattuita o corretta, ma agìta
più per dovere che per intima adesione, resta sempre rilevante.
Questo accade molto meno, invece, se alle logiche dello scambio e del rapporto si
sostituisce e si vive quella della relazione educativa. La relazione educativa tra
soggetti supera, infatti, lo scambio di prestazioni che può rimanere ancora
impersonale, così come il rapporto tra figure che esercitano poteri legittimi in modo
corretto, ma non per questo si mettono in gioco come persone.
La relazione educativa, pur nella naturale asimmetria dei ruoli e delle funzioni tra
docente ed allievo, implica, infatti, l’accettazione incondizionata l’uno dell’altro,
così come si è, per chi si è, al di là di ciò che si possiede o del ruolo che si svolge.
Nella relazione educativa ci si prende cura l’uno dell’altro come persone: l’altro ci
sta a cuore, e si sente che il suo bene è, in fondo, anche la realizzazione del nostro.
Quando si entra in questo clima, gli studenti apprendono meglio. La Scuola
Secondaria di 1° grado, in questo caso, ma noi estendiamo, è chiamata a considerare
in maniera adeguata l’importanza delle relazioni educative interpersonali che si
sviluppano nei gruppi, nella classe e nella scuola, e ciò soprattutto in presenza di
ragazzi in situazione di handicap.

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Avere attenzione alla persona; valorizzare, senza mai omologare o peggio
deprimere; rispettare gli stili individuali di apprendimento; incoraggiare e orientare;
creare confidenza; correggere con autorevolezza quando è necessario; sostenere;
condividere: sono solo alcune delle dimensioni da considerare per promuovere
apprendimenti significativi e davvero personalizzati per tutti …”

B) Ma da un punto di vista pedagogico mettere al centro la persona significa anche
mettere in discussione paradigmi consolidati rispetto alla diversità dei percorsi
possibili per la realizzazione di un progetto di vita.
Se “cultura”
            è dare voce criticamente fondata e argomentata ad orientamenti
              complessivi che permettano la realizzazione di personali progetti di vita
              nei più diversi contesti a cui si appartiene (locale, nazionale,
              comunitario e internazionale);
            è partecipazione attiva, con piena consapevolezza dei propri diritti e
              doveri, alla articolazione della vita sociale, economica, professionale,
              politica e culturale;
            è formazione dell’identità personale, alla cui definizione concorrono le
              scelte etiche e religiose, il gusto estetico, gli interessi intellettuali e
              conoscitivi, le vocazioni di studio, le competenze professionali, la
              tradizione, tutti elementi da tradurre poi in autoeducazione permanente,
se cultura è tutto questo, non si può immaginare che essa possa essere considerata
appannaggio dei percorsi di istruzione liceale piuttosto che di formazione
professionale, oppure di istruzione e formazione professionale quale si realizza nei
tirocini formativi e, a maggior ragione, in un lavoro.
Proprio perché, nella persona, la “cultura” è sempre unitaria e onnicomprensiva, non
tollera né confusioni né amputazioni: essa è in ogni momento, ancorché in modi e
forme differenti, un fare, un sapere ed un agire intrecciati ed esperiti in situazione da
un soggetto che conferisce loro senso; per questo, la cultura è essere personale di
ciascuno, «un modo specifico di essere, di esistere dell’uomo» nella società che vive.
Questa è la cultura a cui si fa riferimento nel Profilo educativo, culturale e
professionale della Riforma.

   3. Gli elementi di continuità strutturale
Ci sono alcuni elementi nella L.53 e nei Documenti finora a disposizione che
sottolineano, con la loro presenza costante, la continuità strutturale dell’impianto
pedagogico di cui abbiamo parlato, centrato sulla persona e sul suo sviluppo
integrale.

Ne cito 6 (il Profilo, il Psp, il Portfolio, il Docente tutor, la didattica laboratoriale, la
Convivenza Civile) riservando all’ultimo un’ attenzione particolare.

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1. Il primo elemento strutturale che ritorna con sistematicità nell’intero impianto
della riforma è il Profilo educativo, culturale e professionale (Pecup) dello studente.
Come è noto, la riforma lo prevede alla conclusione del primo e del secondo ciclo di
istruzione/formazione.

   a) Quello definito per la conclusione del primo ciclo di istruzione è la principale
      garanzia di continuità per gli allievi che frequentano la Scuola dell’Infanzia, la
      Scuola Primaria e la Scuola Secondaria di I grado. I docenti della Scuola
      dell’Infanzia, infatti, sono in grado di conoscere con i loro colleghi della
      scuola primaria e secondaria di I grado il risultato finale che sembra lecito
      attendersi dall’evoluzione naturale e sociale dell’allievo, ma tutti, in questo
      modo, sono anche posti nella condizione di seguire i ritmi di sviluppo
      individuali e di non uniformare astrattamente alle diverse articolazioni annuali
      e biennali della scuola primaria o secondaria di I grado le eterocronie
      evolutive di ciascun allievo. Infatti, è possibile chiedere anche dopo uno o più
      anni, a uno studente, la conquista di competenze che un altro ha raggiunto
      prima. E quindi non lasciarsi prendere o dalla concitazione preoccupata per
      qualche ritardo d’apprendimento o dall’entusiasmo contingente per qualche
      anticipo perché, del resto, sono note da tempo le ricerche sperimentali di
      psicopedagogia che fanno giustizia di una concezione geometricamente lineare
      della maturazione personale. Si è, quindi, nelle condizioni per progettare un
      percorso che si realizzi con la gradualità e la specificità che la maturazione
      individuale impone dai tre ai quattordici anni.

Profilo del 1° ciclo: “ Dal punto di vista educativo, non esistono età, né scuole,
che non siano fondamentali per la costruzione del proprio progetto di vita. La
necessità di conoscere, sperimentare e aprirsi a nuove esperienze formative
accompagnano l’intera esistenza di una persona. In ogni età della vita, occorre
stimolare l’individuo al meglio, tenendo conto delle sfaccettature della sua
personalità e delle sue capacità, per trasformarle in vere e proprie
“competenze”. Per questo, se qualcuno non ha potuto godere di adeguate
sollecitazioni educative, ha il diritto di essere messo nelle condizioni di
recuperarle. Perché se è vero che le funzioni non esercitate tendono ad
atrofizzarsi, o quantomeno ad indebolirsi nella rapidità di risposta, è anche vero
che l’elasticità e la complessità della mente e dell’esperienza umane sono tali
da consentire, per tutta la vita, recuperi e anche progressivi miglioramenti
generali e specifici della personalità e della qualità della propria cultura.
       Allo stesso modo, se un soggetto è stato sottoposto a stimolazioni educative
molto ricche nei periodi sensibili dello sviluppo o, addirittura, a stimolazioni precoci,
non per questo ha la certezza che i vantaggi competitivi acquisiti non si esauriscano
nel tempo. Il processo educativo individuale, infatti, ha inizio con la vita e cessa solo
con essa, in una continua dinamica di conquiste e possibili involuzioni, sicché nulla è
mai guadagnato una volta per tutte e nulla è mai perduto per sempre…”

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b) Anche il Profilo educativo, culturale e professionale previsto dalla riforma alla
conclusione del secondo ciclo (sistema dei licei e sistema dell’istruzione e
formazione professionale) è un significativo fattore di promozione della continuità.
Esso, infatti, in un’ottica di orientamento a largo spettro, come quello del primo
ciclo, permette di ragionare in termini di risultati finali piuttosto che di rigidi
traguardi intermedi, e quindi di rispettare anche nell’adolescenza l’eterocronia degli
sviluppi individuali.
L’istruzione e la formazione che i giovani incontrano nel secondo ciclo è finalizzata
al processo della crescita e della valorizzazione della persona umana, mediante
l’interiorizzazione personale e l’elaborazione critica delle conoscenze disciplinari e
interdisciplinari (sapere), delle abilità tecniche e professionali (fare consapevole) e
dei comportamenti personali e sociali (agire) stabiliti dal Profilo.
Crescita educativa, culturale e professionale dei giovani implica la scoperta del
nesso tra i saperi e il sapere e il passaggio dalle prestazioni (o mansioni) alle
competenze; si tratta di trasformare la molteplicità dei saperi che il soggetto incontra
nei vari ambiti della sua esistenza, in un sapere unitario personale, dotato di senso,
ricco di motivazioni e di fini; allo stesso modo, si tratta di trasformare le prestazioni
professionali in competenze, insieme organicamente strutturato di conoscenze e
abilità riferibili a uno specifico campo professionale, utilizzate in modo consapevole
e creativo sia nel lavoro sia nella vita individuale e sociale.
L’interiorizzazione personale e l’elaborazione critica richiedono una cura attenta dei
modi e della forme con cui si esprimono e si attuano i processi della ragione in
rapporto ai suoi oggetti reali e formali. Essa diventa, quindi, spirito di esplorazione e
di indagine, capacità intuitiva, percezione estetica, memoria, procedimenti
argomentativi e dimostrativi che danno ragione delle proprie scelte ed opinioni,
consapevolezza e responsabilità morale, elaborazione di progetti e risoluzione di
problemi,affrontati in tutta la loro complessità.
L’esercizio della responsabilità personale e sociale significa porre lo studente nella
condizione di decidere consapevolmente le proprie azioni in rapporto a sé e al mondo
civile, sociale, economico, religioso, di cui fa parte e all’interno del quale vive,
imparando, da una parte, a gestirsi e a “prendere posizione” e, dall’altra, a “farsi
carico” delle conseguenze delle proprie scelte, non solo in relazione a se stesso,
bensì anche in rapporto agli altri e alle future generazioni.

2. Un secondo elemento strutturale che ritorna sistematicamente nella riforma e che
si pone al servizio del principio e della pratica della continuità educativa è
l’elaborazione dei Piani Personalizzati delle Attività Educative (PPAE) nella scuola
dell’infanzia e dei Piani di Studio Personalizzati (PSP) negli altri ordini di scuola.
Questi rappresentano, forse, la modalità più innovativa per ricercare la coincidenza
tra gli interventi progettati per la continuità orizzontale e verticale e le attese di
maturazione dell’autonoma evoluzione di ciascuno. I PPAE e i PSP, infatti, oltre a
non essere basati su contenuti programmatici precostituiti, discendono dalle unità di
apprendimento stabilite in situazione dalla professionalità dei docenti, valorizzano la
comunicazione, sono improntati alla flessibilità (classi, gruppi, orario obbligatorio e
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facoltativo, opzionalità, libertà di scelta delle famiglie, coinvolgimento dei genitori e
dei ragazzi nella stesura del portfolio e nella stessa organizzazione dei PSP), si
aprono all’extrascuola e al lavoro di rete (Laboratori), mirando a declinare nel
concreto il principio della continuità dell’educazione e nell’educazione.

3. Un terzo elemento strutturale di continuità all’interno della riforma si trova nella
proposta del Portfolio delle competenze. Questo strumento segue lo studente dal suo
primo approccio con la scuola dell’infanzia all’uscita dell’Università o della
formazione superiore. Addirittura, potrebbe essere utilizzato, in una logica di Long
Life Learning, per la riconversione professionale in età adulta e per la formazione
continua. Soprattutto la sezione dedicata all’orientamento rappresenta, dalla scuola
secondaria di I grado in poi, un elemento di grande significatività ai fini della
crescita integrale della persona in una ottica di continuità. Essa, infatti, mette in
condizione il ragazzo e la sua famiglia di effettuare una scelta tra istruzione e
formazione secondarie sulla base non solo delle competenze acquisite, ma soprattutto
delle capacità personali rimaste impregiudicate o sottoutilizzate durante il periodo di
scolarizzazione precedente;non solo consente un continuo ri-orientamento che deve
essere garantito dall’attivazione dei Larsa (laboratori di recupero ed
approfondimento degli apprendimenti.

4. Il quarto elemento strutturale che caratterizza la riforma in ogni ordine e grado di
scuola e che si pone nella prospettiva della continuità della e nell’educazione
riguarda l’introduzione della figura del docente coordinatore tutor che garantisce
l’effettiva realizzazione dei PSP. E’ evidente che nell’esercizio delle proprie
funzioni, coaching, holding, consuelling, nei confronti degli allievi che gli sono
affidati il docente tutor debba agire in una logica di continuità orizzontale e verticale.
Ma è chiamato anche a coordinare gli interventi educativi dell’équipe pedagogica
che entra in contatto con gli studenti in ciascuna classe di un certo ordine di scuola, a
coordinare irapporti tra la famiglia, la scuola e l’ambiente sociale territoriale.

5.Un quinto elemento strutturale utilizzabile, nella riforma, ai fini della promozione
della continuità della e nell’educazione si può ravvisare nella possibilità di
organizzare in modo flessibile le attività educative e didattiche che presentano una
parte obbligatoria e una parte opzionale-facoltativa. A seconda delle esigenze di
apprendimento individuali si può prevedere un’offerta formativa sia per gruppi
classe, sia per gruppi di livello, di compito o elettivi, ovviamente costituiti con
allievi di classi o addirittura, nel caso dei Laboratori di rete, di scuole diverse. La
possibilità che qui si apre e che può con successo condurre ad una educazione
integrale del soggetto, di qualunque età, è l’ utilizzo sistematico della didattica
laboratoriale.
Qual è il principio pedagogico sotteso a questa affermazione?

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L’uomo è sempre un tutto dove la ragione, da sola, non esiste mai; ed è sempre in un
tutto nel quale non esistono, per dirla con Pestalozzi, separatezze tra mani, cuore e
mente. È importante tenerne conto. La trasmissione dei concetti, quindi, sebbene
condotta in nome di una logica e di una semantica rigorose, non è mai un transito
angelico da mente a mente, ma da uomo a uomo, da complessità a complessità, da un
tutto ad un altro tutto ma è un intreccio continuo in intelligenza, affetti, corporeità
che tutte insieme, producono apprendimento.
Non si tratta di pensare la didattica laboratoriale come “relegata” nei momenti di
Laboratorio opzionale-facoltativo; sarebbe un tentativo poco accorto di negazione
della centralità dell’insegnamento laboratoriale, quello che parte da problemi e
progetti significativi per i ragazzi e che utilizza l’intreccio esperto delle discipline
per risolvere gli uni e concretizzare i secondi. E’un tipo di metodo, quello
laboratoriale, che non ammette “vincoli”: non è vero che si può fare solo se si hanno
gli spazi, se si hanno le attrezzature, se si ha tanto tempo a disposizione, se…! La
didattica laboratoriale si può attivare sempre, ogni qualvolta si presenti al Gruppo
classe, al gruppo di livello o di compito un problema (significativo) da risolvere, un
problema di cui non si fornisce a priori la soluzione (con l’unico compito di
ripeterla) ma che richiede l’attivazione unitaria di conoscenze e di abilità teoriche e
pratiche, di mano e di mente.
Occorre soffermarsi con attenzione sull’importanza che la didattica laboratoriale
riveste nella Riforma perché parlando di Laboratorio non si intende un luogo fisico o
un’attività “separata” rispetto all’attività del gruppo classe, bensì si intende una
modalità di lavoro per cui, abbandonata la logica del disciplinarismo e della
specificità del sapere si utilizzano problemi significativi per gli alunni, si fanno
esperienze di soluzione degli stessi, si utilizzano logiche pluri-inter-trans
disciplinari; un itinerario di lavoro euristico che senza mai separare artificiosamente
theoria e techne, esperienza e riflessione logica su di essa, corporeo e mentale,
affettivo e razionale diventa paradigma di azione riflessiva, di ricerca integrata, di
sviluppo integrale della persona.
Non si tratta, dunque, semplicemente di organizzare Laboratori opzionali-facoltativi
che ciascun allievo potrà scegliere di frequentare, previo accordo cooperativo tra il
docente tutor e la sua famiglia, ma, operazione molto più impegnativa, si tratta di
ripensare l’intera attività di insegnamento attraverso un’ottica laboratoriale.

6. Il sesto elemento di continuità che ritrovo Nelle Indicazioni Nazionali per i Piani
di Studio Personalizzati della Scuola Primaria e della Scuola Secondaria di I grado e
che è logico attendersi in quelle della Secondaria di II grado è la «Convivenza
civile». Essa è ripresa dalla legge-delega n° 53/2003 ed è assunta sia come sintesi
delle «educazioni» alla cittadinanza, ambientale, stradale, alla salute, alimentare,
all’affettività, sia, aspetto non meno importante, come risultato dell’apprendimento
delle conoscenze e delle abilità che caratterizzano le differenti discipline di studio.
Le motivazioni che hanno portato a giustificare questa attribuzione di significato
all’espressione Convivenza civile sono principalmente tre.

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Oltre l’educazione alla cittadinanza e l’educazione civica. La prima motivazione è
che questa nuova espressione sembra dire molto di più delle pur importanti e più
tradizionali dizioni di «educazione alla cittadinanza» e di «educazione civica».
Sembra dire di più dell’educazione alla cittadinanza perché, nella società
multiculturale e multireligiosa che ci circonda, è indispensabile «convivere
civilmente» non solo con chi ha ed esercita la cittadinanza, ma anche con chi non ce
l’ha, con chi non gode i diritti politici e spesso fatica perfino a realizzare le
condizioni minime di esercizio dei diritti umani più elementari.
Sembra dire molto di più della tradizionale espressione di «Educazione Civica»,
inoltre, perché il concetto di Convivenza civile presuppone di superare il valore del
“buon comportamento” da assumere nello spazio civile pubblico, ma richiede di
praticare come bene comune pubblico anche il “buon comportamento” da assumere
nello spazio privato in tema non solo di partecipazione e di coscienza politica, ma
anche di circolazione stradale, di rispetto dell’ambiente, di cura della propria salute e
dell’alimentazione, di comportamenti nel campo affettivo-sessuale. Esemplificando:
se è vero che l’educazione stradale richiede il rispetto delle norme del Codice
stradale come condizione per consentire a tutti (pedoni, ciclisti, automobilisti, ecc.)
di circolare con ordine e sicurezza, è altrettanto vero che l’automobilista solitario, nel
cuore della notte, non può correre a folle velocità sull’autostrada, non solo perché le
eventuali conseguenze della sua imprudenza hanno pesanti “costi sociali” (assistenza
ospedaliera, invalidità, ecc.) oltre che “personali” e “familiari”, ma anche e
soprattutto perché essere imprudenti è male in sé ed è un comportamento da rifiutare
sempre, in presenza di altri, certo, ma nondimeno da soli, in privato. Discorsi che
vanno ovviamente ripetuti analoghi per tutte le altre ‘educazioni’ raccolte nel
contenitore Convivenza civile.
Nel concetto di Convivenza civile, perciò, si afferma con molta più forza che nelle
altre due più tradizionali espressioni il principio secondo il quale far bene a se stessi,
ed agire bene, in città, per la strada, nell’ambiente in cui si vive, per la propria salute,
nell’espressione affettiva è anche, sempre, far bene agli altri e contribuire all’agire
bene di tutti, e viceversa.

La radice morale. La seconda motivazione che ha portato ad indicare con
l’espressione «educazione alla Convivenza civile» l’insieme dell’educazione alla
cittadinanza o civica, stradale, all’ambiente, alla salute, all’alimentazione e
all’affettività è che, finora, nella scuola, queste diverse componenti, da un lato, sono
spesso state considerate dimensioni separate le une dalle altre e, dall’altro, sono state
di fatto introdotte nei piani di studio con una modalità didattica più additiva che
integrativa. La riunificazione di queste componenti educative nell’«educazione alla
Convivenza civile» favorisce, invece, sia il processo di scoperta della loro unità a
livello profondo, sia la necessità di una loro naturale integrazione anche a livello di
trattazione didattica. La convivenza umana, infatti, sia essa declinata nelle relazioni
interpersonali micro (rapporti a due, famiglia, gruppo di amici) o macro (città,
ambiente, società, partiti, religioni), è civile se e quando è basata su una comune
condizione: la personale consapevolezza etica e morale in tutti i campi d’azione

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dell’esperienza umana, dai comportamenti pubblici a quelli privati, da quelli igienici
a quelli alimentari, da quelli improntati al rispetto dell’ambiente a quelli che
coinvolgono le relazioni interpersonali tra soggetti dello stesso o di diverso sesso. In
questa prospettiva, la Convivenza civile appare allo stesso tempo condizione e
risultato delle ’educazioni’ che la compongono visto che tutte rimandano ad una
comune radice morale personale e, allo stesso tempo, ne sono anche il frutto più
maturo. Sarebbe, a questo punto, incomprensibile un ‘insegnamento’ di queste
dimensioni che non fosse intimamente integrato e sempre agganciato alla
complessità dell’esperienza umana e sociale dei singoli allievi. Le narrazioni del
modo con cui ciascuno vive ed interpreta le dimensioni della Convivenza civile,
infatti, diventano il materiale formativo da cui emerge una mappa articolata delle
differenze e delle uguaglianze valoriali e comportamentali, di ciò che individualizza
e di ciò che è condiviso; mappa che il docente è invitato poi a comparare
contrastivamente con quella propria e con quella presente nelle Indicazioni allo
scopo, sia di aprire con gli allievi una lettura cognitiva intersoggettiva allo stesso
tempo più ampia e mai conclusa delle reciproche esperienze individuali, sia di
condividere in libertà e responsabilità valori e comportamenti di vita.

L’unità dell’educazione. La circostanza introduce anche l’ultima motivazione che ha
portato a considerare l’«educazione alla Convivenza civile» come l’insieme
dell’educazione alla cittadinanza o civica, stradale, all’ambiente, alla salute,
all’alimentazione e all’affettività. Con questa scelta, infatti, soprattutto alla luce della
dimensione morale che la fonda e a cui, allo stesso tempo, mira come fine, sembra
più facile comprendere non solo che la condizione e il fine delle differenti
‘educazioni’ è appunto l’unità morale personale che fonda la Convivenza civile, ma
anche che tale unità morale è la condizione e il fine di tutta l’esperienza scolastica,
padronanza dei concetti e delle abilità disciplinari più specifiche comprese. Da
questo punto di vista, risulta allora chiaro che il fine di qualsiasi insegnamento
scolastico non è il contenuto delle discipline in sé e per sé, quanto, appunto, l’unità
morale implicata dalla Convivenza civile, promossa attraverso l’incontro con tutti i
contenuti disciplinari e la loro interiorizzazione. Un buon insegnamento della
religione, dell’italiano, dell’inglese, della matematica, delle scienze ecc., in sostanza,
produce, è chiamato a produrre, a livello personale, come condizione e fine, la
Convivenza civile; così come le competenze specifiche della Convivenza civile, se
non vogliono indulgere all’astrattezza e alla sterilità moralistica, non nascono né
esistono fuori da buone e corrette conoscenze ed abilità disciplinari.

L’IRC

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1. E’ noto che l’autonomia ha innescato nella scuola trasformazioni che stanno
incidendo anche sulle condizioni materiali di esercizio della professione docente. Sul
piano specificamente didattico, l’autonomia si configura come rafforzamento della
decisionalità e della responsabilità degli insegnanti e si esplica operativamente nella
realizzazione di un progetto che miri a “trasformare i bisogni, rilevati attraverso
l’attenta lettura della domanda del territorio e della comunità, in curricoli e progetti
educativi, arricchiti e personalizzati”.
La realizzazione del principio di personalizzazione, anticipato dal DPR 275/99 e
divenuto centrale nella L 53/03 richiede significative innovazioni nell’esercizio della
professione docente. La scuola dell’autonomia ha messo al centro lo studente ma,
come scrive P. Romei, la centralità dello studente è un’espressione vuota senza la
centralità di un docente che sappia tradurre in realtà la logica dei Piani di Studio
Personalizzati. Questi ultimi esigono infatti capacità di coordinare gli interventi
educativi superando la gestione individualistica dell’insegnamento per orientare
quest’ultimo verso la “collegialità collaborativa”
Non si può immaginare l’adozione della logica dei Piani di studio Personalizzati
senza poter contare sulla figura di un docente che sappia costruire consonanza di
voci intorno al progetto formativo; che sappia tenere ordine e unità nella
differenziazione organizzativa; che sappia mediare le divergenze di posizioni tra
colleghi e promuovere collaborazioni interdisciplinari; che sappia dialogare con le
famiglie, raccogliere e documentare i progressi degli alunni.

2. Prima di soffermarci sul docente di IRC, dunque, occorre riflettere sulla cultura
del docente, di tutti i docenti quale che sia la disciplina o l’ordine di scuola
d’appartenenza. Il docente di ogni ordine e grado, infatti, è chiamato sia dalla
normativa pregressa (art. 6 DPR 275/99) sia dalla riforma ad esser non soltanto un
ricercatore sull’insegnamento e dell’insegnamento che gli è affidato ma anche un
ricercatore sul e del sapere epistemico che è chiamato a trasformare, attraverso
appositi mediatori didattici, in apprendimento degli allievi; a tal finre occorre che le
sue competenze si esercitino su quattro campi:
a) Cultura generale
Il primo ambito di sapere necessario per insegnare è la consapevolezza circa la
propria personale attività simbolica di spiegazione del mondo e delle cose, la visione
complessiva che ciascuno utilizza per dichiarare l’unità delle cose e il senso
nascosto che le lega. L’educazione in generale e l’insegnamento in particolare si
realizza nel continuo scambio tra la visione del mondo del docente e quella
dell’allievo; di quest’ ultima per quanto intuitiva ed ingenua sia, occorre tenere ben
conto se si sintende attivare un vero processo di apprendimento.
b) Cultura specialistica disciplinare
Per evitare i rischi connessi ad una tendenza pedagogica che non attribuisce più
importanza alla padronanza da parte deòl docente dello specifico disciplinare,
occorre che sia richiesta una forte preparazione disciplinare, non indulgente sulle
radici epistemologiche e sulle frontiere della ricerca che esplora. Occorre possedere
sapere scientifico e critico che si distacchi da quanto è “sapere comune” per non

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rischiare di insegnare ciò che tutti già sanno e indulgere nell’amplificazione e nella
ridondanza.
c) Cultura psicologica e relazionale
Sembra scontato affermare che il docente deve sapere chi e come sono gli allievi; in
realtà non è sufficiente conoscere, in generale, la psicologia dell’età evolutiva, la
sociologia degli studenti e delle famiglie, la psicologia del rapporto studente-
docente, l’antropologia giovanile … Questo sapere generale serve solo se è
propellente per comprendere il singolo allievo che si ha davanti, per orientarlo e
guidarlo nalla sua naturale situazione di apprendimento.
d) Cultura didattica e metodologica
La conoscenza dei vari modelli didattici a cui il docente può attingere è
fondamentale per realizzare un utilizzo della scienza non come materia, ma come
disciplina, vale a dire, un’occasione per promuovere processi vitali di apprendimento
e di pensiero. Accanto alla cultura didattica, però, occorre che il docente possieda
un’adegiuata conoscenza psicopedagogia dell’organizzazione in cui oprea, della
logistica gestionale, degli ambienti e del lavoro; è un tipo di conoscenza tanto più
necessaria quanto più ciascun docente si inserisce consapevolmente in un’istituzione
scolastica dotata di autonomia didattica, organizzativa, di ricerca, sperimentazione e
sviluppo.

3. Puntiamo ora la nostra attenzione sul senso dell’insegnamento della religione
cattolica all’interno della riforma.
La ricerca di senso, abbiamo detto, è preoccupazione costante per il legislatore che
delinea nel Profilo educativo, culturale e professionale del primo e del secondo ciclo
le competenze che il ragazzo di 14 o di 18/19 anni hanno raggiunto facendo proprie
conoscenze ed abilità che sono state veicolate attraverso mediazione didattica
caratterizzata, appunto da “senso”, da “significato” per il ragazzo stesso.
Questo perché, come sostiene Morin “le discipline sono pienamente giustificate
intellettualmente a condizione che mantengano un campo visivo che riconosca e
concepisca l’esistenza delle interconnessioni e delle solidarietà”.
Insomma, la logica lineare che sino a “ieri” informava le programmazioni scolastiche
e che mirava alla promozione e allo sviluppo di conoscenze e abilità di tipo
disciplinare deve mirare, in questa nuova prospettiva formativa, a far convergere la
pluralità degli interventi didattici al perseguimento di obiettivi formativi unitari,
ricercando tutti i possibili collegamenti tra le discipline. Questo perché nella scuola
non è più tanto essenziale la ricerca dei saperi fondamentali ma l’uso che se ne fa per
far giungere l’alunno a maturare una visione personale unitaria e di senso della
realtà.
Che cosa comporta tutto ciò per il docente di religione cattolica?
Faccio mia una riflessione di Mons. C. Caparra: é evidente che se la tensione verso
l’Intero di senso è ciò che ci definisce come persone, la religione è per sua natura la
risposta a quella tensione, alla richiesta di verità e di senso totale.
Utilizzando “arte maieutica” l’ insegnamento della religione, oggi più che mai,
conduce la persona a ritrovare se stessa e, parallelamente, ad introdursi alla realtà: la
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ricerca di verità e di senso si configura come ricerca razionale che rigetta il tentativo
di privare la religione di dignità veritativa e la conseguente indifferenza religiosa per
cui una religione vale l’altra.
Ma accanto a questa affermazione occorre sottolineare con forza che insegnare
religione “cattolica” nel nostro paese significa sostenere il forte valore pedagogico
che riveste il contesto della comunità umana e della cultura all’interno della quale la
persona nasce, cresce e si realizza.
Insegnare religione cattolica in Italia, allora, significa accompagnare l’allievo alla
conoscenza della realtà in cui è nato e in cui cresce perché in libertà e autonomia
diventi capace di ragionata interpretazione e di giudizio si di essa. Non è una
proposta religiosa equivalente ad un’altra, non è una specie di educazione civica
universale; è una risposta ragionevole alla domanda di verità e di senso con un
contenuto cognitivo preciso che rispetta ciò che è bene per l’uomo: vivere secondo
ragione, come ci insegna S.Tommaso.

4. Come questa visione dell’insegnamento della religione cattolica si intrecci
sostanzialmente con la concezione dell’apprendimento quale si delinea nella riforma
e nei testi che l’accompagnano mi pare evidente.
L’apprendimento vero, quello che determina educazione personale, avviene in nella
connessione continua tra l’asse dell’ essere e l’asse dell’ avere, tra l’acquisizione di
conoscenze e abilità, quali la nostra tradizione culturale ha elaborato, e la
trasformazione del nostro orizzonte di senso che si modifica man mano che si
diventa più competenti, più liberi di riflettere ed agire criticamente nella propria vita
con tutte le connessioni che ci mettono in relazione con gli altri, a scuola ma,
soprattutto, fuori dalla scuola.

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