LA MACROECONOMIA OGGI: ALCUNE RIFLESSIONI - STUDI E NOTE DI ECONOMIA 2/96

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LA MACROECONOMIA OGGI:
ALCUNE RIFLESSIONI

G. K. SHAW *

1. Introduzione
«There is today a strong consensus that there is no macroeconomic
consensus» (Alan Blinder).
    Questa affermazione ben riassume lo stato attuale della macroeco-
nomia. Anche quando il dibattito è svolto a livello elementare, si
riscontra un totale disaccordo fra le diverse scuole di pensiero, sia sul
modo in cui le variabili macroeconomiche vengono determinate, sia
sulla formulazione e sull’attuazione di politiche macroeconomiche.
Snowdon, Vane e Wynarczyk (1994) identificano almeno sette scuole
di pensiero macroeconomico che ritengono di essere rilevanti nel
dibattito corrente.
    Essendo ormai trascorsi sessanta anni da quando Keynes sfidò
l’ortodossia classica con la sua Teoria Generale, lanciando così la
moderna macroeconomia, sembra ragionevole esaminare le ragioni
per la quali la controversia non si è ancora risolta. Certamente, il
tempo trascorso è ora lungo abbastanza per la generazione di una
sufficiente evidenza empirica che permetta di risolvere qualunque
disputa teorica. Questa era, infatti, la previsione fatta da Milton
Friedman in un classico articolo sull’economia positiva. L’evidenza
empirica e la potenza dell’econometria avrebbero alla fine risolto ogni
dibattito teorico; ci sarebbe stata una convergenza di idee scartando
le teorie errate e addivenendo ad un accordo riguardo al vero modello
che governa il sistema economico.
    Questa visione idealizzata di valutazione scientifica, nella tradizio-
ne di Karl Popper, fu comunque considerata carente nella sua appli-
cazione all’economia. Nella visione di Popper, le teorie economiche
dovrebbero essere formulate in modo che sia possibile, almeno in
linea di principio, dimostrarne la falsità. Le teorie in contrasto con
l’evidenza empirica sono allora da considerarsi non valide e dovreb-
bero essere scartate. Attraverso un processo di successiva eliminazio-
ne, rimarrebbero alla fine solo le teorie «vere» e si riscontrerebbe una

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* Professore ordinario di Macroeconomia, Università di Buckingham.

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convergenza di punti di vista sulla natura fondamentale della macroe-
conomia.
    In pratica, tuttavia, l’economia come disciplina ha evitato la teo-
ria popperiana di falsificazione. Gli econometrici, in particolare,
hanno adottato un approccio completamente opposto. Sempre più
spesso, hanno tentato di fornire evidenza empirica per la verifica di
affermazioni teoriche mediante la stima di equazioni con coefficien-
ti di regressione altamente significativi. Infatti, si è spesso assunto
che la mancata verifica di una determinata ipotesi, dovesse portare
ad una rispecificazione dell’equazione da stimare, fino ad ottenere
dei coefficienti di regressione considerati adeguatamente « buoni » –
si confronti ad esempio, Hendry (1980) e Leamer (1983). In questo
modo è possibile che vengano sostenute posizioni teoriche in com-
pleto contrasto fra loro, e che ciascuna rivendichi un adeguato sup-
porto empirico. Non c’è nulla di più lontano dalla filosofia di
Popper.
    Anche quando il principio della falsificazione viene invocato, tut-
tavia, l’economia come disciplina sottostà alla tesi di Duhem-Quine.
Espressa nel modo più semplice, questa tesi sostiene l’impossibilità di
negare una singola ipotesi, dato che è sempre possibile evitare l’invali-
dazione di una teoria adottando opportune ipotesi ausiliarie.
Consideriamo, per esempio, una versione semplificata della teoria
quantitativa della moneta, per la quale l’aumento dei prezzi segue in
modo abbastanza prevedibile l’aumento dell’offerta di moneta. Se
osserviamo un incremento dell’offerta di moneta ma il previsto
aumento dei prezzi non si verifica, possiamo sempre salvare la teoria
quantitativa invocando l’ipotesi ausiliaria della crescita dell’output
legata alla creazione di moneta.
    In economia c’è una ulteriore difficoltà che, fortunatamente,
è assente nelle scienze naturali: la possibilità cioè che risultati di-
versi si ottengano dallo stesso impulso, a seconda delle attese o delle
convinzioni degli operatori in questione. Si consideri di nuovo, ad
esempio, una versione semplificata della teoria quantitativa della
moneta. Se un incremento dell’offerta di denaro viene osservato
e genera l’attesa che rapidamente seguirà un equivalente aumento dei
prezzi, ciò darà luogo a modelli di comportamento che conferme-
ranno la convinzione iniziale. Essendo cambiate le loro previsioni
relative ai prezzi, i lavoratori richiederanno salari nominali più alti,
i creditori richiederanno tassi di interesse nominali maggiori, e
cosi via, confermando, con il loro comportamento, la teoria sot-
tostante. Pertanto, il modo in cui si comporta l’economia non è
indipendente dal modo in cui la gente pensa che si comporti, o,
come dice Hargreaves-Heap (1992), « ci sono molte credenze che
soddisfano la condizione per cui l’agire in conseguenza della cre-
denza produce risultati che confermano la credenza stessa». La cor-
rettezza di una teoria può dipendere quindi da quanto essa è popo-

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lare 1. Inoltre, se non abbiamo una base obiettiva per decidere fra teo-
rie antagonistiche, l’ideologia diventa una forza sempre più potente
per mantenere le divisioni fondamentali fra i protagonisti del dibat-
tito.
2. L’età dell’oro della macroeconomia
Da un punto di vista storico, si può facilmente individuare il periodo
che va dalla fine della seconda guerra mondiale fino a circa il 1971-72
come «l’età dell’oro della macroeconomia». Prevaleva un generale
accordo riguardo ai fattori che determinavano il funzionamento del-
l’economia, e questa nuova intesa veniva rafforzata dalla convinzione
che i governi potessero intervenire attivamente per migliorare l’anda-
mento delle loro economie. Il paradigma nuovo era, naturalmente,
l’economia keynesiana, e, come previsto dallo stesso Keynes, la teoria
ebbe una rapida e spettacolare ascesa e una diffusa adozione 2.
    In retrospettiva, si può senz’altro dire che il dominio e l’ascendenza
keynesiana fu una delle più straordinarie imprese nella storia dell’eco-
nomia. Giacché, a sessant’anni di distanza dalla pubblicazione della
Teoria Generale, si continua a dibattere e interpretare il suo messaggio
centrale e le numerose interpretazioni di ciò che Keynes tentò di dire o
avrebbe detto. La sua vittoria è da considerarsi davvero miracolosa.
Nel corso di un solo decennio, l’economia keynesiana aveva ottenuto
un riconoscimento e una accettazione quasi universale.
    Per spiegare questo successo, il ruolo del fallimento del paradigma
precedente, nel senso di Kuhn, è di centrale importanza. La teoria
classica dell’occupazione sembrava invalidata dalla Grande Depres-
sione e dalla disoccupazione negli anni fra le due guerre mondiali. I
tempi erano maturi per un nuovo paradigma, più rispondente al nuo-
vo contesto. Così, anche se sussisteva profonda incertezza riguardo
alla precisa natura dell’attacco keynesiano all’economia classica,
incertezza che continua ancora oggi, ci fu tuttavia una immediata
accettazione del fatto che Keynes aveva dimostrato la fondamentale
invalidità dell’economia classica.

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¹ Questa conclusione è pertinente al dibattito riguardante il diverso impatto delle
variazioni anticipate rispetto a quelle non anticipate nello stock di denaro. Secondo la
dottrina delle aspettative razionali, i cambiamenti anticipati nello stock di denaro non
dovrebbero avere nessun impatto sulle quantità in termini reali. Ma, se questa proposi-
zione viene verificata con i dati relativi agli anni Cinquanta, per esempio, quando la
teoria tradizionale (conventional wisdom) avrebbe previsto cambiamenti reali in rispo-
sta a cambiamenti anticipati nello stock di denaro, l’assenza di effetti reali costituireb-
be evidenza contro le aspettative razionali. Questa intuizione deriva da Laidler (1992).
² In una famosa lettera a George Bernard Shaw datata 1° gennaio 1935, Keynes
affermò che stava « scrivendo un libro di teoria economica che rivoluzionerà in larga
misura – non subito, suppongo, ma nel corso dei prossimi dieci anni – il modo in cui il
mondo vede i problemi economici ... ci sarà un grande cambiamento, e in particolare,
le basi ricardiane del marxismo saranno spazzate via».

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    Un secondo fattore cruciale fu l’interpretazione di Keynes propo-
sta da Hicks nel suo celebre articolo Mr. Keynes and the Classics pub-
blicato su Econometrica nel 1937. In questo contributo fondamentale
Hicks introduce il modello IS/LM che fu rapidamente identificato
con l’economia keynesiana, e che divenne popolare negli Stati Uniti
grazie ad Alvin Hansen. Sussiste ancora oggi un considerevole disac-
cordo su quanto questa interpretazione distorca il pensiero di Keynes,
ma non si può negare che essa fu di fondamentale importanza nel
diffondere e pubblicizzare le sue idee. Formulata mediante un sistema
di equazioni simultanee relativamente semplice, l’interpretazione di
Hicks era di facile comprensione, ma, allo stesso tempo, la presenta-
zione matematica conferiva alla teoria keynesiana una pseudo-scienti-
ficità, che la rendeva più attraente e le conferiva una precisione che, in
verità, mancava nell’approccio originale di Keynes. Soprattutto, l’a-
nalisi IS/LM metteva in evidenza in modo brillante le implicazioni di
politica economica suggerite ma non esplicitate nella Teoria Generale;
fu questo aspetto, la possibilità di una politica interventista attiva,
che gli economisti trovarono attraente: dava una risposta all’addebito
di impotenza da cui dipendeva il Treasury View 3.
    La struttura IS/LM fu anche di grande importanza nel dare alle
teorie keynesiane un notevole grado di resistenza di fronte alle criti-
che successive. Ciò è dovuto alla sbalorditiva flessibilità del modello
di analisi che gli ha permesso di adattare ed incorporare i nuovi svi-
luppi della scienza economica senza grandi difficoltà. In particolare,
l’attacco monetarista ai principi più cari a Keynes non è mai stato
una contro-rivoluzione, come qualche volta è stato asserito, ma ha
avuto invece le connotazioni di una riforma. Anche se il monetarismo
mise in dubbio l’adeguatezza di molti dei fondamenti micro-economi-
ci dell’economia keynesiana – e ciò lo portò ad avere un diverso atteg-
giamento sulle misure di tipo interventista in politica economica –
esso non contestò l’analisi economica di base. Così, ad esempio, l’eco-
nomia keynesiana riuscì ad incorporare la teoria del reddito perma-
nente o i modelli del ciclo di vita della teoria del consumatore senza
alterare i suoi principi di base.
    Infatti, quando Milton Friedman (1970) infine rispose alle doman-
de poste dai suoi critici specificando il modello teorico sottostante la
sua teoria monetarista, il risultato fu un’analisi IS/LM modificata
con l’aggiunta di una equazione per tener conto dei prezzi. Inoltre,

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³ In particolare, la tesi keynesiana postulava un moltiplicatore maggiore dell’unità.
Così, i programmi di spesa del settore pubblico aumenterebbero il reddito di una
quantità maggiore dello stanziamento iniziale e, generando ulteriori risparmi, si finan-
zierebbero in parte da soli. Blaug (1987), adottando un approccio lakatosiano, ha sot-
tolineato come il concetto del moltiplicatore fosse la novità cruciale della rivoluzione
keynesiana.

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Friedman stesso sostenne che le differenze fra lui e la scuola keynesia-
na erano essenzialmente empiriche e non teoriche. Secondo questo
punto di vista, c’era disaccordo riguardo alla pendenza della curva
IS/LM e, in uguale misura, riguardo alla pendenza della curva di
offerta aggregata. In altre parole, si poteva asserire che c’era fonda-
mentalmente un accordo riguardo alle questioni positive ma un disac-
cordo sostanziale persisteva relativamente alle conseguenze nor-
mative.
    Per quanto riguarda le questioni positive, si conveniva che la
domanda è cruciale e che le sue variazioni hanno prevalentemente
un impatto sull’output e sull’occupazione nel breve periodo – anche
quando tali variazioni siano state previste – a causa della esistenza di
rigidità nominali. Si conveniva che i mercati rispondono con lentezza
agli shocks autonomi e non sempre raggiungono l’equilibrio nel bre-
ve periodo. Inoltre, i governi possono influire sul livello della
domanda aggregata con le loro politiche monetarie e fiscali, e quindi
il concetto ricardiano della neutralità del debito viene negato.
Riguardo alle questioni normative, persistevano differenze rispetto ai
costi relativi dell’inflazione e della disoccupazione, al periodo di tem-
po necessario per gli aggiustamenti e se le politiche interventiste atti-
ve potessero essere destabilizzanti a causa dell’inadeguatezza di
informazioni rilevanti.
    La differenza fondamentale fra la teoria keynesiana e quella mo-
netarista, s’impernia senz’altro sulla permanenza dell’impatto delle
misure di politica economica. Inizialmente, i keynesiani avevano pen-
sato che l’economia avrebbe potuto ottenere un trade-off permanente
fra output e inflazione; in altre parole credevano in una curva di
Phillips con pendenza negativa oppure in una curva dell’offerta
aggregata con pendenza positiva. Fu la critica monetarista, e soprat-
tutto Friedman, a dimostrare che alla fine l’economia avrebbe riac-
quistato il suo « livello naturale» di output e occupazione, e che le
curve di Phillips e dell’offerta aggregata sarebbero state, nel lungo
periodo, verticali.
    Paradossalmente, il successo definitivo della rivoluzione keynesia-
na dipese, tuttavia, da fattori virtualmente non esistenti nel periodo in
cui la Teoria Generale fu scritta. L’esperienza della guerra aveva tra-
sformato il ruolo del Governo. Non solo la sua influenza era aumen-
tata, ma la tassazione diretta alla fonte era ormai stata estesa alla
maggioranza della popolazione lavorativa. Insieme alle maggiori spe-
se sociali, il grado di stabilizzazione automatica incorporato nel siste-
ma fiscale era ora ad un livello mai conosciuto prima. Ci furono,
inoltre, diversi fattori autonomi dal lato della domanda che esercita-
rono benefici effetti sull’economia. Durante la guerra la finanza aveva
registrato una crescita di eccesso di liquidità in quanto i governi di
tutto il mondo avevano fatto ricorso alla vendita di buoni del tesoro
per integrare le entrate fiscali. Un ulteriore fattore fu la ricostruzione

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post-bellica in Europa, finanziata con notevole generosità dal Piano
Marshall, come anche la crescita del commercio mondiale che superò
di gran lunga la crescita della produzione. Ci fu, infine, un nuovo ele-
mento di fiducia. Anche in relazione alle teorie keynesiane si diffuse
la convinzione che la disoccupazione appartenesse al passato e che il
ciclo economico fosse stato definitivamente abolito. Nel Regno Unito
e negli Stati Uniti i governi si impegnarono in politiche che dovevano
garantire la piena occupazione. Fintantoché la gente credeva in que-
ste assicurazioni, era anche disposta a considerare prevalentemente il
lungo periodo nella pianificazione delle spese per investimenti. Si ave-
va l’impressione che i fatti confermassero il successo della politica
keynesiana. Nel Regno Unito, nel periodo che va dal 1948 al 1966, il
tasso di disoccupazione era in media soltanto del 1,7 per cento, con
l’inflazione a livelli molto modesti. Il paradigma keynesiano non solo
sembrava aver trionfato, ma dava un volto umano alla scienza econo-
mica e prospettava un aumentato benessere per tutti. Si può notare
che in questo scenario utopistico non c’è conflitto fra gli obiettivi del
governo e gli obiettivi dei soggetti economici. Il governo esiste per
servire il popolo 4.
3. La natura del consenso
Quale era la natura essenziale del consenso keynesiano che emerse nel
periodo post-bellico e che dominò il pensiero macroeconomico fino ai
primi anni Settanta? L’aspetto chiave rimane un modello IS/LM che
determina il settore reale dell’economia. Si poteva forse discutere
riguardo alla precisa natura delle pendenze delle curve IS e LM, ma ci
fu una vasta accettazione della struttura sottostante. In particolare, la
maggior parte dei commentatori avrebbe accettato l’idea che la curva
LM fosse basata su una funzione di domanda di moneta abbastanza
stabile, determinata dal reddito e dai tassi d’interesse.
    Per quanto riguarda i valori nominali, i prezzi venivano spiegati
mediante una relazione con la curva di Phillips che i keynesiani ave-
vano sottoscritto con entusiasmo nella convinzione che ciò offriva l’a-
nello mancante alla economia keynesiana spiegando i prezzi essen-
zialmente in termini di analisi della domanda aggregata. Inoltre,
neanche i contributi fondamentali di Friedman (1968) e Phelps
(1968), secondo i quali la curva di Phillips, integrata dalle aspettative
di lungo periodo, doveva essere verticale, turbarono più di tanto gli
economisti keynesiani. Un trade-off implicito prevaleva ancora nel
breve periodo e il breve periodo poteva anche essere piuttosto lungo.

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⁴ Ci sono naturalmente delle difficoltà, che qui sono state ignorate per una questione
di convenienza, nella determinazione dell’ordinamento di benessere sociale delle diver-
se possibili società. In linea di principio il punto in discussione è, comunque, chiaro:
non c’è conflitto fra governo e società e quindi non c’è spazio per una teoria dei giochi
come quella di Stackelberg.

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Non c’era nulla nel concetto di « tasso naturale» che portava a negare
le prescrizioni della politica keynesiana. Fintantoché il tasso naturale
era lento nell’arrivare o, una volta arrivato, veniva solo leggermente
disturbato, la strategia keynesiana del controllo della domanda rima-
neva intatta.
    Fluttuazioni nella produzione e nella occupazione venivano spie-
gate come la conseguenza di shock nella domanda. I monetaristi e i
keynesiani potevano discutere sulla causa di questi shocks e, quasi
sicuramente, non sarebbero stati d’accordo riguardo alle cure da pro-
porre, ma la variabile chiave nei cicli economici era, per entrambi,
sempre la domanda. Il concetto di shock sul lato dell’offerta che
poteva determinare l’andamento economico non era ancora stato for-
mulato. Era quindi abbastanza ovvio assegnare alla politica macroe-
conomica il compito di metter in atto variazioni compensatorie della
domanda aggregata. Per questo, i modelli econometrici di equazioni
simultanee di grandi dimensioni, con parametri stimati da serie tem-
porali, furono considerati utili per la formulazione di idonee azioni di
politica economica. Infine, mentre si attribuiva alle aspettative un
ruolo sempre più significativo, si assumeva, in genere, che i soggetti
economici reagissero alle politiche di governo. L’idea che i soggetti
economici potessero anticipare l’azione di politica governativa non fu
mai presa seriamente in considerazione.
    Il consenso dominante alla fine degli anni Sessanta era, quindi,
quello che ruotava attorno ad una una scuola keynesiana eclettica
che inglobava la maggior parte delle più pertinenti critiche mone-
tariste. La critica monetarista aveva rafforzato la struttura teorica
della economia keynesiana, fornendole una migliore base micro-
economica e, allo stesso tempo, indebolito alcune delle più ottimisti-
che implicazioni di politica economica derivate, appunto, dalla man-
canza di tale base. Ciononostante, prevaleva un generale consenso
riguardo ai princìpi fondamentali, anche se c’era disaccordo su fatti
specifici. Per questo motivo, la Nuova Economia Classica (New
Classical Economics), se voleva contestare la teoria keynesiana tra-
dizionale, doveva contestare anche il monetarismo. Lungi dall’es-
sere una versione più estrema del monetarismo, come è stato spesso
asserito, la Nuova Economia Classica era ad esso essenzialmente
estranea.
    La critica monetarista che aveva modificato l’ottimismo delle pre-
cedenti proposte di politica keynesiana era sempre più frequentemen-
te accompagnata da un declino della performance dell’economia. I
tassi di inflazione cominciarono a salire. Altrove si era diffusa l’opi-
nione che il controllo della domanda keynesiana poteva fare poco di
fronte ad un declino strutturale delle industrie tradizionali. Così, all’i-
nizio degli anni Settanta, il consenso keynesiano fu caratterizzato da
notevoli modificazioni di tipo monetarista da un lato e, contempora-
neamente, da un approccio molto meno fiducioso sull’efficacia della

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politica economica dall’altro. Non era un vero e proprio declino del
paradigma, ma i discepoli erano sempre più a disagio e sempre meno
sicuri di sé.
4. Il crollo del consenso e il successo della Nuova Macroeconomia
Classica
Il consenso appena descritto crollò nei primi anni Settanta, per moti-
vi sia teorici che empirici. Sul terreno empirico, la stagflation degli
anni Settanta, caratterizzata da un incremento della disoccupazione
accompagnato da una più alta inflazione e da spostamenti instabili
verso l’esterno della curva di Phillips, non solo seminò lo scompiglio
nei modelli econometrici keynesiani di grandi dimensioni che tanto
successo avevano avuto in precedenza, ma metteva in dubbio lo status
stesso della economia keynesiana. L’improvvisa consapevolezza che ci
potevano essere fluttuazioni sul lato della offerta, ebbe un profondo
impatto, se non altro perché il controllo della domanda risultava
meno efficace per combattere tale fenomeno. Inoltre, rese il trade-off
fra inflazione e output, su cui si basava la politica economica keyne-
siana, inesistente e persino perverso. I dati sulle serie temporali sugge-
rivano ora una curva di Phillips con pendenza positiva.
    Sul lato teorico le intuizioni iniziali di Friedman e Phelps, relative
all’inadeguatezza della base microeconomica della economia keyne-
siana, furono estese ed affinate ed emersero in modo cruciale nella
cosiddetta Critica di Lucas. Questa tesi, più di qualsiasi altra, sottoli-
neò lo spartiacque esistente fra gli approcci convenzionali alle teorie
della microeconomia e della macroeconomia. La microeconomia con-
venzionale ipotizza una struttura walrasiana competitiva la cui carat-
teristica basilare è rappresentata dall’equilibrio del mercato, mentre i
modelli macroeconomici keynesiani convenzionali ammettono la pos-
sibilità di disoccupazione di lungo periodo.
    Come ha sottolineato Mankiw (1990), fu la combinazione del falli-
mento empirico e dell’inadeguatezza teorica che determinarono il tra-
monto del paradigma keynesiano. Si potrebbe argomentare che esso
avrebbe potuto sopravvivere ad un assalto su un solo fronte ma non
su entrambi simultaneamente. Spiegare il tramonto del paradigma
keynesiano, comunque, non significa necessariamente tener conto sol-
tanto del successo della Nuova Economia Classica, un successo, si
può notare, che, a differenza dell’economia keynesiana, era principal-
mente confinato ai circoli accademici.
    Non c’è dubbio che un fattore importante nell’ascesa della Nuova
Macroeconomia Classica fu l’insistente enfasi che essa poneva sul
comportamento razionale dei soggetti economici che massimizzano la
loro utilità. Questo ebbe una grande attrazione per una professione
abituata a credere nell’homo economicus e sembrò un notevole miglio-
ramento rispetto ai concetti keynesiani di illusione monetaria, animal
spirits e rigidità nominali che mal si conciliavano con criteri di razio-

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nalità in un contesto concorrenziale. In modo analogo, il dubbio fon-
damentale circa la base microeconomica della economia keynesiana
aveva avuto come diretta conseguenza lo sviluppo di una econometria
molto più sofisticata rispetto alla econometria che aveva caratterizza-
to i modelli di grandi dimensioni di ispirazione keynesiana, e questo
era piaciuto subito ad una nuova generazione di economisti, più gio-
vani e tecnicamente preparati.
    In un contesto politico, fu anche molto opportuno che le sue
implicazioni politiche si adattassero così bene allo spirito di laissez-
faire, efficienza del libero mercato e non interventismo in generale che
predominava su entrambe le sponde dell’Atlantico. Infine, non c’è
dubbio che la retorica ebbe un suo ruolo: come si poteva non sotto-
scrivere aspettative ritenute razionali o cicli economici ritenuti reali?
    In parole semplici, la Nuova Macroeconomia Classica modificò
l’analisi macroeconomica in modo da renderla compatibile con la
struttura microeconomica concorrenziale di Walras, eliminando effi-
cacemente la possibilità di disoccupazione e la necessità di una politi-
ca interventista. Data la flessibilità dei prezzi e dei salari, un mercato
in costante equilibrio fu visto come il risultato razionale della rispo-
sta ottimale della domanda e dell’offerta ai prezzi di mercato.
Qualsiasi altro tipo di comportamento, in un contesto concorrenziale,
implicherebbe una perdita di benessere su entrambi i lati del mercato
e verrebbe rapidamente eliminato. Tuttavia, c’è un aspetto molto
importante della Nuova Macroeconomia Classica che la rende diver-
sa dal modello di concorrenza perfetta, e cioè il fatto che non assume
informazione perfetta o conoscenze perfette da parte dei soggetti che
operano nell’economia di mercato.
    È per questo motivo, la mancanza di informazioni perfette, che
diventa importante per gli operatori l’elaborazione delle informazioni
disponibili nel modo più efficiente possibile. Considerare variazioni
generali dei prezzi, derivanti da cambiamenti nel livello della doman-
da aggregata, come variazioni relative dei prezzi, può essere estrema-
mente costoso, in quanto porterà gli operatori a mettere in atto non
giustificati cambiamenti nell’output e nell’occupazione. Viene ribadi-
to, quindi, che il modo più efficiente di generare aspettative riguardo
al futuro è quello delle aspettative razionali. Queste minimizzano le
deviazioni attorno ai valori attesi e, a differenza delle attese adattive,
non genera errori sistematici. Ovviamente, la generazione delle aspet-
tative razionali è un elemento essenziale di un mondo così ultra-razio-
nale. Se, strada facendo, ha prodotto alcune conclusioni sbalorditive,
come ad esempio l’idea che la politica economica sia necessariamente
inefficace, questo è solo un vantaggio in quanto dimostra l’impotenza
delle strategie di controllo della domanda di tipo keynesiano.
    L’erronea percezione di prezzi di mercato relativi fu, almeno all’i-
nizio, l’unico modo di spiegare l’esistenza della disoccupazione. In
altre parole, output e occupazione potevano deviare dai loro livelli

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naturali soltanto se i prezzi attesi differivano dai prezzi realmente
verificatisi. Il motivo principale per cui tali erronee aspettative si veri-
ficano sta nelle variazioni non anticipate dell’offerta di denaro.
Qualsiasi variazione prevista nell’offerta di denaro verrebbe conside-
rata completamente nel calcolo delle aspettative razionali e non eser-
citerebbe alcun effetto su output e occupazione. Il ciclo economico è
visto, quindi, come un fenomeno monetario, ma, a differenza dell’e-
conomia di Milton Friedman, i cambiamenti previsti o sistematici
nell’offerta di denaro non esercitano alcun effetto. E, di conseguenza,
non c’è alcun ruolo per la politica monetaria.
    Inevitabilmente, la conseguenza naturale della Nuova Macro-
economia Classica fu lo sviluppo della Supply Side Economics, con
l’accento posto sugli incentivi necessari per alzare i tassi naturali di
output e occupazione tramite l’applicazione di politiche microecono-
miche che favoriscano effetti di sostituzione mediante cambiamenti
dei prezzi relativi. Questa fu un ovvio corollario dell’abbandono delle
strategie di controllo della domanda di tipo keynesiano, giudicate
inefficaci.
5. Il declino della Nuova Economia Classica e l’ascesa della Economia
Neo-Keynesiana
Come i dati osservati nei primi anni Settanta sembrarono contraddire
la scuola tradizionale keynesiana, così l’esperienza degli anni Ottanta
risultò sempre più in conflitto con la Nuova Economia Classica. La
difficoltà principale s’incentrava sull’assunzione del continuo equili-
brio del mercato, che implicava che la disoccupazione fosse essenzial-
mente volontaria oppure la conseguenza di mancanza di informazio-
ni. Tuttavia, la natura involontaria di gran parte della disoccupazione
sembrava dimostrata dal fatto che i licenziamenti furono di gran lun-
ga più numerosi delle dimissioni date dai lavoratori, mentre il costo
nominale dell’acquisto di informazioni, relativamente all’offerta di
moneta, ai prezzi e così via, era tale che difficilmente poteva spiegare
il protrarsi della recessione.
    Allo stesso tempo, la gravità delle recessioni associate alle ammini-
strazioni della Thatcher e di Reagan nel periodo 1980-82, comportan-
do pesanti sacrifici nel tentativo di controllare l’inflazione, mise in
dubbio l’ipotesi della formazione delle aspettative razionali. Tale ipo-
tesi aveva pronosticato un aggiustamento relativamente rapido, con
costi, in termini di output e occupazione, minimizzati. Chi difendeva
la tesi delle aspettative razionali, argomentava che gli operatori non
avevano creduto alle affermazioni di politica economica oppure che
fossero convinti che il governo sarebbe stato costretto a fare un’imba-
razzante inversione di marcia e avevano agito di conseguenza. La
dimostrazione dell’esistenza di aspettative razionali attraverso l’utiliz-
zo di dati sperimentali lasciava comunque sempre più a desiderare.
Inoltre, il consistente taglio alle tasse operato negli Stati Uniti nel

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periodo 1981-84, che avrebbe fornito evidenza indiretta, come ipotiz-
zato dal teorema di equivalenza di Ricardo, alla tesi delle aspettative
razionali, non generò alcun aumento significativo della quota di
risparmio. L’evidenza relativa all’impatto dei cambiamenti anticipati
e non anticipati nell’offerta di denaro non risultò conclusiva ma sug-
gerì in generale che tutti i cambiamenti nello stock di moneta – antici-
pati e non – hanno effetti reali.
    L’introduzione della Real Business Cycle Theory fu vista come un
tentativo di spiegare l’alto tasso di disoccupazione non con il teore-
ma, ora screditato, della disinformazione, ma facendolo risalire a
cambiamenti casuali (shocks dal lato dell’offerta) nella tecnologia.
Anche se il meccanismo d’impulso del ciclo economico poteva essere
causato da shocks esterni, fu dimostrato che il meccanismo di propa-
gazione del ciclo nel tempo dipendeva comunque da un eccessivo gra-
do di sostituzione intertemporale del lavoro; si supponeva che que-
st’ultimo reagisse in modo consistente a cambiamenti piuttosto picco-
li nei salari reali o nei tassi d’interesse. A parte il fatto che tale com-
portamento appare in contrasto con qualunque osservazione della
realtà, la maggior parte dei lavoratori non possiede in nessun modo
significativo una libertà simile. La vera scelta è tra lavorare per un
periodo di tempo specificato o non lavorare affatto. Inoltre, come
Solow (1990) ha argomentato in modo persuasivo, sostituire il lavoro
con il tempo libero quando i salari appaiono bassi in termini reali,
richiederebbe che la domanda per i prodotti collegati al tempo libero
fosse più alta in periodi di recessione, il che è chiaramente falso. In
modo analogo, Hillinger (1992) respinge la tesi della sostituzione
intertemporale in quanto essa implica, «che la Grande Depressione
fu la prima manifestazione di una società in grado di godere del tem-
po libero su scala di massa ».
    In breve, alla fine degli anni Ottanta, le obiezioni empiriche alla
Nuova Economia Classica erano altrettanto numerose quanto quelle
che erano state mosse contro l’economia keynesiana dieci anni prima.
La Nuova Economia Classica aveva formulato una teoria estrema-
mente elegante ed attraente, descrivendo il modo in cui soggetti eco-
nomici razionali si sarebbero comportati in un mondo ideale, ma era
continuamente messa in imbarazzo dalla osservazione di effettivi
comportamenti in un mondo tutt’altro che ideale.
    L’economia keynesiana aveva risposto alla critica monetarista
incorporando la maggior parte di quella critica nella sua analisi for-
male. In questo modo, non solo era riuscita ad acquisire una maggio-
re credibilità e validità teorica per se stessa, ma aveva spinto la teoria
monetarista al centro dell’analisi macroeconomica. Tuttavia, non fu
possibile per l’economia keynesiana rispondere in modo analogo alla
critica della Nuova Economia Classica. Non era semplicemente pos-
sibile che si potesse innestare la premessa del continuo riequilibrio del
mercato sulla dottrina keynesiana della disoccupazione prolungata

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nel lungo periodo. L’unica risposta possibile era di negare la premes-
sa fondamentale della Nuova Economia Classica. Doveva respingere
tale premessa o essere soppiantata. Quella che in seguito venne chia-
mata Nuova Economia Keynesiana (New Keynesian Economics) fu
costretta a spiegare come potesse accadere che alcuni mercati non riu-
scivano a rimettersi in equilibrio nonostante fossero popolati da ope-
ratori che obbedivano ai postulati di comportamento razionale ten-
dente alla massimizzazione dell’utilità. L’unica soluzione, in totale
contrasto con l’approccio dei nuovi classici, fu quella di adattare la
struttura microeconomica walrasiana in modo da renderla compatibi-
le con la macroeconomia keynesiana. E questo, a sua volta, rese
necessaria l’eliminazione dell’ipotesi di concorrenza perfetta. La nuo-
va economia keynesiana, quindi, doveva svilupparsi nel contesto dei
mercati monopolistici, incluso il mercato del lavoro.
    Una volta fatto questo passo, il potere monopolistico su uno dei
due lati del mercato (o su entrambi) poteva spiegare la rigidità nomi-
nale dei salari e poteva, quindi, generare comportamenti di equilibrio
esterni al mercato. Infatti, una volta fatto questo passo, la nuova eco-
nomia keynesiana si trovò di fronte ad una abbondanza quasi imba-
razzante: numerose teorie potevano ora spiegare le rigidità dei salari e
dei prezzi, il disequilibrio dei mercati, la disoccupazione involontaria
e i benefici potenziali degli interventi governativi.
    Queste teorie, in competizione fra loro, enfatizzarono la forza
degli accordi contrattuali che fissano i salari per tutto il periodo del
contratto (includendo spesso elementi di indicizzazione) provocando
un certo grado di rigidità salariale indipendente dalle forze del merca-
to. In alternativa, l’analisi insider/outsider fu invocata per negare ai
disoccupati qualsiasi influenza significativa nel processo di contratta-
zione salariale. Di nuovo, una delle dottrine più persuasive che emerse
fu il concetto di modelli di salari di efficienza (efficiency wage models)
nei quali le aziende monopolistiche scelgono di pagare più del salario
di equilibrio di mercato a causa della loro convinzione che la stessa
produttività del lavoro è una funzione dei salari. Per quanto riguarda
i prezzi, si riconosceva che cambiamenti nei prezzi potevano essere
costosi per le singole aziende che avrebbero tentato di evitarli, anche
se ciò comportava il rischio di consistenti costi sociali in termini di
disequilibrio di mercato.
    La caratteristica paradossale della nuova economia keynesiana è
che, essenzialmente, essa non è altro che una rielaborazione della teo-
ria classica della disoccupazione che Keynes aveva cercato di negare.
Gli economisti classici avevano numerose spiegazioni per la disoccu-
pazione di massa, tutte indirizzate al fallimento del mercato dovuto a
rigidità dei prezzi e dei salari provocate da cartelli, dal potere mono-
polistico dei sindacati, dalla sopravvalutazione della sterlina, dall’esi-
stenza di ammortizzatori sociali (sussidi alla disoccupazione) e, talo-
ra, da una errata politica delle autorità monetarie. Gli economisti

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classici spiegavano la disoccupazione essenzialmente in termini di
ostacoli al raggiungimento dell’equilibrio di mercato. La nuova eco-
nomia keynesiana offre una spiegazione simile, sebbene sia formulata
in modo più sofisticato. L’unica differenza fondamentale fra le due
teorie è che di fronte a tali rigidità i classici non riuscivano ad offrire
alcuna soluzione (The Treasury View) mentre i nuovi keynesiani attri-
buiscono ancora un ruolo al controllo della domanda. Se tale ottimi-
smo sia giustificato rimane un argomento da dibattere.
    La risposta della nuova economia keynesiana alla sfida della
Nuova Economia Classica è ancora in fase di evoluzione e procede su
molti filoni diversi, alcuni dei quali logicamente incompatibili fra
loro. Essi testimoniano l’enorme versatilità del messaggio keynesiano
di base, cioè che l’economia di mercato è fondamentalmente difetto-
sa. Chiedersi se i nuovi sviluppi teorici siano o meno in accordo con
lo spirito originale di Keynes, non è né interessante né utile. È più
produttivo chiedersi fino a che punto ognuno di loro contribuirà ad
un nuovo consenso, se ne emergerà uno entro la fine del secolo.
6. Conclusione: che cosa è stato risolto?
È sorprendente, in considerazione della rassegna che abbiamo appena
fatto, che un sostanziale grado di accordo esista per molte questioni
importanti. È generalmente accettato, per esempio, che la curva di
Phillips abbia una pendenza verticale nel lungo periodo e, quindi, che
ci sia un tasso naturale di output e occupazione al quale l’economia
alla fine tornerà. Questa proposizione generale segna un ritorno alla
economia pre-keynesiana. C’è anche, ora, una consapevolezza che le
aspettative e il modo in cui esse si formano siano importanti e che le
aspettative stesse possano cambiare in risposta ad un cambiamento
nel regime di politica economica. Questo rimane un fondamentale
passo in avanti ed impone un vincolo sostanziale alla formulazione di
politiche economiche.
    È anche concesso che la posizione della curva di Phillips nel breve
periodo, lungi dall’essere imposta in modo esogeno, dipende ora dalle
aspettative sul futuro livello dei prezzi. Da ciò deriva la possibilità
che, se le autorità di politica economica possono generare aspettative
errate negli operatori del settore privato, esse possano anche sfruttare
la situazione, provocando nel breve periodo differenze dal livello
naturale allo scopo di promuovere i propri interessi politici. Questo
ritratto piuttosto cinico delle autorità politiche suggerisce che le fun-
zioni obiettivo del governo e del popolo non coincidono più e costi-
tuisce un argomento a favore della necessità di fare predominare le
regole anziché la discrezione. Allo stesso tempo, tuttavia, la teoria
delle aspettative razionali non costituisce più un ostacolo insormon-
tabile fra la varie scuole. Molti keynesiani respingono le aspettative
razionali dato che si possono applicare soltanto a processi altamente
ergodici i quali, secondo il loro punto di vista, non includono la

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moderna macroeconomia, ma, ugualmente, ci sono nuovi keynesiani
che inglobano le aspettative razionali nei loro modelli formali.
    Le proposizioni più estreme della Nuova Economia Classica sem-
brano essere state eliminate. Come conseguenza delle rigidità nomi-
nali, si concede che una parte della disoccupazione sia involontaria.
Allo stesso modo, l’equivalenza ricardiana nella sua forma più estre-
ma viene assunta raramente, mentre le condizioni sotto cui la politica
economica risulterà inefficace sono molto difficilmente realizzabili.
Cambiamenti, anticipati e non, nello stock di moneta sembrano
entrambi avere effetti reali mentre diverse economie sembrano aver
subito severi tassi di sacrificio a seguito di annunciate politiche anti-
inflazionistiche. Allo stesso tempo, l’apparato keynesiano basato sulle
curve IS/LM è sopravvissuto, e non soltanto come meccanismo peda-
gogico ma come un elemento vitale in molti programmi di ricerca.
    Il disaccordo positivo fondamentale che rimane è forse quello che
s’impernia sulla questione della neutralità. Gli shocks temporanei di
breve periodo, di qualunque origine, generano effetti reali duraturi
sull’output e sull’occupazione? Quasi senza eccezioni, tutte le scuole
non-keynesiane risponderebbero negativamente. Alla fine, l’economia
si adeguerà al suo livello naturale in accordo con la curva di Phillips
verticale di lungo periodo. I keynesiani, e in modo particolare i key-
nesiani europei, tendono invece a rispondere affermativamente. Que-
sta è la dottrina della hysteresis nell’occupazione. Un crollo dei prez-
zi, ad esempio, provocando un aumento della disoccupazione, potreb-
be anche far sì che alcuni dei lavoratori licenziati e disoccupati di lun-
go periodo diventino definitivamente non occupabili per il deteriora-
mento della loro abilità e disciplina lavorativa, oppure perché i poten-
ziali datori di lavoro pensano che lo siano. Il tasso naturale di disoc-
cupazione cresce di conseguenza. Il tasso naturale dell’occupazione
non è indipendente dalla storia recente ma è invece dipendente dal
percorso seguito. Ci saranno quindi diversi livelli naturali di occupa-
zione e le implicazioni per la politica economica non possono essere
ignorate.

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