INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO
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INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO [Testo, non rivisto dall’autore, di una conferenza tenuta nel- l’ambito della “Conférence Esprit” di Bruxelles (1937), pub- blicata daMounier con il titolo: «Introduction à une critique du mythe», Esprit, gennaio 1938. A proposito del titolo si veda una lettera inedita di Landsberg a Mounier, infra, 776.]. Impegnarsi significa sempre identificare in maniera parziale, ma reale, la mia persona con un movimento storico che è esso stesso una realtà umana. Si tratta talmente poco dell’adesione ad un’ideologia o ad un mito, che condizione preliminare di ogni impegno è la distruzione liberatrice del mondo mitizzato. La radi- ce antropologica dell’impegno è l’amore, atto libero e personale; la radice del mito politico è la passione, impulso infrapersonale, individuale o collettivo. L’amore comporta anche, nell’impegno, la necessità di penetrare all’interno della realtà, condizione indi- spensabile alla conoscenza. La passione è, al contrario, una forza accecante. Acceca soprattutto frapponendo tra noi e il reale un mondo che contiene sì elementi di realtà, ma trasformati dalla loro integrazione in un mondo immaginario, che è costituito da un’interpretazione, dapprima globale e inconscia, della totalità del dato, secondo gli impulsi delle nostre passioni, dei nostri desi- deri e dei nostri timori, delle nostre manie e fobie, delle nostre pulsioni sessuali e delle nostre gelosie, delle nostre cieche adora- zioni e dei nostri sentimenti. Questo “mondo intermedio” si sta- bilizza mediante l’uso delle parole e delle immagini, che vengo- no sottratte alla loro propria funzione che è quella di designare e di rivelare il mondo reale. Lo sforzo per prendere contatto imme- diatamente e adeguatamente con il mondo reale e storico, sforzo che implica degli impegni, richiede dunque che ci si liberi dei miti ideologici. Ogni determinazione contiene questi due elemen- ti complementari come il sì e il no. La critica del mitologismo completa dunque le mie «Riflessioni sull’impegno personale».
526 PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO Tre anni fa ho assistito ad una seduta della “Società di Filosofia” alla Sorbona. Si discuteva il problema della menzogna, e in particolare il pericolo enorme che costituisce nel mondo attuale la menzogna pubblica, la menzogna ufficiale come quella della stampa. Ritengo però che la diagnosi che si dava del male non fosse assolutamente esatta. Il pericolo specifico attuale non è la menzogna, ma piuttosto l’oblio dell’idea stessa di verità e la sua sostituzione con l’idea del mito. La menzogna è sempre esi- stita, soprattutto in politica, ma in via di principio suppone l’esi- stenza di una verità che viene coscientemente e volontariamente falsificata. Per essere in grado di mentire nel senso proprio della parola è necessario possedere un’idea di verità, per oscura che sia. Oggi, al contrario, l’umanità si muove in gran parte in una sfera in cui la verità, come norma dello spirito e dell’azione, non si mostra più di quanto non faccia il sole in una grotta sotterranea. Alla radice di questo stato di cose vi è senz’altro un errore della filosofia attuale, che non ha saputo definire in maniera sufficien- temente chiara ed efficace quest’idea, senza la quale la filosofia stessa non potrebbe esistere. Ma prima di ritornare su questo compito del chiarimento dell’idea di verità, vorrei mostrare som- mariamente alcune radici storiche dell’idea contraria. Quale ruolo ha giocato l’idea di mito nella storia dello spirito umano? Platone, che aveva un’idea alta e chiara della verità, e che la cercava con ardore incomparabile disciplinando il poeta che era in lui, ha delimitato una regione dello spirito in cui que- sto è costretto ad essere attivo senza poter raggiungere l’idea della verità, attivo in una sorta di immaginazione riflessa che forma ipotesi immaginate. Ciò gli offre l’occasione di una libera- zione poetica. Egli ha definito questa regione come la “sfera del mito”, ovvero, secondo il significato della parola greca mythos, la “sfera del racconto”. Per lui il mito è il gioco sublime dello spiri- to filosofico che apre l’inesplorabile e l’ineffabile: è una forma di sapere attiva ed esoterica basata su ciò di cui non si sa nulla. Troviamo un’idea del mito completamente differente nel romanticismo del XIX secolo, che ha cercato d’interpretare gli antichi miti dei popoli e di trovarvi una sola e identica filosofia, nascosta e perduta, che apparteneva all’anima profonda di un’u- manità più giovane. È soprattutto la tendenza della filosofia del mito del vecchio Schelling. Da Schelling discende Savigny, e il
INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO 527 grande erudito svizzero Bachofen, che ha tanto profondamente influenzato Nietzsche, Klage e tutti i mitologi attuali. Ma la posizione del mitologismo moderno non proviene diret- tamente da queste ricerche romantiche. Da Platone viene mutua- to soltanto il termine, e dal romanticismo soprattutto l’elemento sentimentale. Questa dottrina moderna è più precisamente un pro- dotto del movimento pragmatista e del suo grande attacco contro l’idea tradizionale della verità. Mi si permetta una breve schema- tizzazione di questo complesso movimento di idee. Si ha dapprima, nel XIX secolo, una crisi profonda e univer- sale dell’idea di verità. L’origine di questa crisi è principalmente nella filosofia di Hegel, che manteneva l’idea classica di una veri- tà temporale e immutabile, ma che allo stesso tempo introduceva la storia tra le condizioni necessarie alla conoscenza del vero: in maniera talmente radicale, che la verità non può essere conosci- bile se non alla fine della storia. Hegel credeva di trovarsi già a questo punto, e credeva quindi di poter fornire nel suo sistema la pienezza della verità filosofica. Ma dal momento in cui non si condivideva più quest’ardita convinzione, pur rimanendo influenzati dall’elemento storicista del pensiero di Hegel, si sarebbe arrivati dapprima all’agnosticismo universale di uno Stirner e poi alla necessità di ripensare il problema della verità e della conoscenza umana. Il pragmatismo è una soluzione, a mio avviso falsa, di questa immensa difficoltà presentatasi a tutti i filosofi venuti dopo Hegel. Quando si parla di pragmatismo si pensa immediatamente al pragmatismo americano di James, Peirce e alcuni altri. Al suo ini- zio, questo movimento filosofico non affrontava l’idea stessa di verità, ma voleva soltanto introdurre un nuovo criterio di verità. Questo nuovo criterio è la pratica. In seguito all’effetto nella pra- tica si può stabilire se una teoria è vera o falsa. L’applicazione è il criterio ultimo. Questa teoria, che proviene dallo stretto rap- porto tra la scienza e la tecnica moderne, è ben presto trascesa dall’arditezza di spirito di quel gran filosofo che è stato William James. Egli vuole dare una nuova idea di verità. Se per James esi- stono due giudizi o due teorie, la sola differenza di valore essen- ziale che può esistere tra loro è la differenza tra le conseguenze di ordine pratico che comportano. Una formula data, senza conse- guenza pratica, è una formula priva di senso. La differenza tra il
528 PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO vero e il falso viene dunque a essere identificata con la differen- za che esiste tra le loro conseguenze. In questa trasformazione dell’idea di verità, vi è un cambiamento molto profondo dell’in- teresse umano. La vita teorica viene talmente disdegnata, privata d’importanza e di realtà, che le norme per giudicare i contenuti spirituali non possono derivare da essa. La vita teorica perde la propria autonomia. È il punto finale dell’attivismo occidentale, è la vittoria finale della vita attiva che sottomette interamente a queste norme la vita teorica, quella che i Greci ritenevano vita superiore. È Marta che annienta Maria. Conseguente laicismo, disprezzo dei valori del “chierico”. In questa irrealtà attribuita al puramente teorico troviamo la prima fonte del mitologismo moderno. La questione di sapere se una tesi è vera in senso teori- co ha perduto d’interesse. Ci si chiede esclusivamente cosa si potrebbe fare con essa. So di non essere qui completamente giu- sto nei riguardi del pensiero, tanto complesso, del grande filoso- fo americano, ma si tratta di trovare in lui la caratteristica tipica della mentalità moderna in generale, che ha dato a questa filoso- fia tutta la sua efficacia. Un fatto, generalmente poco noto, è che esiste anche un prag- matismo tedesco, le cui origini sono indipendenti dal pragmati- smo americano, e che presenta alcune caratteristiche molto diver- se da quest’ultimo. Credo sia stato René Berthelot a vedere per primo che il pensiero dell’ultimo Nietzsche ospita un pragmati- smo fondamentale. Se il pragmatismo americano è essenzialmen- te ottimista e civilizzatore, quello di Nietzsche è piuttosto un pragmatismo della disperazione: è un metodo personale per superare volontariamente lo scetticismo più profondo, diffuso in Francia dal nietzschiano Barrès. Se la verità che si è cercata non esiste, occorre fare una verità per sopportare la vita. Se Dio non esiste, bisogna fare degli dèi. Bergson ha paragonato la verità di James alla verità di una invenzione tecnica, che nulla ha a che fare con una scoperta . Anche la verità nietzschiana è un’invenzione, ma un’invenzione che supera l’ordine tecnico per arrivare all’or- dine morale e religioso; soprattutto è una creazione, una creazio- ne di valori. Secondo l’ultimo Nietzsche, è vero ciò che è favore- vole all’intensificazione della vita. La vita è divenuta il criterio della verità. Ma questa vita non è la vita pratica degli americani: è la vita/“Vita”. Verità panteista incarnata in Dioniso, il dio anti-
INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO 529 cristiano. E non si tratta affatto di utilitarismo, poiché la soffe- renza è un elemento necessario di questa vita. Essa è la volontà di potenza, la forza metafisica in movimento, che sola esiste sotto tutte le maschere dell’essere. Questa metafisica della vita stessa non vuol essere vera nel senso tradizionale; vuol essere anch’es- sa un’invenzione, l’invenzione di cui Nietzsche aveva bisogno e che era legata al centro della sua vocazione: creazione di una nuova metafisica, di una nuova interpretazione totale dell’esi- stenza umana e del mondo. Egli non vuole provare la sua dottri- na mediante l’attività letteraria; quest’ultima deve solo sedurre. Ebbene, questa creazione di una verità in senso nietzschiano è già essenzialmente il mito in senso moderno, organo di una pseudo- religione della vita. Soltanto, non bisogna dimenticare che in Nietzsche tutto questo ha un accento tragico, mentre nel mito moderno questa presenza paradossale e ineluttabile dell’idea di verità sotto forma d’inquietudine e di sofferenza spirituale non è più presente. In Nietzsche c’è un cercatore di verità che nascon- de, anche se molto male, la sua tragica e nobile disfatta. Egli vive consciamente la crisi interna dell’ethos protestante, di questa verità soggettiva che, in lui, distrugge l’idea stessa di verità. I moderni fondatori del mito non hanno niente da nascondere, per- ché non hanno mai cercato la verità con tutto il loro cuore. Quanto a Marx, è vero che egli non ha mai elaborato una dot- trina pragmatista in senso stretto. Le sue riflessioni sulle vere rela- zioni tra la teoria e la pratica lo portano, in gioventù, a fare del- l’efficacia sociale, pratica di un pensiero, un criterio di verità. Ma egli non arriva all’identificazione di questa verità in movimento con questo criterio di efficacia. La verità della teoria è per lui piut- tosto una condizione dell’azione efficace, e l’efficacia è il segno della verità. Così egli rimane contemporaneamente lontano tanto dallo scientismo ingenuo di un marxismo volgare, quanto dal pragmatismo propriamente detto. Lo sforzo della sua vita è orien- tato verso una teoria vera e attiva del capitalismo, che si trasforma dialetticamente in socialismo. Egli non volle mai creare un mito. In Francia un solo pensatore, sotto l’influenza combinata di Nietzsche, di Marx e del vitalismo di Bergson, ha creato una teo- ria del mito: George Sorel. Egli arriva a questa teoria come ade- rente al movimento operaio, e vi cerca dapprima una certa sinte- si del socialismo francese, detto utopico, e del socialismo marxi-
530 PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO sta. Sorel non crede alla possibilità di realizzare le utopie, ma nemmeno a quella di fondare il movimento operaio su una teoria puramente scientifica e razionale. Egli arriva dunque ad una giu- stificazione dell’elemento irrazionale necessario ad un movimen- to di massa, e lo giustifica come mito. Il fatto nuovo è che per lui il mito non è, come per Nietzsche, l’invenzione di uno solo, che è o fu il genio artistico, ma è emanazione dell’anima delle masse in una determinata situazione sociale. Rinnovando in certo qual modo la teoria romantica del mito e superandola, egli diviene il primo sociologo del mito. Che il mito al quale egli pensa sia quel- lo dello sciopero generale, ciò non impedisce che si tratti di una forma il cui contenuto è intercambiabile. Sorel sarà in grado di accettare, da vecchio, tanto il comunismo di Lenin quanto il fasci- smo nascente di Mussolini. Egli constata che i movimenti di massa moderni non sono guidati da teorie astratte, ma da imma- gini irrazionali che hanno un rapporto con la situazione concreta e sociale delle masse, e che si rivolgono ai loro desideri e alla struttura del loro subcosciente. Scoprendo questa verità, della quale mi sembra non si possa dubitare, dal momento che è una verità di fatto, egli prende allo stesso tempo una decisione irra- zionale, approvando questo stato di fatto. Non dimentichiamo che Sorel ha conosciuto Mussolini nel 1912 e che ha visto, con straor- dinaria intuizione, nel giovane giornalista socialista di allora il futuro dittatore imperialista. Mussolini, da parte sua, è molto influenzato da Sorel. Nei suoi scritti egli non dice mai che il socialismo sarebbe falso e che il fascismo sarebbe la verità, ma sempre che il socialismo proleta- rio è un “mito invecchiato”, avendo perduto la sua forza; mentre il fascismo è un mito nuovo, giovane e forte, corrispondente all’intima verità dei desideri del popolo italiano. La superiorità di un tale movimento non consisterebbe dunque nelle dottrine di partito, ma nel dinamismo del movimento stesso, e ciò prova che corrisponde ad uno stato di cose e soprattutto ad un impulso psi- cologico determinato. In questo senso, la pratica di Mussolini vuol essere in effetti un’esperienza fondata sulla teoria del mito. Si tratta, in un certo senso, di una nuova sintesi tra il mitologismo sociale di Sorel e quello individualista di Nietzsche, altro filoso- fo preferito dal Duce. Il capo è qui il creatore del mito, ma egli lo crea in un’armonia prestabilita con l’anima della sua nazione.
INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO 531 Egli dà a questa nazione il mito che le conviene, un mito di poten- za; e può fare questo perché non è, come Nietzsche, un filosofo isolato, ma un uomo sociale ed esistenzialmente politico, che esprime in sé l’essenza della nazione a cui appartiene. Non si trat- ta dunque di una creazione ex nihilo, ma di una riscoperta e di una rinascita – in questo caso specifico – del “mito romano” restitui- to alla nazione italiana da uno dei suoi figli. Aggiungiamo subito che, anche qui, non bisogna introdurre troppo velocemente il cri- terio di verità. In effetti, l’ideologia fascista ha forse pochissimi rapporti con la vera tradizione romana. Ma la questione è un’al- tra. Indipendentemente dal fatto se il carattere tradizionale del mito sia reale o fittizio, in ogni caso gli appartiene e gli dà forza. In Mussolini il mito diviene nazionale, un mito realmente o fitti- ziamente tradizionale, rinnovato e incarnato dal “grand’uomo” che s’impone come capo naturale della propria nazione. Il mito platonico, ad esempio nella cosmogonia del Timeo, e il mito romantico, ad esempio in Schelling e Bridofen, evocano, come soggetto proprio, il passato oscuro e remoto, le origini degli dèi, del mondo, dell’umanità e dei popoli. Al contrario, il “mito sociale” di Sorel, il mito rivoluzionario, il mito politico del fascismo italiano, assumono un carattere nettamente volontaristi- co e dinamico. Riguardano la formazione dell’avvenire degli uomini. In origine il mito della razza, nell’opera di Gobineau, era prima di tutto un mito romantico, che rimpiangeva un passato remoto e una purezza perduta per sempre a causa del miscuglio continuo, universale e irreversibile, delle vite umane. Era un mito della decadenza. Per Chamberlain e per i suoi discepoli tedeschi, la concezione che aveva Gobineau del potere della razza diviene la base di un mito eminentemente politico, teso verso l’attività e l’avvenire. In particolare, la purezza della razza eletta dei nobili nordici non appartiene più soltanto al passato, ad una sorta di paradiso perduto, ma diviene soprattutto un valore da realizzare, da riconquistare con fanatica volontà, con una politica ed un’eu- genetica coscienti. Così, Gobineau e Sorel divengono insieme la principale fonte ideologica del razzismo politico che innesta, su un fondo di nostalgia romantica, una dottrina dell’azione, e che vede nella razza pura contemporaneamente il passato, degenera- to in presente, e l’ideale dell’avvenire. Così appare la razza nor- dica, ad esempio in Günther. In questi due pensatori francesi,
532 PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO Gobineau e Sorel, si trovano tutti gli elementi del mito che è padrone della Germania attuale: il mitologismo razzista. Il teorico più noto di questo mitologismo, Rosenberg, ha dato al suo libro-programma un titolo caratteristico: Il mito del XX secolo. Quale cambiamento dal gioco sovrano di Platone e anche dalla tra- gedia di Nietzsche! Qui il mito non è un sostituto sempre insuffi- ciente della verità, non è introdotto laddove quest’ultima è rimasta inaccessibile, è la forma dell’affermazione più fanatica e se ne infi- schia dell’idea di verità. Dal punto di vista della certezza, in questo mitologismo vi è una certa secolarizzazione della certezza mistica cristiana. La maniera terribile in cui, ad esempio, i giornali parlano di “mistiche” al plurale (una mistica razzista, una mistica comuni- sta, ecc.), riflette questo processo il cui risultato è una completa confusione della mistica, che appartiene essenzialmente alla vita di grazia cristiana, con ogni sorta di dottrina oscura carica di viva emozione. L’altro giorno ho letto in un giornale che si sarebbe dovuta creare “una mistica” per i francesi. In effetti, ormai si fab- bricano i miti e le mistiche su ordinazione, come fossero scarpe o vestiti. Péguy non ha voluto questo. Cerchiamo di abbozzare un’analisi psicologica del mitologi- smo moderno. Il mito è divenuto una forza nella vita sociale conquistando l’a- desione delle masse, creando unità di migliaia e forse di milioni d’individui. Non vogliamo e non possiamo entrare qui nell’anali- si critica del contenuto di un qualunque mito. Si tratta solamente di fissare e di definire il carattere formale in base a cui il mito, in quanto tale, differisce ad esempio da una dottrina, da una teoria, da una rivelazione o da un dogma. Assumiamo come punto di par- tenza l’origine psicologica del mito. Ci pare che tale origine appartenga al subcosciente e in particolare alla vita degli impulsi e dei desideri. I nostri desideri hanno la facoltà di produrre auto- nomamente delle immagini, immagini in movimento e serie dram- matiche di immagini. Quindi il talento dell’invenzione poetica che precede quello, ben più raro e più nobile, della forma, è essenzial- mente un talento del subcosciente che viene dall’infanzia. Nei sogni vediamo queste facoltà all’opera. Si dice, a ragione, che i miti dei popoli primitivi somigliano a sogni collettivi. L’influenza delle immagini provenienti dal fondo dei nostri desideri è un fatto
INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO 533 accessibile all’esperienza interiore di ognuno. Bisogna ricordarsi, ad esempio, di quello stato d’animo che sant’Agostino ha chiama- to delectatio amorosa, in cui diamo libero corso ai nostri impulsi per produrre delle immagini. Bisogna pensare a tutti i tipi di sogni in stato di veglia. Il fenomeno, in linea di principio, è sempre lo stesso. Ci troviamo alla fonte dei miti. L’uomo del mito ha il centro della sua vita produttiva in que- st’evento trasformativo dei desideri in immagini. La sua forza è nel carattere di sicurezza inconscia immanente a tale processo. La sua potenza politica può cristallizzare, se si verifica una forte ana- logia tra il suo subcosciente e quello di una massa; se egli desi- dera le stesse cose che un gran numero di altri individui desidera nel proprio intimo subcosciente. Allora egli è unito a questa folla da un legame psicologico molto profondo. Egli aiuta gli altri a sognare e nello stesso tempo a liberare i loro desideri rimossi, anzitutto lasciando che producano delle immagini mediante par- tecipazione, poi, forse, realizzandole nella pratica. È questo il fascino, è questa la formidabile potenza dei profeti del mito in politica. La ricerca della verità è soprattutto un’attività della coscienza, è l’attività che ci rende coscienti dell’universo e di noi stessi. È sempre un atto di una difficile ascensione, mentre nien- te è più facile né più dolce che fare, con il fervore mitico, un salto nelle profondità della vita subcosciente. Evidentemente il mito politico, proprio come il mito religioso, non è mai questo prodot- to dei desideri, questa specie di sogno allo stato puro. Si presen- ta sempre sotto una forma razionalizzata, e si cerca d’introdurvi la maggior quantità possibile di fatti desunti dall’osservazione o anche dalla scienza. Ma il tutto è sempre dominato dalla logica, o piuttosto dalla particolare illogica del desiderio, e vi trova la sua efficacia. Essere influenzati da un mito è dunque una cosa essenzialmente diversa dall’approvare, ad esempio, una teoria o dal credere alla rivelazione: è ritrovare sotto le immagini del mito il proprio amore e il proprio odio, il proprio bisogno di soffrire e di far sof- frire, il proprio desiderio di sacrificarsi e di acquistare importan- za, ecc. Nella società moderna vi è una certa uniformità dei biso- gni, delle sofferenze e dei desideri negli strati più numerosi della popolazione, ad esempio nella piccola borghesia. Un uomo può dunque divenire efficacemente profeta di un mito politico se con-
534 PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO duce una vita subcosciente poco individualizzata, e se possiede allo stesso tempo la facoltà, straordinariamente suggestiva, di esprimerla per immagini. Il suo fascino ha qualcosa di erotico e rimane incomprensibile per lo spirito riflessivo. Il carattere irrazionale del mito si manifesta più chiaramente tramite la sua resistenza alla critica razionale. La sua certezza è cieca, ed è per questo che ogni sforzo di criticarlo in maniera razionale non può sortire grande effetto. In seguito alla pubblica- zione di una mia critica al contenuto del mito razzista1, un illustre filosofo razionalista francese mi scrisse dicendo che dopo tale stu- dio nessuno avrebbe dovuto più credere a quel mito. Questa invi- diabile e magnifica ingenuità del razionalismo integrale non riesce a cogliere l’essenziale del mito, che non si rivolge all’intelligenza dei suoi aderenti, ma ai loro sogni e desideri più profondi. Tre anni fa alcuni studiosi cattolici hanno pubblicato una serie di studi sul mito nel XX secolo. Essi hanno scoperto e mostrato l’esistenza di una massa d’errori, del tipo più inverosimile, nel celebre libro di Rosenberg. Quando tale autore cerca di fondare il mito nella realtà della storia, compie un saggio fittizio, poiché non fa altro che mitizzare la storia stessa. Forniamo qualche esempio di simili assurdità. Egli ritiene che Scoto Eriugena e Maestro Eckhart siano stati avvelenati da persone legate alla Chiesa catto- lica, nei confronti della quale peraltro nutre un odio mortale; che il movimento dei catari sia essenzialmente di origine germanica (mentre in realtà deriva dal manicheismo orientale); che la Chiesa abbia messo a morte nove milioni di eretici (numero arbitrario e ridicolo tratto indirettamente da un’amara battuta di Voltaire); che sant’Emeran, il santo della città di Regensburg, sia stato un ebreo e un seduttore di fanciulle; che Maestro Eckhart abbia fondato una nuova religione del sangue; che Gesù Cristo abbia avuto un padre romano e una madre caldea (questo solo perché un autore del II secolo attribuisce all’Anticristo un padre romano e perché si dice- va che nell’Anticristo ci fosse un certo mimetismo del Cristo), ecc. I pettegolezzi emergono da tutti i bassifondi del pamphlet antiec- clesiastico. Rosenberg vi aggiunge i propri malintesi e pretende di 1 [Landsberg si riferisce al saggio «Rassenideologie und Rassewissenschaft. Zur neuesten Literatur über das Rassenproblem», apparso sulla rivista della Scuola di Francoforte Zeitschrift für Sozialforschung II (1933) 388-406].
INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO 535 aver dato al suo mito una base di fatti storici, che definisce “incon- testabili”. Chiunque legga l’enorme libro di Rosenberg e la critica calma e composta degli studiosi cattolici, anche se fosse egli stes- so un accanito nemico della Chiesa, non può negare che l’attacco dell’appassionato mitologo si basi esclusivamente su relazioni inesatte, su fatti male interpretati, persino inventati da lui stesso o da panflettisti ancor più oscuri. Dico esclusivamente, perché in tutto il libro non c’è un solo fatto veridico sulla storia della Chiesa. Quindi l’attacco di Rosenberg non è diretto contro la Chiesa reale, venerabile o detestabile che sia, ma soltanto contro una Chiesa di sua invenzione, quindi mitologica, corrispondente al suo desiderio inconscio di trovare un colpevole contro cui dirigere il proprio odio. E tutto ciò è pericoloso, nella misura in cui questa “chiesa rosenberghiana” si sostituisce alla Chiesa reale nel pensiero e nei sentimenti del suo autore, come pure in quelli di gran parte dei suoi lettori (che si contano a centinaia di migliaia). E lo stesso accade, ad esempio, per il suo attacco contro gli ebrei, fondato sui Protocolli dei saggi di Sion. Per chiunque si sia occupato seriamente di tali “protocolli”, di cui Rosenberg ha curato un’edizione tedesca molto diffusa, non può sussistere il minimo dubbio: il documento è falso dalla prima all’ultima paro- la. Pretendendo di riprodurre dei progetti elaborati durante una seduta segreta del Congresso sionista di Basilea (1897), questi “protocolli” sono in realtà un estratto del libro di un cattolico liberale francese, Maurice Joly, pubblicato a Bruxelles nel 1864. Sotto forma di un «dialogo agli inferi tra Machiavelli e Montesquieu», Joly, uno dei primi e più profondi teorici della dit- tatura plebiscitaria moderna, tracciava una crudele satira della dittatura di Napoleone III. Tutto ciò che il suo Machiavelli dice è destinato a smascherare la politica del Secondo Impero: è lo stes- so Napoleone III che elabora delle teorie a partire dalla sua prati- ca. I falsari dei “protocolli”, cioè membri della polizia di Stato russa, li hanno presentati come un progetto ebreo per una dittatu- ra mondiale. Che gli ebrei siano considerati, di volta in volta, come dei mostri, come il popolo eletto o come uomini al pari degli altri, un’accusa fondata su documenti assolutamente falsifi- cati non può in alcun modo riguardarli. Assai significativa è la reazione del mitologo (e dei suoi seguaci) contro la critica storica. Egli non cerca di difendersi sul
536 PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO terreno propriamente scientifico; del resto non gli sarebbe possi- bile. Afferma invece, e i suoi seguaci gli credono, che se pure i documenti sono empiricamente falsi, hanno tuttavia un valore “leggendario” o “sostanziale”, ed è questo che conta. Anche se i crimini ch’egli attribuisce alla Chiesa non sono storicamente dimostrabili, essi devono comunque esistere nella sostanza, ecc. E dunque, che cosa può significare, nelle sue formule, questa strana e oscura reazione? Significa che ci si rifiuta di scendere sul terreno della verità storica, per rimanere ad ogni costo nel mito; che il mito esiste in una sfera essenzialmente indipenden- te dalla verità; che l’evidenza del mito non deriva da prove intel- lettuali, ma dal bisogno inconscio di vedere e interpretare il mondo in una data maniera piuttosto che in un’altra. C’è anche nel mito un certo credo quia absurdum. Non può quindi essere vinto senza un cambiamento dei cuori, che restituisca agli argo- menti intellettuali la loro forza psicologica. In ogni caso, è die- tro la pressione della critica scientifica che si svela il carattere fondamentalmente irrazionale del mito. Ritorniamo a questo carattere decisivo: bisogna capire l’ana- logia esistente tra il creatore o il seguace dei miti moderni, e quel tipo umano che la scienza definisce mitomane. La mito- mania, analizzata ad esempio da Pierre Janet, è una malattia del sentimento della realtà. Questo sentimento si trova ad essere talmente indebolito che qualunque chimera può sostituirsi ad una realtà. Se dico “qualunque chimera”, è unicamente dal punto di vista della realtà e della verosimiglianza razionale, giacché la pseudorealtà in questione è strettamente determinata dallo stato psichico subcosciente dell’individuo. Questi vive in un universo costituito dai suoi desideri e dalle sue angosce, dalle sue manie e dalle sue fobie. Il mitomane rimane quindi un solitario, pur vivendo in mezzo alla folla. Egli non comunica con gli altri nello stesso universo reale. L’uomo del mito in parte gli somiglia perché dà continuamente un’interpretazione, soprattutto preventiva, delle realtà in funzione del suo mito. Egli è anche profondamente solipsista, o almeno egocentrico, ma può avere un’efficace attività sociale, nella misura in cui la sua disposizione psicologica, che si manifesta nel mito, coinci- de con la struttura infantile dell’anima delle folle. Può divenire socialmente importante e svolgere un’attività in un certo senso
INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO 537 molto realista, poiché il suo mito s’impadronisce della realtà, interpretandola prima e trasformandola poi. Uomo solitario e politico insieme, chimerico negli scopi e realista nei mezzi, costituisce il caso di una rottura con la realtà dell’immagina- zione e dello spirito, limitata a qualche immagine tematica. Avendo constatato che la critica intellettuale è incapace di sradicare un mito costituito, bisogna precisare che, per l’indivi- duo responsabile, l’elemento decisivo della situazione si trova altrove. Egli ha il dovere di rimanere o piuttosto divenire fede- le alla verità, di sottomettersi alla conoscenza della realtà e di disciplinare i suoi desideri subcoscienti. Egli tende ad un “ordi- ne del cuore”, dove però il cuore sia conforme all’ordine del mondo, e non il mondo conformato ad un capriccio del cuore. Poiché il cristiano considera la verità come un aspetto di Dio stesso, non esiste per lui la possibilità di scelta tra il mito e la ricerca della verità. Egli non adora la dea “Vita”, il cui figlio prediletto è il mito, ma il Dio trinitario che è la Vita/Verità e la Verità/Vita, essendone allo stesso tempo la Via. Ma per valutare il problema e le sue difficoltà nel loro insie- me, bisogna richiamare la definizione classica della verità sug- gerita da Platone e Aristotele. Ben interpretata e trasformata in una certa maniera, mi sembra costituire ancor oggi la base necessaria di ogni chiarimento del problema della verità: veri- tas est adaequatio intellectus et rei. Per comprendere bene que- sta definizione, bisogna anzitutto non interpretarla secondo la teoria delle immagini. Per i suoi autori, la verità non esiste come immagine somigliante di una cosa caduta – non si sa come – nel nostro spirito: essa è una trasformazione di questo stesso spirito ad opera e secondo l’essenza dell’oggetto della conoscenza. Ogni conoscenza è una trasformazione di quest’or- dine, e tale è precisamente il significato della metafora aristote- lica della tavoletta di cera. Si tratta sempre di un avvenimento in cui, nello spirito, qualche cosa passa dalla potenza all’atto mediante la partecipazione all’oggetto. Questa cosa che si rea- lizza è l’analogia essenziale dell’oggetto che la nostra anima contiene in potenza. Così, noi realizziamo successivamente nella vita della conoscenza il microcosmo, l’uomo universale che siamo in potenza, mediante la partecipazione trasformatri- ce al macrocosmo.
538 PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO – Adaequatio (homoíosis): adeguamento che si fa scoperta di una corrispondenza, secondo il senso verbale del sostantivo greco di cui adaequatio è la traduzione; – intellectus: dell’intelligenza, soprattutto dell’intelligenza immedia- ta che è già contenuta, per Platone e Aristotele, nella conoscenza sen- soriale stessa, e che è l’organo primordiale della realizzazione della nostra parentela e analogia con tutti gli esseri; – et rei: e dell’oggetto della conoscenza. La verità in senso primario si costituisce nell’atto stesso della conoscenza immediata, e la verità possibile del giudizio è sola- mente fondata su di essa. Il contrario di questa verità in senso pri- mario è la non-esistenza di un atto di conoscenza nel senso pro- prio della parola, e il giudizio falso è soltanto il contrario della verità in senso secondario. È impossibile qui andare al fondo di questa concezione o entrare nel merito delle dispute d’interpreta- zione. Ciò che ho detto deve bastare a formarci una certa idea del- l’uomo orientato verso la verità, per opporlo all’uomo del mito. Quest’uomo non ha un possesso immutabile e perfetto della veri- tà, ma possiede un’idea chiara della sua essenza e cerca di sotto- mettersi a quest’idea. Sottomettersi a questa idea vuol dire sotto- mettere il proprio spirito e la propria azione alla realtà delle cose e impedire alla vita dei propri desideri d’invadere questa sfera. Non vogliamo quindi pretendere, come fa un certo razionalismo, che esista una verità sistematica, immutabile, definitiva, in mate- ria storica e sociale; ma distinguiamo nettamente tra l’ideologia e il mito da una parte, e le ipotesi e le dottrine fondate su uno stu- dio serio della realtà dall’altra. L’uomo della verità è costretto ad una critica permanente di se stesso e conosce il dubbio, non sol- tanto come sentimento, ma soprattutto come atto intellettuale necessario. Pretendendo che si debba prendere la definizione classica della verità come punto di partenza del nostro chiarimento, non voglio negare la necessità di superarla, in un certo senso, di determinare cosa sono una verità storica e una verità politica. Quel che rimane valido è il postulato che, nella conoscenza di ogni ordine, lo spirito deve sottomettersi all’oggetto. Ma occor- re comprendere questa sottomissione come attività spirituale, mentre la filosofia antica non mostra l’opposizione fondamenta-
INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO 539 le tra le nozioni di ricettività e di passività, poiché la conoscen- za è di per sé attività spirituale ricettiva. Il filosofo greco si sente talmente vicino alle cose, circondato dagli esseri e parte- cipe dell’essere in maniera immediata, che la relazione tra lo spirito e il suo oggetto non gli presenta problemi dolorosi. Tuttavia, in questo sentimento dell’immediatezza ontologica si può scoprire una caratteristica di un valore universale. L’uomo della verità deve vivere il più vicino possibile ad esseri differenti da lui. Attraverso l’eros filosofico l’uomo deve superarsi e tra- scendere anche questo prolungamento di sé, questo mondo spec- chio dell’io che è l’universo dei suoi desideri e delle sue imma- gini. È l’uomo che si dà e si ritrova, facendo astrazione da se stesso. Spesso il mondo moderno dimentica che la conoscenza dipende da una disciplina dell’uomo nella sua interezza. L’importanza di una tale attitudine diviene ancor più eviden- te se si tratta della formazione dell’avvenire. Questo è il terreno proprio dell’uomo del mito. In realtà, se egli mitizza il passato e il presente, è soprattutto per fondare la sua immagine dell’av- venire che dovrà realizzare; e se giustifica il suo disprezzo della verità intellettuale, lo fa soprattutto affermando che la sua cono- scenza non offre gli elementi per la formazione dell’avvenire. E certo non esiste una verità concernente l’avvenire che si possa cogliere con certezza. Il rischio e la decisione della volontà rimangono inevitabili. Ma questa stessa decisione può e deve essere fondata su di una conoscenza il più ampia e profonda possibile della realtà presente, della storia e delle possibilità dell’avvenire. Si può dunque dire, della volontà, che essa segue un piano. La categoria del piano si oppone a quella del mito dal punto di vista della formazione dell’avvenire. Il piano può esse- re solo il risultato della cooperazione degli spiriti più degni della responsabilità. Si tratta di sapere se si devono seguire gli impulsi subcoscienti delle folle, di cui i tribuni sono semplice- mente i rappresentanti psicologici, oppure i risultati della rifles- sione e delle ricerche più mature e più calme. Personalmente, credo che soltanto grazie a dei piani il più possibile razionali l’umanità o una nazione possano vincere, ad esempio, i perico- li di una crisi mondiale. Non posso tentare qui un’esposizione più completa, ma si tratta anzitutto di mostrare la direzione di ogni soluzione possibile.
540 PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO Per finire, vorrei dare ancora maggior concretezza all’antitesi che costituisce l’argomento di queste riflessioni, fornendo due esempi. 1) Il problema della lotta di classe. Oggi il mito si offre come mezzo per vincere questo male. Cioè non vuole cambiare le cause reali di questa lotta, ma vuole mitizzare la situazione decretando che questa lotta, evidentemente indesiderabile, non deve più esi- stere. Poiché essa continua a esistere, la conseguenza è la repres- sione crudele di una classe da parte di un’altra, repressione eser- citata con la violenza che può nascondere all’esterno questa lotta ma che, al fondo, rende sempre peggiore il male di cui soffre la società. 2) Un secondo esempio, ancora più importante: il problema del valore degli uomini. Per il cristiano esiste una differenza assoluta di valore tra un uomo e l’altro, ma solo in ultima istanza, cioè davanti a Dio. È là, e soltanto là che, nel Giudizio universale, vi sono degli eletti e dei dannati. Tutto questo rimane nascosto agli occhi dell’uomo. Per lui, in ciascuno dei suoi simili c’è del male e del bene. La verità è, in effetti, che esiste una certa quantità di male nel borghese più corretto, come una certa quantità di bene nello scellerato più incallito. Non è un caso che proprio un romanziere cristiano – penso a François Mauriac – ci mostri più d’ogni altro quest’impossibilità radicale di esprimere un giudizio morale a riguardo di un qualunque individuo considerato nella sua totalità. Per l’uomo del mito la cosa è molto più semplice. C’è già quag- giù una linea netta che separa gli eletti dai dannati. Il mito della razza dà così una caricatura grottesca della predestinazione divina ammettendo una razza eletta ed una razza dannata. Scimmiottando la religione, di cui è un surrogato, il mito si rivela un fariseismo collettivo. Ci si mette risolutamente dalla parte buona. Le follie dell’orgoglio e dell’odio si scatenano per l’intervento del mito. L’avversario politico viene esiliato dall’umanità. Un tempo Mussolini definiva la guerra: «Un duello a morte tra l’uomo e l’an- tiuomo». L’antiuomo era allora per lui il tedesco. La mentalità mitologica non si trasforma cambiando il contenuto mitico. I misteri dell’assoluto si trovano a essere continuamente spostati e falsificati quando si applicano, in maniera immediata, le categorie assolute della trascendenza alle realtà molteplici e complesse del mondo temporale.
INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO 541 La scelta tra il mitologismo e l’idea della verità non dev’esse- re difficile. Tutti noi dobbiamo collaborare allo sforzo necessario per dissipare le nuvole mitologiche e per affrontare, nella chia- rezza del sole degli spiriti, le miserie reali della nostra nazione e dell’umanità. Non perdiamo la speranza.
542 PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO
DIALOGO SUL MITO [Titolo originale: «Dialogue sur le mythe» (avec J. Lacroix), in Esprit, febbraio 1938. Agli interventi dei due autori la rivi- sta ha premesso la seguente annotazione: In seguito all’inter- vento di P. L. Landsberg, apparso nel nostro numero di gen- naio, Jean Lacroix ci ha inviato delle note che a parer nostro e di Landsberg offrono spunti utili alla discussione. Da qui questo dialogo in cui, come il lettore vedrà, per vie diverse i pensieri dei nostri due amici convergono.]. JEAN LACROIX Lo studio di Landsberg, «Introduzione ad una critica del mito», invita alla riflessione attiva. Tocca il punto centrale, ovvero il nostro impegno nel mondo d’oggi, il punto in cui s’inserisce la nostra azione comune in e contro la realtà moderna. E so che, per molti di noi, creare Esprit ha significato anzitutto fare la rivolu- zione contro i miti. Come spesso accade, la nostra volontà profon- da di rivoluzione spirituale si manifesta sotto il suo aspetto negati- vo. Ritornando a quest’atteggiamento originale, ci sembra di tor- nare alla freschezza del nostro primo impegno, ma oggi ben più approfondito e con un sentimento ben più preciso e complesso del- l’esatta opera da compiere. Le riflessioni che seguono, buttate giù in fretta immediatamente dopo la lettura dell’articolo di Landsberg, non hanno altro scopo che mettere in luce alcune delle condizioni necessarie alla piena efficacia della nostra azione. E spero che, benché possa sembrare che io difenda il mito – un certo mito – contro la scienza, mentre Landsberg avrebbe difeso la scienza contro il mito – un certo mito – nessuno perderà di vista la fondamentale identità dei nostri pensieri. Ma è naturale che l’auto- re del «Saggio sull’esperienza della morte» senta la necessità e il valore di un certo razionalismo, mentre chi è stato educato nell’at-
544 PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO mosfera del razionalismo francese debba altrettanto naturalmente sentire la necessità e la virtù di una reazione contro il razionalismo. «Il pericolo specifico attuale non è la menzogna, ma piuttosto l’oblio dell’idea stessa di verità e la sua sostituzione con l’idea del mito»1. Sono perfettamente d’accordo, la diagnosi è perfetta. Ma perché il mito sostituisce sempre di più la verità? In gran parte a causa di una falsa concezione della verità. Oggi la verità sembra essersi allontanata dalla vita, che quindi viene a opporsi alla veri- tà. Così ogni critica del mitologismo, per essere efficace, deve accompagnarsi ad una critica non solo di tutte le forme di pragma- tismo ma anche, e soprattutto, dell’idealismo. L’idealista, insom- ma, dà un criterio puramente formale del vero: l’accordo dello spi- rito con se stesso. Ne consegue che la verità non ha alcun rappor- to con la realtà, non pesa su di lei, non le dà più forma. Quindi una reazione che poteva essere prevista: se la verità non è più anche la vita, se la soffoca e la rende impossibile, non rimane che allonta- narsi da una tale verità e chiedere alla vita di crearne un’altra che sia vivibile. È proprio perché la verità cercata dall’idealismo non esiste, che si è fatta una verità per sopportare la vita. È il trionfo del mito. Si trova, più o meno allo stesso tempo e, indipendente- mente l’uno dall’altro,una strana profezia, tanto in Nietzsche come in Dostoevskij. Se il razionalismo, hanno gridato, crea un’atmo- sfera talmente asfissiante che tutta la vita diventa quasi impossibi- le, rimane una sola soluzione: impazzire volontariamente. Ci si potrebbe chiedere se Nietzsche non abbia vissuto la propria profe- zia; soprattutto ci si potrebbe chiedere se il mitologismo, quale l’ha definito Landsberg, non costituisca, per popoli e individui sempre più numerosi, una certa maniera di ricorrere a delle forze oscure e vitali che, creando una pseudo-verità che aiuti a sopportare la vita, si allontani almeno da un’altra pseudo-verità che non direi che è morta, poiché non è mai esistita. Volete un esempio nell’ambito del pensiero francese? Non ignoro il pericolo che si corre nel semplificare oltraggiosamente un pensiero duttile e sottile come quello di Brunschvicg; e sono ancora più sensibile alla specie di errore morale che si commette quando si schematizza un pensiero serio che, malgrado tutto, ha 1 [Vedi supra 526].
DIALOGO SUL MITO 545 conservato nella Sorbona il senso della vocazione filosofica. Ma non darò a Brunschvicg la soddisfazione di definire la sua filoso- fia come la volontà radicale di eliminare ogni mito. Secondo lui, il mito ha sempre un’origine politica; cioè, si utilizza il mito quando ci si accorge che la scienza pura non ha immediata effi- cacia pratica in campo sociale. Secondo Brunschvicg, se si trova- no in Platone le due risposte – scientifica e mitica –, non è perché Platone abbia esitato di fronte a questo dualismo: «È piuttosto, secondo noi, perché corrisponde a due problemi che non ha volu- to separare l’uno dall’altro: il problema puramente filosofico che si risolve nella determinazione della saggezza; il problema politi- co che consiste nell’efficacia della saggezza per la salvezza della civilizzazione ellenica. L’ambiguità dell’opera affonderebbe le sue radici nella reazione del secondo problema sul primo»2. Per Brunschwig, dunque, bisogna allontanare il mito e attenersi alla scienza, ovvero a ciò di cui non si può parlare per figura, imma- gine o metafora. Ne consegue necessariamente che la scienza, cioè la verità, non sarà pura se non sarà disinteressata, cioè dis- taccata dal reale3. Quali che siano i suoi sentimenti intimi di rin- novamento politico, economico e sociale, Brunschvicg – come ha giustamente mostrato Friedmann in La crise du progrès4 – per- viene ad una filosofia senza efficacia pratica, senza una reale presa sul divenire stesso della storia. Lo spirito risponde per se stesso, il che vuol dire che non risponde per il resto, in particola- re per la materia e la vita «le cui origini gli sfuggono, non perché siano al di sopra, ma perché sono al di sotto di lui»5. E allora si comprende che lo spirito non voglia impegnarsi in un’avventura – la vita – nella quale potrà soltanto essere oltraggiato. «Da un punto di vista strettamente spiritualista, non vi è alcuna responsa- bilità da assumersi nella formazione della materia e nell’origine della vita»6. Da qui il tragico di questa filosofia, la quale consta- ta con terrore che lo scarto tra l’umanità in comprensione e l’u- manità in estensione si accentua ogni giorno, e che per rimediar- 2 Le progrès de la conscience, t. I, Paris, p. 37. 3 Ibidem, 76. 4 G. Friedmann, La crise du progrès. Esquisse pour une histoire des idées, Paris 1936. 5 Ibidem, 42. 6 Ibidem, 67.
546 PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO vi non trova se non un’invivibile “conversione idealista”, che mal- grado tutto rimane un’evasione. Se lo spirito, per purificarsi sem- pre più, si staccasse dal corpo e rifiutasse di essere l’anima che lo anima, chissà fin dove andrà il corpo abbandonato a se stesso. L’esclusione radicale del mito porta all’evasione e all’impotenza. E così si precisa il nostro problema: non si tratta di escludere il mito, ma di situarlo. Non si può dargli tutto lo spazio ma nemme- no sopprimerlo. E del resto, coloro che lo sopprimono lo ristabili- scono ancor più pericolosamente: ciò che caratterizza lo scienti- smo, quello del XIX come quello del XX secolo, è proprio l’e- sclusione radicale del mito, sotto questa esplicita riserva, che fa della scienza il Mito. Nelle Leggi Platone spiega che la dialettica si rivolge soltanto all’intelletto. Ma l’intelletto non è tutto l’uomo. C’è anche la sensibilità, che bisogna saper captare: sarà compito del mito. Il mito è così condizione d’efficacia. Non vedo perché, sotto alcune condizioni da precisare, non dovrebbe esserne per- messo l’uso. Ma questo ruolo politico del mito è soltanto un aspet- to, certamente importante ma particolare, del suo ruolo pedagogi- co. Ed è su questa funzione essenziale del mito che vorrei attirare l’attenzione, perché permette di chiarire un aspetto della verità che è stato generalmente trascurato dall’idealismo. «Ci si fa un idolo della verità stessa; perché la verità fuori della carità non è Dio». Mi pare che questo pensiero di Pascal includa e insieme limiti il mito. Troppo spesso si dimentica che la verità è fatta per essere trasmessa, comunicata. E non è uno dei paradossi minori dell’idealismo il fatto che tratti qui la veri- tà come una cosa, adottando proprio la posizione che rimprove- ra al realismo ingenuo. Se, in effetti, si ammette davvero che la verità è la vita dello spirito, bisogna concluderne che essa deve essere comunicata perché lo spirito possa assimilarla. Tutti colo- ro che fanno della verità un “idolo” vogliono che la si trasmetta tale e quale, come una cosa morta, senza nemmeno vedere che trasmettendola così ad un’intelligenza incapace di comprenderla si rispetta senza dubbio la lettera, ma si uccide lo spirito. In que- sto problema, così oscuro e poco studiato, della trasmissione della verità, si dimentica sempre che dev’essere trasmessa in modo che divenga vera per lo spirito a cui la si comunica. Mi sembra che il mito sia il modo secondo cui uno spirito supe- riore si rivolge ad uno spirito inferiore, quando si preoccupa di
DIALOGO SUL MITO 547 una trasmissione veritiera della verità. Se la scienza è impossibile a causa dell’incapacità di colui al quale ci si sforza di trasmettere la verità, il mito sarà una sorta di propedeutica per consentirgli di raggiungerla a poco a poco: il mito suggerisce ciò che non può essere ancora scientificamente compreso. Il mito, così, descrive una situazione o racconta una storia, trasportando nello spazio e nel tempo le relazioni che un pensiero concepisce, ma non può comu- nicare ad uno spirito insufficientemente formato. Il mito è un mezzo di suggerire senza deformare, quando non si può ancora comunicare la verità. Credo dunque che, facendo della verità un “idolo” che si vuole trasmettere in blocco da uno spirito ad un altro, ci si esponga al rischio di non essere capiti, cioè, oggettivamente, a mentire; mentre il mito è il mezzo non soltanto di rendere efficace la verità, ma di trasmetterla in maniera veritiera tutte le volte che ci si rivolge a qualcuno che non è capace di “comprenderla”, cioè di abbracciarla completamente con il pensiero. E poiché la politica è, in un certo senso, un ramo della pedagogia, come ha ben segnala- to Platone, si vedono le conseguenze da trarre da quanto precede. La prima, evidentemente, la sola su cui vorrei insistere, è che il solo mito politico e sociale che possiamo raccomandare è un mito che, come ogni altro, dev’essere sottomesso alla verità invece di volerla creare. Soprattutto, non dimentichiamo che il mito è sempre esterno al vero. Il mito è senza dubbio un mezzo pedagogico per cogliere la verità, ma finché si resta al mito non la si vive dall’interno. Non si potrebbe dire che, in un certo senso, l’Antico Testamento annuncia il Nuovo con i suoi miti, lo prepara, ma che nel Nuovo Testamento non ci sono più miti? Nel caso della scienza umana, l’incapacità dello spirito a cui ci si rivolge è sempre relativa, e il mito deve condurre alla scienza. Se si suppone, al contrario, che Dio parli all’uomo, la differenza dall’infinito al finito è tale che l’uomo non può mai elevarsi fino alla scienza di ciò che gli viene trasmesso, e che il mito in que- sto caso deve condurre al mistero. Tanto che, in tutti i casi, la condizione essenziale dell’impiego del mito è che conduca alla verità, poiché nel mito io non vivo la verità (e questo è il suo pericolo), mentre nel mistero io la vivo, certamente in maniera incompleta, ma comunque la vivo. Ogni studio dei rapporti del mito e della scienza dev’essere completato da uno studio dei rap- porti del mito e del mistero.
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