INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO

Pagina creata da Enrico Raimondi
 
CONTINUA A LEGGERE
INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO

               [Testo, non rivisto dall’autore, di una conferenza tenuta nel-
               l’ambito della “Conférence Esprit” di Bruxelles (1937), pub-
               blicata daMounier con il titolo: «Introduction à une critique
               du mythe», Esprit, gennaio 1938. A proposito del titolo si
               veda una lettera inedita di Landsberg a Mounier, infra, 776.].

    Impegnarsi significa sempre identificare in maniera parziale,
ma reale, la mia persona con un movimento storico che è esso
stesso una realtà umana. Si tratta talmente poco dell’adesione ad
un’ideologia o ad un mito, che condizione preliminare di ogni
impegno è la distruzione liberatrice del mondo mitizzato. La radi-
ce antropologica dell’impegno è l’amore, atto libero e personale;
la radice del mito politico è la passione, impulso infrapersonale,
individuale o collettivo. L’amore comporta anche, nell’impegno,
la necessità di penetrare all’interno della realtà, condizione indi-
spensabile alla conoscenza. La passione è, al contrario, una forza
accecante. Acceca soprattutto frapponendo tra noi e il reale un
mondo che contiene sì elementi di realtà, ma trasformati dalla
loro integrazione in un mondo immaginario, che è costituito da
un’interpretazione, dapprima globale e inconscia, della totalità
del dato, secondo gli impulsi delle nostre passioni, dei nostri desi-
deri e dei nostri timori, delle nostre manie e fobie, delle nostre
pulsioni sessuali e delle nostre gelosie, delle nostre cieche adora-
zioni e dei nostri sentimenti. Questo “mondo intermedio” si sta-
bilizza mediante l’uso delle parole e delle immagini, che vengo-
no sottratte alla loro propria funzione che è quella di designare e
di rivelare il mondo reale. Lo sforzo per prendere contatto imme-
diatamente e adeguatamente con il mondo reale e storico, sforzo
che implica degli impegni, richiede dunque che ci si liberi dei
miti ideologici. Ogni determinazione contiene questi due elemen-
ti complementari come il sì e il no. La critica del mitologismo
completa dunque le mie «Riflessioni sull’impegno personale».
526                               PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO

    Tre anni fa ho assistito ad una seduta della “Società di
Filosofia” alla Sorbona. Si discuteva il problema della menzogna,
e in particolare il pericolo enorme che costituisce nel mondo
attuale la menzogna pubblica, la menzogna ufficiale come quella
della stampa. Ritengo però che la diagnosi che si dava del male
non fosse assolutamente esatta. Il pericolo specifico attuale non è
la menzogna, ma piuttosto l’oblio dell’idea stessa di verità e la
sua sostituzione con l’idea del mito. La menzogna è sempre esi-
stita, soprattutto in politica, ma in via di principio suppone l’esi-
stenza di una verità che viene coscientemente e volontariamente
falsificata. Per essere in grado di mentire nel senso proprio della
parola è necessario possedere un’idea di verità, per oscura che
sia. Oggi, al contrario, l’umanità si muove in gran parte in una
sfera in cui la verità, come norma dello spirito e dell’azione, non
si mostra più di quanto non faccia il sole in una grotta sotterranea.
Alla radice di questo stato di cose vi è senz’altro un errore della
filosofia attuale, che non ha saputo definire in maniera sufficien-
temente chiara ed efficace quest’idea, senza la quale la filosofia
stessa non potrebbe esistere. Ma prima di ritornare su questo
compito del chiarimento dell’idea di verità, vorrei mostrare som-
mariamente alcune radici storiche dell’idea contraria.
    Quale ruolo ha giocato l’idea di mito nella storia dello spirito
umano? Platone, che aveva un’idea alta e chiara della verità, e
che la cercava con ardore incomparabile disciplinando il poeta
che era in lui, ha delimitato una regione dello spirito in cui que-
sto è costretto ad essere attivo senza poter raggiungere l’idea
della verità, attivo in una sorta di immaginazione riflessa che
forma ipotesi immaginate. Ciò gli offre l’occasione di una libera-
zione poetica. Egli ha definito questa regione come la “sfera del
mito”, ovvero, secondo il significato della parola greca mythos, la
“sfera del racconto”. Per lui il mito è il gioco sublime dello spiri-
to filosofico che apre l’inesplorabile e l’ineffabile: è una forma di
sapere attiva ed esoterica basata su ciò di cui non si sa nulla.
    Troviamo un’idea del mito completamente differente nel
romanticismo del XIX secolo, che ha cercato d’interpretare gli
antichi miti dei popoli e di trovarvi una sola e identica filosofia,
nascosta e perduta, che apparteneva all’anima profonda di un’u-
manità più giovane. È soprattutto la tendenza della filosofia del
mito del vecchio Schelling. Da Schelling discende Savigny, e il
INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO                             527

grande erudito svizzero Bachofen, che ha tanto profondamente
influenzato Nietzsche, Klage e tutti i mitologi attuali.
    Ma la posizione del mitologismo moderno non proviene diret-
tamente da queste ricerche romantiche. Da Platone viene mutua-
to soltanto il termine, e dal romanticismo soprattutto l’elemento
sentimentale. Questa dottrina moderna è più precisamente un pro-
dotto del movimento pragmatista e del suo grande attacco contro
l’idea tradizionale della verità. Mi si permetta una breve schema-
tizzazione di questo complesso movimento di idee.
    Si ha dapprima, nel XIX secolo, una crisi profonda e univer-
sale dell’idea di verità. L’origine di questa crisi è principalmente
nella filosofia di Hegel, che manteneva l’idea classica di una veri-
tà temporale e immutabile, ma che allo stesso tempo introduceva
la storia tra le condizioni necessarie alla conoscenza del vero: in
maniera talmente radicale, che la verità non può essere conosci-
bile se non alla fine della storia. Hegel credeva di trovarsi già a
questo punto, e credeva quindi di poter fornire nel suo sistema la
pienezza della verità filosofica. Ma dal momento in cui non si
condivideva più quest’ardita convinzione, pur rimanendo
influenzati dall’elemento storicista del pensiero di Hegel, si
sarebbe arrivati dapprima all’agnosticismo universale di uno
Stirner e poi alla necessità di ripensare il problema della verità e
della conoscenza umana. Il pragmatismo è una soluzione, a mio
avviso falsa, di questa immensa difficoltà presentatasi a tutti i
filosofi venuti dopo Hegel.
    Quando si parla di pragmatismo si pensa immediatamente al
pragmatismo americano di James, Peirce e alcuni altri. Al suo ini-
zio, questo movimento filosofico non affrontava l’idea stessa di
verità, ma voleva soltanto introdurre un nuovo criterio di verità.
Questo nuovo criterio è la pratica. In seguito all’effetto nella pra-
tica si può stabilire se una teoria è vera o falsa. L’applicazione è
il criterio ultimo. Questa teoria, che proviene dallo stretto rap-
porto tra la scienza e la tecnica moderne, è ben presto trascesa
dall’arditezza di spirito di quel gran filosofo che è stato William
James. Egli vuole dare una nuova idea di verità. Se per James esi-
stono due giudizi o due teorie, la sola differenza di valore essen-
ziale che può esistere tra loro è la differenza tra le conseguenze di
ordine pratico che comportano. Una formula data, senza conse-
guenza pratica, è una formula priva di senso. La differenza tra il
528                               PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO

vero e il falso viene dunque a essere identificata con la differen-
za che esiste tra le loro conseguenze. In questa trasformazione
dell’idea di verità, vi è un cambiamento molto profondo dell’in-
teresse umano. La vita teorica viene talmente disdegnata, privata
d’importanza e di realtà, che le norme per giudicare i contenuti
spirituali non possono derivare da essa. La vita teorica perde la
propria autonomia. È il punto finale dell’attivismo occidentale, è
la vittoria finale della vita attiva che sottomette interamente a
queste norme la vita teorica, quella che i Greci ritenevano vita
superiore. È Marta che annienta Maria. Conseguente laicismo,
disprezzo dei valori del “chierico”. In questa irrealtà attribuita al
puramente teorico troviamo la prima fonte del mitologismo
moderno. La questione di sapere se una tesi è vera in senso teori-
co ha perduto d’interesse. Ci si chiede esclusivamente cosa si
potrebbe fare con essa. So di non essere qui completamente giu-
sto nei riguardi del pensiero, tanto complesso, del grande filoso-
fo americano, ma si tratta di trovare in lui la caratteristica tipica
della mentalità moderna in generale, che ha dato a questa filoso-
fia tutta la sua efficacia.
    Un fatto, generalmente poco noto, è che esiste anche un prag-
matismo tedesco, le cui origini sono indipendenti dal pragmati-
smo americano, e che presenta alcune caratteristiche molto diver-
se da quest’ultimo. Credo sia stato René Berthelot a vedere per
primo che il pensiero dell’ultimo Nietzsche ospita un pragmati-
smo fondamentale. Se il pragmatismo americano è essenzialmen-
te ottimista e civilizzatore, quello di Nietzsche è piuttosto un
pragmatismo della disperazione: è un metodo personale per
superare volontariamente lo scetticismo più profondo, diffuso in
Francia dal nietzschiano Barrès. Se la verità che si è cercata non
esiste, occorre fare una verità per sopportare la vita. Se Dio non
esiste, bisogna fare degli dèi. Bergson ha paragonato la verità di
James alla verità di una invenzione tecnica, che nulla ha a che fare
con una scoperta . Anche la verità nietzschiana è un’invenzione,
ma un’invenzione che supera l’ordine tecnico per arrivare all’or-
dine morale e religioso; soprattutto è una creazione, una creazio-
ne di valori. Secondo l’ultimo Nietzsche, è vero ciò che è favore-
vole all’intensificazione della vita. La vita è divenuta il criterio
della verità. Ma questa vita non è la vita pratica degli americani:
è la vita/“Vita”. Verità panteista incarnata in Dioniso, il dio anti-
INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO                                529

cristiano. E non si tratta affatto di utilitarismo, poiché la soffe-
renza è un elemento necessario di questa vita. Essa è la volontà di
potenza, la forza metafisica in movimento, che sola esiste sotto
tutte le maschere dell’essere. Questa metafisica della vita stessa
non vuol essere vera nel senso tradizionale; vuol essere anch’es-
sa un’invenzione, l’invenzione di cui Nietzsche aveva bisogno e
che era legata al centro della sua vocazione: creazione di una
nuova metafisica, di una nuova interpretazione totale dell’esi-
stenza umana e del mondo. Egli non vuole provare la sua dottri-
na mediante l’attività letteraria; quest’ultima deve solo sedurre.
Ebbene, questa creazione di una verità in senso nietzschiano è già
essenzialmente il mito in senso moderno, organo di una pseudo-
religione della vita. Soltanto, non bisogna dimenticare che in
Nietzsche tutto questo ha un accento tragico, mentre nel mito
moderno questa presenza paradossale e ineluttabile dell’idea di
verità sotto forma d’inquietudine e di sofferenza spirituale non è
più presente. In Nietzsche c’è un cercatore di verità che nascon-
de, anche se molto male, la sua tragica e nobile disfatta. Egli vive
consciamente la crisi interna dell’ethos protestante, di questa
verità soggettiva che, in lui, distrugge l’idea stessa di verità. I
moderni fondatori del mito non hanno niente da nascondere, per-
ché non hanno mai cercato la verità con tutto il loro cuore.
    Quanto a Marx, è vero che egli non ha mai elaborato una dot-
trina pragmatista in senso stretto. Le sue riflessioni sulle vere rela-
zioni tra la teoria e la pratica lo portano, in gioventù, a fare del-
l’efficacia sociale, pratica di un pensiero, un criterio di verità. Ma
egli non arriva all’identificazione di questa verità in movimento
con questo criterio di efficacia. La verità della teoria è per lui piut-
tosto una condizione dell’azione efficace, e l’efficacia è il segno
della verità. Così egli rimane contemporaneamente lontano tanto
dallo scientismo ingenuo di un marxismo volgare, quanto dal
pragmatismo propriamente detto. Lo sforzo della sua vita è orien-
tato verso una teoria vera e attiva del capitalismo, che si trasforma
dialetticamente in socialismo. Egli non volle mai creare un mito.
    In Francia un solo pensatore, sotto l’influenza combinata di
Nietzsche, di Marx e del vitalismo di Bergson, ha creato una teo-
ria del mito: George Sorel. Egli arriva a questa teoria come ade-
rente al movimento operaio, e vi cerca dapprima una certa sinte-
si del socialismo francese, detto utopico, e del socialismo marxi-
530                               PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO

sta. Sorel non crede alla possibilità di realizzare le utopie, ma
nemmeno a quella di fondare il movimento operaio su una teoria
puramente scientifica e razionale. Egli arriva dunque ad una giu-
stificazione dell’elemento irrazionale necessario ad un movimen-
to di massa, e lo giustifica come mito. Il fatto nuovo è che per lui
il mito non è, come per Nietzsche, l’invenzione di uno solo, che
è o fu il genio artistico, ma è emanazione dell’anima delle masse
in una determinata situazione sociale. Rinnovando in certo qual
modo la teoria romantica del mito e superandola, egli diviene il
primo sociologo del mito. Che il mito al quale egli pensa sia quel-
lo dello sciopero generale, ciò non impedisce che si tratti di una
forma il cui contenuto è intercambiabile. Sorel sarà in grado di
accettare, da vecchio, tanto il comunismo di Lenin quanto il fasci-
smo nascente di Mussolini. Egli constata che i movimenti di
massa moderni non sono guidati da teorie astratte, ma da imma-
gini irrazionali che hanno un rapporto con la situazione concreta
e sociale delle masse, e che si rivolgono ai loro desideri e alla
struttura del loro subcosciente. Scoprendo questa verità, della
quale mi sembra non si possa dubitare, dal momento che è una
verità di fatto, egli prende allo stesso tempo una decisione irra-
zionale, approvando questo stato di fatto. Non dimentichiamo che
Sorel ha conosciuto Mussolini nel 1912 e che ha visto, con straor-
dinaria intuizione, nel giovane giornalista socialista di allora il
futuro dittatore imperialista.
    Mussolini, da parte sua, è molto influenzato da Sorel. Nei suoi
scritti egli non dice mai che il socialismo sarebbe falso e che il
fascismo sarebbe la verità, ma sempre che il socialismo proleta-
rio è un “mito invecchiato”, avendo perduto la sua forza; mentre
il fascismo è un mito nuovo, giovane e forte, corrispondente
all’intima verità dei desideri del popolo italiano. La superiorità di
un tale movimento non consisterebbe dunque nelle dottrine di
partito, ma nel dinamismo del movimento stesso, e ciò prova che
corrisponde ad uno stato di cose e soprattutto ad un impulso psi-
cologico determinato. In questo senso, la pratica di Mussolini
vuol essere in effetti un’esperienza fondata sulla teoria del mito.
Si tratta, in un certo senso, di una nuova sintesi tra il mitologismo
sociale di Sorel e quello individualista di Nietzsche, altro filoso-
fo preferito dal Duce. Il capo è qui il creatore del mito, ma egli lo
crea in un’armonia prestabilita con l’anima della sua nazione.
INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO                              531

Egli dà a questa nazione il mito che le conviene, un mito di poten-
za; e può fare questo perché non è, come Nietzsche, un filosofo
isolato, ma un uomo sociale ed esistenzialmente politico, che
esprime in sé l’essenza della nazione a cui appartiene. Non si trat-
ta dunque di una creazione ex nihilo, ma di una riscoperta e di una
rinascita – in questo caso specifico – del “mito romano” restitui-
to alla nazione italiana da uno dei suoi figli. Aggiungiamo subito
che, anche qui, non bisogna introdurre troppo velocemente il cri-
terio di verità. In effetti, l’ideologia fascista ha forse pochissimi
rapporti con la vera tradizione romana. Ma la questione è un’al-
tra. Indipendentemente dal fatto se il carattere tradizionale del
mito sia reale o fittizio, in ogni caso gli appartiene e gli dà forza.
In Mussolini il mito diviene nazionale, un mito realmente o fitti-
ziamente tradizionale, rinnovato e incarnato dal “grand’uomo”
che s’impone come capo naturale della propria nazione.
    Il mito platonico, ad esempio nella cosmogonia del Timeo, e il
mito romantico, ad esempio in Schelling e Bridofen, evocano,
come soggetto proprio, il passato oscuro e remoto, le origini
degli dèi, del mondo, dell’umanità e dei popoli. Al contrario, il
“mito sociale” di Sorel, il mito rivoluzionario, il mito politico del
fascismo italiano, assumono un carattere nettamente volontaristi-
co e dinamico. Riguardano la formazione dell’avvenire degli
uomini. In origine il mito della razza, nell’opera di Gobineau, era
prima di tutto un mito romantico, che rimpiangeva un passato
remoto e una purezza perduta per sempre a causa del miscuglio
continuo, universale e irreversibile, delle vite umane. Era un mito
della decadenza. Per Chamberlain e per i suoi discepoli tedeschi,
la concezione che aveva Gobineau del potere della razza diviene
la base di un mito eminentemente politico, teso verso l’attività e
l’avvenire. In particolare, la purezza della razza eletta dei nobili
nordici non appartiene più soltanto al passato, ad una sorta di
paradiso perduto, ma diviene soprattutto un valore da realizzare,
da riconquistare con fanatica volontà, con una politica ed un’eu-
genetica coscienti. Così, Gobineau e Sorel divengono insieme la
principale fonte ideologica del razzismo politico che innesta, su
un fondo di nostalgia romantica, una dottrina dell’azione, e che
vede nella razza pura contemporaneamente il passato, degenera-
to in presente, e l’ideale dell’avvenire. Così appare la razza nor-
dica, ad esempio in Günther. In questi due pensatori francesi,
532                                PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO

Gobineau e Sorel, si trovano tutti gli elementi del mito che è
padrone della Germania attuale: il mitologismo razzista.
   Il teorico più noto di questo mitologismo, Rosenberg, ha dato al
suo libro-programma un titolo caratteristico: Il mito del XX secolo.
Quale cambiamento dal gioco sovrano di Platone e anche dalla tra-
gedia di Nietzsche! Qui il mito non è un sostituto sempre insuffi-
ciente della verità, non è introdotto laddove quest’ultima è rimasta
inaccessibile, è la forma dell’affermazione più fanatica e se ne infi-
schia dell’idea di verità. Dal punto di vista della certezza, in questo
mitologismo vi è una certa secolarizzazione della certezza mistica
cristiana. La maniera terribile in cui, ad esempio, i giornali parlano
di “mistiche” al plurale (una mistica razzista, una mistica comuni-
sta, ecc.), riflette questo processo il cui risultato è una completa
confusione della mistica, che appartiene essenzialmente alla vita di
grazia cristiana, con ogni sorta di dottrina oscura carica di viva
emozione. L’altro giorno ho letto in un giornale che si sarebbe
dovuta creare “una mistica” per i francesi. In effetti, ormai si fab-
bricano i miti e le mistiche su ordinazione, come fossero scarpe o
vestiti. Péguy non ha voluto questo.

    Cerchiamo di abbozzare un’analisi psicologica del mitologi-
smo moderno.
    Il mito è divenuto una forza nella vita sociale conquistando l’a-
desione delle masse, creando unità di migliaia e forse di milioni
d’individui. Non vogliamo e non possiamo entrare qui nell’anali-
si critica del contenuto di un qualunque mito. Si tratta solamente
di fissare e di definire il carattere formale in base a cui il mito, in
quanto tale, differisce ad esempio da una dottrina, da una teoria,
da una rivelazione o da un dogma. Assumiamo come punto di par-
tenza l’origine psicologica del mito. Ci pare che tale origine
appartenga al subcosciente e in particolare alla vita degli impulsi
e dei desideri. I nostri desideri hanno la facoltà di produrre auto-
nomamente delle immagini, immagini in movimento e serie dram-
matiche di immagini. Quindi il talento dell’invenzione poetica che
precede quello, ben più raro e più nobile, della forma, è essenzial-
mente un talento del subcosciente che viene dall’infanzia. Nei
sogni vediamo queste facoltà all’opera. Si dice, a ragione, che i
miti dei popoli primitivi somigliano a sogni collettivi. L’influenza
delle immagini provenienti dal fondo dei nostri desideri è un fatto
INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO                              533

accessibile all’esperienza interiore di ognuno. Bisogna ricordarsi,
ad esempio, di quello stato d’animo che sant’Agostino ha chiama-
to delectatio amorosa, in cui diamo libero corso ai nostri impulsi
per produrre delle immagini. Bisogna pensare a tutti i tipi di sogni
in stato di veglia. Il fenomeno, in linea di principio, è sempre lo
stesso. Ci troviamo alla fonte dei miti.
    L’uomo del mito ha il centro della sua vita produttiva in que-
st’evento trasformativo dei desideri in immagini. La sua forza è
nel carattere di sicurezza inconscia immanente a tale processo. La
sua potenza politica può cristallizzare, se si verifica una forte ana-
logia tra il suo subcosciente e quello di una massa; se egli desi-
dera le stesse cose che un gran numero di altri individui desidera
nel proprio intimo subcosciente. Allora egli è unito a questa folla
da un legame psicologico molto profondo. Egli aiuta gli altri a
sognare e nello stesso tempo a liberare i loro desideri rimossi,
anzitutto lasciando che producano delle immagini mediante par-
tecipazione, poi, forse, realizzandole nella pratica. È questo il
fascino, è questa la formidabile potenza dei profeti del mito in
politica. La ricerca della verità è soprattutto un’attività della
coscienza, è l’attività che ci rende coscienti dell’universo e di noi
stessi. È sempre un atto di una difficile ascensione, mentre nien-
te è più facile né più dolce che fare, con il fervore mitico, un salto
nelle profondità della vita subcosciente. Evidentemente il mito
politico, proprio come il mito religioso, non è mai questo prodot-
to dei desideri, questa specie di sogno allo stato puro. Si presen-
ta sempre sotto una forma razionalizzata, e si cerca d’introdurvi
la maggior quantità possibile di fatti desunti dall’osservazione o
anche dalla scienza.
    Ma il tutto è sempre dominato dalla logica, o piuttosto dalla
particolare illogica del desiderio, e vi trova la sua efficacia.
Essere influenzati da un mito è dunque una cosa essenzialmente
diversa dall’approvare, ad esempio, una teoria o dal credere alla
rivelazione: è ritrovare sotto le immagini del mito il proprio
amore e il proprio odio, il proprio bisogno di soffrire e di far sof-
frire, il proprio desiderio di sacrificarsi e di acquistare importan-
za, ecc. Nella società moderna vi è una certa uniformità dei biso-
gni, delle sofferenze e dei desideri negli strati più numerosi della
popolazione, ad esempio nella piccola borghesia. Un uomo può
dunque divenire efficacemente profeta di un mito politico se con-
534                                      PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO

duce una vita subcosciente poco individualizzata, e se possiede
allo stesso tempo la facoltà, straordinariamente suggestiva, di
esprimerla per immagini. Il suo fascino ha qualcosa di erotico e
rimane incomprensibile per lo spirito riflessivo.
    Il carattere irrazionale del mito si manifesta più chiaramente
tramite la sua resistenza alla critica razionale. La sua certezza è
cieca, ed è per questo che ogni sforzo di criticarlo in maniera
razionale non può sortire grande effetto. In seguito alla pubblica-
zione di una mia critica al contenuto del mito razzista1, un illustre
filosofo razionalista francese mi scrisse dicendo che dopo tale stu-
dio nessuno avrebbe dovuto più credere a quel mito. Questa invi-
diabile e magnifica ingenuità del razionalismo integrale non riesce
a cogliere l’essenziale del mito, che non si rivolge all’intelligenza
dei suoi aderenti, ma ai loro sogni e desideri più profondi.
    Tre anni fa alcuni studiosi cattolici hanno pubblicato una serie
di studi sul mito nel XX secolo. Essi hanno scoperto e mostrato
l’esistenza di una massa d’errori, del tipo più inverosimile, nel
celebre libro di Rosenberg. Quando tale autore cerca di fondare il
mito nella realtà della storia, compie un saggio fittizio, poiché non
fa altro che mitizzare la storia stessa. Forniamo qualche esempio
di simili assurdità. Egli ritiene che Scoto Eriugena e Maestro
Eckhart siano stati avvelenati da persone legate alla Chiesa catto-
lica, nei confronti della quale peraltro nutre un odio mortale; che
il movimento dei catari sia essenzialmente di origine germanica
(mentre in realtà deriva dal manicheismo orientale); che la Chiesa
abbia messo a morte nove milioni di eretici (numero arbitrario e
ridicolo tratto indirettamente da un’amara battuta di Voltaire); che
sant’Emeran, il santo della città di Regensburg, sia stato un ebreo
e un seduttore di fanciulle; che Maestro Eckhart abbia fondato una
nuova religione del sangue; che Gesù Cristo abbia avuto un padre
romano e una madre caldea (questo solo perché un autore del II
secolo attribuisce all’Anticristo un padre romano e perché si dice-
va che nell’Anticristo ci fosse un certo mimetismo del Cristo), ecc.
I pettegolezzi emergono da tutti i bassifondi del pamphlet antiec-
clesiastico. Rosenberg vi aggiunge i propri malintesi e pretende di

   1
     [Landsberg si riferisce al saggio «Rassenideologie und Rassewissenschaft. Zur
neuesten Literatur über das Rassenproblem», apparso sulla rivista della Scuola di
Francoforte Zeitschrift für Sozialforschung II (1933) 388-406].
INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO                                535

aver dato al suo mito una base di fatti storici, che definisce “incon-
testabili”. Chiunque legga l’enorme libro di Rosenberg e la critica
calma e composta degli studiosi cattolici, anche se fosse egli stes-
so un accanito nemico della Chiesa, non può negare che l’attacco
dell’appassionato mitologo si basi esclusivamente su relazioni
inesatte, su fatti male interpretati, persino inventati da lui stesso o
da panflettisti ancor più oscuri. Dico esclusivamente, perché in
tutto il libro non c’è un solo fatto veridico sulla storia della Chiesa.
Quindi l’attacco di Rosenberg non è diretto contro la Chiesa reale,
venerabile o detestabile che sia, ma soltanto contro una Chiesa di
sua invenzione, quindi mitologica, corrispondente al suo desiderio
inconscio di trovare un colpevole contro cui dirigere il proprio
odio. E tutto ciò è pericoloso, nella misura in cui questa “chiesa
rosenberghiana” si sostituisce alla Chiesa reale nel pensiero e nei
sentimenti del suo autore, come pure in quelli di gran parte dei
suoi lettori (che si contano a centinaia di migliaia).
    E lo stesso accade, ad esempio, per il suo attacco contro gli
ebrei, fondato sui Protocolli dei saggi di Sion. Per chiunque si sia
occupato seriamente di tali “protocolli”, di cui Rosenberg ha
curato un’edizione tedesca molto diffusa, non può sussistere il
minimo dubbio: il documento è falso dalla prima all’ultima paro-
la. Pretendendo di riprodurre dei progetti elaborati durante una
seduta segreta del Congresso sionista di Basilea (1897), questi
“protocolli” sono in realtà un estratto del libro di un cattolico
liberale francese, Maurice Joly, pubblicato a Bruxelles nel 1864.
Sotto forma di un «dialogo agli inferi tra Machiavelli e
Montesquieu», Joly, uno dei primi e più profondi teorici della dit-
tatura plebiscitaria moderna, tracciava una crudele satira della
dittatura di Napoleone III. Tutto ciò che il suo Machiavelli dice è
destinato a smascherare la politica del Secondo Impero: è lo stes-
so Napoleone III che elabora delle teorie a partire dalla sua prati-
ca. I falsari dei “protocolli”, cioè membri della polizia di Stato
russa, li hanno presentati come un progetto ebreo per una dittatu-
ra mondiale. Che gli ebrei siano considerati, di volta in volta,
come dei mostri, come il popolo eletto o come uomini al pari
degli altri, un’accusa fondata su documenti assolutamente falsifi-
cati non può in alcun modo riguardarli.
    Assai significativa è la reazione del mitologo (e dei suoi
seguaci) contro la critica storica. Egli non cerca di difendersi sul
536                               PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO

terreno propriamente scientifico; del resto non gli sarebbe possi-
bile. Afferma invece, e i suoi seguaci gli credono, che se pure i
documenti sono empiricamente falsi, hanno tuttavia un valore
“leggendario” o “sostanziale”, ed è questo che conta. Anche se i
crimini ch’egli attribuisce alla Chiesa non sono storicamente
dimostrabili, essi devono comunque esistere nella sostanza, ecc.
E dunque, che cosa può significare, nelle sue formule, questa
strana e oscura reazione? Significa che ci si rifiuta di scendere
sul terreno della verità storica, per rimanere ad ogni costo nel
mito; che il mito esiste in una sfera essenzialmente indipenden-
te dalla verità; che l’evidenza del mito non deriva da prove intel-
lettuali, ma dal bisogno inconscio di vedere e interpretare il
mondo in una data maniera piuttosto che in un’altra. C’è anche
nel mito un certo credo quia absurdum. Non può quindi essere
vinto senza un cambiamento dei cuori, che restituisca agli argo-
menti intellettuali la loro forza psicologica. In ogni caso, è die-
tro la pressione della critica scientifica che si svela il carattere
fondamentalmente irrazionale del mito.
    Ritorniamo a questo carattere decisivo: bisogna capire l’ana-
logia esistente tra il creatore o il seguace dei miti moderni, e
quel tipo umano che la scienza definisce mitomane. La mito-
mania, analizzata ad esempio da Pierre Janet, è una malattia del
sentimento della realtà. Questo sentimento si trova ad essere
talmente indebolito che qualunque chimera può sostituirsi ad
una realtà. Se dico “qualunque chimera”, è unicamente dal
punto di vista della realtà e della verosimiglianza razionale,
giacché la pseudorealtà in questione è strettamente determinata
dallo stato psichico subcosciente dell’individuo. Questi vive in
un universo costituito dai suoi desideri e dalle sue angosce,
dalle sue manie e dalle sue fobie. Il mitomane rimane quindi un
solitario, pur vivendo in mezzo alla folla. Egli non comunica
con gli altri nello stesso universo reale. L’uomo del mito in
parte gli somiglia perché dà continuamente un’interpretazione,
soprattutto preventiva, delle realtà in funzione del suo mito.
Egli è anche profondamente solipsista, o almeno egocentrico,
ma può avere un’efficace attività sociale, nella misura in cui la
sua disposizione psicologica, che si manifesta nel mito, coinci-
de con la struttura infantile dell’anima delle folle. Può divenire
socialmente importante e svolgere un’attività in un certo senso
INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO                            537

molto realista, poiché il suo mito s’impadronisce della realtà,
interpretandola prima e trasformandola poi. Uomo solitario e
politico insieme, chimerico negli scopi e realista nei mezzi,
costituisce il caso di una rottura con la realtà dell’immagina-
zione e dello spirito, limitata a qualche immagine tematica.
   Avendo constatato che la critica intellettuale è incapace di
sradicare un mito costituito, bisogna precisare che, per l’indivi-
duo responsabile, l’elemento decisivo della situazione si trova
altrove. Egli ha il dovere di rimanere o piuttosto divenire fede-
le alla verità, di sottomettersi alla conoscenza della realtà e di
disciplinare i suoi desideri subcoscienti. Egli tende ad un “ordi-
ne del cuore”, dove però il cuore sia conforme all’ordine del
mondo, e non il mondo conformato ad un capriccio del cuore.
Poiché il cristiano considera la verità come un aspetto di Dio
stesso, non esiste per lui la possibilità di scelta tra il mito e la
ricerca della verità. Egli non adora la dea “Vita”, il cui figlio
prediletto è il mito, ma il Dio trinitario che è la Vita/Verità e la
Verità/Vita, essendone allo stesso tempo la Via.
   Ma per valutare il problema e le sue difficoltà nel loro insie-
me, bisogna richiamare la definizione classica della verità sug-
gerita da Platone e Aristotele. Ben interpretata e trasformata in
una certa maniera, mi sembra costituire ancor oggi la base
necessaria di ogni chiarimento del problema della verità: veri-
tas est adaequatio intellectus et rei. Per comprendere bene que-
sta definizione, bisogna anzitutto non interpretarla secondo la
teoria delle immagini. Per i suoi autori, la verità non esiste
come immagine somigliante di una cosa caduta – non si sa
come – nel nostro spirito: essa è una trasformazione di questo
stesso spirito ad opera e secondo l’essenza dell’oggetto della
conoscenza. Ogni conoscenza è una trasformazione di quest’or-
dine, e tale è precisamente il significato della metafora aristote-
lica della tavoletta di cera. Si tratta sempre di un avvenimento
in cui, nello spirito, qualche cosa passa dalla potenza all’atto
mediante la partecipazione all’oggetto. Questa cosa che si rea-
lizza è l’analogia essenziale dell’oggetto che la nostra anima
contiene in potenza. Così, noi realizziamo successivamente
nella vita della conoscenza il microcosmo, l’uomo universale
che siamo in potenza, mediante la partecipazione trasformatri-
ce al macrocosmo.
538                                  PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO

   – Adaequatio (homoíosis): adeguamento che si fa scoperta di una
   corrispondenza, secondo il senso verbale del sostantivo greco di cui
   adaequatio è la traduzione;
   – intellectus: dell’intelligenza, soprattutto dell’intelligenza immedia-
   ta che è già contenuta, per Platone e Aristotele, nella conoscenza sen-
   soriale stessa, e che è l’organo primordiale della realizzazione della
   nostra parentela e analogia con tutti gli esseri;
   – et rei: e dell’oggetto della conoscenza.

    La verità in senso primario si costituisce nell’atto stesso della
conoscenza immediata, e la verità possibile del giudizio è sola-
mente fondata su di essa. Il contrario di questa verità in senso pri-
mario è la non-esistenza di un atto di conoscenza nel senso pro-
prio della parola, e il giudizio falso è soltanto il contrario della
verità in senso secondario. È impossibile qui andare al fondo di
questa concezione o entrare nel merito delle dispute d’interpreta-
zione. Ciò che ho detto deve bastare a formarci una certa idea del-
l’uomo orientato verso la verità, per opporlo all’uomo del mito.
Quest’uomo non ha un possesso immutabile e perfetto della veri-
tà, ma possiede un’idea chiara della sua essenza e cerca di sotto-
mettersi a quest’idea. Sottomettersi a questa idea vuol dire sotto-
mettere il proprio spirito e la propria azione alla realtà delle cose
e impedire alla vita dei propri desideri d’invadere questa sfera.
Non vogliamo quindi pretendere, come fa un certo razionalismo,
che esista una verità sistematica, immutabile, definitiva, in mate-
ria storica e sociale; ma distinguiamo nettamente tra l’ideologia e
il mito da una parte, e le ipotesi e le dottrine fondate su uno stu-
dio serio della realtà dall’altra. L’uomo della verità è costretto ad
una critica permanente di se stesso e conosce il dubbio, non sol-
tanto come sentimento, ma soprattutto come atto intellettuale
necessario.
    Pretendendo che si debba prendere la definizione classica
della verità come punto di partenza del nostro chiarimento, non
voglio negare la necessità di superarla, in un certo senso, di
determinare cosa sono una verità storica e una verità politica.
Quel che rimane valido è il postulato che, nella conoscenza di
ogni ordine, lo spirito deve sottomettersi all’oggetto. Ma occor-
re comprendere questa sottomissione come attività spirituale,
mentre la filosofia antica non mostra l’opposizione fondamenta-
INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO                             539

le tra le nozioni di ricettività e di passività, poiché la conoscen-
za è di per sé attività spirituale ricettiva. Il filosofo greco si
sente talmente vicino alle cose, circondato dagli esseri e parte-
cipe dell’essere in maniera immediata, che la relazione tra lo
spirito e il suo oggetto non gli presenta problemi dolorosi.
Tuttavia, in questo sentimento dell’immediatezza ontologica si
può scoprire una caratteristica di un valore universale. L’uomo
della verità deve vivere il più vicino possibile ad esseri differenti
da lui. Attraverso l’eros filosofico l’uomo deve superarsi e tra-
scendere anche questo prolungamento di sé, questo mondo spec-
chio dell’io che è l’universo dei suoi desideri e delle sue imma-
gini. È l’uomo che si dà e si ritrova, facendo astrazione da se
stesso. Spesso il mondo moderno dimentica che la conoscenza
dipende da una disciplina dell’uomo nella sua interezza.
    L’importanza di una tale attitudine diviene ancor più eviden-
te se si tratta della formazione dell’avvenire. Questo è il terreno
proprio dell’uomo del mito. In realtà, se egli mitizza il passato
e il presente, è soprattutto per fondare la sua immagine dell’av-
venire che dovrà realizzare; e se giustifica il suo disprezzo della
verità intellettuale, lo fa soprattutto affermando che la sua cono-
scenza non offre gli elementi per la formazione dell’avvenire. E
certo non esiste una verità concernente l’avvenire che si possa
cogliere con certezza. Il rischio e la decisione della volontà
rimangono inevitabili. Ma questa stessa decisione può e deve
essere fondata su di una conoscenza il più ampia e profonda
possibile della realtà presente, della storia e delle possibilità
dell’avvenire. Si può dunque dire, della volontà, che essa segue
un piano. La categoria del piano si oppone a quella del mito dal
punto di vista della formazione dell’avvenire. Il piano può esse-
re solo il risultato della cooperazione degli spiriti più degni
della responsabilità. Si tratta di sapere se si devono seguire gli
impulsi subcoscienti delle folle, di cui i tribuni sono semplice-
mente i rappresentanti psicologici, oppure i risultati della rifles-
sione e delle ricerche più mature e più calme. Personalmente,
credo che soltanto grazie a dei piani il più possibile razionali
l’umanità o una nazione possano vincere, ad esempio, i perico-
li di una crisi mondiale. Non posso tentare qui un’esposizione
più completa, ma si tratta anzitutto di mostrare la direzione di
ogni soluzione possibile.
540                                 PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO

   Per finire, vorrei dare ancora maggior concretezza all’antitesi
che costituisce l’argomento di queste riflessioni, fornendo due
esempi.
   1) Il problema della lotta di classe. Oggi il mito si offre come
mezzo per vincere questo male. Cioè non vuole cambiare le cause
reali di questa lotta, ma vuole mitizzare la situazione decretando
che questa lotta, evidentemente indesiderabile, non deve più esi-
stere. Poiché essa continua a esistere, la conseguenza è la repres-
sione crudele di una classe da parte di un’altra, repressione eser-
citata con la violenza che può nascondere all’esterno questa lotta
ma che, al fondo, rende sempre peggiore il male di cui soffre la
società.
   2) Un secondo esempio, ancora più importante: il problema del
valore degli uomini. Per il cristiano esiste una differenza assoluta
di valore tra un uomo e l’altro, ma solo in ultima istanza, cioè
davanti a Dio. È là, e soltanto là che, nel Giudizio universale, vi
sono degli eletti e dei dannati. Tutto questo rimane nascosto agli
occhi dell’uomo. Per lui, in ciascuno dei suoi simili c’è del male e
del bene. La verità è, in effetti, che esiste una certa quantità di male
nel borghese più corretto, come una certa quantità di bene nello
scellerato più incallito. Non è un caso che proprio un romanziere
cristiano – penso a François Mauriac – ci mostri più d’ogni altro
quest’impossibilità radicale di esprimere un giudizio morale a
riguardo di un qualunque individuo considerato nella sua totalità.
   Per l’uomo del mito la cosa è molto più semplice. C’è già quag-
giù una linea netta che separa gli eletti dai dannati. Il mito della
razza dà così una caricatura grottesca della predestinazione divina
ammettendo una razza eletta ed una razza dannata. Scimmiottando
la religione, di cui è un surrogato, il mito si rivela un fariseismo
collettivo. Ci si mette risolutamente dalla parte buona. Le follie
dell’orgoglio e dell’odio si scatenano per l’intervento del mito.
L’avversario politico viene esiliato dall’umanità. Un tempo
Mussolini definiva la guerra: «Un duello a morte tra l’uomo e l’an-
tiuomo». L’antiuomo era allora per lui il tedesco. La mentalità
mitologica non si trasforma cambiando il contenuto mitico. I
misteri dell’assoluto si trovano a essere continuamente spostati e
falsificati quando si applicano, in maniera immediata, le categorie
assolute della trascendenza alle realtà molteplici e complesse del
mondo temporale.
INTRODUZIONE AD UNA CRITICA DEL MITO                             541

   La scelta tra il mitologismo e l’idea della verità non dev’esse-
re difficile. Tutti noi dobbiamo collaborare allo sforzo necessario
per dissipare le nuvole mitologiche e per affrontare, nella chia-
rezza del sole degli spiriti, le miserie reali della nostra nazione e
dell’umanità. Non perdiamo la speranza.
542   PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO
DIALOGO SUL MITO

                [Titolo originale: «Dialogue sur le mythe» (avec J. Lacroix),
                in Esprit, febbraio 1938. Agli interventi dei due autori la rivi-
                sta ha premesso la seguente annotazione: In seguito all’inter-
                vento di P. L. Landsberg, apparso nel nostro numero di gen-
                naio, Jean Lacroix ci ha inviato delle note che a parer nostro
                e di Landsberg offrono spunti utili alla discussione. Da qui
                questo dialogo in cui, come il lettore vedrà, per vie diverse i
                pensieri dei nostri due amici convergono.].

JEAN LACROIX

   Lo studio di Landsberg, «Introduzione ad una critica del mito»,
invita alla riflessione attiva. Tocca il punto centrale, ovvero il
nostro impegno nel mondo d’oggi, il punto in cui s’inserisce la
nostra azione comune in e contro la realtà moderna. E so che, per
molti di noi, creare Esprit ha significato anzitutto fare la rivolu-
zione contro i miti. Come spesso accade, la nostra volontà profon-
da di rivoluzione spirituale si manifesta sotto il suo aspetto negati-
vo. Ritornando a quest’atteggiamento originale, ci sembra di tor-
nare alla freschezza del nostro primo impegno, ma oggi ben più
approfondito e con un sentimento ben più preciso e complesso del-
l’esatta opera da compiere. Le riflessioni che seguono, buttate giù
in fretta immediatamente dopo la lettura dell’articolo di
Landsberg, non hanno altro scopo che mettere in luce alcune delle
condizioni necessarie alla piena efficacia della nostra azione. E
spero che, benché possa sembrare che io difenda il mito – un certo
mito – contro la scienza, mentre Landsberg avrebbe difeso la
scienza contro il mito – un certo mito – nessuno perderà di vista la
fondamentale identità dei nostri pensieri. Ma è naturale che l’auto-
re del «Saggio sull’esperienza della morte» senta la necessità e il
valore di un certo razionalismo, mentre chi è stato educato nell’at-
544                                PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO

mosfera del razionalismo francese debba altrettanto naturalmente
sentire la necessità e la virtù di una reazione contro il razionalismo.
    «Il pericolo specifico attuale non è la menzogna, ma piuttosto
l’oblio dell’idea stessa di verità e la sua sostituzione con l’idea del
mito»1. Sono perfettamente d’accordo, la diagnosi è perfetta. Ma
perché il mito sostituisce sempre di più la verità? In gran parte a
causa di una falsa concezione della verità. Oggi la verità sembra
essersi allontanata dalla vita, che quindi viene a opporsi alla veri-
tà. Così ogni critica del mitologismo, per essere efficace, deve
accompagnarsi ad una critica non solo di tutte le forme di pragma-
tismo ma anche, e soprattutto, dell’idealismo. L’idealista, insom-
ma, dà un criterio puramente formale del vero: l’accordo dello spi-
rito con se stesso. Ne consegue che la verità non ha alcun rappor-
to con la realtà, non pesa su di lei, non le dà più forma. Quindi una
reazione che poteva essere prevista: se la verità non è più anche la
vita, se la soffoca e la rende impossibile, non rimane che allonta-
narsi da una tale verità e chiedere alla vita di crearne un’altra che
sia vivibile. È proprio perché la verità cercata dall’idealismo non
esiste, che si è fatta una verità per sopportare la vita. È il trionfo
del mito. Si trova, più o meno allo stesso tempo e, indipendente-
mente l’uno dall’altro,una strana profezia, tanto in Nietzsche come
in Dostoevskij. Se il razionalismo, hanno gridato, crea un’atmo-
sfera talmente asfissiante che tutta la vita diventa quasi impossibi-
le, rimane una sola soluzione: impazzire volontariamente. Ci si
potrebbe chiedere se Nietzsche non abbia vissuto la propria profe-
zia; soprattutto ci si potrebbe chiedere se il mitologismo, quale l’ha
definito Landsberg, non costituisca, per popoli e individui sempre
più numerosi, una certa maniera di ricorrere a delle forze oscure e
vitali che, creando una pseudo-verità che aiuti a sopportare la vita,
si allontani almeno da un’altra pseudo-verità che non direi che è
morta, poiché non è mai esistita.
    Volete un esempio nell’ambito del pensiero francese? Non
ignoro il pericolo che si corre nel semplificare oltraggiosamente
un pensiero duttile e sottile come quello di Brunschvicg; e sono
ancora più sensibile alla specie di errore morale che si commette
quando si schematizza un pensiero serio che, malgrado tutto, ha

   1
       [Vedi supra 526].
DIALOGO SUL MITO                                                                    545

conservato nella Sorbona il senso della vocazione filosofica. Ma
non darò a Brunschvicg la soddisfazione di definire la sua filoso-
fia come la volontà radicale di eliminare ogni mito. Secondo lui,
il mito ha sempre un’origine politica; cioè, si utilizza il mito
quando ci si accorge che la scienza pura non ha immediata effi-
cacia pratica in campo sociale. Secondo Brunschvicg, se si trova-
no in Platone le due risposte – scientifica e mitica –, non è perché
Platone abbia esitato di fronte a questo dualismo: «È piuttosto,
secondo noi, perché corrisponde a due problemi che non ha volu-
to separare l’uno dall’altro: il problema puramente filosofico che
si risolve nella determinazione della saggezza; il problema politi-
co che consiste nell’efficacia della saggezza per la salvezza della
civilizzazione ellenica. L’ambiguità dell’opera affonderebbe le
sue radici nella reazione del secondo problema sul primo»2. Per
Brunschwig, dunque, bisogna allontanare il mito e attenersi alla
scienza, ovvero a ciò di cui non si può parlare per figura, imma-
gine o metafora. Ne consegue necessariamente che la scienza,
cioè la verità, non sarà pura se non sarà disinteressata, cioè dis-
taccata dal reale3. Quali che siano i suoi sentimenti intimi di rin-
novamento politico, economico e sociale, Brunschvicg – come ha
giustamente mostrato Friedmann in La crise du progrès4 – per-
viene ad una filosofia senza efficacia pratica, senza una reale
presa sul divenire stesso della storia. Lo spirito risponde per se
stesso, il che vuol dire che non risponde per il resto, in particola-
re per la materia e la vita «le cui origini gli sfuggono, non perché
siano al di sopra, ma perché sono al di sotto di lui»5. E allora si
comprende che lo spirito non voglia impegnarsi in un’avventura
– la vita – nella quale potrà soltanto essere oltraggiato. «Da un
punto di vista strettamente spiritualista, non vi è alcuna responsa-
bilità da assumersi nella formazione della materia e nell’origine
della vita»6. Da qui il tragico di questa filosofia, la quale consta-
ta con terrore che lo scarto tra l’umanità in comprensione e l’u-
manità in estensione si accentua ogni giorno, e che per rimediar-

   2
     Le progrès de la conscience, t. I, Paris, p. 37.
   3
     Ibidem, 76.
   4
     G. Friedmann, La crise du progrès. Esquisse pour une histoire des idées, Paris 1936.
   5
     Ibidem, 42.
   6
     Ibidem, 67.
546                                PERSONA, VERITÀ E AGIRE STORICO

vi non trova se non un’invivibile “conversione idealista”, che mal-
grado tutto rimane un’evasione. Se lo spirito, per purificarsi sem-
pre più, si staccasse dal corpo e rifiutasse di essere l’anima che lo
anima, chissà fin dove andrà il corpo abbandonato a se stesso.
L’esclusione radicale del mito porta all’evasione e all’impotenza.
    E così si precisa il nostro problema: non si tratta di escludere il
mito, ma di situarlo. Non si può dargli tutto lo spazio ma nemme-
no sopprimerlo. E del resto, coloro che lo sopprimono lo ristabili-
scono ancor più pericolosamente: ciò che caratterizza lo scienti-
smo, quello del XIX come quello del XX secolo, è proprio l’e-
sclusione radicale del mito, sotto questa esplicita riserva, che fa
della scienza il Mito. Nelle Leggi Platone spiega che la dialettica
si rivolge soltanto all’intelletto. Ma l’intelletto non è tutto l’uomo.
C’è anche la sensibilità, che bisogna saper captare: sarà compito
del mito. Il mito è così condizione d’efficacia. Non vedo perché,
sotto alcune condizioni da precisare, non dovrebbe esserne per-
messo l’uso. Ma questo ruolo politico del mito è soltanto un aspet-
to, certamente importante ma particolare, del suo ruolo pedagogi-
co. Ed è su questa funzione essenziale del mito che vorrei attirare
l’attenzione, perché permette di chiarire un aspetto della verità che
è stato generalmente trascurato dall’idealismo.
    «Ci si fa un idolo della verità stessa; perché la verità fuori
della carità non è Dio». Mi pare che questo pensiero di Pascal
includa e insieme limiti il mito. Troppo spesso si dimentica che
la verità è fatta per essere trasmessa, comunicata. E non è uno
dei paradossi minori dell’idealismo il fatto che tratti qui la veri-
tà come una cosa, adottando proprio la posizione che rimprove-
ra al realismo ingenuo. Se, in effetti, si ammette davvero che la
verità è la vita dello spirito, bisogna concluderne che essa deve
essere comunicata perché lo spirito possa assimilarla. Tutti colo-
ro che fanno della verità un “idolo” vogliono che la si trasmetta
tale e quale, come una cosa morta, senza nemmeno vedere che
trasmettendola così ad un’intelligenza incapace di comprenderla
si rispetta senza dubbio la lettera, ma si uccide lo spirito. In que-
sto problema, così oscuro e poco studiato, della trasmissione
della verità, si dimentica sempre che dev’essere trasmessa in
modo che divenga vera per lo spirito a cui la si comunica.
    Mi sembra che il mito sia il modo secondo cui uno spirito supe-
riore si rivolge ad uno spirito inferiore, quando si preoccupa di
DIALOGO SUL MITO                                                    547

una trasmissione veritiera della verità. Se la scienza è impossibile
a causa dell’incapacità di colui al quale ci si sforza di trasmettere
la verità, il mito sarà una sorta di propedeutica per consentirgli di
raggiungerla a poco a poco: il mito suggerisce ciò che non può
essere ancora scientificamente compreso. Il mito, così, descrive
una situazione o racconta una storia, trasportando nello spazio e nel
tempo le relazioni che un pensiero concepisce, ma non può comu-
nicare ad uno spirito insufficientemente formato. Il mito è un
mezzo di suggerire senza deformare, quando non si può ancora
comunicare la verità. Credo dunque che, facendo della verità un
“idolo” che si vuole trasmettere in blocco da uno spirito ad un altro,
ci si esponga al rischio di non essere capiti, cioè, oggettivamente, a
mentire; mentre il mito è il mezzo non soltanto di rendere efficace
la verità, ma di trasmetterla in maniera veritiera tutte le volte che ci
si rivolge a qualcuno che non è capace di “comprenderla”, cioè di
abbracciarla completamente con il pensiero. E poiché la politica è,
in un certo senso, un ramo della pedagogia, come ha ben segnala-
to Platone, si vedono le conseguenze da trarre da quanto precede.
    La prima, evidentemente, la sola su cui vorrei insistere, è che
il solo mito politico e sociale che possiamo raccomandare è un
mito che, come ogni altro, dev’essere sottomesso alla verità
invece di volerla creare. Soprattutto, non dimentichiamo che il
mito è sempre esterno al vero. Il mito è senza dubbio un mezzo
pedagogico per cogliere la verità, ma finché si resta al mito non
la si vive dall’interno. Non si potrebbe dire che, in un certo
senso, l’Antico Testamento annuncia il Nuovo con i suoi miti, lo
prepara, ma che nel Nuovo Testamento non ci sono più miti? Nel
caso della scienza umana, l’incapacità dello spirito a cui ci si
rivolge è sempre relativa, e il mito deve condurre alla scienza. Se
si suppone, al contrario, che Dio parli all’uomo, la differenza
dall’infinito al finito è tale che l’uomo non può mai elevarsi fino
alla scienza di ciò che gli viene trasmesso, e che il mito in que-
sto caso deve condurre al mistero. Tanto che, in tutti i casi, la
condizione essenziale dell’impiego del mito è che conduca alla
verità, poiché nel mito io non vivo la verità (e questo è il suo
pericolo), mentre nel mistero io la vivo, certamente in maniera
incompleta, ma comunque la vivo. Ogni studio dei rapporti del
mito e della scienza dev’essere completato da uno studio dei rap-
porti del mito e del mistero.
Puoi anche leggere