Il precedente giudiziale: tre esercizi di disincanto

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Pierluigi Chiassoni
Il precedente giudiziale:
tre esercizi di disincanto∗

0. Considerazioni introduttive: precedente giudiziale e teoria analitica del diritto

     I teorici del diritto d’indirizzo analitico sono una categoria d’importuni. Sono
soliti pensare, ad esempio:
     (i) che i termini tecnico-giuridici utilizzati dai pratici del diritto (avvocati e
giudici) e dai giuristi, nel quotidiano disbrigo delle loro attività istituzionali, sia-
no sovente equivoci;
     (ii) che i concetti tecnico-giuridici utilizzati dai pratici del diritto e dai giuri-
sti, nel quotidiano disbrigo delle loro attività istituzionali, siano sovente indeter-
minati (vaghi, imprecisi, oscuri);
     (iii) che i pratici del diritto e i giuristi siano di rado consapevoli di ciò – di-
modoché costoro continuerebbero inavvertitamente a servirsi di termini equivoci
e di concetti indeterminati, con il risultato che i loro discorsi sarebbero spesso,
nelle parole di John Austin, «un tessuto di espressioni malcerte»;
     (iv) che, pertanto, sia “loro” compito (dei teorici analitici, s’intende) – in
quanto metodologicamente meglio attrezzati per farlo – di procedere all’analisi e
alla “ricostruzione razionale” (ridefinizione perspicua) dell’apparato concettuale
della scienza giuridica e della pratica forense, al fine di sostituire il farraginoso
apparato corrente, con un nuovo apparato, costituito di concetti determinati e di-
stinti.
     Con riguardo all’apparato terminologico e concettuale usato dai pratici e dai
giuristi nei loro discorsi sul precedente giudiziale, questo modo di pensare si ri-
trova sia negli scritti dei fondatori della teoria analitica del diritto – Jeremy Ben-
tham e John Austin 1; sia, ancora di recente, negli autorevoli propugnatori di

∗
  Relazione per il “II Congreso Internacional sobre Abogacía y Justicia”, Corporación Eu-
ropea de Abogados, Toledo, 21 ottobre 2004.
1
  Cfr. J. Austin, The Uses of the Study of Jurisprudence, in Id., The Province of Jurispru-
dence Determined, 1832, ed. H.L.A. Hart, New York, The Noonday Press, 1954, p. 372,
dove, accennando al diritto giurisprudenziale (“judiciary law”, “common law”, “judge-
made law”), osserva: «I find it much vituperated, and I find it as much extolled; but I
scarcely find an endeavour to determine what it is. But if this humbler object where well

 Analisi e diritto 2004, a cura di P. Comanducci e R. Guastini
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un’adeguata “teoria generale del precedente giudiziale” – tra cui occorre men-
zionare gli studiosi riuniti nello «speciale gruppo di ricerca che si autodenomina
“Bielefelder Kreis”» 2.
    Occorre sottolineare che le indagini dei teorici analitici non pretendono in al-
cun modo di risolvere i problemi che possono presentarsi nella pratica del diritto.
    Per fare un esempio: che cosa sia “vincolante” in un “precedente”, e in che
modo ciò sia “vincolante”, se intese come questioni dogmatiche de iure condito
sollevate in relazione a una determinata esperienza giuridica, non sono questioni
che possano essere risolte con la teoria analitica.
    I servizi offerti dalla teoria analitica sono, come accennato, di altro tipo.
Hanno carattere ausiliario, e consistono, ad esempio, nel chiarire in quali sensi si
parli, o si potrebbe (sensatamente) parlare, rispettivamente, di un “precedente”
e/o della sua “forza vincolante” – così mettendo in luce quali siano, o potrebbero
essere, le soluzioni alternativamente eligibili dai pratici. Ma è a questi ultimi sol-
tanto che compete di fornire (imporre, proporre, argomentare) delle soluzioni,
nei limiti segnati dalla loro collocazione istituzionale e, in genere, dal contesto in
cui si trovino a operare.
    Agli operatori del diritto la teoria analitica propone, dunque, degli esercizi di
consapevolezza (la quale si accompagna sovente al disincanto), non delle solu-
zioni pratiche.
    Ciò premesso, in queste brevi note desidero sottoporre alla vostra attenzione
tre esercizi analitici in tema di precedente giudiziale.
    Il primo esercizio concerne la nozione di “precedente giudiziale” e le nozioni,
a essa correlate, di “ratio decidendi” e “obiter dictum” (§ 1).

investigated, most of the controversy about its merits would probably subside». Nelle pa-
role di Austin risuonano quelle del suo maestro, Jeremy Bentham: cfr. J. Bentham, Of
Laws in General, 1782, ed. by H. L. A. Hart, London, University of London – The Athlo-
ne Press, 1970, pp, 152 ss., nonché, per la critica del common law quale judge-made law,
Id, A Comment on the Commentaries, in Id., A Comment on the Commentaries and A
Fragment on Government, ed. by J. H. Burns and H. L. A. Hart, London, University of
London – The Athlone Press, 1977, pp. 161 ss., s.t. 192 ss.; Id., An Introduction to the
Principles of Morals and Legislation, 1789, ed. by J. H. Burns and H. L. A. Hart, London,
University of London – The Athlone Press, 1970, pp. 8, 21c, 308. Austin dedica al judi-
ciary law (comparandolo con lo statute law), tre ampie lezioni del suo corso: J. Austin,
Lectures on Jurisprudence, or the Philosophy of Positive Law, London, Murray, 5 th ed.,
1885, Lectures XXXVII-XXXIX.
2
  La lista dei “Bielefelders” può leggersi in D. N. MacCormick, R. S. Summers, Preface
and Acknowledgements, in N. D. MacCormick, R. S. Summers (eds.), Interpreting Prece-
dents. A comparative Study, Aldershot, Ashgate / Dartmouth, 1997, p. vii. Cfr., inoltre, R.
Cross, Precedent in English Law, 3rd ed., Oxford, Clarendon Press, 1977, p. 1; M. Taruf-
fo, Dimensioni del precedente giudiziario, in AA.VV., Scintillae Iuris. Studi in memoria
di Gino Gorla, Milano, Giuffrè, 1994, p. 387.
77

   Il secondo esercizio concerne l’identificazione – o interpretazione – del pre-
cedente giudiziale (§ 2).
   Il terzo esercizio concerne infine la rilevanza – il “valore”, l’“efficacia” – del
precedente giudiziale (§ 3).

1. Primo esercizio. “Precedente giudiziale”, “ratio decidendi”, “obiter dic-
tum”: un censimento di indeterminatezze

1.1. Premesse metodologiche

    Che cos’è un precedente giudiziale?
    Una domanda come questa – in apparenza semplice e sensata – assume para-
dossalmente, nella prospettiva della teoria analitica del diritto, degli aspetti in-
quietanti. Si tratta anzitutto – denuncia l’analitico – di una domanda che è fatal-
mente equivoca: che cosa sta chiedendo chi la pone? Quale tipo di risposta costui
riterrebbe adeguata? Si tratta inoltre – prosegue l’analitico – di una domanda che
si presta facilmente a essere intesa come una richiesta di una qualche “vera” de-
finizione del precedente giudiziale (della sua “essenza” o “quidditas”), ed è dun-
que metafisicamente sospetta. Si tratta infine – conclude l’analitico – di una do-
manda che, sotto le apparenze della ricerca della (di una qualche) verità, può na-
scondere intenti di ben altro genere: ad esempio, l’intento di argomentare in fa-
vore di una certa nozione di precedente giudiziale, che si ritiene utile a consegui-
re determinati fini pratici.
    Sulla base di tali considerazioni, i teorici analitici del diritto suggeriscono di
evitare una domanda (soltanto in apparenza semplice e sensata) come quella, e di
sostituirla, a seconda degli obiettivi di volta in volta perseguiti, con una pluralità
domande più precise, le quali attengano, ad esempio:
    (i) al significato (ai significati) che l’espressione “precedente giudiziale” (e/o
le espressioni corrispondenti in altre lingue naturali) ha, o ha avuto, di fatto in
una o più esperienze giuridiche determinate;
    (ii) al significato (ai significati) che l’espressione “precedente giudiziale” (e/o
le espressioni corrispondenti in altre lingue naturali) dovrebbe avere, in una o più
esperienze giuridiche determinate, in vista di certi fini pratici, e/o nella prospet-
tiva di certe norme e/o valori (assunti come) rilevanti;
    (iii) al significato (ai significati) che l’espressione “precedente giudiziale”
(e/o le espressioni corrispondenti in altre lingue naturali) sarebbe opportuno che
avesse, in una o più esperienze giuridiche determinate, in vista di una maggiore
chiarezza e precisione del linguaggio giuridico.
    Se, accogliendo il suggerimento dei teorici analitici, s’intraprende
un’indagine conoscitiva sulla nozione di “precedente giudiziale” nella cultura
giuridica occidentale contemporanea, si perviene, apparentemente, a risultati del
seguente tenore.
78

1.2. “Precedente giudiziale”

    A una sommaria (meta-)rilevazione dei suoi usi correnti, l’espressione “pre-
cedente giudiziale” – e le corrispondenti espressioni in altre lingue naturali – si
rivela ambigua sotto non meno di due distinti profili:

     (i) riguardo al tipo di oggetto designato;
     (ii) riguardo al grado di specificazione dell’oggetto designato.

    (i) L’espressione “precedente giudiziale” è anzitutto ambigua rispetto al tipo
di oggetto che ne costituisce il referente. Con essa, ci si può infatti riferire – al-
ternativamente, oppure in modo simultaneo e indistinto – a non meno di tre cose
diverse.
    In primo luogo, la locuzione “precedente giudiziale” può essere usata per ri-
ferirsi a una qualunque sentenza (ovvero a una qualunque “decisione giudiziale”
latamente intesa):
    (a) che sia stata pronunziata in un momento anteriore dato;
    (b) di cui si sia serbata memoria in una qualche raccolta di giurisprudenza;
    (c) concernente un caso concreto che presenta profili di similarità rispetto a
un altro caso concreto, qui e ora (“precedente-sentenza”, “sentenza-precedente”).
    In secondo luogo, la locuzione “precedente giudiziale” può essere usata per
riferirsi, non già a una sentenza-precedente complessivamente considerata, ma a
quella parte di una sentenza-precedente, che consiste nella decisione del caso
concreto strettamente intesa: ovverosia, nella norma, o statuizione, individuale
per un caso concreto che presenta profili di similarità rispetto a un altro caso
concreto, qui e ora (“precedente-dispositivo”).
    In terzo luogo, la locuzione “precedente giudiziale” può essere usata per rife-
rirsi, nuovamente, non già a una sentenza-precedente complessivamente conside-
rata, ma a quella parte di una sentenza-precedente, che si suole denominare
“ratio decidendi”, su cui “si fonda” la statuizione individuale per un caso concre-
to che presenta profili di similarità rispetto a un altro caso concreto, qui e ora
(“precedente-ratio decidendi”)3.

3
  Cfr., p.e., le seguenti rilevazioni: «in a decision-making situation, a decision taken in the
past in similar circumstances or in a similar case» (G. Cornu, Vocabulaire juridique,
1990, citato da M. Troper, C, Grzegorczyk, Precedent in France, ibidem, p. 111); G.
Marshall, What is Binding in a Precedent, ibidem, pp. 503, 504, 505; «una decisione ante-
riore da cui può essere tratta una regola giuridica in base alla quale può essere deciso un
caso successivo uguale o simile (…) il nucleo del precedente è la ratio decidendi della
decisione anteriore» (M. Taruffo, Per un’analisi comparata del precedente giudiziario, in
“Ragion Pratica”, 6, 1996, p. 62); F. Galgano, L’interpretazione del precedente giudizia-
79

    (ii) L’espressione “precedente giudiziale” si rivela ambigua, tuttavia, non sol-
tanto in relazione agli oggetti di volta in volta designati, ma anche sotto il profilo
del grado di specificazione degli oggetti designati.
    In molti casi, infatti, con la locuzione “precedente giudiziale” non ci si riferi-
sce semplicemente a una qualunque sentenza, e/o norma individuale, e/o ratio
decidendi anteriori quali che siano (come nelle tre ipotesi sopra menzionate). Ci
si riferisce invece a precedenti sentenze, a precedenti norme individuali o, più
spesso, a precedenti rationes decidendi precisando contestualmente, ad esempio,
che sono:
    (1) «presumibilmente rilevanti» per decidere un caso concreto, qui e ora4;
    (2) «espressamente adottate o formulate per guidare» le future decisioni dei
giudici inferiori5;
    (3) «di fatto utilizzate» nel decidere casi, qui e ora6;
    (4) «dotate di un’influenza de facto o de iure» sulle decisioni successive7;
    (5) «stabilite dai tribunali di rango più elevato, e la loro osservanza è imposta
o raccomandata, con vigore mutevole» ai giudici inferiori8;

rio, in “Contratto e impresa”, 1, 1985, p. 701.
4
  «’Precedent’ (Präjudiz) is usually taken to mean any prior decision possibly relevant to
a present case to be decided» (R. Alexy, R. Dreier, Precedent in the Federal Republic of
Germany, in D. N. MacCormick, R. S. Summers (eds.), Interpreting Precedents. A Com-
parative Study, cit., p. 23; cfr. Inoltre: M. Taruffo, M. La Torre, Precedent in Italy, ibi-
dem, p. 151).
5
  «[I]t is impossible according to Finnish law to say that any prior decision possibly rele-
vant to a present case to be decided is a precedent (…) In the Finnish system, the meaning
of ‘precedent’ is thus best taken as a decision which the deciding court expressly adopts
or formulates to guide future decision making (…) as guiding information [to] the lower
courts» (A. Aarnio, Precedent in Finland, in D. N. MacCormick, R. S. Summers (eds.),
Interpreting Precedents. A Comparative Study, cit., pp. 79-80).
6
  «Precedents are prior decisions that functions as models for later decisions» (N. D.
MacCormick, R. S. Summers, Introduction, in N. D. MacCormick, R. S. Summers (eds.),
Interpreting Precedents. A comparative Study, Aldershot, Ashgate / Dartmouth, 1997, p.
1); «Norwegian lawyers use ‘prejudikat’ (‘precedent’) in several senses (…) in an ex ante
sense (…) is used sinonimously with ‘a previous judicial decision’ (…) in an ex post sen-
se (…) [is] a judicial decision which is in fact used as a guide in later cases» (S. Eng, Pre-
cedent in Norway, in D. N. MacCormick, R. S. Summers (eds.), Interpreting Precedents.
A Comparative Study, cit., p. 196).
7
  «[A] decision of a court which de facto or de jure influences the making of other deci-
sions» (J. Wróblewski, citato da L. Morawski, M. Zirk-Sadowski, Precedent in Poland, in
N. MacCormick, R. S. Summers (eds.), Interpreting Precedents. A Comparative Study,
cit., p. 229).
8
  «Por lo común, en la tradición jurídica se denomina así [precedente, ndr] la doctrina o
los criterios jurisprudenciales sentados por los más altos tribunales y cuya observancia se
ordena o recomienda, con más o menos vigor, a los tribunales y jueces inferiores» (M.
80

    (6) «vincolanti» rispetto alle decisioni successive9.
    Si noti che in tutte queste accezioni, più specifiche o ristrette, tra le proprietà
definitorie di “precedente giudiziale” figura un qualche riferimento alla “rilevan-
za”, “valore”, “efficacia”, o “forza” del precedente rispetto alla decisione di casi
futuri. Su questo punto tornerò, come anticipato, nel terzo esercizio.

1.3. “Ratio decidendi”

     L’espressione “precedente giudiziale” designa sovente, come dicevo, la ratio
decidendi di una sentenza-precedente (“precedente-ratio decidendi“).
     In che cosa consiste, tuttavia, la “ratio decidendi” di una decisione giudizia-
le?
     Per rispondere a questa domanda evitando soluzioni essenzialistiche – le qua-
li, come ci avverte il teorico analitico, sono metafisicamente sospette e occultano
operazioni di politica del diritto, sotto l’apparenza di illustrare il “vero” concetto
di ratio decidendi – occorre procedere alla rilevazione degli usi della locuzione
“ratio decidendi” nel discorso giuridico.
     Una sommaria indagine linguistica mette in luce, anche in questo caso, come
la locuzione “ratio decidendi” sia caratterizzata da una notevole ambiguità, e che
tale ambiguità concerne, nuovamente:

     (i) il tipo di oggetto designato; e
     (ii) il grado di specificazione dell’oggetto designato.

    (i) Sotto il profilo del tipo di oggetto designato, con la locuzione “ratio deci-
dendi” ci si può riferire, alternativamente, a non meno di tre cose diverse, che
riflettono altrettante concezioni dottrinali circa il modo migliore di intenderla, e
precisamente: una concezione (che si potrebbe chiamare) “normativistica astrat-

Gascón Abellán, La técnica del precedente y la argumentación racional, Madrid, Tecnos,
1993, p. 11).
9
  «[A] precedent is usually understood as a prior judicial decision that has to do with a
similar case and binds other courts to a similar decision» (A. Ruiz Miguel, F. J. Laporta,
Precedent in Spain, in D. N. MacCormick, R. S. Summers (eds.), Interpreting Precedents.
A Comparative Study, cit., p. 269); «A precedent is simply any prior decision of any court
that bears a legally significant analogy to the case now before a court (…) There is, how-
ever, another usage, almost as significant, according to which ‘a precedent’ in the nar-
rower sense is only a relevant case that is binding, and only that part of the case or opin-
ion that actually binds» (Z. Bánkowski, D. N. MacCormick, G. Marshall, Precedent in the
United Kingdom, ibidem, p. 323); «In New York, the word ‘precedent’ is used in a variety
of ways, but when used most strictly, precedent means binding decisions of higher courts
of the same jurisdiction as well as decisions of the same appellate court» (R. S. Summers,
Precedent in the United States (New York), ibidem, p. 364).
81

ta”; una concezione (che si potrebbe chiamare) “normativistica concreta”; una
concezione (che si potrebbe chiamare) “argomentativa”.
    In primo luogo, nella prospettiva della concezione normativistica astratta,
con “ratio decidendi” si suole designare la norma giuridica generale – la “rego-
la”, il “criterio”, il “principio”, la “premessa normativa”, ecc. –, desumibile dalla
sentenza complessivamente considerata, sulla base della quale è stato deciso un
caso 10.
    In secondo luogo, nella prospettiva della concezione normativistica concreta,
con “ratio decidendi” si suole designare la norma giuridica generale contestua-
lizzata: i.e., la norma usata da un giudice per giustificare la decisione di un caso,
considerata non già in sé e per sé, ma unitamente agli argomenti che la sorreg-
gono e alla descrizione del fatto al quale è stata applicata11.
    In terzo luogo, nella prospettiva della concezione argomentativa, con la locu-
zione “ratio decidendi” non ci si riferisce, specificamente, né a una norma gene-
rale in sé e per sé considerata, né a una norma contestualizzata, bensì, in termini
generici, a un qualunque elemento essenziale (sine quo non) dell’argomentazione
svolta dal giudice per motivare la decisione di un caso 12.
    Si noti che le tre concezioni dottrinali della ratio decidendi ora distinte riflet-
tono, spesso a un tempo, due delle idee evocate dal vocabolo latino “ratio”:
    da un lato, l’idea di norma (o “regola” nel senso più generico del termine) –
in tale caso, la ratio decidendi è la norma – più o meno contestualizzata – del
decidere;

10
   In tal senso, cfr., p.e., le seguenti caratterizzazioni: «A precedent (…) is a judicial deci-
sion which contains in itself a principle. The underlying principle which thus forms its
authoritative element is often termed the ratio decidendi (…) it is the ratio decidendi
which alone has the force of law as regards the world at large» (J. W. Salmond, Jurispru-
dence, 7th ed. 1924, p. 201, citato da A. L. Goodhart, Determining the Ratio Decidendi of
a Case, in “Yale Law Journal”, 40, 1930, p. 161); la “ratio decidendi” è il «criterio della
decisione, o regola che sta alla base della decisione stessa» (G. Gorla, Le raccolte di giu-
risprudenza e le tecniche d’interpretazione delle sentenze (1964), in Id., Diritto compara-
to e diritto comune europeo, Milano 1981, 318 nota 23); la “ratio decidendi” è il «princi-
pio di diritto adottato dal giudice per definire la causa in relazione al contenuto di una
domanda» (M. Lupoi, Pluralità di “rationes decidendi” e precedente giudiziale, “Foro
italiano”, Quaderni, 1967, c. 203).
11
   Cfr., ad esempio: la “ratio decidendi” è il «rapporto fra la risoluzione (motivata) del
“caso” e il “caso” stesso, cioé il “fatto” e le “questioni inerenti”» (G. Gorla, Precedente
giudiziale, in Enciclopedia giuridica, vol. XXIII, 1990); la ratio decidendi è «the core of
the information» che i giuristi traggono da un precedente, tenendo conto, complessiva-
mente, della astratta descrizione del contenuto della decisione (“rubrication”) e della mo-
tivazione (“reasoning”) (A. Aarnio, Precedent in Finland, cit., pp. 76, 80).
12
   Cfr., p.e., F. Galgano, L’interpretazione del precedente giudiziario, “Contratto e impre-
sa”, 1985, p. 701; M. Bin, Funzione uniformatrice della Cassazione e valore del prece-
dente giudiziario, “Contratto e impresa”, 1988, p. 546.
82

    dall’altro, l’idea di ragione, ragionamento, argomento, o argomentazione – in
tale caso, la ratio decidendi è la ragione del decidere: l’argomentazione, o la par-
te di argomentazione, addotta in favore di una decisione.
    Ciò non è per nulla casuale: nella motivazione delle sentenze, gli enunciati
che esprimono le regole generali su cui si fonda la decisione sono frammenti di
un discorso in funzione giustificatoria. Tali regole costituiscono, in sé e per sé
considerate, le principali ragioni giuridiche delle particolari decisioni assunte13.

    (ii) Sotto il profilo del grado di specificazione dell’oggetto designato, la lo-
cuzione “ratio decidendi” si rivela parimenti ambigua, come accennato. Accanto
a caratterizzazioni in cui essa designa, in modo generico, vuoi la norma astratta,
vuoi la norma contestualizzata (nel senso chiarito prima), vuoi un qualunque e-
lemento essenziale della motivazione in diritto di una sentenza, ne circolano altre
dotate di un maggior grado di specificità.
    Si è sostenuto, ad esempio – e si tratta, si badi, di un inventario che è ben lon-
tano dall’essere esaustivo – che la “ratio decidendi” sia:
    (1) l’elemento della motivazione che costituisce la premessa necessaria, ov-
vero il passaggio logico necessario, per la decisione di un caso14;
    (2) il principio di diritto che nella sentenza è sufficiente a decidere il caso
concreto15;
    (3) l’argomentazione necessaria o sufficiente per definire un giudizio 16;
    (4) la norma (“regola”, “principio”) che costituisce, alternativamente: la con-

13
   A Latin Dictionary, founded on Andrews’ edition of Freund’s Latin Dictionary,
revised, enlarged, and in great part rewritten by C. T. Lewis, Oxford 1879 (rist. 1984),
alla voce “ratio” enumera molteplici significati, tra cui i seguenti: (1) calcolo, conto,
computo; (2) registro; (3) somma, numero; (4) affare, faccenda, questione, transazione;
(5) interesse, vantaggio, tornaconto; (6) relazione, rapporto, proporzione; (7) corso di
azione, condotta, procedura, modo (di agire), metodo, piano; (8) condizione, natura, modo
(di essere); (9) facoltà intellettiva che presiede al calcolo o alla computazione, facoltà di
giudizio, intelletto, ragione; (10) fondamento, motivo, ragion d’essere, causa ragionevole
(di una cosa), ragione (nel senso di spiegazione razionale o ragionevole), argomento; (11)
legge, regola; (12) teoria, dottrina, filosofia; (13) concezione, opinione fondata su basi
razionali; (14) prova, argomentazione, ragionamento.
14
   «[La] premessa e/o [il] passaggio logico che si riveli necessario per arrivare alla deci-
sione di un caso» (F. Galgano, L’interpretazione del precedente giudiziario, cit., p. 701).
15
   Cfr. M. Bin, Funzione uniformatrice della Cassazione e valore del precedente giudizia-
rio, cit., p. 546; D. N. MacCormick, Why Cases Have Rationes and What These Are, in L.
Goldstein (ed.), Precedent in Law, Oxford, Clarendon Press, 1991, p. 170: «A ratio deci-
dendi is a ruling expressly or impliedly given by a judge which is sufficient to settle a
point of law put in issue by the parties’ arguments in a case, being a point on which a ru-
ling was necessary to [the] (…) justification of the decision in the case».
16
   Cfr. M. Bin, Funzione uniformatrice della Cassazione e valore del precedente giudizia-
rio, cit., pp. 546 ss.
83

dizione necessaria e sufficiente, oppure la condizione non necessaria ma suffi-
ciente, o ancora una condizione necessaria ma non sufficiente, di una determina-
ta decisione17;
     (5) la norma per i fatti rilevanti della causa che, alla luce di un’analisi testua-
le del precedente-sentenza, il giudice ha di fatto stabilito e/o seguito, al di là di
ciò che costui possa aver affermato, o creduto di fare18;
     (6) la norma per i fatti rilevanti della causa che il giudice che ha pronunziato
il precedente-sentenza dichiara espressamente, o (presumibilmente) ritiene, di
avere stabilito e/o seguito 19;
      (7) la norma espressamente o implicitamente trattata dal giudice come ne-
cessaria per decidere un caso20;
      (8) la norma per i fatti rilevanti della causa che – alla luce del diritto esisten-
te, dei fatti e dei precedenti, così come intesi da un giudice successivo e/o dalla
dottrina – il giudice che ha pronunziato il precedente-sentenza avrebbe dovuto
stabilire e/o seguire, per decidere correttamente la controversia;
     (9) la norma per i fatti rilevanti della causa che, secondo l’opinione di un
giudice successivo, il giudice che ha pronunziato il precedente-sentenza ha rite-
nuto di avere stabilito;
     (10) la norma per i fatti rilevanti della causa che, secondo l’opinione di un
giudice successivo, il giudice che ha pronunziato il precedente-sentenza ha di
fatto stabilito e/o seguito;
     (11) la norma per i fatti rilevanti della causa che, secondo l’opinione dei giu-
risti, un giudice successivo avrebbe dovuto considerare come stabilita e/o seguita
da un giudice precedente21.
     Nella prospettiva di una teoria analitica del precedente, le caratterizzazioni
della ratio decidendi ora registrate suggeriscono alcune considerazioni non ozio-
se.
     In primo luogo, è agevole constatare che non c’è uniformità di opinioni quan-
to alla nozione di “ratio decidendi” – un dato non casuale che riflette, almeno in
parte, la pluralità e la diversità delle “teorie”, descrittive e/o prescrittive, del pre-
cedente giudiziale.
     In secondo luogo, tutte le caratterizzazioni circolanti presentano margini

17
   G. De Nova, Sull’interpretazione del precedente giudiziario, cit., p. 779.
18 Cfr., p.e., G. Marshall, What is Binding in a Precedent, cit., p. 506.
19 Cfr., p.e., G. Marshall, What is Binding in a Precedent, cit., p. 506.
20
   «The ratio decidendi of a case is any rule of law expressly or impliedly treated by the
judge as a necessary step in reaching his conclusion, having regard to the line of reaso-
ning adopted by him, or a necessary part of his direction to the jury», ovvero «proposi-
tions of law which a judge appears to consider necessary for his decision are ratio» (R.
Cross, Precedent in English Law, cit., pp. 78-79, 49).
21
   Per le ultime quattro caratterizzazioni della ratio decidendi, cfr. G. Marshall, What is
Binding in a Precedent, cit., pp. 506-507.
84

d’indeterminatezza non trascurabili. Tra queste, peraltro, quelle che rispecchiano
concezioni argomentative della ratio decidendi risultano essere assai più inde-
terminate e sfuggenti di quelle che rispecchiano, invece, delle concezioni norma-
tivistiche.
    In terzo luogo, alcune delle caratterizzazioni sopra registrate sono fra loro in-
conciliabili. Una cosa è configurare la ratio decidendi come la norma – il “prin-
cipio”, il “criterio” – (in un qualche senso) necessaria alla decisione di un caso;
altra cosa è configurarla, invece, come la norma – il “principio”, il “criterio” –
(in un qualche senso) sufficiente alla decisione di un caso. Se “necessario” e
“sufficiente” non sono usati a caso, le due caratterizzazioni conducono a qualifi-
cazioni incompatibili degli stessi elementi di una stessa sentenza: un principio
sufficiente può essere infatti, al tempo stesso, non necessario.
    In quarto luogo, alcune caratterizzazioni della ratio decidendi di una sentenza
sono oggettive; altre sono invece soggettive.
    Le caratterizzazioni oggettive (nn. 1-5) fanno esclusivo riferimento al conte-
nuto della sentenza, identificando la ratio decidendi con la norma che “fonda” –
quale condizione necessaria, sufficiente, ecc. – la decisione del caso concreto.
    Le caratterizzazioni soggettive (nn. 6-11) includono, tra le proprietà definito-
rie del concetto di “ratio decidendi”, il riferimento alla opinione (manifesta o
presumibile), rispettivamente: (i) del giudice che ha pronunciato la sentenza-
precedente (nn. 6-7); (ii) dei giudici successivi (nn. 8-10); e/o (iii) della dottrina
giuridica (nn. 8, 11).
    Di quest’ultima distinzione appare opportuno tenere conto, sia in sede di ri-
definizione del (di un qualche) concetto di “ratio decidendi” (come si vedrà al §
1.5), sia trattando delle metodologie di identificazione del precedente (infra, §
2).
    Prima di affrontare questi punti, tuttavia, occorre aggiungere un ultimo tas-
sello all’indagine lessicale svolta sin qui.

1.4. “Obiter dictum”

    Alle rationes decidendi, i giuristi e i pratici del diritto sono soliti contrappor-
re gli obiter dicta.
    Che cos’è, tuttavia, un “obiter dictum”?
    Anche in questo caso, una sia pure sommaria indagine lessicale – condotta
secondo il suggerimento dei teorici analitici – mette in luce una varietà di carat-
terizzazioni, che presentano gradi diversi di specificità.
    Si è sostenuto, ad esempio – e si tratta anche qui di un inventario ben lontano
dall’essere esaustivo – che un “obiter dictum” sia:
85

    (1) tutto ciò che, nella motivazione in diritto di una sentenza, non è (parte
della) ratio decidendi22;
    (2) qualunque proposizione di diritto (“principio di diritto”, ecc.) che risulti
non necessaria, ovvero superflua, rispetto alla decisione del caso concreto 23;
    (3) qualunque proposizione di diritto che risulti priva di efficacia giustificati-
va rispetto alla decisione del caso concreto 24;
    (4) qualunque princìpio, formulato nella sentenza, che sia non necessario, né
sufficiente, rispetto alla decisione del caso concreto 25;
    (5) qualunque passaggio della motivazione che contenga delle argomentazio-
ni non necessarie, né sufficienti, rispetto alla decisione del caso concreto, ma sol-
tanto degli “svolazzi” o digressioni dell’estensore26.
     (6) qualunque norma, o principio, il cui àmbito di applicazione – secondo
l’opinione di una corte successiva o della dottrina – sia più ampio di quello della

22
   «There is in one sense no problem in defining the character of obiter dicta, since they
consist in all propositions of law contained in the decision that are not part of the ratio.
But that negative assertion masks a number of different ways in which judicial dicta may
be related to the holding of a particular case» (G. Marshall, What is Binding in a Prece-
dent, cit., p. 515).
23
   Cfr., p.e., G. Gorla, “Ratio decidendi” e “obiter dictum” (1964), in Id., Diritto compa-
rato e diritto comune europeo, cit., p. 331 nota 2. Nella ricostruzione di Gorla, sarebbero
obiter dicta, in particolare: (i) le formulazioni di regole o di princìpi attinenti non già al
caso da decidere, ma a casi ipotetici, che il giudice delinea, per ragioni più o meno occa-
sionali, nel motivare la soluzione concretamente decisa (sul punto, cfr. anche G. Marshall,
What is Binding in a Precedent, cit., p. 515); (ii) le esplicite anticipazioni della probabile,
futura, giurisprudenza su casi ipotetici (percepiti come) connessi al caso concretamente
deciso; (iii) i «trattatelli teorici» su questioni estranee al thema decidendum, formulati per
(presumibile) sfoggio di erudizione. F. Galgano, L’interpretazione del precedente giudi-
ziario, cit., pp. 701 ss. Nel primo gruppo di obiter dicta individuato da Gorla rientrano,
apparentemente, i seguenti casi, messi in luce da Galgano: (a) il caso della formulazione
di una norma e di una sua eccezione, con contestuale applicazione della norma; (b) il ca-
so, speculare, della formulazione di una norma e di una sua eccezione, con contestuale
applicazione dell’eccezione; (c) il caso infine della formulazione di princìpi «enunciati
per contrapposizione o per differenza rispetto alla proposizione che funge da ratio deci-
dendi». Secondo Galgano, quantomeno nei casi dei primi due tipi, «la proposizione in so-
spetto di obiter dictum non serve per decidere la lite, ma fa parte integrante del ragiona-
mento che ha condotto alla decisione», ed è «organicamente connessa» alla ratio deciden-
di. Questi obiter dovrebbero pertanto essere opportunamente distinti da quegli obiter che
sono meri svolazzi retorici o vuoti sfoggi d’erudizione da parte dell’estensore della sen-
tenza. Si potrebbe parlare, in proposito, di “obiter utiliter dicta” e “obiter inutiliter dicta”.
24
   Cfr., p.e., M. Lupoi, Pluralità di “rationes decidendi” e precedente giudiziale, cit., p.
203.
25
   Cfr., p.e., G. De Nova, Sull’interpretazione del precedente giudiziario, cit., p. 779.
26
   Cfr., p.e., M. Bin, Funzione uniformatrice della Cassazione e valore del precedente
giudiziario, cit., p. 546.
86

norma, o principio, esattamente applicabile al caso concreto 27.
     In via del tutto sperimentale, il nucleo di significato comune alle diverse ca-
ratterizzazioni ora registrate può essere riprodotto in una (ri)definizione del con-
cetto di obiter dictum, più articolata di quelle attualmente in circolazione, secon-
do cui un “obiter dictum” è:
     (i) un insieme di enunciati giudiziali (contenente almeno un enunciato);
     (ii) del più vario contenuto – potendo esprimere, alternativamente: una norma
di condotta, l’interpretazione di un articolo di legge, un’argomentazione o un
frammento di argomentazione in diritto, una definizione, un’opinione concernen-
te un istituto del diritto positivo, ecc.;
     (iii) formulato all’interno di una sentenza (dictum, perlappunto);
     (iv) il quale risulti essere irrilevante, o rilevante ma dispensabile, rispetto alla
decisione adottata, nella prospettiva di un qualche metodo di analisi della senten-
za.
     Quest’ultima precisazione mette in evidenza che le nozioni di “rilevanza”,
“irrilevanza”, e “rilevanza dispensabile” di un insieme di enunciati giudiziali ri-
spetto alla decisione di un caso sono sempre relative ai metodi di analisi delle
sentenze di volta in volta adottati, facendo parte dei loro rispettivi apparati con-
cettuali: dimodoché può capitare che uno stesso insieme di enunciati, da prospet-
tive metodologiche diverse, sia considerato ora come ratio (e dunque dotato di
rilevanza decisoria), ora come obiter inutiliter dictum (e dunque caratterizzato da
irrilevanza decisoria assoluta), ora come obiter utiliter dictum (e dunque caratte-
rizzato da irrilevanza decisoria relativa, o rilevanza dispensabile) 28.

1.5. “Ratio decidendi” e “obiter dictum”: dalle rilevazioni alle ridefinizioni (o-
perative)

    Le rilevazioni (e/o meta-rilevazioni) svolte nei paragrafi precedenti si sono
risolte in un censimento di indeterminatezze.
    Nella prospettiva di una teoria analitica del precedente, la constatazione
dell’indeterminatezza possiede un valore conoscitivo non trascurabile: sia in sé;
sia quale punto di partenza per eventuali ridefinizioni perspicue (ricostruzioni
razionali) dei concetti indagati.

27
   «There is another kind of obiter dictum, which perhaps is not, properly speaking, an
obiter dictum at all, namely a ratio decidendi that in the view of a subsequent court is un-
necessarily wide» (G. Williams, Learning the Law, London, Stevens & Sons, 9th ed.,
1973, p. 79); «There is another form of obiter dictum which is in effect a putative ratio
decidendi reduced in rank by subsequent judicial reasoning. It may be held that a principle
apparently laid down as the reason for a particular decision was too widely stated, or in
some other way inappropriate» (G. Marshall, What is Binding in a Precedent, cit., p. 516).
28
   Sul punto, cfr., p.e., R. Cross, Precedent in English Law, cit., pp. 60-61.
87

    I requisiti che una (qualsiasi) ridefinizione analitica dei concetti di ratio deci-
dendi e di obiter dictum deve soddisfare sono perlomeno tre: oltre al requisito
della perspicuità, i requisiti della mutua esclusività e della neutralità metodologi-
ca.
    In primo luogo, i due concetti devono essere (ri)definiti in modo da risultare
mutualmente esclusivi: una stessa cosa non può essere, al tempo stesso, ratio de-
cidendi e obiter dictum.
    In secondo luogo, i due concetti devono essere (ri)definiti in modo da risulta-
re, per quanto possibile, metodologicamente neutrali: i.e., utilizzabili all’interno
di, ovvero compatibili con, diverse metodologie prescrittive di analisi delle sen-
tenze.
    Ciò premesso, in via del tutto provvisoria, una ridefinizione analitica – per-
spicua, mutualmente esclusiva, e metodologicamente neutrale – dei concetti di
ratio decidendi e di obiter dictum potrebbe essere tentata utilizzando la forma
della definizione operativa (in cui il significato del definiendum viene determina-
to sulla base di operazioni descritte nel definiens), e ricorrendo all’idea di “prova
di resistenza”.
    Per quanto concerne la ridefinizione operativa del (di un qualche) concetto di
“ratio decidendi”, sembra opportuno:
    (i) limitare il dato empirico di cui tenere conto ai soli concetti normativi di
ratio decidendi (supra, § 1.3, punto (ii) nn. 2, 4-11), tralasciando invece i concet-
ti argomentativi, per la loro eccessiva indeterminatezza (supra, § 1.3, punto (ii)
nn. 1 e 3);
    (ii) tenere conto della distinzione, prima rilevata nell’àmbito dei concetti
normativi, tra le caratterizzazioni oggettive (supra, § 1.3, punto (ii) nn. 2, 4-5) e
quelle soggettive (supra, § 1.3, punto (ii) nn. 6-11), limitandosi, peraltro, alla so-
la prospettiva del giudice che ha pronunziato la sentenza precedente.
    Con queste precisazioni, si possono formulare due distinte (ri)definizioni o-
perative di “ratio decidendi”, una oggettiva e una soggettiva.

    Ratio decidendi (oggettiva) = Df. una norma generale – espressa da un enun-
ciato formulato in una sentenza, o in essa implicita – è una ratio decidendi se,
ma solo se, alla luce della struttura logica della giustificazione della sentenza
(così come ricostruita secondo le direttive di una qualche metodologia oggettiva
di analisi delle sentenze), non possa essere espunta dalla motivazione in diritto di
una decisione, senza privare la decisione della norma giuridica – o quantomeno:
di una delle regole giuridiche, tra loro alternative e concorrenti – su cui si fonda.

    Ratio decidendi (soggettiva) = Df. una norma generale – espressa da un e-
nunciato formulato in una sentenza, o in essa implicita – è una ratio decidendi
se, ma solo se, secondo l’opinione ascrivibile al giudice che ha pronunziato la
sentenza (così come accertata secondo le direttive di una qualche metodologia
soggettiva di analisi delle sentenze), non possa essere espunta dalla motivazione
88

in diritto di una decisione, senza privare la decisione della norma giuridica – o
quantomeno: di una delle regole giuridiche, tra loro alternative e concorrenti – su
cui si fonda.

   Per quanto concerne la nozione di obiter dictum, una (ri)definizione operativa
può essere formulata nei seguenti termini, tenendo conto della (ri)definizione
fornita alla fine del paragrafo precedente.

    Obiter dictum = Df. un insieme di enunciati giudiziali esprime un obiter dic-
tum se, ma solo se, nella prospettiva di un qualche metodo d’analisi della senten-
za (soggettivo o oggettivo), possa essere espunto dalla motivazione in diritto di
una decisione, senza privare la decisione stessa:
    (i) vuoi della norma giuridica su cui essa si fonda;
    (ii) vuoi di un qualche argomento essenziale per sostenere che la norma giu-
ridica applicata al caso sia l’unica norma a esso correttamente applicabile, a pre-
ferenza di altre regole prima facie concorrenti.

    Quest’ultima ridefinizione, a differenza delle definizioni di ratio decidendi,
tiene conto anche delle nozioni argomentative di obiter dictum prima somma-
riamente rilevate.

2. Secondo esercizio: “il problema dell’identificazione del precedente“ (“inter-
pretazione del precedente”)

2.1. “Il problema dell’identificazione del precedente”

     Se si tiene conto del fatto che la locuzione “precedente giudiziale” è usata in
non meno di tre significati diversi, tra loro alternativi – e precisamente: prece-
dente-sentenza; precedente-dispositivo; e precedente-ratio decidendi, o prece-
dente-norma (cfr. §§ 1.2 e 1.5) – appare chiaro che non vi è affatto “un” (unico)
problema dell’identificazione del precedente, e che occorre invece distinguere
tra:

     (i) “il problema” dell’identificazione del precedente-sentenza,
     (ii) “il problema” dell’identificazione del precedente-dispositivo, e
     (iii) “il problema” dell’identificazione del precedente-norma.

   A ben vedere, peraltro, nessuna delle tre attività di “identificazione del pre-
cedente” solleva “un” (solo) problema, o tipo di problema.
   Al contrario, per ciascuna di esse ci si può chiedere ad esempio, in relazione
a una o più esperienze giuridiche determinate:
   (1) in che modo i giuristi e/o i giudici e/o gli avvocati procedano di fatto a i-
89

dentificare i “precedenti”, sollevando così un problema di metodologia descritti-
va, o sociologica;
    (2) se il modo in cui i giuristi e/o i giudici e/o gli avvocati di fatto procedono
a identificare i “precedenti” sia tecnicamente adeguato, in vista dei fini che co-
storo di volta in volta si propongono di realizzare, sollevando così un problema
di metodologia tecnica;
    (3) in quale modo i giuristi e/o i giudici e/o gli avvocati debbano procedere a
identificare i “precedenti”, secondo il diritto vigente, sollevando così un proble-
ma di metodologia normativa de iure condito;
    (4) in quale modo i giuristi e/o i giudici e/o gli avvocati dovrebbero procede-
re a identificare i “precedenti”, secondo princìpi ideali di cui si auspica la positi-
vizzazione, sollevando così un problema di metodologia normativa de iure con-
dendo;
    (5) quali metodologie normative attinenti all’identificazione dei “precedenti”
siano state elaborate dai giuristi e/o dai giudici (in sede di obiter dicta), solle-
vando così un problema di meta-metodologia descrittiva;
    (6) in che modo le metodologie normative attinenti all’identificazione dei
“precedenti” elaborate dai giuristi e/o dai giudici (in sede di obiter dicta) possa-
no, se del caso, essere riformulate in modo perspicuo, sollevando così un pro-
blema di meta-metodologia analitica.
    Facendo esercizio di ars combinatoria, si possono distinguere, in conclusio-
ne, non meno di diciotto diversi problemi di “identificazione del precedente”.

2.2. “Interpretazione del precedente”

    I diciotto (e più) problemi sopra individuati non stanno tutti sullo stesso pia-
no, nella considerazione dei giuristi e dei pratici del diritto.
    Tra di essi, i problemi ritenuti più importanti concernono l’identificazione del
precedente-dispositivo e l’identificazione del precedente-norma.
    L’identificazione del precedente-dispositivo – o identificazione del decisum –
è sovente denominata “interpretazione della sentenza”, o, se è intervenuto il giu-
dicato, “interpretazione del giudicato”. Si tratta di un’attività tipicamente com-
piuta dagli avvocati e dai giudici delle impugnazioni, per accertare che cosa sia
stato esattamente deciso, e sia pertanto idoneo ad acquisire la forza di giudicato.
    L’identificazione del precedente-norma – o identificazione della ratio deci-
dendi – è sovente denominata “interpretazione del precedente”. Si tratta di
un’attività tipicamente compiuta, oltre che nella pratica forense, in sede di dot-
trina giuridica e, ove un tale istituto esista, dai magistrati addetti alla massima-
zione ufficiale delle sentenze.
    Nella locuzione “interpretazione del precedente”, nel senso più ristretto ora
menzionato, l’attività di interpretazione ha per oggetto il precedente-sentenza –
e, eventualmente, anche altri materiali ritenuti rilevanti dagli interpreti; e ha per
90

risultato, o prodotto, la norma generale che ne costituisce la ratio decidendi – la
quale, a sua volta, avrà un “valore” (una “forza”, una ”efficacia”, ecc.) dipenden-
te da una qualche dottrina del precedente.
    La ratio decidendi di una sentenza-precedente, una volta che sia stata identi-
ficata e formulata mediante un insieme relativamente costante di enunciati, può
essere, a sua volta, oggetto di interpretazione.
    Occorre peraltro distinguere, a questo riguardo, tra non meno di due sensi di
“interpretazione” – e, corrispondentemente, tra due diversi sensi della locuzione
“interpretazione della ratio decidendi”.
    In un primo senso, per “interpretazione della ratio decidendi” si può intende-
re l’attività che consiste nell’identificare “l’esatto significato”, ovvero la “esatta
portata precettiva”, di una ratio decidendi rispetto alla soluzione di un caso, reale
o immaginario. Appartengono alla “interpretazione della ratio decidendi”, così
intesa, tutte le operazioni – e le tecniche – volte a restringere (“confining”, “di-
stringuishing”, “nuance-ing”, “pruning”), estendere (“extending”), o accertare
ponderatamente (“construing”, “explaining”, “ratio-ning”, “re-ing”, ecc.), il sen-
so di una data ratio decidendi29.
    In un secondo senso, per “interpretazione della ratio decidendi” si può inten-
dere, invece, l’attività volta a stabilire l’”esatto valore” di una ratio decidendi.
    Appartengono all’“interpretazione della ratio decidendi”, così intesa, le ope-
razioni – e le tecniche – che consistono, ad esempio:
    (a) nel configurare una ratio decidendi come obiter dictum (“dictum-ising”);
    (b) nell’indebolire (“impugning”) una ratio decidendi, sostenendo, ad esem-
pio, che sia frutto della negligenza del giudice (ovvero, che sia stata resa “per
incuriam”: “per-incuriam-ing”);
    (c) nell’insidiare una ratio decidendi, ad esempio revocando in dubbio la cor-
rettezza della sua formulazione nei repertori (“undermining”), oppure mettendo-
ne in luce l’appartenenza a un passato oramai lontano (“antichizzazione”,
“quondam-ing”) 30.

2.3. L’interpretazione del precedente: due modelli metodologici

     Nelle esperienze giuridiche occidentali, l’interpretazione del precedente –
i.e., l’attività che consiste nell’identificare la ratio decidendi di una sentenza
giudiziale (sentenza-precedente) – è solitamente oggetto di direttive metodologi-
che di origine giudiziale e dottrinale. I legislatori non se ne curano: vuoi, come in
Inghilterra, perché il precedente è una fonte del diritto, e si ritiene competa ai

29
   Cfr., p.e., G. Marshall, Trentatré cose che si possono fare con i precedenti. Un diziona-
rio di common law, in “Ragion Pratica”, 6, 1996, pp. 29 ss.
30
   Cfr., p.e., G. Marshall, Trentatré cose che si possono fare con i precedenti. Un diziona-
rio di common law, cit., pp. 29 ss.
91

giudici di formulare le meta-regole concernenti la sua interpretazione; vuoi per-
ché il precedente non è – almeno ufficialmente – una fonte del diritto, e si ritiene
che la sua interpretazione sia appannaggio della prassi e della scienza giuridica.
    Se ci poniamo nella prospettiva della meta-metodologia descrittiva e analiti-
ca, si possono distinguere due principali modelli prescrittivi concernenti
l’interpretazione del precedente: un modello misto (“modello soggettivo-
oggettivo” o, in considerazione della sua area di provenienza, “modello inglese”)
e un modello oggettivo (“modello sillogistico” o, in considerazione della sua area
di provenienza, “modello continentale”).
    Offrirò di seguito una succinta ricostruzione dei due modelli, presentando
ciascuno di essi, per quanto possibile, come una sequenza di direttive rivolte a un
ipotetico interprete di precedenti.

2.3.1. Il modello misto (“modello di Cross”)

    Il modello misto, o d’interpretazione soggettiva-oggettiva del precedente, co-
stituisce una riformulazione (spero perspicua) delle considerazioni in materia
d’identificazione della ratio decidendi formulate da Sir Rupert Cross, nella sua
disamina delle direttive metodologiche dei giudici inglesi (qualificate come “ru-
les of judicial practice”) e dei criteri dottrinali di Wambaugh e Goodhart31. Alla
luce di ciò, il modello misto, o modello inglese, potrebbe anche essere denomi-
nato “modello di Cross”.
    Schematicamente, il modello misto si articola nelle seguenti, principali, diret-
tive.

   (R1) Nozione di ratio decidendi. Per ratio decidendi si deve intendere la
norma di diritto che il giudice che ha pronunziato la sentenza-precedente ha rite-
nuto necessaria per la decisione del caso concreto (ratio decidendi soggettiva).

    (R2) Risorse ermeneutiche. Per identificare la ratio decidendi soggettiva oc-
corre tenere conto dei seguenti dati:
    (1) le parole usate dal giudice che ha deciso il caso;
    (2) i fatti rilevanti della causa (material facts), assumendo che il giudice ab-
bia inteso statuire una norma per essi adeguata, in quanto rappresentativi di clas-
si di casi individuali;
    (3) le pronunce antecedenti su casi simili, nella misura in cui possano gettare
luce sulla ratio decidendi soggettiva della sentenza oggetto d’interpretazione;
    (4) le pronunce successive su casi simili, nella misura in cui possano gettare
luce sulla ratio decidendi soggettiva della sentenza oggetto d’interpretazione,

31
     Cfr. R. Cross, Precedent in English Law, cit., pp. 42 ss.
92

costituendo esempi di identificazione di una tale ratio decidendi soggettiva da
parte di interpreti autorevoli.

    (R3) Default Rule. Se non è possibile identificare la ratio decidendi soggetti-
va – poiché (a) la pronuncia non è motivata; (b) la motivazione non è chiara; op-
pure (c) la (presunta) ratio decidendi soggettiva è stata oggetto di numerosi di-
stinguishing in pronunce successive – l’interprete deve identificare la ratio deci-
dendi con la norma generale che può essere ricavata combinando la norma indi-
viduale, che costituisce il dispositivo della sentenza (“order”), con i fatti rilevanti
della causa32.

     Il modello di Cross può apparire deludente a chi si attendesse l’articolazione
di un metodo rigoroso. Secondo Cross, tuttavia, questo metodo imperfetto è il
massimo che si possa ottenere, e rappresenta una realistica via mediana tra due
illusioni: da un lato, l’estremo illusorio di coloro che aspirano a “scoprire le for-
mule” che permettano di identificare con assoluta esattezza le rationes deciden-
di; dall’altro, l’estremo, altrettanto illusorio, di chi esalti la dimensione totalmen-
te irrazionale della pretesa ricerca delle rationes decidendi.

2.3.2. Il modello oggettivo (“modello di Wróblewski”)

    Il modello oggettivo – “modello sillogistico”, o “modello continentale” –
d’interpretazione del precedente si fonda sull’idea secondo cui il contenuto delle
sentenze giudiziali può essere ricostruito mediante uno o più sillogismi concate-
nati.
    Questo modo di vedere, come è noto, non è necessariamente compromesso
con concezioni “logicistiche” – “formalistiche”, “meccanicistiche”, ecc. – del
giudizio giurisdizionale.
    Al contrario, chi propugna, qui e ora, la ricostruzione sillogistica del contenu-
to delle sentenze ritiene che ciò sia particolarmente utile:
    (1) per identificare le premesse del ragionamento giudiziale;
    (2) per valutare se le conclusioni – le statuizioni individuali pronunziate dal
giudice – seguano logicamente da tali premesse;
    (3) per accertare se il giudice abbia, o no, addotto argomenti in favore delle
premesse del suo ragionamento; e, in caso affermativo,
    (4) per valutare se gli argomenti addotti soddisfino un qualche standard di

32
   «The derivation of a proposition of law from the facts of the case coupled with the or-
der made by the court after taking into account of those facts is an important feature of
discussions concerning the ratio decidendi. For this purpose the order of the court must be
treated as the conclusion of a syllogism of which the facts on which that order was based
constitute the minor premiss and the proposition alleged to be the ratio decidendi is the
major premiss» (R. Cross, Precedent in English Law, cit., p. 48; cfr. anche pp. 61 ss.).
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