Il Matrimonio nella Costituzione Italiana

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Il Matrimonio nella Costituzione Italiana

        Se l’ordinamento giuridico considera degni di una adeguata
regolamentazione gli ambiti di natura prettamente patrimoniale dei privati
cittadini, (si pensi al diritto di proprietà, al diritto delle successioni, o a tutta
la normativa in materia contrattuale), altrettanto rilevante è per il medesimo,
la sfera privata dei consociati, attinente ai rapporti tipicamente affettivi e
sociali.
        In virtù della diversità della materia trattata, però, il Legislatore
utilizza metodologie parzialmente diverse, sebbene tutte fondate sullo
strumento legislativo. Così, se in campo patrimoniale si ha il diritto al
risarcimento dei danni laddove sorga una responsabilità contrattuale o extra
contrattuale, negli ambiti affettivi e sociali, la regola generale, vista la
maggiore tangenza con la dimensione etica dell’individuo, rientra nel rispetto
del parametro generale della violazione di norme imperative di legge,
dell’ordine pubblico e del buon costume.

        Il luogo costituzionalmente privilegiato come “luogo degli affetti” per
l'espressione della personalità dei singoli, è la famiglia.
        Questo è un principio chiaramente espresso nell’art. 29 della
Costituzione che inaugura il Titolo II dedicato ai Rapporti etico-sociali. Esso
infatti afferma che “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come
società naturale fondata sul matrimonio.
        Con ciò si affermano i principi della naturalità della famiglia e della
legittimità della famiglia fondata sul rapporto di coniugio.
        La naturalità della famiglia porta con sè che essa viene riconosciuta
come un’associazione spontanea insita nella natura dell’uomo senza alcuna
costruzione sovraordinata.
        Prova ne sia che la famiglia non costituisce un soggetto terzo rispetto
ai coniugi e agli altri componenti, autonomo centro di imputazione di diritti e
doveri. Anche quando l’ordinamento giuridico riconosce l’impresa familiare
all’art. 230 bis del c.c., riconosce soltanto una disciplina minima ed
inderogabile di tutela di quei soggetti che prestano la loro attività lavorativa
in maniera stabile e continuativa all’interno dell’impresa in base ad un titolo
che è esclusivamente appunto il rapporto di familiare (e non dunque un
contratto di lavoro subordinato o la natura di socio).
        La famiglia è e rimane sempre un luogo di manifestazione della
personalità di singoli. Essa infatti viene individuata come luogo ideale per lo
sviluppo della persona umana che, in età adulta, si ritiene normale che
costituisca un rapporto affettivo stabile, duraturo e costruttivo con un’altra
persona.

        Ma qual è questa famiglia, luogo privilegiato di affetti? È quella fondata
sul matrimonio, come recita sempre il 1° comma dell’art. 29. è a questa
famiglia che l’ordinamento giuridico riconosce particolari diritti ed addirittura
il diritto all’esistenza medesima: non potrà mai essere sufficiente una
qualsiasi legge ordinaria a sopprimere o a de-classificare la famiglia così
individuata, ma solo una norma di natura costituzionale, essendo tale assetto
dei rapporti giuridici statuito proprio nella Costituzione.
Accanto a questa garanzia di sopravvivenza, alla famiglia poi sono
riconosciuti particolari diritti che si presentano come sussidi per garantire che
all’interno di questa società naturale, effettivamente si realizzi l’armonioso
sviluppo della personalità dei singoli.

        Alla legge ed, in generale, alla Repubblica, sono affidate tali funzioni di
sostegno laddove l’istituto della famiglia è messo in pericolo da contingenze
interne od esterne.
        Così, all’art. 30 Cost. se è previsto al 1° comma che “è dovere e diritto
dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del
matrimonio”, al 2° comma è affermato che “…nei casi di incapacità dei
genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti”.
        Ed ancora all’art. 31 Cost. è stabilito che “La Repubblica agevola con
misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e
l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie
numerose. 2° -Protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli
istituti necessari a tale scopo”.

       Anche di fronte al riconoscimento di diritti di soggetti terzi innocenti, il
Legislatore mantiene pur sempre la tutela suprema dell’istituto della famiglia
anche per garanzia di certezza sociale. Così “…la legge assicura ai figli nati
fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibili con i diritti dei
membri della famiglia legittima.- La legge detta le norme ed i limiti per la
ricerca della paternità” art. 30 Cost., commi 3°e 4°.

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       Anche l’istituto della famiglia nel concepimento legislativo ha tuttavia
subito radicali trasformazioni. Il diritto infatti è pur sempre una realtà
mutevole perché mutevole è la società a cui si applica e dalla quale deve
essere rispettato.
       Così l’altro grande principio, ed anzi il primo fra tutti, introdotto dalla
riforma del diritto di famiglia avvenuta nel 1975, assieme a tutti quelli in
vigore al giorno d’oggi, è quello affermato al 2° comma dell’art. 29 Cost.
dell’assoluta parità tra i coniugi: “Il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza
morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia
dell’unità familiare”.

        La famiglia dunque dal 1975, sulla spinta sociale verso il
riconoscimento del sempre più forte fenomeno dell’emancipazione femminile,
cessa di avere carattere patriarcale e così, dall’affermazione codicistica che
disponeva la qualifica di capofamiglia del marito e assoluta ed esclusiva
patria potestà, si passa ad affermare che “con il matrimonio il marito e la
moglie acquistano gli stessi diritti ed assumono i medesimi doveri”.
        Ne è disceso che al principio di parità corrisponde adesso la titolarità e
l'esercizio della potestà genitoriale (l’unica eccezione rimane quella prevista
all’art. 316 c.c. il quale prevede che il padre possa adottare provvedimenti
urgenti e indifferibili quando, in caso di contrasto nell'esercizio della potestà,
ricorre un incombente pericolo di grave pregiudizio per il figlio). Dalla parità
discende ancora che su entrambi i coniugi grava il dovere del mantenimento
della famiglia e dell’educazione dei figli; che l’indirizzo della vita familiare
viene concordato tra i coniugi, così come la residenza, che deve essere
stabilita nel rispetto delle esigenze di entrambi e delle preminenti esigenze
della famiglia.
       È importante notare come l’autonomia familiare in tutte queste
decisioni, è assolutamente garantita anche in caso di “difetto di
funzionamento”: è previsto infatti l’intervento del giudice solo in caso di
insuperabili contrasti purché si tratti di affari “essenziali”, ed i coniugi ne
abbiano fatto esplicita e congiunta richiesta.

       Il principio di uguaglianza si riverbera anche sui rapporti patrimoniali,
dove la regola diventa quella della comunione dei beni in mancanza di una
dichiarazione di segno contrario che valga a scegliere uno dei regimi
convenzionali previsti.

       L’introduzione della regola della parità tra i coniugi produce degli
importanti effetti anche nella fase patologica del matrimonio, con l’abolizione
dell’adulterio come fattispecie di reato, e con la modifica dei presupposti
della separazione personale. Oggi infatti, tale istituto non è più agganciato
alla necessaria presenza di fatti colpevoli, bensì su basi oggettive,
rappresentate da “fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della
convivenza o da recare grave pregiudizio all'educazione della prole”.
       Il cosiddetto “addebito della separazione” interviene oggi in via
occasionale ed esclusivamente su richiesta di parte, al fine di produrre quelle
conseguenze, in campo patrimoniale e successorio, di carattere
sanzionatorio.

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       Ma, la famiglia è l’unica unione affettivo-sentimentale che
l’ordinamento riconosce, o possono sussistere altre forme ugualmente
riconosciute meritevoli di tutela?
       La domanda, che è tipica dei tempi attuali, sorge sempre sulla base di
un fenomeno sociale ampiamente diffuso rappresentato dalle unioni di fatto.
Ossia unioni non basate sul rapporto di coniugio, o perché impossibilitate, o
per scelta volontaria.

        In via preliminare, è opportuno tenere distinte le due ipotesi.
        Infatti, due persone possono decidere di vivere una unione
esclusivamente di fatto, senza cioè volere che dalla stessa discendano
particolare obblighi o diritti e senza che ci sia un riconoscimento giuridico
ufficiale opponibile alla società ed ai terzi.
        In tal caso, non si pone il problema giuridico delle coppie di fatto, in
quanto prevale la volontà dei privati, che sono sempre liberi di compiere la
scelta di come vivere la propria vita.
        Il problema si pone invece per le fattispecie residuali, in costante
crescita. Ci si sta riferendo a tutti quei casi in cui la legge non riconosce
alcun diritto ad una coppia non legata da un rapporto di coniugio, a meno
che non contragga matrimonio, o addirittura, impedisca che si crei un’unione
valida dal punto di vista giuridico (unioni omosessuali).

       Elemento comune alle due fattispecie è che, essendo coppie di fatto,
non vengono mai ad esistenza nel mondo del diritto sicchè gli individui in
esse coinvolte rimangono sempre titolari di uno status civile di celibe o
nubile. Conseguenza di ciò è che nessun diritto, né di natura patrimoniale,
morale o successorio può essere riconosciuto al partner di fatto perché
appunto, per l’ordinamento giuridico, non esiste.

      Dunque il quesito è: si possono introdurre nuove forme di unione
diverse dalla famiglia nell’ordinamento giuridico italiano?

        D’altronde, facendo un parallelismo, mentre la riforma del diritto di
famiglia aveva la spinta dell’emancipazione della donna e richiedeva parità
tra i coniugi all’interno della famiglia, la spinta verso i PACS deriva oggi pur
sempre dal fenomeno sociale in crescita delle unioni di fatto.
        I PACS, letteralmente, Patti Civili di Solidarietà, consistono in un
riconoscimento delle unioni tra due soggetti non fondate sul matrimonio.
        Tale riconoscimento produce l’effetto di potere rivendicare nei
confronti dei terzi (ad es. la famiglia d’origine) diritti patrimoniali, il diritto
alla casa, diritti successori ma anche diritti più natura morale: si pensi al
diritto di visita in caso di malattia o al diritto a poter partecipare al funerale
in caso di morte.
        La realtà ha dimostrato come spesso, anche queste minime volontà,
comunemente riconosciute a chi vive una vita di coppia, sono negate a chi
vive o ha vissuto un rapporto di fatto, con l’avallo dell’ordinamento giuridico,
in quanto, in caso di contrasto, prevalgono sempre i diritti riconosciuti alle
famiglie legittime, ossia quelle unicamente fondate sul matrimonio come
espressione dell’art. 29 della Cost.

       Una lettura testuale delle norme costituzionali non lo escluderebbe.
       Infatti, nell’art. 29 della Cost. vengono esclusivamente riconosciute
particolari tutele agli individui che decidono di creare una famiglia, con ciò
individuando     nella    famiglia,  come    detto,   “un    luogo   di    affetti
costituzionalmente privilegiato per l'espressione della personalità dei singoli”.
       Non vengono posti limiti in maniera esplicita, dall’art. 29 che infatti,
non usa espressioni negative.

       D’altra parte, a sostegno di tale inserimento giocherebbero, secondo le
argomentazioni riportate nei disegni di legge presentati in Parlamento, altri
due importanti principi costituzionali: il principio dell’eguaglianza tra tutti i
cittadini di fronte alla legge dettato all’art. 3 Cost.: “Tutti i cittadini hanno
pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di
sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni
personali e sociali. 2- È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di
ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza
dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva
partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e
sociale del Paese”, ed il principio affermato all’art. 2 che afferma la pari
dignità sociale: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua
personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà
politica, economica e sociale”.

       Anche in seno al dibattito parlamentare tuttavia, è stato riconosciuto
che gli articoli della Cost. devono essere interpretati alla luce dell'evoluzione
dell'ordinamento italiano e delle pronunce della Corte costituzionale.
Ora, in base a tale interpretazione, l’art. 29 Cost., che riconosce i
diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, come un
qualcosa che esclude qualsiasi altro riconoscimento, ha una dimensione
autoritaria che nessun giurista - fermo restando che il legislatore ha una
autonomia superiore, è sovrano rispetto al giurista che è un mero esecutore
- può disconoscere (così Amedeo Santosuosso in Commissione Giustizia -
seduta del 13 ottobre 2005)
        Ciò rappresenterebbe tuttavia un’intrusione nella vita privata delle
persone che andrebbe a limitare aspetti personalissimi della personalità.
        E come atto profondamente illiberale nei confronti di questi aspetti
personalissimi, entrerebbe sicuramente in contrasto con gli articoli sopra
menzionati. In particolare, si lederebbe non tanto il principio di uguaglianza,
in base al quale è giusto che a situazioni differenti conseguano effetti
giuridici non uguali, quanto il principio di non discriminazione che richiede
che vengano assegnate le stesse possibilità, anche relative all’onore ed alla
realizzazione personale, indistintamente a tutti gli individui.

       La questione inoltre, è resa ancora più incandescente in Italia dal fatto
che alcuni Paesi stranieri hanno già introdotto nel loro ordinamento i PACS ed
addirittura il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
       Inoltre, è abbastanza noto che all'interno dell'Unione Europea devono
essere riconosciuti i diritti di libera circolazione e i diritti riconosciuti nei paesi
di origine, sempre che non si ledano norme imperative di legge, ordine
pubblico e buon costume.
       Se tale riconoscimento dovesse avvenire anche a livello europeo poi,
da un punto di vista giuridico, funziona un meccanismo di sicurezza per cui lo
strumento sovra-nazionale prevale nel caso aggiunga qualcosa. Se invece
quello sovra-nazionale introduce delle limitazioni dei diritti, prevale quello
nazionale.
       Quindi il Parlamento italiano si troverebbe a dover riconoscere status
che hanno già trovato la propria legittimazione in Europa.
       Tali argomentazioni, tutte improntate ad una più fluida gestione della
società, anche mitteleuropea, giocano a sostegno dell’introduzione dei PACS.

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       Ciò premesso tuttavia, se i principi ispiratori devono essere quelli di
eguaglianza e di non discriminazione, non penso si possa ritenere pacifico
che l’introduzione dei PACS in Italia sia legittima né che rappresenti la
soluzione ottimale a problemi.
       E ciò per più ordini di ragioni.

        Innanzitutto, non è ravvisabile la necessità di introdurre nuove forme
di unione per le coppie di sesso diverso, laddove l’ordinamento stesso ha già
predisposto un luogo ideale ove sviluppare appieno la personalità del singolo
in una dimensione sociale, ossia all’interno della famiglia (art. 29 Cost.),
apprestando per esso una tutela onnicomprensiva, estesa anche ai frutti di
essa, ossia i figli.
        D’altra parte, se non si vuole che da un’unione discendano effetti
giuridici, bensì si vuole che essa rimanga regolata dalla assoluta libertà, è
sufficiente non ufficializzare tale unione con un rapporto di coniugio, e
rimanere membri di una unione di fatto.
        Anche questa scelta tuttavia esige senso di responsabilità
nell’accettare le relative conseguenze, che sono di non regolamentazione.
       Non vi è motivo dunque per cui coppie “miste” dovrebbero ritenersi
esenti dall’adottare la forma giuridica prescelta dal Legislatore per la loro
legalizzazione nel mondo del diritto. E così non si ritiene legittima, ma
semplicemente suggerita dalla mancanza di chiarezza nelle proprie scelte
volte a realizzare la propria personalità, l’esigenza che si vuole esistente e
realizzabile solo con l’introduzione dei Patti Sociali di Solidarietà, di più
blande e moderne forme di unioni legalizzate.
       Inoltre in questa ipotesi non pare si possa evincere un problema di
rispetto del principio di eguaglianza o di non discriminazione e pari dignità
sociale.
       Le diverse conseguenze giuridiche discendono infatti dalle scelte
operate di volta in volta dai consociati, i quali sono liberi di accedere alle
forme giuridiche esistenti.

        Il problema invece resta aperto per i soggetti per i quali non è
ammesso il matrimonio, ossia tutte le coppie omosessuali, posto che lo
stesso consiste nell’unione nel rapporto di coniugio di un uomo ed una
donna.
        Per tali soggetti, permane un’esigenza di tutela personale, che
presenta tuttavia forti ricadute anche dal punto di vista sociale, sotto il
profilo della garanzia dei rapporti sociali, economici e giuridici.
        Questa esigenza tuttavia, non pare possa legittimare in alcun caso la
loro equiparazione alla famiglia fondata sul matrimonio.
        Pur riconoscendo infatti la laicità e la democraticità del nostro
ordinamento giuridico, un dato di fatto è assolutamente inopinabile e, per
qualche aspetto, ragione dell’esistenza stessa dell’art. 29 della Costituzione
che garantisce la massima tutela, come ad un qualcosa di sacro, alla famiglia
fondata sul matrimonio: l’unione tra un uomo ed una donna infatti è l’unica
naturalmente capace di generare altri uomini e garantire dunque l’esistenza
stessa dell’umanità.
        Questo grande dono assegnato in via esclusiva solo all’unione di un
uomo con una donna, ben giustifica la predisposizione di un istituto specifico
ed allo stesso tempo tipizzante, quale è la famiglia fondata sul matrimonio,
che viene così giustamente parallelamente dotata dall’ordinamento di quella
particolare ed unica tutela che la contraddistingue.
        È per questo motivo che deve essere condiviso l’orientamento
giurisprudenziale prevalente che non ammette l’applicazione in via analogica
dell’art. 29 della Costituzione. Ed è sempre per questa ragione che
l’impossibilità di paragonare le coppie di fatto omosessuali alla famiglia
fondata sul matrimonio non potrà mai assurgere a motivo di discriminazione
od occasione di violazione del principio di uguaglianza.
        Una disamina circa il rispetto o meno di quest’ultimo infatti,
richiederebbe una comparazione tra fattispecie diverse condotta alla luce del
criterio della ragionevolezza, al fine di chiedersi se sia ragionevole che una
determinata disposizione trovi applicazione in un caso piuttosto che in un
altro. Tuttavia, il presupposto stesso per condurre una comparazione di
questo genere, alla luce anche degli orientamenti della Corte Costituzionale,
necessita che i due termini del paragone presentino la medesima esigenza di
tutela, o in altre parole la stessa ratio, sottesa alla disposizione normativa da
applicare. È evidente pertanto, come, alla luce delle precedenti
considerazioni, nell’impossibilità di rinvenire le stesse esigenze di tutela tra
famiglia fondata sul matrimonio e coppie di fatto omosessuali, ben può
verificarsi che una specifica disposizione normativa trovi applicazione
soltanto nel primo caso e non nel secondo, senza che ciò possa assurgere a
violazione del principio di eguaglianza, mancando per l’appunto l’identità di
ratio nei due casi.

        La tutela dei diritti di queste nuove coppie va dunque ricercata
attraverso altri strumenti legali.
        Se allo stato attuale è possibile ricorrere allo strumento negoziale, è
ben noto come questo perda validità in particolari e rilevanti settori come
quello successorio, in cui, anche in presenza di disposizioni testamentarie,
l’ordinamento appresta una forte tutela in favore degli eredi legittimari.
        Ma è altrettanto vero e degno di rilievo in questa sede come la legge
abbia riconosciuto di volta in volta, in presenza di particolari circostanze,
efficacia alla convivenza more uxorio, sebbene pur sempre richiedendo la
stabilità della convivenza.
        Il legislatore dunque potrebbe tutelare questi soggetti ampliando la
sfera dei diritti soggettivi, come è stato suggerito recentemente nell’ambito
dell’acceso dibattito politico.

       D’altronde i PACS non sarebbero idonei ad apprestare la tutela che da
più parti si vorrebbe, posto che da essi non discenderebbe una modifica dello
status di stato civile, rimanendo pur sempre degli strumenti di natura
contrattuale e come tali, aventi efficacia nei confronti delle parti, i loro eredi
e gli aventi causa, laddove invece in caso di matrimonio il riconoscimento
dell’unione con la legge, determina particolari effetti di stato civile ossia una
modifica dello status, con valore di certificazione di atto pubblico.

       Tra i diritti soggettivi dunque, potrebbe essere riconosciuto il diritto di
assistenza sia morale che economica, o il diritto al mantenimento; ma tutto
questo pur sempre, solo dopo avere accertato la stabilità dell’unione, posto
che se così non fosse si discriminerebbero le coppie di fatto tra uomini e
donne oggi riconosciute in qualche sentenza della Corte di Cassazione sulla
base della “rilevanza e della diffusione del fenomeno in ambito sociale”,
purchè legate da vincoli duraturi.
       Tuttavia, per le ragioni sopra esposte, credo sia abbastanza pacifico,
per tutte le parti coinvolte nel dibattito attuale, che a tali unioni non possa
essere riconosciuto un diritto alle adozioni, posto che si stravolgerebbe un
ordine naturale che vede la procreazione strettamente connessa all’unione
sessuale di un uomo ed una donna. Sembra infatti molto pericoloso per le
ricadute in termini psicologici imporre un modello innaturale a dei soggetti,
quali i minori, ancora non formati nella loro personalità e privi, dal punto di
vista giuridico, di quella maturità che poi è il presupposto, anche se
presunto, della capacità di agire.

      L’ampliamento della sfera dei diritti soggettivi realizzerebbe non solo
una valida tutela personale ma, allo stesso tempo, garantirebbe
maggiormente la certezza dei rapporti sociali, giuridici ed economici.
      Da questo punto di vista tuttavia vi è da fare qualche breve
osservazione. Se i PACS sono volti a dare tutela giuridica alle coppie
omosessuali (avendo noi escluso tutte le altre ipotesi), che pretendono oggi il
riconoscimento, non si capisce perché allo stesso tempo, le medesime,
debbano essere create e gestite nell’ottica della massima flessibilità, come è
dato evincere dalla analisi dei disegni di legge: sia per la creazione che per lo
scioglimento, è sufficiente infatti una semplice dichiarazione unilaterale
all’ufficiale di stato civile.
        Questi meccanismi, più che creare ordine sociale, sarebbero addirittura
idonei a determinare maggiore confusione ed instabilità, anche a fronte delle
più responsabili e riflessive procedure previste per il matrimonio (si pensi alle
pubblicazioni matrimoniali o al necessario periodo di separazione per poter
ottenere il divorzio ossia il definitivo scioglimento del vincolo giuridico di
coniugio), maggiormente percepibili da un punto di vista sociale.

       Ciò posto, una modifica legislativa, nella piena attuazione degli art. 2 e
3 della Costituzione, che ben venga!
       Ma dovrebbe essere in grado di valutare tutti gli aspetti del problema e
non soddisfare esclusivamente esigenze contingenti senza guardare alla
complessità delle problematiche. Il legislatore ha già degli strumenti a
disposizione per garantire tutela a tutti i consociati e realizzare anche da un
punto di vista normativo una vera Unione Europea dotata di un diritto
uniforme: che utilizzi dunque lo strumento dei diritti soggettivi.
       I tanto dibattuti PACS, inidonei nella loro attuale ma sempre mutevole
individuazione contenutistica, sono forse l’occasione per una minoranza
sociale di rivendicare, in un momento di contestazione, un riconoscimento di
qualcosa che non collima, né in primo luogo con l’ordinamento giuridico, e
neanche in secondo luogo con il comune sentire, ossia con il diritto vivente.

       La legge dunque ben continui a svolgere quella funzione garantista che
tradizionalmente ha caratterizzato lo Stato italiano, e che ne dimostra ancora
una volta il rispetto per l’uomo.
       Che non si parli di oscurantismo però quando, a fronte delle illimitate
possibilità di essere e di sviluppo dell’uomo, interviene l’etica a far si che si
ricordi e si tuteli ancora per un giorno l’origine dell’umanità stessa.
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