Il linguaggio nei processi di violenza di genere: il potere delle parole

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Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752
                                               Direttore responsabile: Antonio Zama

Il linguaggio nei processi di violenza di genere: il potere
                        delle parole
                                                  03 Dicembre 2021
                                                   Maria Dell'Anno

Questo articolo è l’elaborazione scritta dell’intervento svolto all’omonimo seminario organizzato dal CPO
dell’Ordine degli avvocati di Ferrara il 23 novembre 2021.

Premessa
Laura Terragni ha affermato che “il modo in cui una società reagisce alla violenza nei confronti delle
donne rappresenta uno specchio per comprendere il modo in cui essa intende le relazioni tra uomini e
donne, i loro comportamenti, il loro modo di interagire” [1].
In tutte le campagne di sensibilizzazione sul tema della violenza di genere le donne vengono invitate a
denunciare il proprio partner violento: si chiede alle donne questo sforzo enorme in un momento in cui
sono prostrate dalla sofferenza. Poche ci riescono, qualcuna più che in passato ma sempre poche. Ma quelle
poche che riescono a denunciare l’uomo che le ha maltrattate, cosa ricevono poi in cambio dallo Stato che
ha promesso di proteggerle? La donna maltrattata dovrebbe poter vedere nella giustizia – penale e
civile – un porto sicuro a cui approdare senza timore di non essere creduta o di essere colpevolizzata.
Il punto quindi, su cui è necessario riflettere, è l’adeguatezza della risposta del sistema nei confronti
delle vittime, misurata non sul piano della gravità della sanzione comminata all’autore della
violenza, bensì sotto il profilo della capacità del sistema giuridico e della magistratura di cogliere il
disvalore del fenomeno e di trasmettere in modo chiaro la disapprovazione dell’ordinamento nel
momento della sua applicazione concreta, al fine di evitare la vittimizzazione secondaria della donna
[2]. Solo una volta accertata questa capacità diventa logico interrogarsi su quale sia la sanzione più
appropriata.

Il ruolo della letteratura in tema di violenza maschile contro le
donne
La scrittrice Clarice Lispector sosteneva che “Scrivere è cercare di capire, è cercare di riprodurre
l'irriproducibile, è sentire fino all'ultima estremità la sensazione che altrimenti rimarrebbe vaga e
soffocante”. La letteratura ha, infatti, il potere di raccontare e denunciare la realtà. In due dei miei libri mi
sono, in particolare, interrogata da un lato sulla risposta che il sistema giudiziario dà alle donne vittime di
violenza di genere, e dall’altro sul linguaggio che la società tutta utilizza per parlare di questo fenomeno.
Con il mio romanzo Troppo giusto quindi sbagliato[3] ho voluto raccontare il rapporto tra violenza
maschile e sistema giudiziario, tra violenza maschile e società. Si tratta di un romanzo giudiziario, un legal-
thriller, in cui è imputata una donna accusata di aver ucciso suo marito, ma lei sostiene di averlo ucciso
solo per legittima difesa per difendersi da una sua aggressione, poiché lui la maltrattava da anni, durante
tutto il loro matrimonio. La voce narrante è quella dell’avvocata di questa donna – Vittoria Ferri – ed è
attraverso i suoi occhi che chi legge può percepire e quindi riflettere sulle ambiguità sociali e giudiziarie
con cui conviviamo. In un passaggio della sua difesa Vittoria afferma: «È questo il vero problema, signori
giudici: Linda Giraudo è viva. Se Linda Giraudo fosse morta, uccisa di botte da suo marito, sarebbe
l’ennesima vittima di un infinito elenco di vittime di femminicidio, parola che ancora fatica a essere
digerita in Italia. Perché il pregiudizio sociale vuole che siano rispettati alcuni criteri fondamentali: se la
donna muore è una vittima, se sopravvive è lei la colpevole.» Parleremo più avanti del concetto di “vittima
perfetta”, ma si evidenziano fin d’ora le ambiguità, le carenze culturali che il nostro sistema giudiziario ha
nei confronti della violenza maschile contro le donne.
Partendo perciò dal presupposto che la violenza di genere sia un problema culturale, che quindi deve
trovare la propria soluzione nella cultura e non solo nella legge, nel mio saggio Parole e pregiudizi [4]
ho voluto analizzare il linguaggio che i quotidiani italiani scelgono di utilizzare nel riportare in cronaca i
casi di femminicidio, al fine di verificare se la narrazione che viene restituita a chi legge è coerente o no
con gli obiettivi di prevenzione della violenza e di ogni forma di discriminazione imposti in primo luogo
dalla Convenzione di Istanbul. La prevenzione della violenza parte infatti proprio dalla cultura,
dall’esigenza di un profondo rinnovamento culturale che renda effettiva la pari dignità delle donne
all’interno della società. E quindi l’uso corretto e consapevole della lingua, delle parole, è uno dei primi
indispensabili passi per costruire una società nuova, più libera e rispettosa di tutte le sue componenti.
Analizzando gli articoli apparsi sui più diffusi quotidiani italiani nell’arco di un anno - tra aprile 2019 e
aprile 2020 – Parole e pregiudizi verifica come la stampa italiana, nel riportare i casi di femminicidio,
tenda a fornire al lettore un frame interpretativo che deresponsabilizza l’azione violenta dell’uomo,
rappresentando per lo più il fatto come un delitto d’impeto, determinato da un discontrollo episodico, e
causato spesso da un comportamento della donna che ha deluso le amorose aspettative del partner, con la
conseguenza di isolare ciascun evento dall’altro senza coglierne la comune matrice culturale. I media – così
come le sentenze dei tribunali - hanno un ruolo strategico nel progresso delle pari opportunità, possono
ostacolare oppure favorire una rappresentazione della realtà stereotipata e discriminatoria. È quindi
importante interrogarci non solo su cosa viene detto, ma anche e soprattutto su come viene detto; e anche
su quanto non viene esplicitamente detto bensì implicato.
Un problema cruciale del femminicidio è il fatto che la retorica dell’emergenza si rifiuti ancora di
considerarlo un fenomeno strutturale socio-culturale, e non solo una delle tante forme di devianza
criminale. Emblematico in questo senso è un passaggio scritto sull’uccisione di Rosalia Mifsud:
“Oggi quella casa, acquistata con sacrifici da Rosy circa tre anni fa, è il simbolo di un orrore che ha
sconvolto l’intera comunità di Mussomeli, dai vigili urbani fino ai frequentatori del bar, intimoriti dalle
telecamere, con l’orecchio alla televisione per sentire il racconto di quanto accaduto. «Chissà cosa gli è
passato per la testa» dicono i passanti, desiderosi che tutto ritorni alla tranquillità, mentre si avviano a
tornare a casa per il pranzo dopo aver assistito alle fasi dei rilievi e alle operazioni dei carabinieri. Loro
vogliono cancellare quella pagina di sangue dalla loro cittadina e vivere ancora in quel posto tranquillo,
lontano da telecamere e televisioni.” (Repubblica, 1/02/2020)
Queste poche righe sembrano proprio riassumere il sentimento popolare esistente nei confronti della
violenza maschile contro le donne: è stato un momento di pazzia che, tutto sommato, non ci riguarda;
possiamo continuare a vivere come abbiamo sempre fatto. Ma è proprio continuando a vivere come
abbiamo sempre fatto che noi donne continuiamo a morire!
Per risolvere un problema è evidente che bisogna prima riconoscere che c’è n’è uno. E per far questo gli
unici strumenti a nostra disposizione sono una nuova formazione dei professionisti e delle professioniste e
una nuova educazione di tutte e tutti. Partendo quindi dalle parole, e consci del loro potere di
rappresentazione e costruzione della realtà, vediamo in che modo i tribunali italiani parlano di violenza di
genere. Propongo qui due ambiti di riflessione: il primo sulla violenza sessuale, il secondo sul
femminicidio [5].

La sentenza della Corte EDU nel caso J.L. contro Italia del 27
maggio 2021
La Corte EDU, nel caso J.L. contro Italia – nel maggio di quest’anno – ha condannato l’Italia perché la
Corte d’appello di Firenze nel giudicare una violenza sessuale di gruppo nei confronti di una donna
ventiduenne ha riprodotto stereotipi sessisti e veicolato “pregiudizi sul ruolo della donna che esistono
nella società italiana e sono suscettibili di impedire l’effettiva protezione dei diritti delle vittime di
violenza di genere nonostante un quadro legislativo soddisfacente” [6]. I pregiudizi hanno la perversa
caratteristica di essere invisibili, perché automatici e interiorizzati, e il devastante effetto di perpetuare
l’impunità degli uomini autori di violenza e la colpevolizzazione delle donne che denunciano. Se i
pregiudizi sono posti alla base delle sentenze ciò determina che in nome del popolo italiano venga
ufficializzata e mantenuta quella disuguaglianza di fatto che è causa stessa della violenza maschile.
Perché, scrive la Corte, “la redazione della sentenza costituisce una parte integrante [del procedimento
penale] della massima importanza, soprattutto in considerazione del suo carattere pubblico” [7].
Cosa ha scritto, quindi, la Corte d’appello di Firenze che ha determinato la condanna dell’Italia? La Corte,
allo scopo di valutare la credibilità della persona offesa, accusatrice degli imputati, scrive che ella “
liberamente aveva scelto di passare una serata di festa insieme a soggetti che già conosceva, con due
avendo già fatto sesso occasionale in precedenza, lasciando peraltro il fidanzato a casa che non stava bene
”; la descrive come “un soggetto femminile fragile, ma al tempo stesso creativo, disinibito, in grado di
gestire la propria (bi)sessualità, di avere rapporti fisici occasionali, di cui nel contempo non era convinta
”; definisce il clima della serata “goliardico”, “godereccio” e rappresenta più volte gli “atteggiamenti
particolarmente disinvolti e provocatori della [persona offesa], che aveva ballato strusciandosi con alcuni
di loro ed aveva mostrato gli slip rossi mentre cavalcava sul toro meccanico”; attribuisce la denuncia alla “
volontà della [persona offesa] di stigmatizzare quella iniziativa di gruppo comunque non ostacolata […]
evidentemente per rispondere a quel discutibile momento di debolezza e di fragilità che una vita non
lineare come la sua avrebbe voluto censurare e rimuovere”. Tutti questi passaggi della sentenza vengono
definiti dalla Corte EDU “deplorevoli e irrilevanti” [8]. È necessario notare che le parole hanno un peso, e
che la Corte europea sceglie di utilizzare due parole molto pesanti: “deplorevoli e irrilevanti”. La Corte
d’appello descrive infine quanto accaduto come un “rapporto di gruppo che alla fine nel suo squallore non
aveva soddisfatto nessuno, nemmeno coloro che nell’impresa si erano cimentati”, […] una “incresciosa
storia, non encomiabile per nessuno” ma “un fatto penalmente non censurabile” [9].
Le parole che utilizziamo rappresentano il modo in cui interpretiamo la realtà. Chi utilizza le parole per
lavoro – che siano giudici o giornalisti – ha il potere di veicolare in chi legge quella rappresentazione, che
peraltro risente dell’autorevolezza della fonte da cui proviene. Chi siamo noi poveri cittadini qualunque per
mettere in discussione ciò che un autorevole quotidiano o un tribunale della Repubblica attesta come vero?
Scrive, infatti, la Corte EDU: “La Corte è convinta che l'azione penale e la punizione abbiano un ruolo
cruciale nella risposta istituzionale alla violenza di genere e nella lotta alla disuguaglianza di genere.
È quindi essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi di genere nelle decisioni
dei tribunali, minimizzando la violenza di genere ed esponendo le donne a una vittimizzazione
secondaria, utilizzando un linguaggio colpevolizzante e moraleggiante che scoraggia la fiducia delle
vittime nel sistema giudiziario”. [10]
Questa ragazza ha denunciato quanto accadutole nel 2008. Ha dovuto ripetere più volte il suo drammatico
racconto davanti alla Polizia e alla Procura. Due udienze pubbliche (su diciotto) del processo di primo
grado sono state dedicate alla sua escussione, in cui otto avvocati difensori dei sei imputati le hanno rivolto
domande relative alla sua situazione familiare e affettiva e sulle sue esperienze sessuali, più volte dichiarate
inammissibili dal giudice; più volte il giudice ha dovuto interrompere l’udienza per dar modo alla donna di
riprendersi dalle sue emozioni. In primo grado, nel 2013, il tribunale ha condannato gli imputati per
violenza sessuale di gruppo abusando delle di lei condizioni di inferiorità fisica e psicologica, e li ha invece
assolti dall’aver commesso lo stesso reato mediante violenza o minaccia. La Corte d’appello di Firenze, nel
2015, ha poi assolto tutti gli imputati perché il fatto non sussiste, ritenendo non credibile la ricostruzione
fornita dalla persona offesa. A seguito di tale assoluzione, la persona offesa ha inviato al pubblico
ministero una memoria in cui chiedeva di presentare ricorso per cassazione. La Procura non ha presentato
ricorso, lasciando quindi passare in giudicato l’assoluzione. Sempre nel 2015 è stata presentata alla
Presidenza del Consiglio dei Ministri e al Ministro della Giustizia un’interrogazione parlamentare sulle
motivazioni della sentenza e sulla loro compatibilità con la normativa nazionale e sovranazionale in
materia di tutela delle vittime di reato e di contrasto alla violenza di genere: non è stata esaminata. Nel
2016 la persona offesa ha presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la cui sentenza giunge
nel 2021. Tredici anni dopo i fatti.
Tredici anni ci sono voluti per giungere ad una sentenza che dichiara la violazione da parte dello Stato
italiano delle norme sulla tutela delle vittime di reato, e che nulla ovviamente cambia nei confronti degli
imputati assolti.
Questa donna descrive l’intera procedura processuale come “lunga e dolorosa”. Già questa valutazione,
prima di ogni altra, descrive il fallimento dello Stato nei confronti di una donna che ha denunciato una
violenza. Come peraltro nei confronti di qualunque persona abbia denunciato qualunque violazione dei
propri diritti.
Scriveva Alba De Céspedes nel romanzo Dalla parte di lei: “Non ero mai riuscita a parlare fin dalla
prima volta in cui il giudice mi aveva interrogato, aspro, ostile, dettando poi freddamente al cancelliere.
Mi avevano condotto in una stanzetta grigia nel palazzo di giustizia […] avevo incominciato a parlare
con spontanea confidenza. Ma il giudice, subito, alla mia sincerità aveva opposto un incredulo
sarcasmo, come faceva mio padre. Era già tanto difficile esprimere in poche parole ciò che mi aveva
spinto ad agire così: e, soprattutto, citare i fatti concreti. Mia madre usava dire che le donne sono
sempre in torto di fronte ai fatti concreti. Sentivo che quell’uomo sarebbe stato sordo alle mie ragioni,
come certo lo era a quelle delle donne di casa sua. Perciò, da allora, ho preferito tacere sempre,
accettando intera la mia colpevolezza.” [11]

Pregiudizi inconsapevoli
Questione essenziale nei processi per maltrattamenti e violenze legate al genere è la credibilità della
persona offesa. Leggo in una sentenza penale: “Interrogata in ordine alle ragioni del proprio silenzio la
parte civile ha evidenziato di avere, in un primo tempo, pensato di essere lei stessa la causa dei malumori
del marito, e di avere compreso, solo in un secondo momento, che l’uomo era violento per sua natura” [12]
. Ciò che dovrebbe colpire è che sono esclusivamente le donne vittime ad essere interrogate sulle ragioni
del loro lungo silenzio; gli uomini imputati, essendo legittimati a tacere e mentire, non vengono interrogati
sui motivi della loro lunga violenza. Purtroppo c’è sempre qualcosa che non va nel nostro comportamento:
se denunciamo troppo presto non siamo in grado di sopportare un po’ di difficoltà in nome del bene della
famiglia, se non denunciamo o denunciamo troppo tardi allora la situazione non era poi così drammatica. I
tribunali sono quotidianamente alla ricerca della vittima perfetta che, in quanto tale, non esiste. La violenza
di genere colpisce qualunque tipologia di donna, in qualunque contesto socio-culturale e in qualsiasi angolo
del mondo, per cui è impossibile avere una vittima perfetta che risponda ad un numero chiuso di requisiti
predefiniti. Purtroppo la conseguenza della non-esistenza della vittima perfetta non è, a quanto pare, la
consapevolezza di dover ridefinire i propri preconcetti sui ruoli di uomini e donne, bensì il credere che la
donna che denuncia una violenza menta. L’effetto di tale colpevolizzazione inconscia è “quello di porre al
centro dell’accertamento giudiziario non cosa è accaduto, ma cosa è convincente che sia accaduto per
assecondare il soggettivo punto di vista del giudice” [13].
Quando il processo si basa sulla parola dell’una contro quella dell’altro, il giudice e la giudice deve
decidere a chi dei due credere, ed è in quel frangente che i pregiudizi così profondamente ed
inconsapevolmente radicati in tutti e tutte noi entrano in gioco. Ovviamente, come persone istruite,
crediamo di essere immuni dai pregiudizi, ma sbagliamo: è la giudice Paola Di Nicola Travaglini a
ricordarci che “il pregiudizio contro le donne ha la prerogativa di appartenere all’intera umanità, che si
ritrova ogni giorno a condividere, al di là dei confini di spazio e tempo, un’identica impari struttura di
relazione tra uomini e donne fondata su di esso” [14]. E questo vale per tutti, anche per i giudici e le
giudici. “C’è una sola differenza: quella tra chi ne è consapevole e tenta, con razionalità e studio, di
distaccarsene e chi ritiene di essere aprioristicamente imparziale per la sola circostanza di essere
magistrato/a” [15].
Al tal riguardo il Comitato CEDAW, nel suo settimo rapporto sull’Italia pubblicato nel 2017, “
nota con preoccupazione:
(a) I radicati stereotipi relativi a ruoli e responsabilità di donne e uomini nella famiglia e nella società,
che perpetuano i ruoli tradizionali delle donne come madri e casalinghe, minacciando lo status sociale
delle donne e le loro possibilità di istruzione e carriera;
(b) Le limitate misure adottate per eliminare gli stereotipi nel sistema di istruzione, compresi i testi ed i
curricula scolastici;
(c) La crescente influenza delle organizzazioni maschili nei media, rappresentando stereotipi delle donne
negativi” [16].
Similmente il Gruppo di esperti del Consiglio d’Europa sulla lotta alla violenza contro le donne e la
violenza domestica (GREVIO), nel suo rapporto sull’Italia del 2020, scrive: “Pur riconoscendo i progressi
fatti nella promozione dell'uguaglianza di genere e dei diritti delle donne, il rapporto rileva che la causa
dell'uguaglianza di genere incontra resistenze in Italia. Il GREVIO esprime la sua preoccupazione per i
segni emergenti di una tendenza a reinterpretare e riorientare le politiche di uguaglianza di genere in
termini di politiche familiari e di maternità. Per superare queste sfide, GREVIO ritiene essenziale che le
autorità continuino a progettare e ad attuare efficacemente politiche di uguaglianza di genere e di
empowerment delle donne che riconoscano chiaramente la natura strutturale della violenza contro le
donne come manifestazione di relazioni di potere storicamente ineguali tra donne e uomini” [17].
Ebbene chi occupa il ruolo di giudice o avvocato non vive in un mondo diverso da quello descritto da
questi rapporti, vive in questo stesso mondo e perciò è intriso/a della stessa cultura che non lo/la dota di
quegli strumenti concettuali e interpretativi indispensabili per riconoscere la violenza maschile contro le
donne, che non si imparano nei manuali di giurisprudenza. È così che, in nome del libero convincimento
del giudice, si protrae un contesto culturale discriminatorio nei confronti delle donne.

Femminicidio: un reato che non esiste
Anche quando siamo morte i tribunali continuano ad interrogarsi sulla bontà del nostro comportamento e
su quanto possa essere stato questo a determinare l’azione omicida del nostro compagno o ex.
Naturalmente dobbiamo partire dal presupposto che in Italia il reato di femminicidio non esiste; esiste
l’omicidio aggravato dalla relazione intrattenuta con la vittima. Quando Massimo Sebastiani – l’uomo
definito “gigante buono” e “innamorato” dalla stampa – è stato condannato (a 20 anni di reclusione) per
aver ucciso Elisa Pomarelli, la stampa ha commentato che la sentenza non l’aveva riconosciuto come
femminicidio: ciò costituisce da un lato ignoranza e dall’altro cattiva informazione, perché nessuna Corte
poteva e può condannare Massimo Sebastiani per femminicidio; in questo caso l’affermazione si riferiva al
fatto che non avendo Sebastiani una relazione sentimentale con Elisa Pomarelli non gli è stata riconosciuta
– correttamente, è chiaro – la corrispondente aggravante. Ma l’uccisione di Elisa Pomarelli è un
femminicidio proprio perché Sebastiani l’ha uccisa per il suo “no”, per il suo rifiuto, perché Elisa non ha
accondisceso alle sue richieste [18].
Propongo un paio di esempi – ma tanti se ne possono fare – per analizzare il linguaggio che viene utilizzato
dai tribunali per descrivere la nostra morte e le sue cause.
La Corte d’Assise d’appello di Bologna, nel novembre 2018 - con una sentenza che ha determinato un
certo scalpore mediatico - ha riconosciuto le attenuanti generiche all’imputato condannato per l’omicidio
della sua fidanzata, motivando in questo modo: “Sebbene quel sentimento [la gelosia N.d.A.]
fosse certamente immotivato e inidoneo a inficiare la capacità di autodeterminazione dell’imputato,
tuttavia esso determinò in lui, a causa delle sue poco felici esperienze di vita, quella che efficacemente il
perito descrisse come ‘una soverchiante tempesta emotiva e passionale’, che in effetti si manifestò subito
dopo anche col teatrale tentativo di suicidio: si tratta di una condizione che appare idonea a influire sulla
misura della responsabilità penale” [19].
Similmente il GUP di Genova, nel dicembre dello stesso anno, dopo aver descritto la relazione tra i coniugi
come “tormentata”, evidenziato i tradimenti della moglie e il di lei “atteggiamento ambiguo”, ha
riconosciuto le attenuanti generiche all’imputato ritenendo che egli “non ha agito sotto la spinta di un moto
di gelosia fine a sé stesso, per l’incapacità di accettare che la moglie potesse preferirgli un altro uomo, ma
come reazione al comportamento della donna, del tutto incoerente e contraddittorio, che l’ha illuso e
disilluso nello stesso tempo, l’ha indotto a uscire dal volontario isolamento in cui si era ritirato proprio
per lasciare spazio alle sue scelte, con la promessa di un futuro insieme, ma tutto questo invano” [20].
Da questo genere di sentenze emergono due problemi. Il primo problema è che attribuire valore
attenuante alla “tempesta emotiva” significa attribuirlo proprio all’origine del problema, in qualche
modo legittimandolo, perché è proprio quella spinta identitaria di dominio del maschio che
determina la violenza contro la donna, perché è proprio l’espressione di autonomia della donna ad
essere inaccettabile per l’uomo violento, che quindi manifesta la sua aggressività in modo tutt’altro
che irrazionale. Ciò che si contesta di queste sentenze non è l’applicazione tecnica delle norme penali
sulla valutazione delle prove assunte nel processo, tra cui la perizia psichiatrica che utilizza l’espressione
“tempesta emotiva”; il problema non è la tecnica matematica di aumento o diminuzione della pena, bensì la
considerazione che di questo fatto i giudici hanno avuto. Dietro ad ogni tempesta emotiva c’è un’idea del
mondo, un pregiudizio sui rapporti umani, e quindi la causa dell’agire è da ricercare nella cultura, nella
mentalità di quel soggetto, non nel turbamento concomitante che ne è piuttosto la conseguenza. Ma, come
si osservava prima, anche chi giudica è portatore e portatrice di quel radicato pregiudizio che in qualche
misura colpevolizza sempre la donna, che non si è comportata nel modo in cui ci si aspettava da lei: ha
tradito, ha lasciato, non ha accondisceso, ha addirittura illuso. Se si provasse ad invertire i ruoli, il risultato
valutativo sarebbe diverso.
Il secondo problema che si osserva leggendo le sentenze relative a femminicidi è che si tende a dare molta
rilevanza alle parole dell’imputato, soprattutto quando ha confessato almeno in parte il delitto. “
La vittima sembra quasi una figura fantasmatica che gioca un ruolo di comparsa, emergendo solo in
relazione a quanto da altri soggetti, a suo proposito viene narrato; di lei, come persona (e non solo come
donna uccisa) non conosciamo nulla: spesso neanche età, professione, livello di istruzione. Ciò che
sappiamo è il rapporto che la legava al suo assassino” [21]. Testimoni, prove materiali e oggi prove
derivanti dalle tecnologie della comunicazione sono lì per quello: per ricostruire, per ricostruirci. Tuttavia è
proprio la ricostruzione dell’uomo che spesso viene presa per buona, specie quando fornisce elementi per
valutarne una minore responsabilità, per esempio escludendo la premeditazione. Nei casi sopra richiamati i
sentimenti di rabbia e delusione degli uomini emergono dalle loro sole parole. Eppure le loro parole
andrebbero lette alla luce delle norme processuali che consentono all’imputato di mentire nel processo, e di
ridimensionare più che riesce la sua posizione. Paradossalmente accade invece che si dia piena rilevanza
alle sue ricostruzioni fattuali e psicologiche per attenuarne la responsabilità e quindi il trattamento
sanzionatorio. Emblematico è il fatto che – in base alla recente indagine di Alessandra Dino – le sentenze
sono meno severe nei confronti degli imputati che hanno ucciso donne con le quali avevano un legame
sentimentale o familiare, mentre applicano pene più gravi ad assassini estranei alla vittima, quando proprio
il legame dovrebbe – in base al buon senso e anche in base alla legge – aggravare la pena: questa differenza
sul piano della severità della condanna fa sospettare “la persistenza di una qualche forma se non di
giustificazione almeno di indulgenza verso il cosiddetto delitto passionale” [22].
L’avvocata Giulia Bongiorno riassume dicendo che viviamo in un sistema giuridico e giudiziario così
irrazionale che “crea sfiducia nelle vittime e non è un deterrente per chi delinque” [23].
Il racconto del femminicidio nei tribunali, osserva Alessandra Dino, è “il risultato di un processo di
ibridazione tra campi simbolici diversi, con frequenti sconfinamenti in saperi altri e con riferimenti
frequenti al ‘sentire comune’” [24]. Il problema di fondo, come chi ha studiato giurisprudenza sa bene, è
che il processo e la giustizia (con la “g” minuscola) si confrontano con le prove e non con la verità. La
verità non abita nelle aule dei tribunali. Lì abitano leggi, procedure, carta (un sacco di carta!), ma non la
verità.

Giustizia e progresso culturale
Le sentenze non solo giudicano fatti storicamente accaduti, ma veicolano anche messaggi culturali
alla società, possono contribuire ad orientare e favorire o piuttosto ad ostacolare lo sviluppo di
positivi processi culturali della nazione sui cui comportamenti sono chiamate a giudicare.
Si pensi, per esempio, a quanto la giurisprudenza ha fatto e sta facendo in tema di fine-vita: con una serie
di processi – gli ultimi quelli che hanno visto come imputato Marco Cappato, ma prima quelli riguardanti
Eluana Englaro e Piergiorgio Welby – la giurisprudenza ha colmato un vuoto di diritti che il legislatore si
ostina a non colmare – nonostante la sollecitazione della Corte Costituzionale -, andando incontro al
sentimento ormai ampio della nazione che non sente più come appropriata quell’artificiale forma di
sopravvivenza biologica creata dalle tecnologie di rianimazione, o che almeno ritiene che quell’artificiale
forma di sopravvivenza non possa essere imposta ma debba essere una scelta individuale. In tema di
violenza maschile contro le donne la strada invece è ancora lunga: purtroppo ancora non c’è stata
quell’evoluzione di coscienze collettiva che giudicherà sbagliata sempre e comunque la violenza di genere,
che considererà violenza tutti i comportamenti violenti, e che soprattutto considererà colpevole di quei
comportamenti solo chi li agisce e non chi li subisce, così come accade per tutti gli altri reati previsti dal
nostro ordinamento. Ed è impensabile che questo così profondo retaggio culturale non si riversi anche nelle
sentenze di quei giudici e quelle giudici che si credono immuni da pregiudizi. Paola Di Nicola Travaglini ci
dice che per riuscire ad adottare questa nuova visione del mondo è necessario indossare le “lenti di genere”,
cioè guardare la vita quotidiana con la consapevolezza delle millenarie discriminazioni subite dalle donne e
dell’artificiale divisione dei ruoli che ci è stata imposta, accettando il fatto che raggiungere tale
consapevolezza è un esercizio quotidiano assai impegnativo. Eppure doveroso, aggiungo io.
La Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio – all’esito di un’indagine condotta presso
Procure, Tribunali, Consiglio superiore della magistratura, Consiglio nazionale forense e Ordine degli
psicologi – ha denunciato “una sottovalutazione dei fenomeni di violenza di genere e domestica, che non
viene «letta» correttamente. Per queste ragioni può affermarsi che vi è ancora molto da fare perché si
possa ritenere che il nostro «sistema Paese» sia davvero democratico in quanto garantisce alle donne di
essere libere da ogni forma di violenza.” […] “È doveroso sottolineare che, accanto a indubbi aspetti
critici, si registrano importanti progressi nel percorso indicato, come attesta lo sforzo compiuto da una
parte – purtroppo ancora minoritaria – della magistratura, più evidente per quella inquirente, la quale
interpreta il proprio ruolo con modalità organizzative più aderenti alle mutate esigenze investigative. Tutto
ciò avviene – comunque – in un quadro complessivo di evidenti difficoltà e resistenze, anche di natura
culturale.”[25]
Il grave problema che affligge, quindi, il nostro sistema giudiziario, e tutti i soggetti in esso coinvolti –
magistrati inquirenti e giudicanti, avvocati, periti – è una insufficiente consapevolezza della complessità di
questa materia e quindi della necessità di una formazione specifica. I tavoli dei giudici sono pieni di
manuali sui reati tributari, ma non di testi che spieghino la Convenzione di Istanbul. Eppure è impensabile
riuscire ad adottare le lenti di genere se ci si ostina a ritenere che per capire come va il mondo e come
vanno le relazioni tra uomini e donne non sia necessario uno studio specifico, che bastino il senso comune
e la legge. La legge non basta affatto, e certamente non è lo strumento per risolvere il problema. Un
problema culturale può trovare la sua soluzione esclusivamente nella cultura che quel problema ha
prodotto.
La giudice Paola Ortolan ci ricorda che “una qualità che non deve mancare, a trent’anni come a cinquanta,
è la capacità di accoglienza delle persone, dei loro racconti e dei loro vissuti” [26]. Certo risulta difficile
mantenere quest’atteggiamento quando la propria scrivania è piena di fascicoli e il mestiere di giudice
diventa sempre più legato a numeri di produzione: processi da chiudere, sentenze da depositare, efficienza
a fine anno da dimostrare. È difficile, eppure necessario, ricordarsi che in ogni fascicolo non c’è solo carta,
ma ci sono persone, vite, spesso vite distrutte, che attendono qualcosa che possa somigliare a giustizia.
Non posso quindi concludere senza qui ricordare le parole di una grande donna, la giudice Ruth Bader
Ginsburg, giudice della Corte Suprema statunitense, che ci ha lasciato l’anno scorso con questo manifesto: “
Io non chiedo favori per il mio sesso, chiedo solo che smettano di calpestarci!”

[1] L. Terragni, Le definizioni di violenza, in C. Adami (a cura di), Libertà femminile e violenza sulle
donne. Strumenti di lavoro per interventi con orientamenti di genere, Franco Angeli, Milano, 2000, p. 32
[2] Cfr. Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce
norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.
[3] M. Dell’Anno, Troppo giusto quindi sbagliato, Le Mezzelane, Santa Maria Nuova (AN), 2019
[4] M. Dell’Anno, Parole e pregiudizi. Il linguaggio dei giornali italiani nei casi di femminicidio
, LuoghInteriori, Città di Castello (PG), 2021
[5] Più tecnicamente si dovrebbe in questo caso parlare di “femicidio” – uccisione di una donna in quanto
donna -, ma utilizzo il vocabolo più in uso in Italia “femminicidio”, sia per immediata comprensibilità, sia
per evidenziare che ogni uccisione di donna non nasce dal nulla, c’è sempre un prima in cui è emersa una
forma di violenza fisica o psicologica.
[6] Corte EDU, Caso J.L. v. Italia (ricorso n. 5671/16), Sentenza 27/05/2021, par. 140. Violazione
dell’articolo 8 CEDU.
[7] Ibidem, par. 142.
[8] Ibidem, par. 136. Nel testo ufficiale francese: “regrettables et hors de propos”.
[9] Sentenza Corte d’appello di Firenze, 4/03/2015 n. 858
[10] Corte EDU, Caso J.L. v. Italia (ricorso n. 5671/16), Sentenza 27/05/2021, par.141.
[11] A. De Céspedes, Dalla parte di lei, Mondadori, Milano, 2021 [ed. orig. 1949], pp. 522-523
[12] Sentenza Tribunale di Ravenna, sez. penale, 31/03/2017 n. 527.
[13] P. Di Nicola Travaglini, La Corte EDU alla ricerca dell’imparzialità dei giudici davanti alla vittima
imperfetta, in Questione Giustizia 20/07/2021, https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-corte-edu-alla-
ricerca-dell-imparzialita-dei-giudici-davanti-alla-vittima-imperfetta
[14] P. Di Nicola, La mia parola contro la sua, HarperCollins, Milano, 2018, p. 8
[15] P. Di Nicola Travaglini, La Corte EDU alla ricerca dell’imparzialità dei giudici davanti alla vittima
imperfetta, cit.
[16] Comitato per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, Osservazioni
conclusive relative al VII Rapporto periodico dell’Italia, CEDAW/C/ITA/CO/7, 4/07/2017
[17] GREVIO Baseline Evaluation Report Italy, 13/01/2020
[18]     Cfr.    M.      Dell’Anno,      Femminicidio      sì,    femminicidio      no, in   NoiDonne,
https://www.noidonne.org/articoli/femminicidio-s-femminicidio-no-17105.php
[19] Sentenza Corte d’Assise d’Appello di Bologna, 14/11/2018 n. 29; cassata con rinvio dalla Suprema
Corte – sez. 1 n. 2692 del 8/11/2019. Nel nuovo giudizio la Corte d’Assise d’appello ha confermato la
sentenza del GUP di Rimini 11/12/2017.
[20] Sentenza GUP presso il Tribunale di Genova, 5/12/2018 n.1340.
[21] A. Dino, Femminicidi a processo, Meltemi, Milano, 2021, p. 49.
[22] Ibidem, p.66.
[23] G. Bongiorno, Le donne corrono da sole. Storie di emancipazione interrotta, Rizzoli, Milano, 2015, p.
34
[24] A. Dino, Femminicidi a processo, cit, p.17.
[25] Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché su ogni forma di violenza di genere,
Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria, approvato nella seduta del
17/06/2021
[26] P. Ortolan, La toga addosso, Edizioni San Paolo, Milano, 2018, p. 112

G. Bongiorno, Le donne corrono da sole. Storie di emancipazione interrotta, Rizzoli, Milano, 2015
A. De Céspedes, Dalla parte di lei, Mondadori, Milano, 2021 [ed. orig. 1949]
M. Dell’Anno, Troppo giusto quindi sbagliato, Le Mezzelane, Santa Maria Nuova (AN), 2019
M. Dell’Anno, Parole e pregiudizi. Il linguaggio dei giornali italiani nei casi di femminicidio
, LuoghInteriori, Città di Castello (PG), 2021
M. Dell’Anno, Femminicidio sì, femminicidio no, in NoiDonne, 26/08/2020,
https://www.noidonne.org/articoli/femminicidio-s-femminicidio-no-17105.php
P. Di Nicola, La mia parola contro la sua, HarperCollins, Milano, 2018
P. Di Nicola Travaglini, La Corte EDU alla ricerca dell’imparzialità dei giudici davanti alla vittima
imperfetta, in Questione Giustizia 20/07/2021, https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-corte-edu-alla-
ricerca-dell-imparzialita-dei-giudici-davanti-alla-vittima-imperfetta
A. Dino, Femminicidi a processo, Meltemi, Milano, 2021
P. Ortolan, La toga addosso, Edizioni San Paolo, Milano, 2018
L. Terragni, Le definizioni di violenza, in C. Adami (a cura di), Libertà femminile e violenza sulle donne.
Strumenti di lavoro per interventi con orientamenti di genere, Franco Angeli, Milano, p. 32, 2000

TAG: Violenza di genere, linguaggio, processo, genere

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