Il cervello dell'ameba - Firenze

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Il cervello dell’ameba

                          Per una Critica del Capitalismo Digitale

    Al momento, la strategia generale del postcapitalismo è di
    rendere il linguaggio (tutto ciò che significa qualcosa)
    astratto e quindi facilmente manipolabile. (Kathy Acker in
    incipit a Mckenzie Wark, Il capitale è morto il peggio
    deve ancora avvenire, Nero, Roma 2021)

Cosa significa rendere il linguaggio astratto? Significa rompere
i legami tra referente, significante e significato; sganciare i
lati dai vertici del triangolo che li mette in connessione,
lasciandoli liberi di fluttuare sul piano di una comunicazione
nella quale quei concetti si riferiscono soltanto a se stessi.
Nell’universo digitale l’immagine di un tavolo non rimanda a un
tavolo ma semplicemente a se stessa: al fatto di essere immagine
di un tavolo. L’estrazione dei dati grezzi compie proprio questa
operazione. Decontestualizza il dato anche quando pare fare il
contrario. Il traduttore di Google lavorava inizialmente su
matrici di corrispondenza tra i termini: come si dice tavolo in
inglese? Lo cercava e traduceva. Sappiamo tutti che così non si
andava da nessuna parte perché i termini delle due lingue molto
spesso non coprono lo stesso spettro semantico e che – in certe
locuzioni – l’unione di due o più termini può portare a
significazioni diverse. L’algoritmo più recente lavora in un altro
modo. Apparentemente contestualizza i termini, ma in una maniera
tutta interna al codice linguistico: verifica dentro quali
rapporti di reciprocità si trovano i termini; cioè quanto è
probabile che a un termine ne segua un altro o quanto è probabile
che due termini si trovino nello stesso contesto e cioè nella
frase. Il contesto fisico che segna la relazione tra i parlanti,
tra i soggetti dello scambio linguistico non è preso in
considerazione. In realtà la macchina non ne è capace. È questo il
punto di snodo fondamentale che distingue l’AI dalla AGI o
altrimenti detta Intelligenza Artificiale Forte. Come ho detto
spesso la scelta di basare l’intelligenza Artificiale sulle forme
di addestramento profondo (Deep Learning), costringe la macchina a
lavorare su grandi masse di dati cercando correlazioni senza
prendere in considerazione i rapporti causa effetto, ma
ricercandoli soltanto nel momento in cui essi appaiono come
statisticamente probabili. Attenzione questo non è il solo modo di
operare delle macchine attuali. La cibernetica si basava infatti
proprio su questo, sulla creazione di modelli descrittivi dei
fenomeni e su quei rapporti di causa effetto che li
caratterizzavano, per poi poterli simulare facilmente innumerevoli
volte. La svolta dei big data ha aperto invece la strada al sogno
illusorio di estrapolare le leggi della natura non osservandone
all’interno delle relazioni che le presupponevano, ma all’interno
di corrispondenze che soltanto il confronto con la massa smisurata
dei dati permettono. Era questo il senso dell’articolo di Anderson
su Wired che gli faceva gridare alla fine della teoria e quindi
della scienza. La macchina algoritmica attuale cerca però, tramite
l’applicazione delle tecniche di AI, di far rientrare il
perseguimento dell’AGI all’interno di quelle procedure. Una via
particolare che aggiunge motivazioni allo scetticismo che dubita
che “la Singolarità” di Ray Kurzweil (il momento nel quale
l’intelligenza delle macchine eguaglierà quella degli umani) sia
raggiungibile e lo sia in termini relativamente brevi.

Senza fare caso al fatto qui più volte riportato che anche le
forme di implementazione della Intelligenza Artificiale più
leggera, siano spesso fallaci se non stupide. Uno degli scogli più
volte citato anche dai padroni degli algoritmi, è infatti quello
dell’inquinamento dei dati con i pregiudizi, con quei bias che le
successive correlazione estrapolano dai dati forniti loro. Da un
mondo nel quale esiste la discriminazione raziale, quella di
genere, quella specista, non si possono ottenere dati immuni dalla
loro contaminazione. Per farlo bisognerebbe già vivere in un mondo
perfetto dove questi pregiudizi non esistono. Ma in questo mondo
patriarcale, coloniale, imperialista e capitalista, i pregiudizi
ci sono. E se il padrone degli algoritmi è un maschio bianco
eterosessuale e capitalista che persegue il profitto usando a
questo scopo le macchine digitali che gli appartengono, attraverso
l’informazione della quale si è appropriato tramite la proprietà
intellettuale, i brevetti e i brand, proietterà questo suo modo di
essere imponendo lo scopo: la massimizzazione dei profitti.

La macchina automatica si nutre delle differenze, senza differenze
ci sarebbero soltanto corrispondenze infinite. La macchina ha
bisogno che i processi di individualizzazione si compiano. Ma la
macchina digitale è allergica alle cose non “date” e definite; è
allergica al divenire, alla realtà come un continuum. La
differenza tra analogico e digitale è proprio questo: il digitale
è il frutto di una discretizzazione della realtà, lavora sui
campionamenti. Allora, al posto dell’altro, dell’altro della
relazione, di quella relazione che ci restituisce sempre un
soggetto plurale, ci sono le infinite sfaccettature del medesimo.
Una sfaccettatura per ogni nicchia di mercato. Sì perché – anche
se si possiedono degli strumenti coercitivi adatti e
sofisticatamente efficaci – non è un buon affare avere una sola
tipologia di consumatori, lo dice la cosiddetta coda lunga
descritta da Chris Anderson, l’ex direttore di Wired, quello
stesso della fine della teoria.

L’algoritmo non guarda il film della vita delle persone, quello
dell’esistenza delle cose, dei processi che l’esistenza la creano,
scatta delle istantanee dove non c’è posto per le pulsioni, per le
anime belle o brutte che siano, ma neppure per i corpi, per la
sensualità dei corpi. Usa l’immagine, il calco, non riconosce
l’altro. Ci sono soltanto soggetti senza emozioni, senza
conflitti. Soggetti immobili. Soggetti e oggetti dati, non le loro
relazioni, ma soltanto quelle relazioni che scopre l’algoritmo.
L’algoritmo rende artificiale l’umano.

Oggi si parla di infosfera riferendosi a tutto quell’apparato
tecnologico che fa riferimento al mondo digitale e perciò a quello
computazionale, aggiungendo però un’accezione che rimanda alla
informazione. La cibernetica cioè, oggi, corrisponderebbe
all’informatica. Ma un linguaggio, ormai filtrato
dall’interpretazione dei big data, divenuto perciò astratto, non
potrà che fare riferimento a un mondo probabilistico e non
oggettivo né soggettivo, ma nemmeno strettamente relazionale se
non nelle relazioni oscure che la macchina ha trovato. Segni e
informazioni senza relazione se non quella che ho appena
evidenziato. Segni e informazioni che la macchina può manipolare
in tutti i sensi, compreso quello per il quale la manipolazione
non è soltanto un modo per adoperarli ma anche per assoggettarli,
piegarli, a uno scopo. Se per la OOO (Object-Oriented Ontology) –
un punto di vista che tenta di spostare l’umano da quella
posizione antropocentrica dalla quale domina il mondo – il
rapporto tra soggetto e oggetto sarebbe da rivedere a partire dal
valore relazionale e performativo delle cose, oggetti compresi,
allora ben si comprende che la semplice sostituzione di posizione
tra gli umani e le macchine non abbia alcun senso. Il conflitto
poi tra intelligenza del vivente e ottusità dell’inerte sarebbe
anch’essa figlia dello stesso pregiudizio. Se pensiamo poi che in
realtà anche il conflitto tra intelligenze biologiche e quelle in
silicio ha anch’esso poco senso, proprio a partire dai risultati
stupefacenti dei computer a DNA[1]. Potremmo infine dire che
l’ostinazione tecnologica basata sui Big Data potrebbe essere un
cul de sac nel quale trovarsi impantanati di fronte a prospettive
sicuramente più appetibili e – ironia della sorte – più
scientificamente evolute, di fronte cioè a una forma di
“progresso” di prospettiva più ampia. Ecco che il Capitale della
modernità, quello del modello di produzione Digitale, diventa un
freno rispetto a forme di innovazione che lo sorpassano. Ecco un
altro buon motivo per dirottare le accelerazioni del Capitale
verso quelle del tornaconto collettivo, perché, in fondo, parlare
di accelerazioni senza parlare della direzione del vettore che le
veicola, non ha alcun senso se non all’interno di una visione
progressista e sviluppista fine a se stessa o a quegli interessi
di quella minoranza di classe che ne beneficia.

Ma non si tratta di mere e fantasiose congetture: ci sono esempi
“viventi” che ci raccontano questa storia. C’era una volta… C’è un
essere vivente il physarum polycephalum conosciuto anche come
muffa mucillaginosa o melma policefala dall’aspetto simile a
quello di muffa giallognola con una dimensione che varia dai 10
centimetri e un metro di diametro. Non è né un organismo
monocellulare né multicellulare nel senso che è costituito da un
grandissimo numero di cellule che però sono fuse insieme
all’interno di un’unica membrana che contiene l’endoplasma
all’interno del quale fluttuano liberamente i nuclei, fa infatti
parte del raggruppamento dei funghi melmosi (mixomiceti).
«Diversamente da un fungo, però, physarum polycephalum è capace di
muoversi nel proprio ambiente a una velocità di un millimetro al
secondo deformando il proprio corpo e formando degli strani
‘tentacoli’, conosciuti come pseudopodi, che gli permettono di
esplorare il mondo che lo circonda» (Tripaldi, p. 59) alla ricerca
di materiali vegetali in decomposizione dei quali si nutre. Riesce
cioè a muoversi sia per la ricerca del cibo sia per proteggersi
dalla luce solare, pur essendo privo di tessuti e di un qualsiasi
sistema nervoso. In un esperimento del 2010 i ricercatori fecero
crescere un esemplare di physarum su di una mappa della città di
Tokyo mettendo dei fiocchi di avena in corrispondenza dei punti
nevralgici della città. «In pochissimo tempo, l’organismo riuscì a
ottimizzare il percorso che connetteva tutte le sorgenti di cibo,
producendo una rete di ‘tentacoli’ sorprendentemente simile alla
rete di trasporto ferroviario della città, un risultato che è
tutt’altro che scontato: in informatica il problema affrontato
dalla melma policefala è noto come problema del commesso
viaggiatore, ed è molto difficile da risolvere con convenzionali
approcci computazionali» (ivi, p. 61).

Ma esseri unicellulari cosiddetti semplici sono capaci di
prestazioni abbastanza sofisticate. Una specie di ameba, un
organismo unicellulare molto semplice, è in grado di coltivare al
suo interno i batteri di cui si nutre per avere scorte in tempi di
magra.
___________________________________________
[1]
   Nel 2002, dei ricercatori in Israele hanno creato un computer a
DNA che potrebbe eseguire 330 miliardi di operazioni al secondo,
più di 100.000 volte più veloce rispetto alla velocità del PC più
veloce. (Qui)

Laura Tripaldi, Menti parallele. Scoprire l’intelligenza dei
materiali, effequ, Firenze 2020.

                          **************

             Per una critica al Capitalismo digitale – parte XXXIX

Ci sono Storie che si evolvono o involvono a una velocità tale che
nessun libro riuscirà a fotografare, a darne cioè una versione che
possa essere attuale. C’è per esempio la pandemia virale da Covid
19, con i suoi risvolti sociali, politici e antropologici che
Zizek cerca di interpretare con uno strumento insolito: l’ebook in
“divenire”. Il capitalismo digitale – quello che ha a che fare con
universo contemporaneo dove tecnoscienza, Intelligenza Artificiale
(AI) e amministrazione governamentale della vita si intrecciano –
ha una velocità di trasformazione non così alta ma certamente più
alta dei tempi editoriali di un libro cartaceo. Cogliamo così
l’occasione di pubblicare anche noi un ebook in divenire che
riprende gli articoli che sull’argomento sono stati pubblicati e
che continueranno a essere pubblicati su “La città Invisibile” e
in particolare la serie a puntate di “Per una Critica del
Capitalismo Digitale”. Il libro non è terminato, anche per questo
è in divenire, perché non è possibile mettere la parola fine a
narrazioni che sono in corso. Verrà perciò aggiornato
costantemente permettendogli così di essere in qualche modo dentro
l’attualità. Ogni articolo ha una sua indipendenza e lo si potrà
leggere anche senza aver letto il resto, così come ha anche una
sua coerenza d’insieme, tale da poterlo leggere dalla prima
all’ultima parte senza percepire nessuna frammentazione. Almeno
questo è l’intento.

Qui la I parte, Qui la II, Qui la III, Qui la IV, Qui la V, Qui la
VI, Qui la VII, Qui la VIII, Qui la IX, Qui la X, Qui la XI, Qui
la XII, Qui la XIII, Qui la XIV, Qui la XV, Intermezzo, Qui la
XVI, Qui la XVII , Qui la XVIII, Qui la XIX, Qui la XX, Qui la
XXI, Qui la XXII, Qui la parte XXIII, Qui la XXIV, Qui la
XXV , Qui la XXVI, Qui la XXVII, Qui la XXVIII, Qui la parte
XXIX , Qui la parte XXX, Qui la parte XXXI, Qui la parte
XXXII, Qui la parte XXXIII, Qui la parte XXXIV , Qui la parte
XXXV, Qui la parte XXXVI, Qui la parte XXXVII Qui la parte
XXXVIII,Qui la parte XXXIX

                                              Gilberto Pierazzuoli
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