I DIRIGENTI DELLE SCUOLE SOTTO ATTACCO

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I DIRIGENTI DELLE SCUOLE SOTTO ATTACCO

        Crediamo che a nessuno sia sfuggito il pesante attacco che è stato sferrato in questi giorni
sulla stampa, ma soprattutto in rete, alla figura e alla funzione dei dirigenti delle scuole (ci
ostiniamo a non usare l’aggettivo “scolastico” perché da sempre è usato come uno stigma
discriminante). È bastato che prima la bozza non ufficiale di Decreto legge e poi il Disegno di legge
di iniziativa del Governo facessero intravedere una possibile ipotesi di rafforzamento della
funzione dirigenziale nella scuola per far scatenare un fuoco di sbarramento di rara intensità, che
accomuna forze sociali e sindacali da sempre ostili a qualunque ragionamento che abbia come
tema la responsabilizzazione di un sistema del tutto incontrollato ed autoreferenziale, il
riconoscimento del merito, l’introduzione di un serio sistema di valutazione della performance
organizzativa ed individuale, e sigle sindacali che invece rappresentano la stessa categoria.

Un primo assaggio lo abbiamo avuto in occasione del dibattito, tutt’ora aperto, sul ruolo unico dei
dirigenti delle pubbliche amministrazioni, allorché l’ipotesi sostenuta dall’ANP che ai dirigenti delle
scuole andasse riconosciuto il pieno diritto di farne parte è stata bollata come peccato di apostasia
nei confronti della sacra “specificità” del ruolo. In questo caso i nostri avversari hanno avuto
almeno il coraggio di contrapporre alle nostre le loro ragioni.

Poi abbiamo assistito alla presentazione di due Disegni di legge, ispirati ad una vecchia legge di
iniziativa popolare (LIP), che, oltre a voler riportare la scuola indietro di trent’anni, mirano ad
abrogare l’art. 25 del DLgs. 30 marzo 2001 n. 165 e a cancellare tout court la qualifica dirigenziale
nella scuola.

Quello che è successo negli ultimissimi giorni rientra invece nella più trita e volgare tradizione del
dileggio, della diffamazione, della provocazione. Quando il degrado sconfina nelle categorie del
“preside-sceriffo”, del “preside-padrone”, o peggio del “preside-mazzetta”, quando si paventa una
“deriva autoritaria” di cui di dirigenti sarebbero interpreti e quando infine in un sito scolastico di
lunga e onorata tradizione non si esita a dare spazio a chi dichiara che “Con i presidi padroni la
corruzione entrerà nelle scuole”, ciò sta a significare che si è perso il senso del limite, che siamo
fuori da una logica di confronto, che non ci sono argomenti da sostenere e che, pur di bloccare una
concreta ipotesi di cambiamento e di sprovincializzazione del nostro sistema scolastico, non si
rinuncia a ricorrere alla vecchia strategia della “macchina del fango”, nella certezza che alla fine un
po’ di mota resterà comunque attaccata.

Sappiamo bene che non è facile fermare la canea che si è scatenata, dando voce a quel ventre
molle della scuola che non ha mai reso conto dei suoi atti e che intende fare di tutto perché possa
continuare impunemente a farlo. Ma di certo non può essere conculcato il diritto dei dirigenti
delle scuole di ribellarsi a questo gioco al massacro, di indignarsi, di rivendicare il valore del loro
quotidiano impegno a garanzia e a tutela dei diritti di milioni di ragazzi e di adulti che vivono
l’esperienza dell’istruzione e della formazione in ambito scolastico.

C’è poi un secondo fronte di attacco, questa volta non scalmanato né ingiurioso, ma proprio per
questa non meno insidioso. È quello che arriva dall’intero fronte sindacale del comparto scuola,
che ha deciso unitariamente di porre tra gli elementi di pesante critica al Disegno di legge
governativo proprio il ruolo dei dirigenti delle scuole, esattamente in questi termini: “Ruolo della
dirigenza. La progettazione dell’attività educativa delle scuole autonome è competenza del
Collegio docenti e per renderla il più possibile efficace non può essere affidata solo al dirigente
scolastico. I sindacati considerano inaccettabile affidare al DS la chiamata diretta dei docenti e
l’attribuzione del salario accessorio legato alla premialità. E’ indispensabile definire un
bilanciamento dei poteri tra DS, Collegio Docenti e Consiglio d’Istituto.”.
Per i sindacati di comparto, quattro dei quali - non dimentichiamolo - rappresentano anche l’Area
V, è dunque inaccettabile che la proposta governativa miri a rafforzare il ruolo dirigenziale, perché
questo altererebbe l’equilibrio con organi collegiali dove la componente docente deve continuare
ad esercitare il suo potere di controllo e di veto, che va salvaguardato. Lo stile sicuramente non è
“scalmanato”, ma l’obiettivo politico non è poi molto diverso da quello di chi ha preferito la
scorciatoia dell’ingiuria. Particolarmente esplicita, in proposito, la dichiarazione del segretario
generale vicario dello Snals, riportata virgolettata da un altro sito scolastico, secondo il quale ai
dirigenti delle scuole “spetta sì autorevolezza ma senza coloriture ‘dittatoriali’ in merito
all’individuazione dei meritevoli, alle remunerazioni integrative e alla chiamata diretta dei docenti.
Costruendo un ruolo subalterno e secondario del Collegio dei docenti, verrebbe oscurato, se non
cancellato, il principio costituzionale di libertà d’insegnamento”.

A questo punto non resta che controbattere la tesi del “preside-padrone” e quella del “preside-
dittatore”, senza indulgere alle reazioni emotive - che pur sarebbero giustificate - ma facendo
appello al buon senso delle persone e alla necessità di restare al merito delle questioni in campo.

1. Il fronte sindacale non ha da obiettare su un punto del Disegno di Legge: che vengano immessi
   in ruolo quanti più docenti è possibile. Al momento è difficile prevedere quanti potranno
   essere, ma sappiamo che si vorrebbe che fossero più dei 148.800 quantificati ne “La Buona
   Scuola”. Probabilmente saranno di meno e comunque, al momento, è difficile fare una
   previsione realistica. Tutto il resto al sindacato di comparto non piace, per la ragione di fondo
   che buona parte delle proposte contenute nel Disegno di Legge fino all’aprile 2007 sono state
   definite nel CCNL ed oggi vengono ricondotte in ambito pubblicistico, prescindendo da un
   accordo tra parte pubblica e parte sindacale. Ci sono poi forti riserve di merito su alcune
   proposte, quali la chiamata diretta dei docenti e il sistema di premialità (per quanto già
   ridimensionato rispetto a quanto veniva prefigurato ne “La Buona Scuola”), perché sarebbero
   introdotti elementi valutativi e selettivi che prescinderebbero da automatismi di natura
   contrattuale e sarebbero ricondotti sotto la diretta competenza delle istituzioni scolastiche.
Anche in questo caso il sindacato sarebbe costretto a perdere l’influenza che oggi esercita ai tavoli
ministeriali ( per altro sempre molto sensibili alle richieste sindacali) e ai tavoli contrattuali
scolastici.
La battaglia del sindacato di comparto contro il Disegno di Legge ha queste motivazioni, che sono
comprensibili in sé, ma che collidono con la logica complessiva che ha ispirato l’iniziativa legislativa
del Governo.

2. “La Buona Scuola”, nella logica governativa, rappresenta il tentativo, forse irripetibile, per
trasformare lo svuotamento delle GAE - in qualche modo imposto dalle sentenze della Corte di
Giustizia europea - in una significativa occasione di rinnovamento del sistema scolastico italiano,
zavorrato da un incredibile coacervo di interessi, poteri, veti, condizionamenti e incardinato in un
centralismo ministeriale interessato più a mantenere gli equilibri che a favorire il necessario
adeguamento del sistema scolastico all’evoluzione della società. Soltanto così si spiega l’anomalia
tutta italiana che agli alti costi del sistema (più volte certificata dalle ricerche internazionali)
corrispondano performance decisamente deludenti se rapportate a quelle degli altri paesi
dell’Area OCSE.
Il cambiamento prospettato nel Disegno di Legge nasce dalla combinazione di più elementi:
l’ampliamento degli ambiti di autonomia delle istituzioni scolastiche, un potenziamento dei
curricoli unito ad una loro maggiore flessibilità e articolazione, un impiego dell’organico
dell’autonomia funzionale alla personalizzazione dei percorsi di apprendimento e ad uno sviluppo
dell’autonoma progettualità delle scuole, un più stretto raccordo tra la formazione e il mondo
della produzione e dei servizi. Accanto a questi elementi di fondo lo svuotamento delle GAE e il
superamento dell’arcaico regolamento per l’assegnazione delle supplenze costituiscono il logico
corollario di una riforma che si propone di sostituire gli automatismi con la responsabilizzazione
dei soggetti e l’autoreferenzialità con la valutazione e la rendicontazione sociale. Non tutti i
passaggi appaiono al momento chiari e definiti, ma è chiara la logica di fondo: l’immissione in
ruolo di tanti docenti non è l’obiettivo ma lo strumento, deve cioè costituire la leva per cambiare
le regole del gioco e per liberare energie ed opportunità oggi compresse dall’imperante pervasività
ministeriale e dai vincoli contrattuali.

3. Ritenere che a maggiore autonomia non debba corrispondere un adeguato rafforzamento delle
prerogative dei dirigenti delle scuole significa voler perpetuare una mistificazione che nel
quindicennio trascorso ha prodotto già sufficienti danni. Pretendere che la riforma salvaguardi
comunque gli equilibri tra i diversi organi collegiali contraddice la stessa logica su cui si basa
l’autonomia delle istituzioni scolastiche. È dal 1992 che nella pubblica amministrazione è stata
introdotta la separazione tra potere d’indirizzo politico e responsabilità dirigenziale. L’attribuzione
alle scuole della natura giuridica di pubbliche amministrazioni avrebbe dovuto trasferire questo
stesso criterio alle istituzioni scolastiche almeno a partire dal 2000. Non lo si è fatto per la pavidità
dei decisori politici, di ogni colore politico, di sostituire alla pseudo-partecipazione degli anni ’70
un moderno sistema di governance. Invocare oggi la necessità di non potenziare le prerogative del
dirigente per non alterare gli equilibri collegiali significa difendere l’indifendibile, cioè gli articoli 7
e 10 di un Testo Unico scritto nel 1994 quando nella scuola non c’era né autonomia né ruolo
dirigenziale.
Maggiore autonomia significa maggiore responsabilità; maggiore responsabilità significa che un
organo deve dettare gli indirizzi che definiscono gli obiettivi strategici della scuola e che una figura
con qualifica dirigenziale si deve far carico del compito di tradurre quegli obiettivi in risultati,
pianificando, organizzando e controllando l’azione delle risorse umane, l’utilizzo delle risorse
finanziarie, il sistema delle relazioni con il contesto. Che in questo quadro rientri la cosiddetta
“chiamata” dei docenti, ai quali affidare il delicatissimo compito di tradurre gli obiettivi strategici
in percorsi di insegnamento/apprendimento, è soltanto “naturale” e già il documento “La Buona
Scuola” lo aveva capito quando dichiarava che “Ogni scuola deve poter schierare la migliore
squadra possibile” (pag. 63). È altrettanto “naturale” che, in un contesto del genere, alcuni docenti
possano essere destinati a compiti che non attengono soltanto all’insegnamento ma anche
all’organizzazione e al controllo dei processi gestionali e che agli stessi, come agli altri, possano
essere attribuiti degli incentivi economici proporzionali al contributo che danno al buon
funzionamento della scuola.
Ma ciò che dovrebbe essere “naturale” (e lo è già da tempo immemore in tanti altri sistemi
scolastici europei) diventa “inaccettabile” per chi ritiene che i docenti non vadano selezionati dalle
scuole e che debba essere mantenuto il meccanismo dell’estrazione al lotto: bisogna continuare
ad andare in campo con la squadra scelta dal caso! Ma per quale motivo, allora, il caso deve essere
preferito ad un reclutamento operato dalle scuole in forme sicuramente partecipate e sulla base di
criteri trasparenti? Per quale motivo un meccanismo di questo tipo deve far pensare
immediatamente al mercimonio? Perché bisogna applicare alle scuole e a chi le dirige pregiudizi e
schemi mentali che non hanno mai sfiorato il settore della scuola e che semmai altri settori della
società hanno praticato? Perché mai un dirigente, che è chiamato a rispondere dei risultati
gestionali del suo operato, dovrebbe rinunciare a scegliere i migliori per competenza e
professionalità, compromettendo in questo modo l’immagine e la stessa funzionalità del suo
istituto?

4. Se si coltivano queste preoccupazioni, per quanto fondate esclusivamente sul pregiudizio, c’è
un modo molto semplice per neutralizzare il rischio che possano verificarsi comportamenti
anomali: implementare nel modo più efficace il Sistema Nazionale di Valutazione, che sta
muovendo in queste settimane i suoi primi passi. Disponiamo già del DPR 80/2013, benché la sua
nascita sia stata accompagnata, tanto per cambiare, da cori di mugugni e da esplicite proteste. Il
suo impianto può funzionare, purché si rispettino due condizioni: che l’INVALSI, o il nuovo
organismo che potrà nascere dall’unificazione con l’INDIRE, possa muoversi in piena autonomia e
che siano messe a disposizione le risorse umane e finanziarie necessarie affinché la valutazione
“esterna”, che è elemento portante del Sistema, diventi strutturale e non solo simbolica.
Il compito che la Costituzione e la legge assegna alla struttura amministrativa centrale consiste
nell’impartire gli indirizzi generali, nel definire gli ordinamenti, nell’assegnare le risorse necessarie
al funzionamento e nel valutare gli esiti. Tutto ciò che rientra tra i due estremi degli indirizzi e della
valutazione degli esiti costituisce il terreno in cui le istituzioni scolastiche devono esercitare la
propria autonomia, in modo da conformare la loro azione e la struttura dell’offerta formativa alle
esigenze reali e diversificate dei diversi contesti. Questo era lo spirito che animava la legge
59/1997 ed a questo spirito vuole richiamarsi il Disegno di legge portato all’attenzione del
Parlamento. È per questo che un rafforzamento dell’autonomia sarebbe incoerente con la pretesa
di mantenere l’attuale assetto gestionale, nel quale tutti pretendono di decidere e l’unico a
rispondere dei risultati è il dirigente, e nel quale le leve strategiche del personale e delle risorse
finanziarie vengono ferreamente controllare dall’amministrazione centrale, secondo metodi e
procedure che precludono agli istituti qualunque forma di partecipazione e di codeterminazione.

C’è dunque da sperare che il dibattito parlamentare, che si preannuncia acceso, non produca
l’arretramento che i detrattori della riforma in questi giorni invocano, sia attraverso le
provocazioni ingiuriose che attraverso la difesa dello status quo. Se lo sforzo esercitato dal
Governo attraverso la pubblicazione della proposta “La Buona Scuola”, la consultazione pubblica
che ne è seguita e la predisposizione del Disegno di Legge dovesse subire l’offensiva mediatica,
sindacale e politica che si è scatenata in queste ore e il governo decidesse di abbandonare sul
campo le proposte più innovative e coraggiose il risultato sarà quello di avere immesso in ruolo
“tanti” docenti, senza per questo aver raggiunto l’obiettivo più ambizioso di rendere la scuola
italiana più “buona”.

Milano, 27 marzo 2015

                                                                      Massimo Spinelli
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