Fuga dal Novecento: su The game, la rivoluzione digitale, e altre catastrofi - AIB studi

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               Fuga dal Novecento:
       su The game, la rivoluzione digitale,
                 e altre catastrofi
                                       di Paola Castellucci

L’assenza
Le regole di un gioco da tavolo, Taboo, prevedono che due squadre si sfidino in
una gara di abilità retorica: indovinare parole, descritte senza usare i termini che
maggiormente le caratterizzano. Un giocatore per ciascuna squadra, prescelto per
‘suggerire’, deve star ben attento a non infrangere i divieti. Ad esempio, se si elegge
come parola ‘computer’, vanno escluse ‘informatica’, ‘digitale’, ‘internet’, ‘web’,
‘rete’. Così infatti definiremmo il computer, ora; e quindi queste sarebbero le parole
assenti, ora. Ma all’epoca, negli anni Ottanta, quando Taboo è stato diffuso, alcuni
di questi nomi e oggetti neanche esistevano e verosimilmente le parole tabù sareb-
bero state ‘calcolo’, ‘calcolatore’, ‘telematica’, ‘cibernetica’, ‘elaboratore elettronico’.
La velocità dello sviluppo tecnologico, e dell’informatica in particolare, ha con-
seguenze immediate sul lessico. Le regole del gioco sono rimaste le stesse, ma le
parole cambiano, in relazione alle dimensioni del fenomeno, agli attori. Le parole
tabù (termine accettato dal correttore automatico) non solo vanno individuate e
concordate in ogni partita, ma sono soggette a volatilità, obsolescenza, ogni qual
volta cambia il contesto spazio-temporale di Taboo (termine sottolineato dal cor-
rettore automatico e tuttavia dominante, poiché appartiene alla lingua della cultura
egemone). Con Taboo si mette quindi in scena il vocabolario, tutte le parole del
mondo, ‘nel’ mondo, decidendo di volta in volta cosa collocare al centro del gioco,
tenendo conto della velocità con cui gira il mondo, del punto di osservazione e
dei cambiamenti determinati dall’apparizione di nuovi oggetti, appena battezzati,
oppure dalla scomparsa di vecchie parole o dalla sedimentazione di nuovi significati.
Occorre poi notare che, come nel gioco dei mimi, viene introdotto anche il silenzio,
ossia una difficoltà, un’assenza, per rendere avvincente la contesa. Certo, si tratta
pur sempre di un passatempo semplice, antico, soprattutto se – aiutati come al
solito da Wikipedia – ci riferiamo all’atto di nascita di Taboo: scopriamo allora che
quel nostro ricordo del passato, quel ‘gioco di società’, quel ‘gioco di ruolo’ – come
si iniziava a dire – è stato prodotto in California nel 1989, quando in quel momento,

PAOLA CASTELLUCCI, Dipartimento di lettere e culture moderne, Sapienza Università di Roma, e-mail
paola.castellucci@uniroma1.it

aib studi, vol. 59 n. 1/2 (gennaio/agosto 2019), p. 225-235. DOI 10.2426/aibstudi-11962
ISSN: 2280-9112, E-ISSN:2239-6152
226                                                                                           il libro
in quel territorio, era ormai scoppiata la rivoluzione digitale, il grande gioco, the
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game, come lo chiama – in inglese – Alessandro Baricco .
     Dopo aver deciso quale fenomeno descrivere (la rivoluzione digitale), anche
Baricco gioca con noi lettori a Taboo escludendo dalla narrazione i concetti troppo
semplici e d’uso comune. Semmai suggerisce parole nuove, muovendosi tra saggistica
e narrativa, esercitando intelligenza critica ed immaginazione, dosando detto e non
detto, interpretazioni e intuizioni, equilibrando conoscenza ed emozione. D’altra
parte, costruire l’argomentazione come un abile ‘gioco’ con il lettore è una regola
fondamentale del racconto – e anche del racconto filosofico, come appunto può
essere considerato The game. Dalla tradizione del racconto filosofico, come dalla tra-
dizione del racconto, Baricco assorbe le strutture portanti e mescola le regole: rende
saggistico il racconto e romanzesco il saggio.
     Baricco quindi per prima cosa esclude le parole che maggiormente identificano
il fenomeno: la rivoluzione digitale. E già in questa operazione è necessario un accordo,
relativo all’operazione di identificazione e selezione del tema da trattare. L’indizio
che ricaviamo è che della ‘rivoluzione digitale’ possa essere fatta storia e storie. Segno
che ormai si è aperta una certa distanza critica ed emotiva tra il tempo della storia e
il tempo del racconto. Forse la rivoluzione si è proprio conclusa, e ci troviamo in una
fase normalizzante e costituente. La seconda operazione riguarda il titolo che certo
non appare come un cartiglio immediatamente parlante ed è semmai criptico quel
tanto che basta per far scattare la curiosità. E poi, lungo tutto il libro, Baricco riconosce
le parole che ‘un tempo’ sarebbero state usate per definire la rivoluzione digitale e,
proprio perché note, e forse anche logorate, le elimina, le considera tabù, e le sostituisce
con parole ‘nuove’. Parole che magari fino allora erano ‘assenti’ dal vocabolario del
lettore. Parole scelte per evocare piuttosto che per affermare esplicitamente, e che
pertanto coinvolgono in una modalità attiva di lettura.
     Ma come si fa ad analizzare la rivoluzione digitale senza voler/poter usare le parole
tipiche, le parole a cui siamo abituati? Equivale a dire che si vuole scrivere di una
rivoluzione senza utilizzare le categorie portanti del Novecento. Proprio questa è
infatti una delle tesi del libro: chi ha fatto la rivoluzione digitale voleva sovvertire il
mondo precedente, voleva fuggire dal Novecento. Ora sono cambiate le regole, e
dunque anche Baricco usa le nuove parole che esprimono i nuovi valori.
     Baricco svela il suo gioco non in The game ma nel ‘sequel’, The game unplugged, un
commentario all’urtext ad opera di dodici giovani apostoli2. Seguendo un antico
costume, Baricco ‘premia’ i lettori più costanti: hanno superato le 324 pagine di The
game e, mossi ancora dal desiderio di ascoltare, hanno affrontato anche la versione
unplugged; ed è proprio lì, alla fine di altre 294 pagine, quando Baricco chiude la strut-

1 Alessandro Baricco, The game. Torino: Einaudi, 2018. Dopo molte ristampe, dal settembre 2019 il
libro è anche venduto nelle edicole con la Repubblica, e dunque protende ancora nel tempo, e diversifica
nello spazio, l’atto della pubblicazione. In effetti Baricco aveva definito la vendita di libri in edicola
come un indizio di ‘imbarbarimento’ in quello che lui stesso indica come il ‘prequel’ di The game: Ales-
sandro Baricco, I barbari: saggio sulla mutazione. Roma: Fandango, 2006 (di cui si segnalano, in par-
ticolare, tre capitoli dedicati a Google). Ma ormai The game si situa nel pieno della ‘mutazione’ e Baricco
non poteva non usare uno dei canali di diffusione tipici dell’epoca.
2 The game unplugged, mixed by Sebastiano Iannizzotto e Valentina Rivetti; feat. Alessandro Baricco.
Torino: Einaudi, 2019. Il libro esce a pochi mesi da The game e presenta sia approfondimenti sia
commenti a caldo, come un instant book. Riesce così anche a prolungare ‘l’evento’, tenendo desta l’at-
tenzione sulla pubblicazione.
il libro                                                                                          227
tura circolare del dittico e riprende la parola per commentare i commentatori, ecco,
nel momento in cui il gioco termina, i lettori apprendono la regola che ha sostenuto
la struttura argomentativa. Possono così pensare, retroattivamente, al percorso di
lettura appena compiuto, e magari ipotizzare di tornare indietro ad alcune ‘caselle’,
magari saltandone altre, o restando ‘fermi un giro’. Come nel gioco dell’oca, nell’in-
cessante opera di lettura, rilettura, scrittura, riscrittura, i giocatori sono coinvolti ora
con funzione di autore, ora di lettore. O, anche, con entrambi i ruoli, esercitati con-
temporaneamente.
     Anche Umberto Eco, commentatore di se stesso, svela che il significato del titolo
Il nome della rosa era stato posto nelle ultime righe del romanzo, come ‘rosa’, come
premio al lettore che aveva svolto tutto il tragitto penitenziale, tutto il percorso di
lettura3. In maniera analoga, Alessandro Baricco – che identifica proprio in Eco, gamer
della prima ora, la nascita della nuova narrativa, al confine tra saggio e racconto –
gratifica il lettore che ha superato tutti gli ostacoli, svelandogli la regola del gioco4.
Baricco lascia così intuire che la narrazione-gioco non avrebbe potuto dispiegarsi se
non ci fosse stata l’interattività (usiamo un termine della rivoluzione informatica,
del game). Solo il lettore che sa che al centro di ogni narrazione c’è un non-detto, un
vuoto che solo lui – il lettore – può colmare provvisoriamente con personali inter-
pretazioni, ebbene solo quel lettore che dà corpo alle omissioni di Baricco riesce ad
arrivare alla fine del game. Certo, anche lettori meno consapevoli possono apprendere,
dilettarsi. Baricco non scrive per un lettore ideale ma sembra semmai proporsi ‘per
tutti’, utilizzando un linguaggio talvolta informale, con parole gergali, intercalari e
perfino qualche scurrilità, il tutto con effetto di mimesi del parlato, dal tono giova-
nilistico e giocoso (il che, in effetti, rende ancora più evidenti i momenti di filosofica
riflessione). Ma soffermiamoci su quel particolare lettore, sottoposto alla dura disciplina
del Novecento; un lettore postmoderno allenato da formalismo, strutturalismo,
semiologia, media studies, decostruzionismo, cultural studies, postcolonialismo, gender
studies… Proprio perché così allenato, affronterà il game con maggiori possibilità di
vincere? Ma vincendo la partita non rischia di perdere il piacere del testo, dell’infinito
intrattenimento, per dirla proprio con le parole di Roland Barthes e Maurice Blanchot,
maestri della lettura? Quel lettore novecentesco, istruito, consapevole, che cerca la
profondità, è attirato dal vortice, da mistero celato nelle storie: è attratto dall’assenza5.
Quando il libro sta per chiudersi, quando sta per apparire la scritta game over, quel
lettore si vede premiato e sente il gusto di aver capito, da solo, che la regola del gioco
era lasciare una casella vuota, e saltare e tornare indietro. E in quei vuoti e in quel
non detto poteva collocarsi la sua abilità euristica.
     Così, infatti, Alessandro Baricco si sofferma su chi gli fa notare che in The game
non appare mai la parola ‘capitalismo’. E come si fa a parlare di rivoluzione digitale
senza nominare la chiave interpretativa utilizzata per ogni grande evento del Nove-
cento? Ma per Baricco quella è una parola tabù proprio perché ha connotato il Nove-
cento, quell’epoca che il game intende riformare:

3 Umberto Eco, Postille a “Il nome della rosa”, «Alfabeta», 5 (1983), n. 49, p. 577-615. Riproposto in
appendice al romanzo, Il nome della rosa. Milano: Bompiani, 2013, p. 577-615.
4 A. Baricco, I barbari cit., p. 75.
5 Nel suo libro di ‘recensioni’, Una certa idea di mondo: i migliori cinquanta libri che ho letto negli
ultimi dieci anni. Roma: Gruppo editoriale L’Espresso, 2012, Baricco afferma di detestare la ‘letteratura
dell’assenza’. Detestare in quanto lettore, forse, ma non come autore, forse.
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        In The Game la parola «capitalismo» non compare neanche una volta. Esistono
        lettori per cui questo equivale a scrivere Moby Dick senza la balena. Lo capisco.
        Ma sulla questione nutro le mie convinzioni, che non chiamo certezze solo per
        buon gusto. La prima riguarda il metodo. The Game è, quasi integralmente, un
        manuale di anatomia: studia il funzionamento di un corpo, anche se qui il corpo
        è una civiltà. Per questo tipo di studio, l’inflessione morale o politica di quel
        corpo conta fino a un certo punto: non nel senso che non conti in assoluto, ma
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        nel senso che in quel momento può solo rendere opachi i risultati della ricerca .

Torniamo un attimo indietro. Come ha fatto il commentatore a notare l’assenza di
‘capitalismo’? Ha letto forse in versione e-book, ha azionato la funzione ‘Trova’ di Word?
Ed è vero? O piuttosto si tratta di una trovata retorica, del commentatore, o dell’autore
stesso, per spingere noi a rileggere, per controllare se è vero? E ancora – rimanendo sul
piano della ‘verità’, concetto certo non agevole se dovessimo considerare The game una
narrazione – potremmo allora chiederci se Baricco non se ne sarebbe accorto se qualcuno
non glielo avesse fatto notare, nel sequel. O invece Baricco lo avrebbe comunque svelato
nelle interviste, o nelle presentazioni del libro? In definitiva, potrebbe trattarsi di un
gioco narrativo, ossia una falsa disputa tra autore (collana Big) e umili, giovani, com-
mentatori (collana Stile libero), per tenere ancora desta l’attenzione sul libro.
     O forse si può dire ‘capitalismo’ in altri modi. O forse era nelle regole del gioco che
Baricco non dicesse la parola chiave ma la indovinassero gli altri, i compagni di gara,
come in Taboo. È un metodo, una tecnica retorica, vuole verificare se qualcuno riesce
a scoprirlo. The game unplugged, il sequel, allora non solo aveva la funzione saggistica
di approfondire temi relativi alla rivoluzione digitale (ad esempio il successo delle
serie TV fruite su computer, i temi della cybersicurezza e sorveglianza, il dominio degli
algoritmi, la pervasività dei social network, la prospettiva di gender, etc.); ma aveva
anche la funzione narrativa di svelare, metadiscorsivamente, i misteri rimasti irrisolti.
Come in un giallo, si scopre tutto alla fine. D’altra parte, i generi si sono mescolati, e
ci sono ormai – sin dai tempi del già citato Umberto Eco – saggi in forma di giallo,
oppure, come in questo caso, saggi in forma di gioco, di rebus, di videogame, meglio.
Baricco lo definisce un ‘manuale di anatomia’, riferendosi dunque a uno strumento
di studio agli antipodi di un game. Ma, appunto, ormai i generi si confondono: narrazioni
e saggi, finti giochi e veri manuali, ma anche falsi manuali di anatomia e veri racconti
filosofici – e come tali politici, perché studiano il corpo sociale – opere che mescolano
al piacere di narrare e raccontarsi quello di istruire e indirizzare.
     Ecco l’obiettivo di ricerca, ecco il metodo, afferma Baricco, critico di se stesso.
Chi toglie dalla vista, apre la caccia (e d’altra parte Moby Dick, davvero, non c’è, non
è afferrabile, e dunque lo stesso Melville omette la balena e semmai interagisce solo
con la sua assenza)7. Ma basta essere assenti per non essere? Le parole assenti sono
comunque presenti, quell’assenza è lì, al centro della storia. L’omissione della parola
tabù, ‘capitalismo’, non esclude il concetto, anzi lo evidenzia: fa vuoto intorno, fa
silenzio, per sottolinearlo. Perché Baricco non vuole solo comunicare ma narrare.
Un saggista non nasconde la parola, vuole che venga capito tutto. Un saggista ha
bisogno di dire con parole chiave, di testimoniare con note l’uso delle fonti; in defi-
nitiva, se il saggista punta a spiegare, a farsi capire, il narratore vuole capire e indurre

6 A. Baricco, Nota. Scritta dopo aver letto. In: The game unplugged cit., p. 279-280.
7 In effetti, Baricco, aveva già riraccontato la storia ‘senza’ la balena: Herman Melville, Tre scene da
Moby Dick, tradotte e commentate da Alessandro Baricco con Ilario Meandri. Roma: Fandango, 2009.
il libro                                                                                       229
i lettori a darsi autonomamente delle spiegazioni. L’‘assenza’ sottolinea pertanto
che è ormai caduta ogni distinzione di genere tra saggio e romanzo perché il saggista
vuole essere sicuro di essere capito, e quindi non omette; mentre l’artista vuole anche
giocare con i suoi lettori, vuole mostrare e nascondere: aspetta di essere trovato e che
così il lettore trovi se stesso. Parole troppo oscure non restituiscono informazione,
ma in letteratura sì – ed emozione, anche.
     Come in un moderno esercizio di stream of consciousness, Baricco descrive e racconta;
pratica quei territori di confine tra saggio e romanzo, tra scrittura e immagini, e mappe;
si riferisce a eventi epocali, ma anche a episodi della vita quotidiana, e perfino auto-
biografica, e rimanda a film, a serie TV, a canzoni e rapper e mix. La potremmo chiamare
docufiction, bioepic, e in molti altri modi ancora. «Scrivere Moby Dick senza la balena»
non è dunque il metodo tipico dei manuali di anatomia, semmai è caratteristico
dell’arte, e in particolar modo delle avanguardie, o del manierismo. Pensiamo ad
esempio ai ‘giochi’ dell’Oulipo, alle gare a chi componeva la più bella poesia senza
usare, mettiamo, la lettera P. Il virtuoso vuole porsi delle difficoltà, dei limiti, per evi-
denziare maggiormente la bravura. E poi – lo dimostra la ‘letteratura dell’assenza’,
categoria critica diffusasi in quegli stessi anni Ottanta – il divieto crea un silenzio, e
insieme una fascinazione. Proprio sull’orlo di quel cratere si affaccia il lettore ammaliato
dalla percezione del vuoto, risoluto ad arrivare a sciogliere il mistero. Si metterà lì e
leggerà e seguirà la storia e troverà il pezzo mancante, e così capirà la trama in gioco.
     E poi omettere alcune parole è – ancor prima che una tecnica narrativa – una stra-
tegia euristica. Come facciamo quando cerchiamo le parole da inserire come chiave
di ricerca in Google: evitiamo parole comuni per evitare di essere sommersi da infor-
mation overload, ossia da troppe, e come tali ingestibili, risposte; d’altra parte, anche
la scelta di parole eccessivamente specifiche, o perfino criptiche, si rivela rischiosa,
perché potrebbe dare come risultato ‘zero’. Dobbiamo pertanto trovare un bilancia-
mento tra ‘troppo’ e ‘nulla’ nella ricerca delle keyword che ci condurranno al recupero
di informazione pertinente. Per cercare ‘capitalismo’ su Google non metteremmo
solo ‘capitalismo’. Troppo poco, troppo vago, e anche ‘troppo’.
     In realtà, se anche Baricco non avesse davvero nominato mai la parola ‘capitalismo’,
certo ne ha affrontato – con parole nuove – gli elementi tipici: la rivoluzione digitale,
il grande gioco, The game, ha rifondato il sistema economico e culturale. Sin dalle
prime pagine Baricco raffigura l’uomo della nuova era in una postura assolutamente
caratterizzante: smartphone in mano e sguardo perennemente rivolto allo schermo.
Un uomo che ha subito una metamorfosi antropologica e che è diventato un tutt’uno
con un oggetto del mercato, con un prodotto del nuovo capitalismo, dunque. L’uomo
del game viene rappresentato come una figura mitologica, come un centauro, metà
uomo, metà cavallo. Solo che adesso la metà che consente la comunicazione, la velo-
cità, è un telefono-computer, è un prodotto immesso nel mercato con abile mossa
di marketing nel 2007 da Steve Jobs. E la presentazione dell’iPhone – una vera e
propria performance – viene indicata da Baricco come uno degli eventi epocali che
hanno dato vita a una nuova morfologia del mondo e a un nuovo tipo di uomo.
     Da qui l’uso di mappe, per corredare il discorso di The game8. Ma cosa aggiungono
quelle mappe? verrebbe da chiedersi. Il fatto stesso che ci sono – si potrebbe rispondere.
Il fatto stesso che si sia ormai imposto un codice visuale per la narrativa. Lo si è sempre
fatto. Come quando Stevenson iniziò la narrazione dell’Isola del tesoro inventando

8 Vengono riconosciuti i credits agli autori delle mappe già nel frontespizio: «Cartografia e design:
100km studio Luigi Ferrauto e Andrea Novali».
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per ‘gioco’ una storia a partire da una mappa. Ma adesso la rilevanza delle immagini
è tale da essere diventata di per sé una caratteristica del game.
    Fare le mappe significa quindi far vedere, ‘fare’, il mondo che si sta raffigurando.
The game, dicevamo, è un racconto filosofico, e come nel Timeo, o come in Candido,
narra l’origine del mondo, o l’incontro con un mondo nuovo. Già dalla copertina
ricaviamo un indizio importante: un’immagine della Terra vista dallo spazio. Ma su
quel mondo c’è un trade mark, segno di un diritto di proprietà, Getty Images. Ancora
una volta, sebbene non detta, si intravede la parola ‘capitalismo’, reinterpretata
secondo nuovi codici:

        In realtà, il Game è un sistema assai più complesso, in cui si possono vedere
        all’opera forze contrastanti […] [rimanendo fedeli alle vecchie mappe] va perduta
        proprio la complessità di quello che sta succedendo, e questa è una sorta di cen-
        sura preventiva a cui mi è impossibile allinearmi. Inchiodare la dinamica della
        mutazione all’ennesimo travestimento del Capitale è un modo di bloccare l’o-
        scillazione del Game, soffocarne il respiro, ridurne la trama a un riassuntino di
        MyMovies. In realtà, il Game è un sistema assai più complesso, in cui si possono
        vedere all’opera forze contrastanti, correnti che vanno in direzioni molto diverse,
        sequenze meccaniche che rispondono a leggi fisiche che non ci risultano. Se
        devi provare a spiegarlo, prova a vietarti la parola “Capitale” e vedrai come tutto
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        inizia a mettersi in moto.

Così, con tool nuovi – ma con la memoria di strumenti interpretativi del Novecento
– Baricco racconta dell’uomo della rivoluzione digitale, l’uomo del game, metà uomo,
metà ‘cosa’. Ma non ha più la consapevolezza politica, marxista, dell’uomo reificato,
alienato. L’uomo del game, metà uomo, metà telefono, più o meno smart. Ma non
ha più la consapevolezza postmoderna, e di gender, e postcoloniale, di essere un
cyborg, un replicante senza memoria – come nel romanzo di Philip Dick. Perché è
metà uomo, metà automa che dirige le sue azioni solo dopo aver ricevuto istruzioni
da algoritmi che gli dicono dove andare a mangiare, quale hotel prenotare, e quali
libri leggere. Ma non ha ancora la consapevolezza del suo ruolo all’interno dell’An-
tropocene – altra parola ‘assente’ in The game, ma introdotta in The game unplugged
e sottolineata da Baricco nel commento ai commentatori. L’autore e i commentatori
si scambiano reciprocamente molte parole e finiscono così per imparare, l’uno dal-
l’altro; e lo stesso avviene tra il lettore e tutti gli autori. Le parole assenti restano nello
stato inconscio e agiscono in relazione a parole nuove – prima assenti – che descrivono
un mondo nuovo.

Dall’ipertesto all’oltremondo
A noi che veniamo dal vecchio continente, dal Novecento, quell’uomo-tastiera-
schermo ci pare un uomo nuovo, ma in effetti è un cavernicolo, è ancora agli albori
del game. Solo che lui, a differenza di noi, è scappato dal Novecento, e come altri
migranti, prima ancora, ha cercato un nuovo mondo. E noi invece siamo qui, con
lo sguardo voltato indietro come Orfeo.
    Ma noi chi?
    Intanto verrebbe da rispondere ‘noi’ che non siamo digital born, noi che non siamo
nati nel game ma che invece lo abbiamo visto nascere. Noi che siamo nati e che abbiamo
raggiunto la maturità – intellettiva, professionale, emotiva – nel Novecento. Ma anche

9 A. Baricco, Nota. Scritta dopo aver letto cit, p. 281.
il libro                                                                                           231
noi che guardiamo con sussiego classista gli uomini del game. Sdegnati, ironizziamo
che loro (rozzi, ignoranti, uomini della nuova era) ‘pubblicano’ (figuriamoci, è solo
un post su Facebook!) ed esprimono pareri (non sono giornalisti, al massimo influencer!)
condividono foto e filmati (non è arte, vogliamo scherzare!). Noi che credevamo che
‘capitalismo’ fosse la precondizione per affermare l’egemonia economica, politica,
culturale e artistica. Non più. E non servono nemmeno intermediari, emittenti
televisive, giornali o editori. Ognuno può entrare direttamente nel game.
     E poi, verrebbe da aggiungere, noi che apparteniamo alla comunità rappresentata
da questa rivista. Noi che apparteniamo alla comunità che si raduna, si ripara, si
nutre, in biblioteca. E come lettori, come bibliotecari, come studiosi, ci interessa
molto questo racconto che ha al suo centro la grande digital library che è diventato
il mondo. Vogliamo percorrere da sinistra a destra e da destra a sinistra il ‘docuverso’,
ossia l’universo di documenti, un universo che è ormai tutto un documento – secondo
le parole di Ted Nelson, già negli anni Sessanta. The game è dunque un libro importante
per chi, come noi, si occupa di conservare e disseminare emozione e conoscenza. E
noi – possiamo aggiungere con umile orgoglio, con timida intraprendenza – siamo
arrivati prima di altri in questo nuovo mondo della rivoluzione digitale, e presto ci
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siamo interrogati sulle regole del game, anche se non lo chiamavamo così . Noi del
vecchio mondo (humanities), emigrati verso il nuovo mondo (digital), come Novecento
(personaggio) viaggiamo senza scendere dalla nave, attaccati a una tastiera. Nascosti
in biblioteca. Nascosti in casa, da soli. Nascosti entro i marginalizzati, poveri, angusti,
territori di discipline minoritarie, già da tempo vedevamo e descrivevamo il fenomeno.
Anche trent’anni fa eravamo lì, non visti, e perciò con un vantaggio: osservare meglio
gli altri, osservare meglio cosa stesse accadendo. Osservare l’esplosione al sicuro,
dietro barricate di volumi e saggi e articoli, e record di banche dati. Abbiamo avuto
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l’opportunità di vedere il mondo nuovo al suo apparire .
     In effetti, la storia raccontata da Baricco inizia proprio una trentina di anni fa, al
tempo in cui alcuni sceglievano Taboo – gioco quasi ingenuo, e ancora in scatola, ‘di
carta’ – mentre altri già preferivano i videogiochi. Anzi, la rivoluzione digitale stava
facendo adepti grazie alla componente ludica immediatamente messa in risalto dal
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mercato. Attraverso marzianetti che invadevano gli schermi delle prime console ;
attraverso i PC che, in quanto personal, offrivano possibilità di utilizzo a misura di
ciascuno, e poi con il molto ‘giocoso’ Mac, si stava cercando di convogliare verso
l’uso del computer una massa sempre crescente di utenti. Sono quelle le prime ‘costole’,
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i ‘fossili preistorici’ – come dice Baricco . Fino ad allora, molti non avrebbero saputo
che farci con quell’oggetto misterioso che sembrava poter attrarre solo scienziati e

10 Va ricordato che Paolo Bisogno, fondatore della disciplina della documentazione in Italia, già nel
1968 crea l’istituto del CNR, pioniere degli studi sulle banche dati e la rete.
11 Gli studiosi del settore indicato dalla sigla MSTO/08 si sono occupati della rivoluzione digitale sin
dai primi moti insurrezionali. Segnaliamo infatti che tra i saggi di The game unplugged compare anche
Il web è un moltiplicatore di Andrea Zanni, matematico, bibliotecario e studioso, attivista di Wikimedia
e già noto a queste pagine.
12 Analoga cronologia propone Martin Amis, L’invasione degli space invaders, traduzione di Federica
Aceto. Milano: Isbn, 2013.
13 Altri hanno invece posto l’attenzione sulle tecnologie perdenti nella lotta darwiniana per il controllo
del game: Nico Nosengo, L’estinzione dei tecnosauri: storie di tecnologie che non ce l’hanno fatta.
Milano: Sironi, 2003.
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studiosi. Alcuni, sin dagli anni Sessanta, avevano cercato di inserire il computer nel
clima della controcultura, provando cioè a riscrivere le regole della testualità usufruendo
dell’interattività, della multimedialità e dell’ipertestualità resa possibile dal nuovo
spazio dello scrivere, il computer. Ma ci vorrà la fine degli anni Ottanta perché la
massa critica si allarghi fino a comprendere la società occidentale nella sua totalità.
E visto che, come molti mercati, anche quello informatico è mosso dall’offerta più
che dalla domanda, la domanda venne creata e soddisfatta. E alla fine ‘tutti’ iniziarono
a giocare col computer e così finì per interessare ‘tutti’. Come in un mantra/incubo/cir-
cuito/uroboro: giocatori giocati o protagonisti.
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     Si dava inizio al gioco del mondo . Era il momento in cui – un attimo prima del-
l’avvento del web e a quasi 10 anni dall’arrivo del coloratissimo Google – venivano
posizionate le pedine. Dapprima non si percepirono le reali dimensioni del mutamento:
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anche questa volta la rivoluzione rimase inavvertita . Era pervasiva, ma silenziosa
e solipsistica, mossa da nerd chiusi nelle loro stanze. Eppure, come spesso accade, il
rumore bianco non percepito attraverso i comuni sensi, stava producendo vibrazioni
                       16
che aprivano faglie . Era una ‘catastrofe’, un cambio epocale di paradigma – come
avevano predetto René Thom e prima ancora Thomas Kuhn. Antiche Atlantidi veni-
vano inghiottite e nuove culture emergevano. La civiltà occidentale venne rinominata
a partire dagli ‘oggetti’ che avevano innescato la mutazione: società dell’informazione,
infosfera, età del web, di Google.
     Sempre rimanendo nella metafora di Taboo, sarebbero a quel punto servite altre
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parole per indovinare cosa si intendesse ormai per ‘cultura’ . E per l’appunto queste
nuove parole cerca Baricco, proponendo pietre miliari e cronologie, soprattutto negli
appassionanti paragrafi riassuntivi, presenti per ciascun capitolo e intitolati Com-
mentari. Sono infatti ormai passati anni dal big bang e si può iniziare a storicizzare
il fenomeno: a partire dall’ipertesto e poi dalla preistoria della rete, passando per gli
anni Ottanta, e poi il web, Google e lo snodo fondamentale individuato da Baricco
nel 2007, momento della nascita dell’iPhone. Dopo l’insurrezione, vecchie élite spa-
rivano e nuove dinastie principesche si affermavano. Ed ecco, sale sul podio la squadra
che ha vinto, conquista il potere e riscrive le regole del gioco, e la ‘teoria dei giochi’,
anche. Ma chi ha vinto? Non sono riconoscibili sotto bandiere politiche (e sulla
scomparsa dei partiti Baricco esprime opinioni acute, in particolare sulla sinistra
italiana e sul Movimento cinque stelle).
     Certo, per poter entrare nel game bisogna imparare una lingua nuova (e, per inciso,
ogni lettore di The game imparerà molti nuovi termini). E per poter entrare nel game
bisogna imparare un po’ di tecnologia, o meglio, un po’ di comandi, di gesti. Il cambio
antropologico finisce quindi per assumere l’aspetto di un cambio di postura: uomo-
tastiera-schermo. Non solo tutti sanno maneggiare i nuovi strumenti, e sanno parlare

14 Usando l’espressione di un precursore dell’ipertestualità, Julio Cortázar, Il gioco del mondo: Rayuela,
pubblicato nel 1963, tradotto e più volte ripubblicato da Einaudi.
15 Elizabeth Lewisohn Eisenstein, La rivoluzione inavvertita: la stampa come fattore di mutamento.
Bologna: Il Mulino, 1985.
16 Il maestro del postmoderno, Don DeLillo, nel 1985 descriveva con questa metafora la fine dell’era
del capitalismo. Anche il suo Rumore bianco è stato tradotto e più volte ripubblicato da Einaudi.
17 Come faceva Raymond Williams, il fondatore dei cultural studies, quando nel 1958 in Culture and
society: 1780-1950 (London: Chatto & Windus) descriveva il cambiamento culturale innescato dalla
rivoluzione industriale attraverso poche parole chiave.
il libro                                                                                          233
e guardare. Sanno anche ‘fare’, esercitare talenti. Ad esempio, tutti sanno prevedere
il tempo. E poi, tutti sono ‘intenditori’ e sanno qual è il ristorante migliore, il B&B
più economico e vicino al centro. Tutti sanno di vino e cucina. Non è qualcosa di
poco conto, semmai significa che tutti rivendicano il diritto ad avere ‘gusto’. Avere
gusto è stato sempre prerogativa delle élite. Adesso tutti sono dalla parte giusta. Tutti
possono diventare mecenati con il crowdfunding. Tutti sono informati degli eventi e
partecipano ai festival di economia, filosofia, o di agricoltura green; non è più come
un tempo, quando ai convegni organizzati da autorevoli, misteriose, learned societies,
potevano partecipare solo studiosi, inclusi nel gruppo.
     Ma attenzione: chi sono questi tutti che non sono tutti? Sono tutti occidentali.
E alcuni sono in proporzione di più degli altri: più maschi giovani bianchi, occidentali,
                    18
di lingua inglese . Ma allora sono ‘i soliti’? In realtà no. Sono tutti quelli che, con-
sapevolmente o no, fuggono dal Novecento – sostiene Baricco. Hanno visto olocausto
e bomba atomica, guerre mondiali e genocidi, totalitarismi e sfruttamento. Si sentono
ingannati dalle ideologie di destra e sinistra, non credono più alle ‘grandi narrazioni’
– come direbbe Jean-François Lyotard. Non riescono più a sostenere i ‘principi primi’
che avevano segnato il Novecento: ‘complessità’, ‘profondità’, ‘consapevolezza’, non
sono ritenuti valori fondanti. Piuttosto che tuffarsi nelle profondità preferiscono
‘velocità’, ‘superficie’, ‘intrattenimento’; hanno scelto lo schermo liscio e colorato,
facile, del videogame, e poi del computer, e ora dell’iPhone.
     E c’è di più. Ora tutti ‘fanno’ arte, non solo la giudicano o sanno apprezzarla: e
fotografano e filmano e suonano e cantano e pubblicano su Youtube. Stanno cercando
di costruirsi un ‘oltremondo’ – come sempre ha fatto l’umanità – dove mettere in
salvo (comando save) la memoria, la bellezza, il senso. E dove mettere in salvo, proprio
attraverso questi strumenti facili e veloci, i nuovi valori: velocità e facilità. Gli uomini
del game, i poveri del passato, che devono emigrare, cercano il nuovo mondo, un
mondo alternativo alla realtà, un oltremondo dell’arte e della conoscenza, dove
essere vivi per sempre. Non scendere mai più dalla nave, come Novecento. Sempre/mai,
il mondo e il modo infantile e sognante delle dichiarazioni perentorie, di un irreale
rapporto con il tempo, perché assoluto, non storicizzato.

Un certo modo di stare al mondo
Ci troviamo dunque di fronte a una storia di fondazione, genere tipicamente ame-
                                                                                   19
ricano, e come tale appartenente alla cultura egemone che ha prodotto il game . Ma
è una storia di fondazione anche in senso metapoetico, perché rappresentativa di
una metamorfosi dei generi della scrittura narrativa e saggistica. The game è un saggio:
e dunque aspira a dire ‘la verità’ sulla geopolitica della tecnologia informatica; ma è
anche una narrazione: e dunque desidera raccontare il nuovo mondo. Ed è anche –
come ormai caratteristico della contemporaneità – tutte e due le cose contempora-
neamente. E ancora, è un’autobiografia (sin dalla dedica, e poi con i ricordi personali,
come l’aneddoto del figlio piccolo che non capisce come mai un giornale non abbia
la funzione touch). Ed è un diario intellettuale, e un resoconto di viaggio nel mondo
della tecnologia (in interviste e presentazioni Baricco si riferisce anche a un viaggio
reale, a Silicon Valley). Come lo si consideri, da ognuno dei possibili angoli prospettici

18 Invece gli autori di The game unplugged si soffermano anche su vari effetti di colonialismo/anti-
colonialismo operati dal game, in particolare nell’ultima sezione, Change the game.
19 Salvatore Proietti, Storie di fondazione: letteratura e nazione negli Stati Uniti post-rivoluzionari.
Roma: Bulzoni, 2002.
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legati a generi letterari e saggistici nuovi o tradizionali, Baricco ripercorre il suo modo
di stare al mondo, come uomo, intellettuale, artista, e docente di creative writing della
Scuola Holden. Tutte personae a cui fa riferimento nella dedica:

         A Carlo, Oscar e Andrea.
         Ai sette saggi.
         A chi ogni giorno inventa la Scuola Holden.
         Questa lezione è per voi.

Concentriamoci sull’ultima caratterizzazione: Baricco-docente. Intanto iniziamo
col dire che dedicare una scuola a un romanzo che racconta una novecentesca fuga
da scuola è di per sé un ossimoro, un emblema che ritrae un mondo alla rovescia. E
The game può essere considerato come un libro di testo, un manuale, di questa scuola?
E cosa insegna questa ‘lezione’, come si legge nella dedica? E ancora, chi ha diritto a
insegnare e a scrivere su materie rivoluzionarie e digitali? Ossia, chi ha diritto a inse-
gnare digital humanities, l’episteme entro cui vive The game?
    Considerare The game sia come un manuale per una scuola che insegna a scrivere
romanzi, sia per una scuola che insegna a scrivere saggi, potrebbe essere una prospettiva
stimolante. Personalmente ho potuto verificare l’ottima rispondenza di The game come
testo d’esame. Anche per questo The game è un libro importante per noi, per noi che
insegniamo ad affrontare con senso storico, critico, la rivoluzione digitale. A 60 anni da
Le due culture, rimane ancora valido l’invito di Charles Percy Snow di armonizzare huma-
nities e digital, tenendo sempre chiaro in mente il contesto politico, ossia il sistema
educativo nazionale. Che fare, allora? Come e cosa insegnare? Noi abbiamo le chiavi
della biblioteca, noi conosciamo il metodo bibliografico – ossia l’approccio scientifico
e trasparente alle fonti – e noi abbiamo il compito di insegnare come conservare e dis-
seminare ‘adesso’, nel contesto del game, emozioni e conoscenza. Ma dobbiamo con-
quistare maggior credibilità e autorevolezza per descrivere e insegnare il mondo nuovo.
E dobbiamo ricordarci che abbiamo una tradizione che ci ha educato a farlo – siamo figli
del Novecento (anche se, per converso, bisogna ammettere che, come insegna Paul Karl
Feyerabend, anche andare Contro il metodo è di per sé un metodo novecentesco).
    Abbiamo un metodo, dicevamo, il metodo bibliografico, il riferimento alle fonti. Serve
ancora? Forse ancor di più ora che è ‘tabù’, ora che sembra essere usato sempre meno. Piuttosto
che imporre in modo autoritario il rispetto del nostro metodo dovremmo considerare con
maggior attenzione i nuovi generi autoriali – sia letterari che scientifici. Non dobbiamo
smettere di analizzare i cambiamenti avvenuti nella natura dei documenti (pensiamo ad
esempio a preprint, workflow, set di dati, linked open data, big data, dati grezzi, immagini,
audio, etc.) sia ai nuovi modi di disseminazione e ai nuovi destinatari (open access, open
science, cittadinanza scientifica). Se cambia il giocatore, in effetti, cambia anche il gioco; e
anzi, tutto cambia se le regole cambiano, anche se i giochi sembrano essere gli stessi20.
    Occorrerà ripensare i confini, i compiti, le priorità, le identità, tra sapere/sentire,
tra saggistica e arte. Esempi recenti lo fanno percepire: da Tony Judt a Ian McEwan,

20 In tal senso consideriamo i CV degli autori di The game unplugged. Ne prendiamo solo due come esemplificativi.
Il primo, anche dalle scelte tipografiche (tutto maiuscolo) rimanda al mondo del game: «DAVIDE COPPO HA
24 ANNI E LA BARBA. È LAUREATO IN LINGUE E LETTERATURE STRANIERE. È MILANISTA, SCRIVE PER IL MAGA-
ZINE BIMESTRALE STUDIO E GLI PIACCIONO LE RAGAZZE CON I CAPELLI CORTI, GLI SMITHS, IL BEEFEATER,
ANTHONY BURGESS, JOHN FANTE, CARVER E ALTRA GENTE PRESA MALE». Il secondo, di una donna, mescola
ambiente accademico e temi antiaccademici: «Francesca Coin insegna Neoliberal Policies e Global Social Move-
ments all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si occupa di lavoro, la moneta e la soggettività».
il libro                                                                                                235
da Christopher Hitchens a Martin Adams, che cosa caratterizza un saggio e cosa un
romanzo? L’io narrante, ad esempio, compare anche nei saggi; e ci sono saggi appas-
sionanti come romanzi ma che non possono svelare le fonti – come Gomorra21. Abbiamo
un romanzo con elenco finale delle fonti (ad esempio Canale Mussolini, Premio Strega)
e saggi senza bibliografia, come in questo caso. Ma appunto, torniamo, come in un
gioco dell’oca, a quanto già affermato: The game non è un romanzo né un saggio, è
entrambe le cose; è un genere ‘mutante’, e anche un remix (come dichiarato nel sot-
totitolo di The game unplugged). In questo, sì, dobbiamo fuggire dal Novecento. Non
possiamo giudicare The game in base a quelle antiche regole. Dobbiamo leggerlo.

Articolo proposto il 24 settembre 2019 e accettato il 4 ottobre 2019.

                      aib studi, 59 n. 1-2 (gennaio/agosto 2019), p. 225-235. DOI 10.2426/aibstudi-11962
ABSTRACT              ISSN: 2280-9112, E-ISSN:2239-6152

PAOLA CASTELLUCCI, Dipartimento di lettere e culture moderne, Sapienza Università di Roma, e-mail
paola.castellucci@uniroma1.it

Fuga dal Novecento: su The game, la rivoluzione digitale, e altre catastrofi
Bibliotecari e studiosi che si occupano di discipline del libro e del documento, o di digital humanities, hanno
visto nascere il game – la rivoluzione digitale – trent’anni fa e più. Hanno immediatamente cercato di mettersi
al servizio della comunità analizzando le opportunità e le insidie del nuovo mondo. Un’ottima occasione
per riflettere sull’identità professionale e intellettuale viene pertanto offerta ora da Alessandro Baricco con
The game, racconto filosofico, docufiction, al confine tra scrittura narrativa, saggistica, autobiografica. La
rivoluzione digitale, il grande gioco, The game, ha rifondato il sistema economico, culturale, emotivo. Sin
dalle prime pagine Baricco raffigura l’uomo della nuova era in una postura caratterizzante: perennemente
attaccato a una tastiera, lo sguardo fisso allo schermo del computer o dello smartphone. Un uomo che ha
subito una metamorfosi antropologica e che è diventato un tutt’uno con un oggetto, con un prodotto del
nuovo capitalismo. Eppure – come sottolineano gli autori del ‘sequel’ The game unplugged – la parola
‘capitalismo’ non appare mai. Per Baricco, infatti, quella è una parola tabù proprio perché ha connotato il
Novecento, l’epoca che il game intende riformare. Gli uomini del game sono fuggiti dal Novecento e cercano
nuovi valori e nuove possibilità di espressione nell’oltremondo digitale, social e seriale.

Escaping from the Twentieth Century: on The game, the digital revolution, and other catastrophes
Librarians and scholars have been among the firsts to reach out and describe the new world of the digital
revolution – the Game, as Alessandro Baricco calls it. Reading The game will therefore offer an opportunity
to reconsider ourselves as librarians, scholars, citizens. In this docufiction, conte philosophique, tale,
autobiography, Baricco describes the age of the game as an anthropological mutation. The new man is a
hybrid, a creature-keyboard-screen: half a human being, half a product of contemporary Capitalism. And
yet, this word, ‘capitalism’, never appears in The game (as underlined by the authors of the ‘sequel’, The
game unplugged). As a matter of fact, ‘capitalism’ is a term strictly connected to the 20th Century, the
old world. The inhabitants of the Game are immigrants: they have escaped from the old world, they are
looking for new values in the ‘land of opportunities’, in the digital world.

21 Su Gomorra come ‘evento’, fenomeno spartiacque, e sugli effetti sul lettore si veda Edoardo Bru-
gnatelli; Chiara Faggiolani, Gomorra: 10 anni di conversazioni su aNobii. In: Le reti della lettura: tracce,
modelli, pratiche del social reading, a cura di Chiara Faggiolani, Maurizio Vivarelli. Milano: Editrice
Bibliografica, 2016, p. 261-303.
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