Friedrich Schiller, filosofo dell'incorporazione - Filodiritto

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Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752
                                               Direttore responsabile: Antonio Zama

           Friedrich Schiller, filosofo dell’incorporazione
                                                  14 Ottobre 2021
                                                  Riccardo Cravero

In anni recenti si è assistito alla nascita di campi di ricerca multidisciplinari che hanno visto collaborare
scienze biologiche, scienze sociali e filosofia. Uno dei più recenti indirizzi di ricerca è quello degli studi
sull’embodiment, termine che indica ‘incorporazione a livello di abitudini, movimenti e gestualità irriflesse
di contenuti culturali e sociali.
A livello sociologico, il vantaggio di tale prospettiva è di collegare efficacemente il piano delle norme e dei
sistemi sociali astratti con l’agire individuale degli attori, offrendo un modello per spiegare la naturalezza
che alcuni modi di agire o pensare assumono per un gruppo sociale e non altrettanto per un altro.
A livello neurologico ciò ha permesso la nascita di discipline come la neurosociologia, che traccia le radici
del consolidamento di alcuni comportamenti anziché altri nella duplice azione della neuroplasticità
cerebrale da un lato e dall’influsso del contesto sociale che su di essa agisce dall’altro.
A livello filosofico, oltre che rappresentare un esempio di relazione non riduzionista tra diversi saperi, il
tema è stato notato per l’interesse che esso riveste in quanto concettualizzazione moderna del filone di
riflessione sull’abitudine che innerva il pensiero filosofico da Aristotele a Bourdieu, passando per Pascal,
Hume, James e Dewey.
Autori diversi tra loro per epoca e prospettiva ma tutti interessati, a vario titolo, alla “seconda natura” che è
per noi la sfera dell’abitudine, sfera dei comportamenti appresi e non innati ma ugualmente irriflessi e
naturali per chi li ha introiettati.
Questo articolo verterà su uno di questi autori, esploratore di questa naturalezza dell’abitudine e del suo
profondo significato morale e politico.
Seguendo alcuni temi della filosofia di Friedrich Schiller si vedrà come il tema dell’embodiment
sia centrale nella concezione politica e educativa dell’autore e di come in alcuni punti del suo pensiero le
tematiche etiche e quelle estetiche siano frammiste intimamente. Con ciò non intendiamo affatto suggerire
l’attualità della prospettiva schilleriana in quanto parte dei moderni studi interdisciplinari sopra ricordati:
sarebbe inopportuno forzare a tal punto l’interpretazione del suo lavoro e misconoscere la differenza di
lessico, categorie e metodologie.
La rilevanza della sua proposta risiede invece nell’aver delineato alcune fecondissime linee di pensiero che
possono essere considerate molto più che prospettive “incarnate” ante litteram, risultando utili per indagare
i punti di commistione tra estetica e carattere morale e la loro importanza nella sfera dell’agire politico.
Proprio questa attenzione all’aspetto valoriale dell’incorporazione sarà al centro della nostra trattazione,
che si soffermerà sulla sua importanza non solo per la storia del pensiero ma anche per i più recenti studi
contemporanei.
Prima di entrare nel dettaglio della proposta schilleriana, è importante tracciarne il profilo intellettuale,
vista la peculiarità che esso presenta e la rilevanza per la nostra trattazione. Inizialmente deciso a studiare
teologia, il giovane Schiller viene convinto a studiare medicina e a diventare medico dell’esercito prussiano.
Reduce da studi fisiologici, il giovane autore inizia a maturare interesse per le implicazioni filosofiche
della corporeità umana ed al contempo inizia ad esplorare la propria passione per l’arte poetica, scrivendo
poesie e opere teatrali.
Avvicinatosi alla lettura di Kant soprattutto per interessi estetici, egli ne intraprende non solo una lettura
sempre più assidua, ma una progressiva assimilazione e rielaborazione.
Saranno questi elementi a confluire nelle sue opere filosofiche: una prospettiva kantiana (sempre più
originale col tempo), una attenzione alle arti desunta anche dalla sua carriera poetica ed una “filosofia
della fisiologia” volta a colmare il vuoto lasciato da una medicina riduzionista e meccanicista ed una
filosofia speculativa, astratta e scorporata.
Il contesto in cui l’autore tedesco inizia la sua opera di riflessione è un contesto di artificiosa separazione
tra due elementi dell’esperienza umana.
Da un lato abbiamo un pensiero astratto, raziocinante e intellettuale che utilizza concetti formali ma che
non tiene conto delle impellenze e delle forze della natura biologica umana, dall’altro abbiamo una
naturalezza istantanea che se non temperata dalla ragione rende l’uomo un coagulo di impulsi animali e di
immediatezze sensibili non elaborate.
Schiller sa che ognuna di queste dimensioni ha le sue necessità e le sue pulsioni, che l’uomo non può
smettere di essere corporeo e pulsionale per chiudersi in un mondo di puri concetti ma nemmeno rinunciare
alle esigenze raziocinanti della sua stessa natura, volta al pensiero concettuale. La natura dell’uomo è
dunque per Schiller formata da due natura, una sensibile ed una razionale.
Ciò che l’autore chiamerà istinto alla vita viene direttamente dalla natura sensibile, mentre ciò che sarà
detto istinto alla forma è il portato della natura razionale ed intellettuale dell’uomo. Vediamo ora come
l’autore sviluppa questa duplicità nella descrizione della condotta morale.
Come detto, l’uomo secondo Schiller è portatore di due nature, sensibile e razionale. Queste due nature
possono convivere armonicamente, e proprio questa armonica integrazione di essi è il fine della filosofia di
Schiller, ma tale convivenza è tutt’altro che semplice o scontata: da un lato la natura tende ad assoggettare
l’uomo alla sua legge, generando impulsività e barbarie, dall’altro però la ragione da sola può unicamente
indicare ciò che è giusto eticamente, senza dare impulso all’azione.
In una delle sue prime opere filosofiche, intitolata Grazia e dignità, che introduce temi che saranno
sviluppati nelle sue opere successive più famose, l’autore esamina due casi di relazione peculiare tra queste
due nature dell’uomo: la grazia qui rappresenta il livello massimo di integrazione tra le pulsioni sensibili e
la ragione morale, mentre la dignità è lo stato di sublime resistenza della seconda agli attacchi della prima.
Spieghiamo meglio questa divisione: nella natura aggraziata i tratti fisici della persona (movenze, gesti,
postura, espressioni) lasciano trasparire il carattere morale di essa, ad esempio la sua natura gentile, buona,
altruista e dolce.
Ovviamente, perché ciò sia autentico non ci deve essere artificio: Schiller è chiarissimo nel distinguere la
vera grazia dall’artificiosa affettazione del cortigiano intrigante. La prima è spontanea, si manifesta
soprattutto nei caratteri irriflessi dell’agire (come appunto quelli che non controlliamo: espressioni,
gestualità, postura), la seconda si manifesta solo quando performata e svanisce non appena la persona si
distrae dalla sua messinscena.
Punto più alto di integrazione tra sensibilità e ragione, la grazia è la prova del non completo antagonismo
delle passioni e della ragione morale, che nella persona aggraziata non si fanno la lotta bensì si
assecondano e si uniscono l’un l’altra.
Così non è nella persona che si trova a mostrare la propria dignità: qui il fulcro del discorso sono proprio la
lotta e la sproporzione.
Urge una piccola postilla estetica: Schiller paragona la Grazia al Bello, piacevole manifestazione di
armonia e proporzione, mentre ritiene la Dignità simile al Sublime, ovvero il sentimento di stupore e
sbigottimento di fronte alla forza della natura ed alle sue manifestazioni più spettacolari, sbigottimento
affrontato e superato, che si volge in coraggioso apprezzamento e meraviglia.
Il Sublime è testimonianza di coraggio, di ribellione contro la nostra vulnerabilità nella natura e di
vittoria su di essa: l’uomo è nulla di fronte all’oceano, la cui enormità lo sbigottisce, ma lo affronta grazie
alle sue tecnologie e ne gode la bellezza dove prima avvertiva solo timore.
Così la dignità, che comporta l’affrontare le pulsioni e vincerle, è sublime.
“Essere umani” vuol dire comportarsi secondo il meglio della nostra natura, riconoscendo in noi la
viltà e la meschinità ma superandole, comportandoci con coraggio anche quando essere vili è più facile e
comodo: rifiutare un lavoro redditizio ma disonesto, non piegarsi ad offerte indecenti pur di avere successo,
rifiutare lusinghe e corruzione in nome di un ideale morale.
Se nelle categorie estetiche del Bello e del Sublime si possono leggere due atteggiamenti fondamentali nel
rapporto tra uomo e natura (l’ideale di un mondo felice in cui si realizzano i nostri desideri da un lato e il
superamento dei presenti limiti dall’altro), ciò vale anche per quanto detto ora, costituendo l’analisi
schilleriana una vera e propria tassonomia dei rapporti tra il nostro essere creature naturali e le nostre
aspirazioni morali.
Tenendo a mente quanto detto, proseguiamo la nostra analisi andando verso alcuni degli esiti più maturi
dello sviluppo della riflessione di Schiller, che avrà implicazioni non solo etico-antropologiche, ma anche e
soprattutto politiche.
Come detto, l’uomo si presenta dotato di due nature conflittuali, così che spesso una sia sorda ai dettami
dell’altra.
A livello etico ciò si esplica nella situazione di chi razionalmente sa cosa è bene ma non ha
abbastanza convinzione o forza d’animo per agire spinto da tali considerazioni morali, così che,
nonostante i cogenti ragionamenti dei filosofi, un buon ragionamento morale spesso non porta a estesi
cambiamenti di condotta nella società.
L’uomo ideale, postulato dagli astratti ragionamenti dei filosofi, si infrange spesso contro la concreta
esistenza dell’uomo naturale, coi suoi bisogni, le sue pulsioni e anche le sue bassezze. Spesso riformatori,
politici e filosofi progettano ambiziosi ideali di rinnovamento sociale avendo in mente come soggetto etico
l’uomo ideale, mentre ad essere concreti attori delle azioni politiche e morali saranno gli uomini naturali,
assai diversi da quanto prospettato.
Occorre ricordare che la riflessione di Schiller è pienamente inserita nel contesto dell’Illuminismo tedesco,
motivo per cui egli fa “filosofia al presente” (come definì Foucault l’Illuminismo), ovvero ragiona con uno
sguardo direttamente rivolto all’attualità e al rinnovamento della società dei suoi tempi. Questo spiega la
preoccupazione di Schiller per il fenomeno appena descritto: la Rivoluzione francese aveva rovesciato un
secolare stato di cose pensando che gli uomini si sarebbero mossi verso fini di giustizia e libertà per la
semplice evidenza razionale del loro valore, ma dopo le prime vittorie e i primi traguardi la rivoluzione
stessa perse impeto, gli animi si affievolirono, gli ideali cedettero il passo a preoccupazioni egoiste, brame
di potere e ambizioni materiali.
Di fronte alla Rivoluzione, di cui intuì la degenerazione, e dei cambiamenti del suo tempo Schiller assume
una posizione speranzosa ma cauta e moderata, notando come gli ideali siano positivi e buoni ma la loro
realizzazione si è arrestata a causa di una idea intellettualistica della natura umana: l’Illuminismo avrebbe
quindi sviluppato una buona teoria etica ma l’avrebbe fondata su una antropologia inefficace.
Perché i progetti di rinnovamento dell’ordine sociale abbiano effetto bisogna conquistare entrambe
le nature dell’uomo, quella sensibile e quella razionale.
La tendenza della natura sensibile a vivere di contenuti concreti, a cercare il particolare e l’immediato, deve
essere integrata con quella più generalizzante, nutrita di forme e astrazioni, che è tipica della natura
razionale.
Ma poiché ognuna tira l’uomo verso i suoi obiettivi precipui, esso è disarmonicamente diviso tra istanze
eterogenee.
Tuttavia, ecco venire in auto del pensatore tedesco il suo impianto kantiano, che prendendo a piene mani
dalla Critica del Giudizio trova in un “impulso al gioco” la via di conciliazione tra queste nature divergenti.
Nell’apprezzamento estetico le nostre facoltà “giocano” tra loro senza che nessuna di essa prevalga, poiché
l’esperienza estetica non si esaurisce né nel contenuto dell’opera (cosa sto guardando, sentendo, toccando)
né in una sua caratteristica astratta (una singola caratteristica dell’esperienza che ne compendia la bellezza).
Nella fruizione estetica vi è un continuo avvicendarsi di particolare e generale, di caratteristiche sensibili e
di proprietà astratte, le prime attraenti per il piacere che danno ai sensi, le seconde colte dalla ragione come
qualcosa che eccede la semplice piacevolezza sensibile dell’oggetto ma che non si risolve in un conetto
determinato di ciò che rende bella quell’esperienza.
La libertà del gioco emerge dall’opposizione di due necessità: se sia la sensibilità che la ragione tirano
l’uomo dalla propria parte, ma egli rimane fermo tra le due forze ugualmente parziali ed inconclusive nel
definire l’atto estetico ed è quindi libero di giocare con entrambe le facoltà.
Arrivati a questo punto della trattazione, occorre un caveat: Schiller nega apertamente alcun valore
morale alla bellezza estetica, che in questo senso mai può dirsi educativa nel senso che richiederebbe tale
termine se inteso come didattica, formativa, moralizzante. Fedele al suo approccio kantiano in materia di
estetica, il filosofo tedesco considera la bellezza pura apparenza, priva di valore di verità o di realtà. Di più,
egli addirittura giudica imperfetta e volgare qualsiasi arte che abbia dichiarati scopi pratici, ogni arte cioè
che si propone come descrizione realistica del mondo.
La pura apparenza è la vera bellezza, da fruire nel più compiuto e kantiano disinteresse: solo così può
avvenire la liberazione dell’uomo dai vincoli doppi dei sensi e dell’intelletto.
La storia del bello è secondo Schiller improntata a questa progressiva liberazione della forma dall’utile,
iniziata quando i primi uomini civilizzati si accinsero a decorare suppellettili, armi e vestiti per puro
piacere estetico e non per praticità. Da lì in poi il dominio della pura bellezza prosegue a pari passo con la
civilizzazione dell’umanità: anzi, quasi muove il processo stesso.
Se gli uomini sensibili obbediscono alla forza altrui per timore e null’altro e se gli uomini morali si
sottomettono ad una legge meno minacciosa ma non meno esigente e rigida, gli uomini estetici perseguono
il bello e la forma con gioia e piacere, motivati non da paure o doveri ma dal valore intrinseco che in essa
scorgono.
Il paradossale rifiuto di concedere all’arte ed al bello un valore direttamente educativo non implica che esse
non possano perseguire obiettivi moralizzanti: il loro compito sarà lasciare l’uomo libero dalle pulsioni
della sua natura e progressivamente fare spazio alla ragione ed alla morale, che riempiranno coi loro
dettami il varco creato nella natura sensibile dalla libertà estetica.
In conclusione, cerchiamo ora di chiarire quanto detto all’inizio del presente articolo.
Come si è detto, Schiller non è un autore attuale. Le sue categorie seno astratte e formali per il lettore
contemporaneo, così come sembrano superate le opposizioni tra natura e umanità, tra sensi e ragione, tra
esperienza e riflessione e tra pulsioni e morale. La concezione schilleriana del bello e del ruolo dell’arte è
inoltre distantissima non solo dagli sviluppi che essi hanno avuto nei secoli successivi ai suoi testi, ma
anche dalla comune sensibilità estetica contemporanea.
Anzi, proprio a tal proposito l’opera di Schiller, prendendo a piene mani dalla Critica kantiana, sembra
antitetica rispetto ai più recenti sviluppi dell’estetica filosofica, in cui le tradizionali categorie di
disinteressa ed apprezzamento formale sono state sottoposte a pesante critica.
Lo stesso vale per l’antropologia schilleriana che ai nostri occhi magnifica nell’esperienza estetica
l’unificazione di una natura umana che solo categorie astratte e vecchi dualismi avevano diviso.
In un’epoca che ha sperimentato il pervasivo successo del darwinismo, un’antropologia come quella
schilleriana sembra incredibilmente ingenua e datata, soprattutto se si confrontano le sue riflessioni con la
filosofia contemporanea, informata dal dialogo con le neuroscienze, la biologia evoluzionista, la psicologia,
l’antropologia, la psicoanalisi e le scienze sociali.
Perché allora proporre Schiller come filosofo dell’incorporazione?
Dopo quanto detto, appare evidente che non si sta qui proponendo una naturalizzazione delle sue teorie, né
tantomeno un suo utilizzo nei programmi di ricerca empirica.
Quel che si intende qui proporre è invece una riflessione che tenga conto del legame tra etica ed estetica,
spesso giustamente separate ma non così slegate tra loro.
Quel che Schiller intuisce ma non giunge a dire (e non può forse giungervi date le sue categorie) è che
l’unione della sensibilità e della ragione morale non è prova di una possibile unificazione di due opposte ed
inconciliabili porzioni dell’umanità, bensì la prova che l’animale umano vede nella bellezza la promessa di
realizzazione dei suoi desideri di felicità.
Saranno George Santayana e John Dewey a sviluppare più accuratamente questi aspetti dell’esperienza
estetica, pur in modi diversi.
Il filosofo ispano-americano proporrà una filosofia estetica volta al mostrare il desiderio di fondo
dell’uomo di cercare nel mondo la possibilità di trovare ciò che lo soddisfa: proprio nella Bellezza l’ideale
etico (che è positivo, esplicato dal bene da ricercare, a differenza di quello morale, privativo ed esplicato
nel divieto e nel precetto, in ciò da evitare, non fare) si manifesta sotto apparenza sensibile.
Trovare bello qualcosa vuol dire trovare in esso un ideale etico, una promessa di felicità. Invece che
disinteresse e astrazione, esso rappresenta per l’uomo il vero obiettivo, ciò che rimarrebbe da cercare se
avessimo debellato tramite la morale ogni male: come dice Santayana, in un mondo senza male non ci
sarebbe alcun valore morale, ma solo valori estetici.
Sarà John Dewey invece a mostrare come l’esperienza estetica non permette scissione di sensi ed intelletto.
Anziché essere unificazione di due regni diversi, per il filosofo americano l’esperienza estetica informa sia
i sensi che la ragione: nessun filosofo, sostiene Dewey, è mai arrivato ad alcunché solo tramite le astrazioni
ed i concetti della “pura ragione”. Ogni intuizione passa attraverso una riflessione sull’esperienza, dalla
presa di consapevolezza di una porzione di mondo, processo che è in sé un’esperienza estetica.
La nostra esistenza è per Dewey indivisa, in essa non si distingue tra sensi, percezioni, ragionamenti,
concetti, emozioni e ragionamenti.
Quando l’uomo agisce nel mondo, egli vi agisce con tutto sé stesso. Solo la riflessione intellettualistica, che
divide concettualmente, crea divisioni che col tempo danno vita a problemi concettuali e vicoli ciechi della
riflessione.
Schiller è pienamente consapevole di questo, lo intuisce, lo dice anche in alcuni passi delle sue opere. Ma
un kantismo forse a volte un po' troppo di scuola e l’uso di categorie datate lo frenano dal portare a
compimento la rivoluzione in campo estetico che porterà il pensiero del Novecento.
Ecco dunque perché si è parlato di Schiller e della sua rilevanza odierna: non per l’attualità delle sue
categorie teoriche, né per la sua compatibilità con gli attuali programmi di ricerca, ma perché da egli parte
una linea di pensiero proficua e fecondo, una tradizione che ha saputo pensare etica ed estetica interrelate
ed unite e che ha visto nell’esperienza estetica un fondamentale momento dell’esistenza umana, rivelatore
di tratti profondi della condizione umana.
Questa tradizione non ricade semplicemente da un estremismo (la svalutazione dell’esperienza sensibile)
ad un altro (un materialismo che nega aspetti dell’esperienza stessa in nome di un riduzionismo
pregiudizievole), ma ha invece colto come i valori estetici ed etici non fossero al di fuori dell’esperienza
bensì stessero dentro di essa e la innervassero dall’interno.
Lo ha fatto molte volte andando oltre Schiller, spesso anzi andando anche contro Schiller, ma beneficando
del lavoro del filosofo-medico-poeta e delle sue riflessioni pionieristiche sui temi dell’estetica, non più
concepiti come relegati alla riflessione sull’arte e sul bello artistico in sé stesso ma messi in relazione con
più ampie visioni dell’esistenza umana.

Friedrich Schiller, Grazie e dignità, SE, 2010
Friedrich Schiller, L’educazione estetica, Aesthetica Edizioni, Palermo, 2020
George Santayana, Il senso della bellezza, Aesthetica Edizioni, Palermo, 2020
John Dewey, Arte come esperienza, Aesthetica Edizioni, Palermo, 2020

TAG: Friedrich Schiller, Rivoluzione francese, incorporazione

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