Evoluzione delle competenze e dei ruoli professionali: scientificità e cultura aziendale

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Evoluzione delle competenze e dei ruoli
professionali: scientificità e cultura aziendale
Siamo nel mezzo di un guado, per cui parlare di come cambiano le competenze richiede di
ragionare su cosa avviene in due mondi differenti e fra loro interconnessi: la società e l’azienda. La
società rimanda non solo al mercato del lavoro ma anche ad istituzioni come la scuola, l’università,
l’organizzazione ed il lavoro 4.0. Il secondo mondo, quello delle aziende, sta affrontando, spesso
con grandi incertezze le sfide poste dalla “quarta rivoluzione industriale”. Vediamo le cose una alla
volta per poi ricavarne alcune importanti implicazioni.

Hegel, competenze, ruoli professionali e tre riflessioni incrociate

Hegel nella “Prefazione della Fenomenologia dello Spirito", pagine ostiche e difficili, propone una
metafora finalmente chiara e comprensibile: “la notte in cui tutte le vacche sono nere”.
L’espressione acquisita poi dal senso comune assume che, se il buio è troppo profondo, le
specificità del colore e delle differenze delle singole vacche viene perduta perché tutti gli animali
sembrano ugualmente neri. Da qui parte la nostra riflessione su “cosa sta cambiando o come si
stanno trasformando i bisogni di competenze e di ruoli professionali nelle aziende”. Oggi a questa
domanda non si può rispondere perché non esiste una ragionevole e contenibile risposta per molti,
troppi, elementi in gioco che questa contemporaneità ci propone. Se accendiamo la luce non
vediamo più l’azienda, ma iniziamo a cogliere una complessità del sistema produttivo (aziende
piccole, medie, grandi, start-up, bild-up, M&A, artigianali, innovative, padronali, multinazionali,
americane, cinesi, svedesi, coreane, incubators, consorzi, coop, IPO, APA e ancora all’infinito) che
fa saltare le stesse “definizioni classiche di azienda e di lavoro. Definizioni spesso ancora sostenute
da un “modello implicito” intriso di un fordismo ormai progressivamente marginale rispetto ai
trends delle diversissime nuove complessità dei sistemi organizzativi, dei cicli di vita delle aziende,
degli assetti finanziari, delle nuove forme delle imprese fisicamente intangibili e così via. Tutto ciò
vale anche per le logiche operative, per come le persone ci lavorano e facendo che cosa e come. La
risposta possibile allora diventa quella di spostare l’asse su qualche sintetica suggestione utile come
chiave interpretativa di secondo livello o di carattere sovraordinato. Rimando a tre aspetti: una
prima riflessione è di comparazione storica con altre epoche connotate da grandi cambiamenti. La
seconda rimanda al rapporto concreto tra scienza, tecnica e organizzazione; infine, la terza rimanda
ad alcune specificità della cultura aziendale potenzialmente utili in questa fase. Questi aspetti nel
loro insieme possono fornire qualche risposta possibile in termini di congruenza con le nuove
complessità.

Analogie e differenze fra la situazione attuale e quella della rivoluzione industriale

Cogliamo una ”analogia forte” tra l’ OGGI ed i cambiamenti indotti dalla rivoluzione industriale
che ha connotato le ultime decadi dell’ottocento e le prime due del novecento. E’ con l’avvio della
produzione di massa, derivante dalla disponibilità di nuove configurazioni infrastrutturali come
l’elettricità ed il telefono e la “messa a valore” delle teorie scientifiche, che la quotidianità della fine
ottocento si trasfigura. La quotidianità delle persone, le trasformazioni del lavoro, dei nuovi contesti
industriali e della società nel suo insieme cambiano molto rapidamente. Generazioni di uomini nati
nelle campagne, si sono ritrovati in un mondo diverso dal loro, con un’altra lingua, altre abitudini,
un altro ritmo quotidiano, un’altra economia. C’era l’esigenza non solo di adattarsi alle nuove
evidenze ma anche di produrre una teoria interpretativa e un sapere pratico che consentissero di
gestire i nuovi fattori produttivi resi possibili dallo straordinario sviluppo tecnico e scientifico
dell’epoca ed insieme il sistema sociale nel quale questi elementi si contestualizzavano.
Oggi ci si ripresenta una situazione analoga ad allora ma forse ancora più difficile e complessa che
inesorabilmente coniuga lo sviluppo tecnico (quello che oggi sintetizziamo come 4.0 di cui tra poco
diremo) ad una finanziarizzazione dell’economia ormai declinata minutamente e pervasivamente,
con contestuali economie di guerra, movimenti epocali di masse di persone come alla fine
dell’ottocento ed ancora una incapacità delle strutture istituzionali e statuali di dare al momento
risposte soddisfacenti e congruenti.

La rivoluzione 4.0, il lavoro de-materializzato, la gestione delle risorse umane ed il piano
Calenda

Due epoche di radicali cambiamenti, allora per trovare un equilibrio nella definizione del nuovo
lavoro industriale e dei nuovi assetti organizzativi ci vollero approssimativamente trent’anni: nel
1886 Henry R. Towne presenta una prima memoria alla Associazione degli ingegneri americani
(ASME), successivamente le sperimentazioni francesi di Rowan e Bedeaux in Francia, lo Scientific
Management di Taylor. Infine si delinea la configurazione del modello dominato dalla velocità
della catena semovente dello stabilimento di Highland Park di Henry Ford del 1913 che azzerava la
discrezionalità del salario e, a compensazione, delineava la prima configurazione del welfare con il
“Five Dollars Day”.

Oggi il lavoro statico, stabile, definito, con assetti organizzativi lineari è ormai una pura astrazione.
Dobbiamo delineare nuove configurazioni a tutti i livelli e su tutti i piani. Oggi, così come alla fine
dell’ottocento, si deve aprire una nuova fase di grandi sperimentazioni, superare le configurazioni
convenzionali, accrescere e cogliere le crescenti connessioni con le variabili del contesto sociale ed
economico e del sistema educativo. Ciò deve valere per tutti: imprese, imprenditori, sindacati,
università, enti locali, governi e partiti politici. Questa fase così incerta richiede sperimentazioni a
tutti i livelli e in tutti i contesti. Apre anche nuovi grandi spazi per i gestori delle risorse umane e il
sindacato, ma anche rischi di marginalizzazione, espulsione, ruoli residuali e notarili. Le cose non
possono andare da sole in una logica di un accomodamento omeostatico che sarebbe problematico
per le dinamiche sociali (per esempio il lavoro) e per la stessa sopravvivenza di molti sistemi
imprenditoriali (Piano calenda 4.0
http://www.sviluppoeconomico.gov.it/index.php/it/component/content/article?id=2035381:piano-
nazionale-industria-4-0-2017-2020).

Prima questione: come conciliare il lavoro e le persone con gli sviluppi della tecnologia

Siamo nel mezzo, anzi all’inizio, della cosiddetta “quarta rivoluzione industriale”. L'argomento è
stato al centro del World Economic Forum 2016, dal 20 al 24 gennaio a Davos, intitolato appunto
“Mastering the Fourth Industrial Revolution”(https://www.weforum.org/).
McKinsey in un suo report ormai noto,
(https://www.mckinsey.com/business-functions/operations/our-insights/manufacturings-next-act)
sostiene che le nuove tecnologie digitali avranno, o meglio hanno, un impatto profondo nell'ambito
di quattro direttrici di sviluppo: la prima riguarda l’utilizzo dei dati, la potenza di calcolo e la
connettività, definibile sinteticamente come big e open data, machine e cloud computing per la
centralizzazione delle informazioni e la loro conservazione. La seconda è quella degli analytics: una
volta raccolti i dati, bisogna ricavarne valore. Oggi solo l’1% dei dati raccolti viene utilizzato dalle
imprese, che potrebbero invece ottenere vantaggi a partire dal “machine learning”, dalle macchine
cioè che perfezionano la loro resa “imparando” dai dati via via raccolti e analizzati. La terza
direttrice di sviluppo è l’interazione tra uomo e macchina, che coinvolge le interfacce “touch”,
sempre più diffuse e la realtà aumentata: per fare un esempio la possibilità di migliorare le proprie
prestazioni sul lavoro utilizzando strumenti come i Google Glasses. Infine c’è tutto il settore che si
occupa del passaggio dal digitale al “reale”, e che comprende la manifattura additiva, la stampa 3D,
la robotica, le comunicazioni, le interazioni machine-to-machine e le nuove tecnologie per
immagazzinare e utilizzare l’energia in modo mirato, razionalizzando i costi e ottimizzando le
prestazioni.
La prima questione è come conciliare le persone e il lavoro con gli sviluppi della tecnologia e con i
cambiamenti che ne conseguono sul piano organizzativo e societario: i processi di downsizing, di
m&a, di new-company, di crescite veloci, di lay-off, di survivors, di responsabilità del management,
dei gestori delle risorse umane e via dicendo.
Dalla ricerca "The Future of the Jobs" presentata al World Economic Forum (Disponibile da
http://reports.weforum.org/future-of-jobs-2016/) è emerso che, nei prossimi anni, fattori tecnologici
e demografici influenzeranno profondamente l’evoluzione del lavoro. L’introduzione delle
tecnologie del cloud in senso lato, nei prossimi 2-3 anni indurranno la creazione di 2 nuovi milioni
di posti di lavoro, ma contemporaneamente ne spariranno 7, con un saldo netto negativo di oltre 5
milioni di posti di lavoro. Ma potremmo continuare a pensare che questo processo, parafrasando
una canzone, sia “appena incominciato” e non “… già finito”. Se pensiamo solo di accompagnare
da osservatori distratti o stupiti o con spirito convenzionale quanto sta avvenendo con questi
processi… “si generano mostri”.

L’importanza di questi fattori, infatti, non riguarda solo la quotidianità del lavoro, ma anche il modo
di concepire le relazioni sociali, la struttura delle città, gli spazi fisici, la qualità della vita, gli orari
di lavoro, e tutte le nuove evoluzioni (p.e. anche giuridiche, normative) concrete del lavoro e della
sue configurazioni. E’ qui che si giocherà, in parallelo, la partita competitiva del paese. Non solo su
o con una decontestualizzata “industria 4.0”.

Seconda questione “troppa scienza di qua; niente scienza di là”

Abbiamo assistito, anche come consumatori, allo sviluppo di una cultura tecnica pervasiva e virale
della nostra vita quotidiana che ne ha condizionato i comportamenti e le dimensioni multi
identitarie, ma non sempre, o poco, la comprensione più profonda delle reali implicazioni. Ciò vale
anche nelle aziende. Il paradosso che oggi si delinea è la distanza tra l’enorme sviluppo tecnico-
scientifico di prodotto/processo e l’arretratezza delle applicazioni tecnico-scientifiche nelle altre
discipline che regolano i contesti produttivi e le relative dinamiche sociali. La tecnica, come noto e
semplificando, è il frutto dello sviluppo scientifico accompagnato dagli investimenti specifici. Il
nostro giudizio è che in questa fase storica registriamo una grande arretratezza delle applicazioni
delle discipline scientifiche e delle ricadute tecnico specifiche che studiano il lavoro, l’uomo nel
nuovo lavoro, gli effetti sulla socializzazione, la perdita di lavoro, i nuovi lavori sostenuti dagli
algoritmi produttivi, le nuove ergonomie, le nuove configurazione dei salari; nella sostanza il P-O
fit (person-organization fit) e il P-E fit (Person-Environment fit). Mentre domina una cultura
tecnico-scientifica sostenuta dai grandi investimenti e di eccellente qualità dei grandi players (p.e.
high tech companies) non è delineata con altrettanta chiarezza una cultura tecnico-scientifica
adeguata relativa alle altre discipline che connotano il lavoro. Ciò vale ancor di più in Italia dove le
arretratezze delle nostre università nell’integrazione con i contesti produttivi (sebbene a mio parere
nel nostro paese ci sia buona e talvolta eccellente qualità scientifica della ricerca) ne determinano
uno iato sostanzialmente problematico. Per esempio la psicologia, la sociologia, le scienze politiche
e giuridiche e le varie e frastagliate segmentazioni delle discipline economiche e delle scienze
manageriali sembrano essere (e sono) nelle “loro applicazioni” spesso obsolete o arretrate dal punto
di vista della loro rilevanza scientifica e quindi concreta; si presentano frammentate, parziali,
aderenti talvolta solo in una chiave tecnicistica specifica (p.e. molti tools aziendali) seguendo
dimensioni opportunistiche e ideologiche talvolta sostenute da una astratta rappresentazione
dell’efficienza, delle risposte sociali insufficienti ed inadeguate. Sostanzialmente il nostro assunto è
che le aziende, mi riferisco qui nello specifico al contesto italiano ma forse non solo, dovrebbero
essere pervase in maggiore misura da una cultura tecnico scientifica nelle diverse specificità
aziendali e nelle diverse discipline che le connaturano. Io non direi “meno psicologi/filosofi e più
ingegneri” ma direi più “scienza applicata seria e rilevante” in tutte le discipline che investono le
organizzazioni, meno bla bla, tools (talvolta connotati da tecnicismi esasperati e superati dalle
nuove complessità) e nuovi conformismi acefali di un 4.0 sbandierato ovunque e comunque.
Concretamente le aziende devono avere una maggiore integrazione con i contesti universitari e
scientifici non opportunistici e contingenti ma strategici. Devono finanziare, sostenere in vario
modo la scolarizzazione degli istituti tecnici, delle scuole professionali oggi abbandonate,
avvicinarsi ai dipartimenti universitari della diverse discipline. Oggi talvolta il rapporto delle
aziende è di rapina e di “caccia”; quello di alcuni contesti universitari opportunistico e superficiale.
Il rapporto con la “verità scientifica” deve assumere nuove centralità ed è lì che si vince la sfida
competitiva e “... la vita futura”. Il rapporto con il sapere deve assumere nuove centralità: per
esempio Zuckerberg ha donato credo già due tre anni fa, nella migliore consuetudine del sistema
americano del came-back, circa 800 milioni di dollari a tutte le università californiane e non solo a
Berkley o alla UCLA. I nostri imprenditori qui cosa fanno? Le nostre associazioni imprenditoriali? I
nostri direttori delle risorse umane cosa fanno? … e potremmo continuare.

A conferma delle cose sopra dette vogliamo ricordare come, negli Stati Uniti, nel corso della
industrializzazione della fine dell’ottocento si era delineata contestualmente una fortissima
attenzione all’adeguamento sociale di quanto reso disponibile dalla scienza e dalla tecnica: le leggi
antitrust, l’istituzione di una educazione e di una sanità pubblica o istituzionalizzata, l’orario di
lavoro ad otto ore, il lavoro femminile, il voto alle donne, la regolamentazione fiscale e la
detassazione per le donazioni, l’istituzione delle società di rating, l’istituzione di leggi per la
salvaguardia del territorio, la denuncia degli scandali finanziari, le tutele del risparmio e potremmo
continuare.

Si era aperta allora una profonda discussione e lotta politica ed etica nella società civile ed interna
alle stesse realtà imprenditoriali. Scienza, tecnica e questione etica si intrecciavano, erano contigue
e pubblicamente discusse dalle élite di potere, dagli industriali e dagli intellettuali. I grandi
cambiamenti erano sostenuti dalla necessità di coniugare lo sviluppo tecnico, la scienza con la vita
quotidiana e l’ordinamento sociale. Oggi abbiamo la convinzione di essere in una arretratezza poco
in grado di rispondere alle nuove complessità.

Terzo punto: come cambiano le competenze ed i ruoli dentro le aziende

“Cambiano di conseguenza le competenze e abilità ricercate: nel 2020 il problem solving rimarrà la
soft skill più ricercata, ma diventeranno più importanti il pensiero critico e la creatività”. (Tratto da
ECONOMYUP.IT)

Problem solving, pensiero critico e creatività non sono semplicemente le caratteristiche da ricercare
come i funghi… in autunno. In altri termini è riduttivo “ricercare”, va cambiato il verbo: bisogna
“coltivare campi”, in altri termini avere una cultura contadina e non della semplice “caccia” che,
come noto, disperde risorse e impoverisce il territorio. La cultura tecnica-scientifica di qualità si
sviluppa in un contesto dove il ruolo della scienza, della tecnica e della storia aziendale e del
contesto non sono dimenticate, ma rappresentano il substrato fondamentale per sviluppare un
pensiero sostenibile, divergente, creativo e ricco. Tutto ciò naturalmente non è un regalo o una
semplice intenzione di volontà delle imprese. Si realizza invece ri-orientando la cultura di impresa
spesso impoverita e avvelenata dai processi di deindustrializzazione e di down-sizing che hanno
indotto talvolta situazioni di abbandono e di approssimazione. La cultura tecnica si sviluppa in un
contesto dove il ruolo della scienza e della storia recente dell’impresa e del territorio non sono
dimenticate ma rappresentano un substrato fondamentale per sviluppare un pensiero di sostenibilità
concreta e fattiva. Tutto ciò naturalmente non è solo un atto di semplice volontà estetica o
estemporanea ma rappresenta invece un percorso lento, perseguito con attenzione con uno scambio
produttivo e spesso poco tangibile immediatamente, ma reale, per favorire continuità, sviluppare ed
accogliere nelle aziende eccellenze e quindi la possibilità di generare valore nel tempo.

Su questa linea ricordiamo sinteticamente tre esempi per cogliere come sia cruciale certamente
ricercare caratteristiche specifiche cognitive e di personalità ma come siano anche fondamentali
costruire contesti culturali favorevoli di Person-Organization FIT. Il primo esempio è relativo ad
una ricerca condotta nell’ambito di FCA (nel 2015 Le persone e la fabbrica) dove appare chiaro
come la partecipazione, la disponibilità a dare suggerimenti e ad essere creativi dei lavoratori sia
correlata alla fiducia e alla citizenship verso la propria organizzazione, i propri team leaders, ed i
propri capi gerarchici; come, al contrario, negli stabilimenti dove si configurano stili di direzione
meno accettati o ritenuti meno attenti alla identità delle persone diminuiscano i suggerimenti, la
disponibilità dei lavoratori e i tempi di introduzione dei nuovi modelli organizzativi di lean
production subiscano notevoli ritardi temporali.

Un secondo esempio molto interessante è relativa alla multinazionale americana EATON
(http://www.eaton.com/us/en-us.html) cresciuta nel corso di un secolo attraverso acquisizioni di
aziende connotate da segmenti specifici di tecnologia che le hanno permesso progressivamente un
posizionamento importante come tier-one nel competitivo contesto dell’auto-motive. Eaton,
sviluppandosi per acquisizioni e quindi per “diversità”, propone ai propri collaboratori nel mondo
una Ethics Guide (The power of doing business right) dove gli Eaton Values garantiscono le regole
profonde che devono connotare i sistemi di relazione tra individuo e organizzazione (P-O fit), il
rapporto con i capi, con i colleghi, con il contesto esterno. A ricordo e suggestione li citiamo:
RELATIONSHIPS, TRUST, ACTING WITH INTEGRITY, HONOR, INTEGRITY, POLITICAL
CONTRIBUTIONS, ENVIROMENT, HEALTH AND SAFETY. L’azienda accompagna questi
riferimenti con una consistente continuità negli atti quotidiani valorizzando le diverse culture
tecniche che la connotano con i fattori sopra delineati che hanno garantito processi di integrazione
veloci e di successo.

Un terzo esempio, a conferma del caso precedente, infine è estratto dalla letteratura scientifica
contemporanea della psicologia sociale. Molte ricerche degli ultimi dieci anni (per esempio
dell’olandese Naomi Ellemers e degli italiani Pagliaro e Sacchi) confermano, sintetizzando un po’
forzatamente i risultati delle loro ricerche, come le norme di moralità abbiano un maggiore impatto
delle norme di competenza sulle decisioni degli individui di lavorare allo sviluppo dello status del
proprio gruppo piuttosto che del singolo individuo. Viene altresì confermato come questi gruppi
sorretti da dimensioni morali possano avere bisogno di meno tempo per decidere una strategia di
sviluppo del gruppo e di perseguimento di risultati.

Sul piano concreto e finale si conferma come la sfida del management e degli uomini delle risorse
umane passi attraverso lo sviluppo diffuso e pervasivo nelle organizzazioni di più approfondite
conoscenze tecniche e scientifiche disciplinari che permettano una gestione manageriale e l’utilizzo
di modelli più attuali e scientifici. Ciò ovviamente non nega il valore del buon senso e dell’esperienza
ma quando i paradigmi mutano non sono più sufficienti a gestire la nostra contemporaneità.

Riccardo G. Zuffo

Docente di Psicologia delle Organizzazioni e dei Consumi

Università di Milano-Bicocca e Senior Partner Telema International
zuffo.riccardo@gmail.com

http://www.telemainternational.com/

https://www.linkedin.com/in/riccardogiorgiozuffo/
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