Euro digitale, più problemi che opportunità - Filodiritto

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Tribunale Bologna 24.07.2007, n.7770 - ISSN 2239-7752
                                              Direttore responsabile: Antonio Zama

             Euro digitale, più problemi che opportunità
                                                  30 Ottobre 2020
                                                  Andrea Cesaretti

La Cina sta effettuando i test sulla sua moneta digitale, gli Stati Uniti ci stanno ragionando, le Bahamas
hanno battuto tutti perché l’hanno già emessa e la Banca Centrale Europea dà per possibile l’emissione
dell’euro digitale.
Grande rilevanza sulla stampa, digitale e non, ma grande confusione. Giusto per fare un po’ di chiarezza su
quanto si legge in giro circa gli aspetti tecnici, l’euro digitale nulla c’azzecca con i bitcoin e altre cripto
valute e non si può basare su una blockchain come si legge ovunque visto che la blockchain va di
moda.
Euro digitale e blockchain sono una contraddizione in termini perché, per farla breve (molto),
blockchain è sinonimo di decentralizzazione; pertanto se la BCE emettesse gli euro digitali come se fossero
bitcoin e simili, ne conoscerebbe l’ammontare in circolazione e nient’altro perché le movimentazioni
avverrebbero direttamente fra gli utenti. È vero che su tutti i nodi della blockchain ci sono tracce delle
transazioni, ma non ci sono le informazioni sui loro proprietari con buona pace di qualsiasi controllo contro
le transazioni fraudolente.
Inoltre, “minare” valute sulla blockchain costa molto e costa sempre di più a causa dell'elevato
consumo energetico dei computer utilizzati nei nodi della rete per svolgere i calcoli e aggiornare la
blockchain. Con l'aumentare degli scambi e delle transazioni, occorre utilizzare un maggior numero di
computer. Pertanto, il consumo di energia e il costo dell'hardware sono sempre più alti. Ho fatto un paio di
calcoli e, se il costo del mining degli euro digitali nella versione “blockchain”, fosse pari a quello del
bitcoin, a spanne, ogni euro digitale verrebbe a costare 35 centesimi di euro.
C’è poi l’impatto energetico. L’assorbimento medio costante del bitcoin, secondo il CBECI (Cambridge
Bitcoin Estimate Index), sarebbe pari a 7 GW (Gigawatt), corrispondenti ad un consumo annuo di circa
64,15 terawatt di energia. Questa cifra indica un consumo energetico superiore sia a quello della Svizzera
(pari a 58,46) e della Repubblica Ceca (62,34), impiegato per meno di cento milioni di transazioni all’anno,
del tutto insignificante rispetto a quelle eseguite dalle banche tradizionali, pari a 500 miliardi. Non credo
proprio che la Cristina, (Lagarde), con tutte le rogne che ha da risolvere in questo periodo, abbia voglia di
mettersi a discutere con la Greta.
Polemiche tecnologiche a parte, il motivo per cui la Banca
   Centrale Europea sta meditando sulla possibilità di emettere
   l’euro digitale è la necessità di contrastare l’avanzata delle altre
   monete di stato digitali. Lo dicono loro nel “Report on a digital
   euro” (Ottobre 2020).
Francamente il Sand Dollar delle Bahamas non fa tanta paura, ma il Digital Yuan e il Digital Dollar
preoccupano perché la loro diffusione nell’eurozona potrebbe seriamente minare la forza dell’euro nel
contesto dell’economia mondiale.
Mi dispiace dirlo, ma, allo stato dell’economia dell’eurozona e soprattutto di quella dei Paesi del sud
Europa fra cui l’Italia, l’adozione di una moneta digitale centrale rischia, al contrario, di costituire
un ulteriore elemento distruttivo per il sistema paese piuttosto che un’opportunità.
Infatti, è possibile (ma comunque non scontato) che il successo dell’euro digitale riduca la diffusione e
l’utilizzo di altre monete digitali e perfino delle cripto valute nell’eurozona e, in definitiva, agevoli la
tenuta dell’euro rispetto alle altre monete delle economie “forti”.
Purtroppo esiste il rovescio della medaglia perché quel successo avrebbe conseguenze potenzialmente
disastrose sull’economia di molti paesi dell’eurozona fra cui il nostro.
Il problema è che il ricorso massiccio all’euro digitale da parte della popolazione, soprattutto come forma
di investimento, comporterebbe lo spostamento dei depositi dalle banche locali alla banca centrale
europea.
Senza depositi, le banche non concedono prestiti per cui la conseguenza sarebbe la riduzione del volume
del credito bancario su cui si sono sostenute fino ad ora nel nostro Paese soprattutto le piccole-medie
imprese e, in contemporanea nonché come ulteriore conseguenza, un ulteriore crollo dei consumi.
Uno scenario apocalittico che si sovrapporrebbe al disastro provocato dalla pandemia scoppiata in un
Paese già in recessione dandogli, con tutta probabilità, il colpo di grazia.
Giusto per informazione, al 30 giugno 2020, i depositi delle
   banche italiane ammontavano a 1.961 miliardi di euro e i prestiti
   (esclusi quelli in sofferenza) a 1.831 miliardi[1] [Bankitalia,
   Banche e istituzioni finanziarie: finanziamenti e raccolta per
   settori e territori, 30 settembre 2020]. Insomma, quasi alla pari.
   Se poi, in una situazione come quella descritta, la banca centrale
   europea decidesse di ridurre i programmi di Quantitative Easing
   consistenti nell’acquisto massiccio di titoli di stato e nella
   conseguente immissione di liquidità nelle banche commerciali,
   tanti saluti alle banche, all’economia, ai consumi, al Paese.
Per continuare a concedere prestiti, le banche italiane dovrebbero quindi mettere in atto politiche atte a
limitare la fuga dei depositi e l’unico sistema che mi viene in mente sarebbe l’aumento dei tassi attivi
offerti alla clientela entrando pertanto in competizione con la banca centrale nella gara a chi si
accaparra più clientela disposta a depositare i propri denari nelle loro casse.
Non sarebbe un conflitto simpatico visto che la banca centrale europea sta pompando liquidità nel sistema
con l’acquisto di titoli di cui sopra. Pertanto, non è detto che, nell’attuale contesto, le banche locali
sarebbero disposte a mettersi di traverso con la BCE.
L’alternativa per le banche locali sarebbe quella di chiedere in prestito alla banca centrale europea il denaro
da impiegare nei prestiti alla clientela. Apparentemente, se le cose continuano come ora, non sembrerebbe
un grosso problema perché i tassi di interesse (cioè il costo di questi prestiti) sono vicini allo zero.
Vero, ma il problema sussiste perché la banca centrale europea non presta soldi alle banche
commerciali senza garanzie. Non solo chiede garanzie, ma le vuole pure di qualità e non è detto che
valuti le garanzie reali e non della clientela italiana allo stesso modo delle banche locali e, da che
mondo è mondo, più scarsa è la qualità della garanzia, più alto è il costo del prestito.
Un’altra alternativa per le banche commerciali sarebbe il ricorso al mercato dei capitali (es. emissione di
prestiti obbligazionari), alternativa che le metterebbe in competizione con gli altri emittenti in una gara
in cui vince chi paga di più gli investitori. Per cui, in ogni caso, si torna al punto di partenza: al rischio
della mancanza di disponibilità in capo alle banche dei fondi per erogare prestiti e/o a un aumento del costo
di quei prestiti con tutto ciò che ne consegue in termini di impatto sull’economia del Paese.
Supponiamo, tuttavia, che a Francoforte non abbiano intenzione di affossare le banche commerciali,
soprattutto quelle dei Paesi del sud Europa e si cerchino soluzioni per arginare l’invasione delle altre
monete digitali senza distruggere le banche locali.
Nel “Report on a digital euro” della BCE si prendono in considerazione sistemi tendenti a disincentivare
l’uso dell’euro digitale quale strumento di investimento per esempio ricorrendo al cosiddetto “demurrage”
ovvero a un costo per chi “tiene ferma” la moneta oppure a una limitazione della quantità di euro digitale
che gli utenti possono detenere e/o negoziare. Ci provarono gli svizzeri con il Wir, per esempio, ma poi
hanno cambiato rotta e, addirittura, oggi pagano interessi sui conti in Wir.
Il motivo per cui queste soluzioni sono controproducenti l’aveva già scritto nel 1936 J.M.Keynes nella sua
“Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta” (1936) in cui spiegò che “una moneta
sottoposta a tassazione rischia di perdere il premio di liquidità che la rende desiderabile agli occhi degli
operatori economici: pertanto una tassazione eccessiva indurrebbe gli operatori a trasferire le proprie
risorse liquide verso altri strumenti finanziari quali, ad esempio, valute estere e metalli preziosi”.

   Insomma, come si fa si sbaglia. Se l’euro digitale ha successo, si
   distrugge il sistema del credito. Se fallisce, si rischia
   l’indebolimento dell’euro nei confronti dello Yuan, del Dollaro e,
   alla fine, anche del Dollar Sand delle Bahamas.
Questo corto circuito dipende dal fatto che le politiche monetarie degli Stati Uniti e della Cina non
sono paragonabili a quella dell’eurozona perché le economie reali sottostanti sono assai diverse e più
solide. La nostra economia, a esser gentili, è troppo debole e non c’è politica monetaria che possa sopperire
alla mancanza di Prodotto Interno Lordo.
Ricordo l’ammontare dei prestiti erogati dalle banche italiane alla fine del primo semestre 2020: 1.831
miliardi di euro. Il Prodotto Interno Lordo italiano stimato per questo anno disgraziato è di 1.599 miliardi
di euro [elaborazione stime FMI su dati Istat], quindi inferiore al volume dei debiti di imprese e famiglie
verso il sistema bancario, oltretutto senza contare i prestiti in sofferenza. Questo è il problema per cui,
anche a mettercela tutta, l’euro digitale non può pensare di competere con le monete digitali di stato come
quelle di Cina e Stati Uniti.
E a costo di diventare noioso, lo ribadisco: il problema non è il debito pubblico, ma il suo rapporto con
il PIL e il dibattito va spostato da “debito si, debito no” a “come far ripartire il Prodotto Interno
Lordo e, conseguentemente, le esportazioni e i consumi interni.

   E, a costo di ripetere cose sentite e risentite, ma vere, per far
   ripartire il PIL occorre fare debito (si, fare debito), ma
   usarlo bene immettendo la liquidità generata direttamente nel
   sistema produttivo e, contemporaneamente, avere il coraggio di
   riformare la burocrazia per attrarre investimenti, uniformare il
   sistema fiscale del Paese (diciamolo senza più remore) e
   prevedere un corretto intervento dello Stato attraverso
   investimenti strutturali. Cose sentite e risentite, ma necessarie.
Infine, io farei anche una riflessione se le teorie monetarie sottostanti alle politiche europee, vecchie di
centinaia di anni, siano ancora funzionali. D’altra parte, si chiamano “teorie”, non “scienze”.
Personalmente, credo che questa pandemia dovrebbe costringere tutti a una profonda riflessione su
questi due aspetti: incremento del PIL e adozione di teorie monetarie adeguate al momento storico
senza paura di abbandonare quello che abbiamo studiato all’università o di perdere voti alle
prossime elezioni (questo è più complicato).
Poi, dopo, si potrà discutere di euro digitale e risolvere il corto circuito e competere con gli altri paesi.

TAG: moneta virtuale, criptovalute, digital economy

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