Darò leggi a questa città. Il patriarca Raimondo della Torre e il concilio provinciale di Aquileia (1282)

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annuarium historiae conciliorum
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Darò leggi a questa città. Il patriarca
Raimondo della Torre e il concilio provinciale
di Aquileia (1282)
         Dr. Luca Demontis
         Pontificia Università Antonianum, Scuola di Studi Medievali e Francescani
         lucademontis@hotmail.com

         Abstract

Raimondo della Torre, patriarch of Aquileia (1273–1299) pacified the patriarchy, impro-
ved the social condition of the population and established relations of vassalage with
the nobility. He freed numerous bondservants: welcomed by the patriarch in the Chur-
ch of Aquileia, they were promoted to the rank of functionaries. As a fervent pastor, he
devoted his energies to eradicating abuses, calling clerics to their duties. He convoked
a provincial council in Aquileia for 1282, to which almost all the suffragans participa-
ted, except the bishops of Como and Mantua. The council concerned the reform of the
clergy, the defense of the libertas Ecclesiae, the protection of the patriarch and various
norms on the piety of the faithful. The decisions of the council were published in the
several dioceses and remained in validity for a long time.

         Keywords

Raimondo della Torre, patriarch of Aquileia (1273–1299) – Provincial council –
Minorities – Filippo da Casaloldo, bishop of Mantua (1268–1303) – Giovanni Avvocati,
bishop of Como (1274–1293) – Libertas Ecclesiae

Raimondo della Torre venne nominato patriarca di Aquileia nel dicembre 1273
da papa Gregorio X e prese possesso della sede patriarcale nell’estate dell’an-
no successivo. Forte dell’esperienza politica maturata in Lombardia al servizio
della sua famiglia, i della Torre, signori di Milano prima dei Visconti, il patriarca
univa concrete azioni di “buon governo” a un’efficace comunicazione politica:
creò un’efficiente cancelleria, compiva numerose cerimonie feudali e religiose,

© verlag ferdinand schöningh, 2019 | doi:10.30965/25890433-04802006
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viaggiava con un apparato sfarzoso e simbolico ispirato alle Sacre Scritture,
nominò numerosi collaboratori fidati, spesso milanesi e lombardi, governava
senza scindere la politica dalla fede religiosa. Si servì di monete, affreschi, ope-
re tessili, della poesia e del teatro per diffondere il suo messaggio politico. La
sua comunicazione non tralasciava nessuno: si interessava degli umili come
dei ricchi, dei nobili, dei signori, re e principi confinanti. Questo gli permise di
governare saldamente il principato aquileiese e di creare una solida immagine
di sé come principe-patriarca.1
    La sua politica di governo come sovrano, ordinario della diocesi e metropo-
lita della vasta provincia aquileiese, seguì fin dall’inizio alcuni punti salienti:
si preoccupò di ripristinare la pace e la prosperità del principato ecclesiastico,
dilaniato nei quattro anni di sede vacante da lotte intestine, devastazioni, sac-
cheggi e appropriazioni indebite dei beni della Chiesa di Aquileia; promosse
la pacificazione con le potenze ostili al patriarcato, soprattutto con il conte di
Gorizia e il re di Boemia; emanò delle costituzioni del clero (1275); promos-
se la liberazione dei servi di masnada e li accolse fra le file dei ministeriali
della Chiesa di Aquileia, garantendo loro protezione, un lavoro e i mezzi di
sostentamento:2 alcuni svolgevano servizi e lavori utili all’amministrazione del
patriarcato, altri divennero perfino ufficiali del patriarca;3 risanò il capitolo di
Aquileia e quello di Cividale, appianando le divergenze o risolvendo i contra-
sti con i due rispettivi decani (processo che durò per tutto il suo mandato);
rinnovò le città del principato ecclesiastico con un ampio programma edili-
zio: selciatura delle strade, costruzione di palazzi, castelli, torri, cinte murarie,
piazze, chiese ed altri edifici; riattò castelli e villaggi del patriarcato abbando-
nati o caduti in disuso; accolse i congiunti e gli altri esuli milanesi una volta
che la città ambrosiana cadde nelle mani dei Visconti (battaglia di Desio, 1277):
la loro professionalità negli affari, nella giurisprudenza e nella politica comu-
nale promosse lo sviluppo delle città del patriarcato. Dimostrando un forte
senso di appartenenza familiare fece di tutto per riportare al potere a Milano
i propri congiunti attraverso alcune campagne militari in Lombardia (1279–
1281), senza tuttavia riuscirci e arrivando a un punto in cui non era più possibi-
le continuare la lotta (battaglia di Vaprio d’Adda, 1281).

1 L. Demontis, Raimondo della Torre patriarca di Aquileia (1273–1299). Politico, ecclesiastico,
  abile comunicatore, Alessandria 2009.
2 L. Demontis, Libertà, comunicazione e lavoro. Servi di masnada e ministeriali nel Patriar-
  cato di Aquileia di Raimondo della Torre (1273–1299), in «La grazia di lavorare». Lavoro, vita
  consacrata, francescanesimo, a cura di P. Martinelli/M. Melone, Bologna 2015, 89–118.
3 L. Demontis, Da servi a ufficiali: affrancamento, promozione sociale e carriera politica al
  seguito di Raimondo della Torre patriarca di Aquileia (1273–1299), in: AE 39/2 (2009) 933–961.

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1         Il concilio provinciale

La lontananza del patriarca dalla sua sede produsse effetti negativi: in sua as-
senza il principato ecclesiastico veniva retto dal vicedomino patriarcale e, so-
prattutto, dal capitolo di Aquileia che in assenza del patriarca si disinteressava
della cura degli affari della Chiesa. Si rendeva necessario un processo di rinno-
vamento della Chiesa, che il patriarca aveva in parte già avviato con i due capi-
toli più importanti, quelli di Aquileia e di Cividale, ma che ancora era ben lungi
dall’essere concluso. La necessità di regole ferree e di protocolli da seguire in
circostanze di emergenza andavano ben oltre la diocesi di Aquileia e coinvol-
gevano tutta la provincia ecclesiastica, corrispondente in gran parta all’Italia
nord-orientale. Il patriarca indisse un concilio provinciale nel 1282 convocan-
do i vescovi delle diciassette diocesi suffraganee o i loro rappresentanti,4 gli
abati, il clero aquileiese5 e i rappresentanti dei frati Predicatori e dei Minori.6
   Il 18–19 dicembre 1282 si svolse il concilio: erano presenti i vescovi Bono di
Capodistria, Marzio di Ceneda, Egidio di Cittanova, Adalgero di Feltre e Bel-
luno, Bonifacio di Parenzo, Bernardo di Pedena, Enrico di Trento, Ulvino di
Trieste, Bernardo di Vicenza; i procuratori dei vescovi Folcherio di Concordia,
Giovanni di Padova, Giovanni di Pola, Presavio di Treviso, Bartolomeo di Ve-
rona; Leonardo di Favignacco vicedecano di Aquileia; gli abati Corrado di Ro-
sazzo, Pagano di Beligna, Federico di Ossiach; fra Prosperino, custode dei Frati
Minori di Cividale e fra Giacomo lettore dei Frati Predicatori della stessa città,
altri ecclesiastici, religiosi e laici.7

4 I vescovi di Mantova (fino al 1453), Como, Trento, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Concor-
  dia, Ceneda (Vittorio Veneto), Feltre e Belluno (unite dal 1197 al 1462), Pola, Parenzo, Pedena,
  Trieste, Capodistria e Cittanova d’Istria, in: P. Cammarosano/F. De Vitt/D. Degrassi,
  Stori della società Friulana, vol. 1, Il medioevo, Tavagnacco (UD) 1988, 159.
5 Fin dall’xi-xii secolo la diocesi di Aquileia era stata divisa in sette arcidiaconati per la sua
  ampiezza, quattro dei quali erano italiani (Cadore, Carnia, Superiore e Inferiore, uniti questi
  ultimi due dal patriarca Raimondo in un unico arcidiaconato di Aquileia) e tre transalpini
  (Carinzia, Saunia e Carniola-Istria): ibid., 165.
6 Lo stesso patriarca Raimondo promosse la fondazione dei conventi dei frati Minori in Friuli
  e fondò nel 1287 un monastero di Clarisse; invece i frati Predicatori erano già presenti nel
  principato ecclesiastico. Il patriarca fece grande affidamento sui due principali ordini men-
  dicanti sia per la pacificazione delle famiglie nelle comunità cittadine del patriarcato sia
  per affidare loro incarichi diplomatici e pastorali, su questo argomento vedi L. Demontis,
  Operosa manus et perfecta spes sanctitatis: i Frati Predicatori nel patriarcato di Aquileia ai
  tempi di Raimondo della Torre (1273–1299), in: afp lviii (2008) 5–30.
7 Data la brevità del concilio è ragionevole pensare che gli undici canoni fossero stati preparati
  in anticipo dal patriarca Raimondo della Torre e poi discussi e rielaborati nei due giorni di
  assemblea conciliare.

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    Il concilio doveva trattare materie differenti rispetto alle costituzioni emes-
se nel 1275 e a quelle fatte pubblicare nel 1279 in tutte le diocesi dell’Italia
nordorientale dal cardinal legato Latino Malabranca. Il patriarca Raimondo
promulgava le nuove costituzioni scaturite dal concilio non solo ad presentium
certitudinem ma anche ad memoriam futurorum ordinando ai suffraganei di
farle osservare diligentemente in ciascuna delle loro diocesi. Se ne evidenziava
la natura eminentemente pastorale e il ruolo del patriarca di vero pastore di
anime e difensore del gregge affidato alle sue cure: ne veri pastoris nomine abu-
tamur. L’immagine che andava delineandosi era quella di una Chiesa attaccata
su più fronti:8 la malvagità era cresciuta, la pietà e il rispetto del sacro si erano
affievoliti, prevaleva la licenziosità.
    Le nuove costituzioni, scaturite dal concilio provinciale di Aquileia, si pre-
sentavano non solo come testo normativo, ma soprattutto comunicativo, dato
che dovevano essere lette pubblicamente, tradotte in volgare e spiegate ai fe-
deli. Esse tracciano un bilancio dei primi nove anni del governo di Raimondo e
delineano una Chiesa di Aquileia bisognosa di essere riformata, dove il veterem
hominem9 era duro a morire. Termini accuratamente scelti (ruinas graves, scis-
suras restaurandas) facevano breccia nell’immaginario collettivo per esprime-
re la situazione precaria in cui versava la Chiesa di Aquileia e la necessità di
convocare un concilio provinciale. Il patriarca Raimondo era chiamato ad agi-
re pro viribus laborantes sull’esempio del pater familias qui pro grege suo etiam
mori dignatus est per conseguire l’onestà del clero, la salvezza delle anime, la
tutela della Libertas Ecclesiae.
    Quest’ultima in particolare era stata calpestata più volte dai principi confi-
nanti nonostante avessero il dovere di difendere – e i benefici feudali connessi –
il patriarcato di Aquileia e la persona del principe-vescovo. Il re di Boemia in-
fatti si era impadronito del ducato d’Austria a cui era legata la carica d’onore di
gran coppiere del patriarca di Aquileia, che fra le mansioni prevedeva anche il
dovere di liberare il patriarca in caso di prigionia,10 mentre il conte di Gorizia
aveva l’officium di advocatus della Chiesa di Aquileia per cui percepiva diversi
censi e alcune terre in Istria: negli anni precedenti alla nomina patriarcale di
Raimondo il conte di Gorizia rapì il patriarca Gregorio da Montelongo e lo ten-
ne prigioniero per diverso tempo, mentre il re di Boemia, che sarebbe dovuto

8     Iam te predones circumdant atque tyranni, sclavi, latrones, spoliarores Alemanni recita il
      Compianto del patriarca Gregorio (vv. 13–14), composto nel 1269 all’indomani della mor-
      te di Gregorio da Montelongo, durante la sede vacante del patriarcato di Aquileia, in:
      Demontis, Raimondo della Torre (vedi nota 1), 150.
9     Col 3,9; Ef 4,23; Rm 6,6.
10    Demontis, Raimondo della Torre (vedi nota 1), 128.

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intervenire tempestivamente a liberarlo non fece niente ed anzi si appropriò
indebitamente di terre della Chiesa di Aquileia, come ad esempio il feudo di
Portum Naonis (Pordenone) che i predecessori di Raimondo avevano investi-
to ai duchi d’Austria della dinastia Babenberg. In seguito il patriarca Gregorio
venne liberato, ma morì pochi mesi dopo. Il patriarca Raimondo al suo arrivo
nella Patria del Friuli (termine con cui veniva spesso chiamato il principato ec-
clesiastico nei documenti) fece dei trattati di pace con questi due infidi vicini,
che tentarono di far ratificare il possesso delle terre di cui si erano appropriati
indebitamente, ma Raimondo della Torre con un autentico “capolavoro diplo-
matico”11 riuscì a sventare le loro pretese mostrando che lui era patriarca per
grazia di Dio e della Sede Apostolica e che quest’ultima, in caso di necessità,
non avrebbe avuto difficoltà a scomunicarli e, chissà, magari a indire una cro-
ciata contro di loro!12 Nonostante i trattati di pace stipulati con il re Ottokar
ii di Boemia e il conte Alberto di Gorizia e le minacce che il patriarca aveva
paventato e che i due principi, probabilmente memori delle crociate contro
Ezzelino nel 125613 e, soprattutto, contro Manfredi nel 1266,14 avevano recepito,
il patriarca Raimondo sapeva di non potersi fidare di loro. Inoltre l’usurpazione
dei beni della Chiesa ormai non era inusuale nelle diocesi dell’Italia setten-
trionale da prima dell’inizio del secolo,15 vuoi per l’avanzata del comune sul
potere episcopale, vuoi per la presenza di vassalli infedeli e di principi confi-
nanti molesti: era importante per i vescovi sapere di non essere soli e di poter

11   J. Riedman, Il re Ottocarus di Boemia dominus Portus Naonis et defensor Ecclesie Aqui-
     legensis et terre Foriiulii, in: Aquileia e il suo patriarcato. Atti del convegno Internazionale
     di Studio (Udine, 23 ottobre 1999), a cura di S. Tavano/G. Bergamini/S. Cavazza, Udi-
     ne 2000, 315–322, in particolare 320.
12   Demontis, Raimondo della Torre (vedi nota 1), 55–56.
13   Sull’argomento vedi: N. Housley, The Italian crusades: the Papal-Angevin alliance and
     the crusades against Christian lay powers, 1254–1343, Oxford 1982; Rolandino da Pado-
     va, Vita e morte di Ezzelino da Romano, a cura di F. Fiorese, Milano 42010, 354–396; L.
     Demontis, Crociata e categorie storiografiche alla luce di alcuni studi recenti, in: FF 81/2
     (2015) 407–435, in particolare 421.
14   Ibid., 429.
15   Celebri furono gli esempi di difesa a oltranza dei beni, diritti e privilegi della Chiesa nel
     xii secolo da parte dei vescovi Lanfranco di Pavia, Cacciafronte di Vicenza e Adalpreto di
     Trento, vedi M. P. Alberzoni, Lanfranco di Pavia, un vescovo quasi santo, in: Ead., Città,
     vescovi e papato nella Lombardia dei Comuni, Novara 2001, 137–171; C. Maresca, «Se
     quasi Christi martyrem exhibebat». La leggenda agiografica di San Lanfranco vescovo di
     Pavia (†1198), Roma 2011, 32; L. Demontis, Perfetta pazienza e «Miles Celestis» nella Vita
     di san Lanfranco vescovo di Pavia (†1198), in: Anton. 90/1 (2015) 145–152.

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agire collectis in unum viribus16 contro i predones, latrones, spoliatores dei beni
ecclesiastici.17
   In questa prima parte del documento delle costituzioni sono presenti molti
rimandi alla Sacra Scrittura e al testo delle costituzioni del 1279 del frate Predi-
catore e cardinale Latino Malabranca, legato papale per il patriarcato di Aqui-
leia, la marca Trevigiana, Grado, Venezia, la provincia ecclesiastica di Ravenna,
la Romagna e l’Emilia orientale (Bologna e Ferrara), la Toscana e Città di Ca-
stello;18 in particolare ne riprende la malitia temporis, specificando che essa si
manifesta nella quotidianità (diei malicia),19 facendo ampio uso di figure re-
toriche come il climax culminante in un lamento diretto (proh dolor!), dopo
essersi soffermato su termini negativi.20

2        Canoni 1–3: primato della sede di Aquileia, devozione e
         onestà del clero

Per contrastare i nemici della Chiesa il patriarca mirava a migliorare la solidità
dei rapporti tra i vescovi e a rafforzare l’identità della provincia ecclesiastica
di Aquileia fin dal primo canone De celebratione festi beatorum martyrum Her-
machore et Fortunati ac eorum conmemoratione facienda in cui si ordinava di
celebrare solennemente la festa dei santi fondatori e patroni della Chiesa di
Aquileia affinché tutti potessero accedere al loro potere di intercessione presso

16    Il metropolita e i vescovi suffraganei erano coscienti di essere oggetto di aggressioni pro
      defensione sue ecclesie, vedi: A. Tilatti, Tra santità e oblio: storie di vescovi uccisi in Italia
      nord-orientale (secoli xiii-xiv) in: L’Eveque, l’image et la mort. Identité et mémoire au
      Moyen Age, a cura di N. Bock/I. Foletti/M. Tomasi, Roma 2014, 603–620, 607.
17    Citati in questi termini nel Compianto del patriarca Gregorio (vedi nota 8), tramandato
      in due manoscritti conservati rispettivamente a Milano, Biblioteca Ambrosiana, Cod. R
      71 sup., f. 142r (xiii secolo) e ad Udine, Biblioteca Civica “V. Joppi”, Fondo Joppi, ms. 230,
      f. 16 (xix secolo): sull’argomento vedi Demontis, Raimondo della Torre (vedi nota 1),
      136–147.
18    Le costituzioni del cardinal Latino una volta ricevute dai rispettivi patriarchi e arcive-
      scovi dovevano essere pubblicate nelle proprie diocesi e trasmesse per via gerarchica ai
      rispettivi suffraganei: erano costituite di sei canoni riguardanti i procedimenti da attuare
      contro gli invasori delle chiese, sulla visita delle chiese, contro i chierici concubinari, sulle
      penitenze e sulle indulgenze.
19    Mt 6,34.
20    Impunita, effrenis, deformatis, dissolute, non formidant, non verentur: per l’edizione del-
      le costituzioni del concilio di Aquileia del 1282 vedi: L. Demontis, «Va’ e ripara la mia
      casa». La riforma della Chiesa in Raimondo della Torre patriarca di Aquileia (1273–1299),
      Berlin 2018, 75–87.

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Dio. La solennità liturgica dei santi martiri doveva essere celebrata ogni anno
in tutte le chiese delle diocesi della vasta provincia aquileiese:21 nei giorni fe-
riali i patroni della Chiesa di Aquileia avrebbero dovuto essere ricordati al mat-
tutino e nei vespri con antifone, colletta e una riflessione (legenda), nei festivi
con una processione solenne con le croci: essa diventava più visibile rispetto
ad altri atti di culto e quindi più efficace per influire sui fedeli, confermando
il loro sentimento di appartenenza.22 Si può scorgere in questo canone anche
la volontà di ricordare ai vescovi suffraganei il primato metropolitano del pa-
triarca di Aquileia, dato che i due vescovi suffraganei della Lombardia, Filippo
da Casaloldo di Mantova e Giovanni Avvocati di Como, non parteciparono al
concilio, né inviarono un proprio rappresentante, vivendo entrambi in esilio
con le loro sedi episcopali occupate dalle nascenti signorie cittadine.23 Come
in altre occasioni il patriarca Raimondo dimostrava la sua arte di governo in
cui messaggio politico e religioso erano strettamente connessi e spesso, come
in questo caso, assolutamente intrecciati. Le cerimonie si rivelavano dei canali

21   Per incentivarne il culto il patriarca Raimondo spostava la festa di santa Margherita, che
     cadeva nello stesso giorno, all’ottava della festa del santo martire patrono di Aquileia – dal
     5 luglio al 12 luglio – affinché la gente potesse partecipare alle celebrazioni liturgiche sia
     della santa martire sia dei due santi protettori del patriarcato, vedi: Annales Foroiulienses
     a. 1252–1331, ed. W. Arndt, Hannoverae 1866 (= mgh, Scriptores, 19), 194–222, in partico-
     lare 205; Juliani canonici Civitatensis Chronica, in: ris, ed. L. A. Muratori, 24/14,
     Città di Castello 21906, 1–58, in particolare 24.
22   Per le comunità cittadine del patriarcato che non partecipavano alla processione con le
     croci fino ad Aquileia per la festa dei santi Ermagora e Fortunato era prevista la scomuni-
     ca. La comunità di Povoleto, infatti, il 26 luglio 1292, dopo aver rinnovato l’obbedienza di
     tutti i suoi abitanti al patriarca, veniva assolta dalla scomunica in cui era incorsa poiché i
     suoi abitanti hoc anno non iverunt cum crucibus Aquilegiam, vedi: Demontis, Raimondo
     della Torre (vedi nota 1), doc. cxvii (1292 luglio 26, Udine), 239, 500, 501.
23   Filippo da Casaloldo viveva in esilio nella sua città natale, Brescia, dato che, avverso al
     potere dei Bonaccolsi, aveva visto la sua sede episcopale occupata dai signori di Mantova;
     governava tramite vicari e si trovava probabilmente in una condizione di indigenza. Gio-
     vanni Avvocati era uno dei nemici del patriarca Raimondo: aveva instaurato una signoria
     personale a Como in seguito a una rivolta contro i della Torre nel 1276, aveva inviato trup-
     pe comasche in aiuto all’arcivescovo di Milano Ottone Visconti per la battaglia di Desio
     ed era uno dei responsabili della dipartita del fratello del patriarca, Napoleone della Torre
     (†1278), esposto alle intemperie e morto di stenti in una gabbia appesa al castello del Ba-
     radello di Como. Tuttavia, nel febbraio 1282 la sua signoria era stata abbattuta dall’interno
     del suo schieramento da Lotario Rusca, che fece occupare il palazzo episcopale e i castelli
     vescovili del contado, saccheggiando chiese e monasteri e costringendo il vescovo Gio-
     vanni Avvocati a riparare in esilio a Milano dal suo potente alleato Ottone Visconti, vedi:
     A. Caso, Della Torre, Napoleone, in: dbi 37 (1989) 621–625; P. Grillo, Rusca, Lotario (I),
     in: dbi 89 (2018).

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privilegiati per la comunicazione politica perché erano “il tramite esclusivo di
un contatto con qualcosa di più profondo della realtà medesima, una trascen-
denza o un’essenza ultima”.24
    Il secondo canone De divinis officiis celebrandis devote prescriveva la cele-
brazione degli uffici sacri per riaccendere la devozione religiosa in tutti i fedeli,
laici ed ecclesiastici. Su questo punto il patriarca batteva fin dai primi anni di
governo del patriarcato con diversi interventi volti a sanare situazioni irregolari:
dava disposizioni perché i chierici abitassero nei pressi delle loro chiese, an-
che costruendo nuove abitazioni se necessario,25 ed evitassero le assenze dalle
cerimonie religiose per non impoverirne la solennità.26 Un esempio dell’appli-
cazione di questo canone è senz’altro il caso di Filippo di Udine, titolare della
pieve di Lucinico. Il pievano Filippo nel 1296 ricevette l’ingiunzione di stabilire
entro otto giorni la residenza effettiva nella pieve, in caso contrario questa sa-
rebbe passata ad altri. Nel documento d’ingiunzione il patriarca Raimondo,
prima di passare alle sanzioni economiche, faceva presente all’interessato che
l’assenza dal luogo del ministero si sarebbe risolta in un pericolo per le anime
a lui affidate.27
    Con il terzo canone De vita et honestate clericorum il patriarca Raimondo or-
dinava al clero di osservare scrupolosamente i canoni dei concili precedenti28
e le costituzioni del cardinale Latino Malabranca emanate nel 1279.

24    G. Fedel, Simboli e politica, Napoli 1991, 11.
25    Demontis, Raimondo della Torre (vedi nota 1), doc. xxxvii (1278 febbraio 3, Udine),
      227–228, 371.
26    Ibid., doc. cxxxi (1294 marzo 30, Cividale), 244, 516–17.
27    Ibid., doc. cil (1296 ottobre 30, Udine), 243, 538–539.
28    Le norme da osservare richiamavano quelle emanate dai grandi concili del xiii secolo,
      come il Lateranense iv e di due concili di Lione, e le costituzioni emanate da lui stesso nel
      1262, quando venne nominato vescovo di Como, e nel 1275, prive ancora di edizione. La
      cura con cui si precisavano questi dettagli indicava che per Raimondo l’abito, contraria-
      mente al detto cucullum non facit monacum e in linea con il pensiero di papa Innocenzo
      iii, dava un contributo importante alla creazione dell’immagine del clero. Non bastava
      che esso fosse di sani principi e di solida pietà; occorreva un segno esterno in cui queste
      qualità dovevano riflettersi: l’abito esterno, così come la tonsura, «faceva» il monaco, lo
      faceva identificare a colpo d’occhio distinguendolo dalle altre persone. Raimondo, che
      aveva dato un contributo prezioso alla costruzione dell’immagine dei suoi illustri con-
      giunti e in seguito alla sua propria immagine di patriarca, già con questi provvedimenti
      disciplinari voleva dare del clero e della chiesa un’immagine speculare alla sua: talis grex,
      qualis pastor.

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Raimondo della Torre e il concilio di Aquileia (1282)                                        431

3       Canoni 4–9: sicurezza e tutela di persone e beni della Chiesa

Contra sacrilegos in personas ecclesiasticas excedentes è il quarto e più lungo
canone di tutte le costituzioni: veniva emanato per estirpare un modo di agire
non troppo raro all’epoca, che aveva coinvolto in prima persona il patriarca
Gregorio da Montelongo, predecessore di Raimondo e lo stesso della Torre
quando era vescovo di Como, affinché l’ostinazione degli empi e dei crudeli non
cresc[esse] in superbia29 per aver catturato il patriarca di Aquileia o uno dei
vescovi suffraganei. In caso di cattura del patriarca, ad esempio, il vescovo che
ne fosse venuto a conoscenza avrebbe dovuto recarsi di persona o, nel caso del
rischio della propria incolumità, far arrivare quanto prima la notizia al capitolo
di Aquileia. I suffraganei inoltre avrebbero dovuto recarsi ad Aquileia o in un
altro luogo concordato per organizzare la liberazione del patriarca seguendo
un protocollo che prevedeva limiti di tempo ben precisi. Fino a quando non
fosse stato liberato il patriarca in tota Aquilegensi civitate, diocesi et provincia
divina sint officia interdicta.30 I colpevoli del rapimento del patriarca, o coloro
che lo avessero attaccato, senza alcun riguardo alla loro condizione sociale, au-
torità e potere, dopo che i loro nomi fossero stati scritti dal capitolo di Aquileia,
dovevano essere pubblicamente scomunicati in ogni chiesa cattedrale, colle-
giata o parrocchiale della provincia ecclesiastica di Aquileia ogni domenica e
in occasione di ogni festa al suono delle campane e con le candele accese,31 e
sia essi che i loro figli ed eredi, fino alla quarta generazione, dovevano essere
privati dei feudi ricevuti dalla Chiesa di Aquileia o dalle diocesi suffraganee,
e di tutte le dignità, uffici e privilegi ed essere dichiarati inabili a riceverne
altri. Tutti gli incarichi che ricoprivano per nomina o elezione dovevano essere
dichiarati nulli e coloro che li avessero eletti o nominati sarebbero incorsi au-
tomaticamente nella scomunica.
   Nel caso in cui il patriarca venisse ucciso o catturato e morisse in prigio-
nia, i sacrileghi e i loro complici, indipendentemente dalla loro condizione so-
ciale e dagli incarichi o dignità ricoperti, dovevano essere privati in perpetuo
dei feudi, benefici, onori e uffici, sia ecclesiastici che secolari, e dichiarati ina-
bili a riceverne altri, e i loro beni dovevano essere confiscati dalla Chiesa di

29   Demontis, «Va’ e ripara la mia casa» (vedi nota 20), doc. 1 (1282 dicembre 18–19, Aquileia),
     § 4, 77–82.
30   Ibid.
31   A Roma il rito di scomunica prevedeva anche il lancio delle candele accese da parte del
     papa e dei cardinali ai fedeli riuniti in chiesa per ricordare le fiamme dell’inferno, vedi:
     A. Paravicini Bagliani, Il papato e altre invenzioni. Frammenti di cronaca dal medio-
     evo a papa Francesco, Firenze 2014, 29.

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Aquileia. Inoltre il suo successore alla sede patriarcale con l’auxilium et consi-
lium dei suffraganei e del capitolo di Aquileia era tenuto a perseguire i colpe-
voli sia presso l’imperatore sia presso la Sede Apostolica,32 E se qualcuno dei
colpevoli entrava in un centro abitato della diocesi o della provincia ecclesia-
stica di Aquileia si dovevano sospendere gli uffici divini fino a tre giorni dopo la
sua partenza. Coloro che avessero aiutato i colpevoli o gli avessero anche solo
dato o venduto qualsiasi cosa o concesso ospitalità sarebbero incorsi automa-
ticamente nella scomunica, che già da quel momento il patriarca Raimondo
aveva pronunciato. Inoltre il vescovo del luogo del misfatto doveva chiedere
il sostegno del braccio secolare e, unite le loro forze, doveva assolutamente
catturare i colpevoli e consegnarli nelle mani del successore del patriarca. Nel
caso in cui il patriarcato venisse attaccato militarmente da una potenza laica,33
i suffraganei con i loro vassalli e i fedeli delle altre città e diocesi erano tenuti
non solo a non aiutare l’invasore, ma anzi a contrastarlo quanto prima con
azioni concrete e spirituali. Chiunque avesse voluto inviare aiuti al patriarca
non doveva essere ostacolato in alcun modo.
    In caso di cattura o morte di un vescovo suffraganeo, o di attacco contro
la sua persona da parte di un potere laico, si seguivano le stesse disposizioni
stabilite per il patriarca, e questi era tenuto ad intervenire in suo favore con
tutti i mezzi di cui disponeva. Se il patriarca, o un vescovo suffraganeo, veniva
assediato nei suoi domini o nella sua diocesi gli assedianti dovevano essere
fulminati dalla scomunica, con l’aggiunta dell’interdetto nel caso si trattasse di
una comunità cittadina o della perdita dei feudi nel caso di vassalli ribelli. Se
un vescovo era espulso dalla città o costretto all’esilio a causa della difesa del-
la libertas Ecclesiae e dell’osservanza delle costituzioni, la città doveva essere
colpita dall’interdetto e il podestà, i consoli e gli altri ufficiali del comune do-
vevano essere scomunicati in tutta la provincia di Aquileia. Il vescovo esiliato
doveva essere provvisto dal patriarca e dagli altri vescovi suffraganei di quattro
cavalli e di cinque persone al seguito e di qualunque altra cosa fosse ritenuta
necessaria.
    Nel caso in cui un prelato della sua diocesi venisse imprigionato o ucciso, il
vescovo era tenuto a procedere come stabilito per il patriarca. Se un chierico
fosse stato ucciso o catturato, i colpevoli sarebbero stati scomunicati con i loro
complici in tutte le chiese della diocesi e il luogo del misfatto colpito da inter-
detto. Se un canonico o un chierico fosse cacciato a causa della difesa della

32    Il patriarca Raimondo aveva sperimentato di persona l’efficacia della minaccia di ricorre-
      re alla Sede Apostolica quando aveva resistito alle pretese del re di Boemia, vedi: Demon-
      tis, Raimondo della Torre (vedi nota 1), 56.
33    Circostanza che si era verificata più volte anche dopo il periodo di vacanza del patriarcato.

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Raimondo della Torre e il concilio di Aquileia (1282)                                         433

libertas Ecclesiae e dell’osservanza delle costituzioni, doveva essere provvisto
del necessario dal vescovo e dal clero.34
   Negli anni prima della nomina patriarcale di Raimondo la cattura del pa-
triarca di Aquileia o di un suo vescovo suffraganeo era stato un evento tutt’altro
che raro: dovevano essere assai vivi nella memoria dei prelati i casi del rapi-
mento del patriarca Gregorio da Montelongo nel 1267, dell’uccisione del vesco-
vo Alberto di Concordia e vicedomino patriarcale nel 1268,35 della cattura dello
stesso Raimondo della Torre quando era vescovo di Como nel 1270.36 Inoltre
durante il concilio del 1282 il cavaliere teutonico Enrico ii principe-vescovo
di Trento aveva portato il suo caso davanti all’assemblea sinodale: il patriarca
Raimondo allora scomunicava solennemente Mainardo ii conte del Tirolo, fra-
tello di Alberto conte di Gorizia, per aver usurpato i beni della Chiesa di Tren-
to e per aver rapito in precedenza il vescovo.37 Forse sta in questo punto una
differenza importante tra i casi di Enrico vescovo di Trento e quelli di Filippo
di Mantova e Giovanni di Como: mentre il primo partecipò al concilio e chie-
se aiuto al patriarca, gli altri due suffraganei non parteciparono né inviarono
rappresentanti, venendo meno all’obbedienza dovuta al patriarca di Aquileia e
cercando aiuto altrove, a Brescia e a Milano.
   Andrea Tilatti riporta un elenco di vescovi della provincia ecclesiastica di
Aquileia uccisi nel secolo xiii, forse in conseguenza di un ruolo attivo, ecclesia-
le e probabilmente anche politico, esercitato dai prelati: a questa drammatica

34   Le costituzioni miravano a garantire completa solidarietà degli ecclesiastici dai vescovi
     fino ai chierici per tutelare la libertas Ecclesiae.
35   Il Chronicon de potestatibus Padue riporta la morte violenta di Bernardo di Agde vescovo
     di Padova nel 1295, e la cattura, tortura e impiccagione dell’assassino Cixana, seguita all’u-
     miliazione rituale di essere trascinato legato alla coda di un cavalo. Nonostante questo
     fatto “non è escluso che gli statuti del 1282 fossero stati presi anche nella consapevolezza
     della situazione patavina, dove l’omicida di un prete secolare era punito con una semplice
     ammenda pecuniaria”, vedi: Tilatti, Tra santità (vedi nota 16), 609.
36   Sul rapimento di Raimondo vedi supra; vedi anche M. N. Covini, Della Torre Raimondo,
     in: dbi, 37 (1989) 657; L. Martinelli Perelli, Ai confini settentrionali della diocesi
     comasca. Note sulla storia di alcune dipendenze dei Benedettini in alta Valtellina, Como
     1991, 173–192, in particolare 180–181.
37   Storia del Trentino, vol. 3, L’età medievale, a cura di A. Castagnetti/G. M. Varanini,
     Bologna 2004, 275–283. Pare quindi che le costituzioni avessero anche potere retroattivo,
     almeno per i casi portati davanti all’assemblea conciliare. Non è chiaro se anche i Bonac-
     colsi al potere a Mantova, che avevano scacciato il vescovo Filippo da Casaloldo dalla sua
     sede, fossero stati pubblicamente scomunicati e fosse stata intrapresa qualche iniziativa
     contro di loro.

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realtà occorre aggiungere i numerosi casi di prelati malmenati e feriti:38 il pa-
triarca Raimondo aveva più di un motivo di preoccupazione per l’incolumità
sua (experientia docente) e dei suoi suffraganei. Pur tuttavia la sua risposta ai
fatti di sangue non era oculum pro oculo, dentem pro dente, manum pro manu,
pedem pro pede, adustionem pro adustione, vulnus pro vulnere, livorem pro livo-
re,39 ma era orientata ad escludere rimedi estremi. Riformò infatti gli statuti
del comune di Sacile che prevedevano in precedenza la condanna a morte per
omicidio con mutilazione del cadavere.40
   Il quinto canone Ne quis episcopus alicui de aliena civitate vel diocesi absque
sui diocesani litteris conferat primam tonsuram era stato fatto per porre un fre-
no alla diffusione delle situazioni irregolari nel clero: si voleva evitare che la
concessione della tonsura andasse a persone indegne, che spesso ne facevano
richiesta in diocesi diverse dalla propria per evitare condanne penali. Infatti il
canone vietava di concederla ai fedeli di altre diocesi se non muniti di lettere
del loro vescovo, qui agnitionem habere debet sui pecoris pleniorem. I vescovi,
o i loro vicari, che avessero trasgredito il divieto sarebbero stati sospesi per un
anno dall’esercizio della collazione.
   De statutariis contra ecclesiasticam libertatem era il canone che proibiva l’e-
manazione di statuti contro la libertas Ecclesiae in tutto il territorio della vasta
provincia ecclesiastica aquileiese.41 Se esistessero già statuti e ordinamenti di
questo tenore, ordinati dalle autorità comunali o da altre persone di qualsiasi
dignità e condizione, dovevano essere tassativamente aboliti entro due mesi
a partire dalla data di emanazione delle costituzioni. Si precisava inoltre che
non potessero essere adottati nuovamente in futuro. Inoltre coloro che uti-
lizzassero tali statuti nell’avvocatura, nei processi o in qualsiasi altro modo,

38    Tilatti, Tra santità (vedi nota 16), 603–04. Sul problema del perché solo sulla morte di
      alcuni vescovi si sia sviluppato un discorso agiografico tira in ballo la fama che ciascuno
      di loro si era fatta in vita vedi: G. Schwedler, Damnatio memoriae - oblio culturale:
      concetti e teorie del non ricordo, in: Condannare all’oblio. Pratiche della damnatio me-
      moriae nel medioevo. Atti del convegno di studio svoltosi in occasione della xx edizione
      del Premio internazionale Ascoli Piceno (Ascoli Piceno, Palazzo dei Capitani, 27–29 no-
      vembre 2008), a cura di I. Lori Sanfilippo/A. Rigon, Roma 2010, 3–17. Sulla “fama” o
      reputazione nel medioevo, vedi sopra.
39    Es 21,24–25.
40    Item statutum est quod si quis interfecerit aliquem in civitate Sacili moriatur et caput ei au-
      feratur a busto, hoc idem dominus patriarcha noluit confirmare. Sed ubi dicitur moriatur
      et caput ei auferatur a busto, sic correxit: quod si quis talia fecerit in civitate Sacili et eius
      districtu, secundum quod iuris ordo postulat, puniatur, vedi: Demontis, Raimondo della
      Torre (vedi nota 1), doc. lxxxii (1286 giugno 5, Cividale), 459–60.
41    Vedi Concilio Lateranense iv, c. xliv.

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Raimondo della Torre e il concilio di Aquileia (1282)                                      435

disprezzando le presenti costituzioni, sarebbero incorsi automaticamente nel-
la scomunica e, dichiarati reietti, evitati da tutti fino al pagamento di un’am-
menda adeguata. Inoltre i centri abitati e i castelli in cui risiedevano sarebbero
stati sottoposti all’interdetto.
    Il settimo canone De occupationibus bonorum et iurium ecclesiasticorum era
un’ammonizione severa che il patriarca Raimondo rivolgeva a principi e signo-
ri feudali,42 autorità di comuni (podestà, capitani, consiglieri…), castelli e ville
e a persone di qualsiasi luogo, dignità, condizione e sesso che si fossero impa-
droniti di località, beni, giurisdizioni, diritti e documenti spettanti alle chiese
della diocesi e della provincia di Aquileia o che le avessero occupate, o che
impedissero alle stesse chiese o al clero di usarne a piacimento, pretendendo
di esercitare poteri non spettanti a loro e di esigere prestazioni obbligatorie.
Con il canone il patriarca Raimondo ordinava la restituzione dei beni e diritti
usurpati alle chiese, ai capitoli e ai loro rettori e prelati, il risarcimento effettivo
dei frutti percepiti o che avrebbero potuto percepire, dei danni e delle offese
arrecate, la cessazione degli impedimenti e la fine delle occupazioni e requisi-
zioni indebite. I contravventori avevano tempo due mesi dalla pubblicazione
delle costituzioni: in caso contrario sarebbero stati fulminati dalla scomunica
e le loro terre sottoposte a interdetto. Solo i vescovi e i prelati a cui era stata
data speciale licenza avrebbero potuto assolvere in nome del patriarca gli sco-
municati e sciogliere l’interdetto: in ogni caso ciò poteva avvenire solo dopo il
versamento delle riparazioni dovute.
    L’ottavo canone Contra defraudationes decimarum et quartisiorum ecclesiis
debitorum obbligava tutti i sacerdoti della provincia ecclesiastica di Aquileia,
sotto pena di scomunica, ad indagare, udite le confessioni, se i fedeli avesse-
ro pagato le decime43 e i quartesi spettanti a chiese, capitoli e rettori. I fedeli
inadempienti non avrebbero potuto essere assolti fino a quando non avessero
versato ciò che dovevano. Il mancato pagamento delle decime e dei quarte-
si equivaleva a disprezzare ciò che Dio aveva riservato per se stesso e i suoi
ministri e ad esporsi a ricevere castighi terribili, come era successo ad Ana-
nia e Saffira.44 Il patriarca sottolineava che all’osservanza delle costituzioni
erano tenuti obbligatoriamente anche i frati Minori, Predicatori ed Eremitani,

42    Nel 1274 Giacomo de Ragogna consegnava al patriarca Raimondo l’elenco dei colpevoli
      dei danni commessi e delle offese arrecate alla Chiesa di Aquileia: erano tutti uomini
      alleati o al servizio del conte di Gorizia, vedi Demontis, Raimondo della Torre (vedi nota
      1), doc. xxiii (1274 agosto 19, Cividale), 353–55.
43    Concilio Lateranense iv, c. liv.
44    At 5,1–11.

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nonostante godessero dell’esenzione papale: è facile intuire che in caso contra-
rio il canone stesso sarebbe stato disatteso.
   L’indagine del confessore sulla condizione tributaria del fedele era specu-
lare alla cronica mancanza di liquidità nelle casse patriarcali.45 Il denaro non
veniva investito per produrre altra ricchezza, ma era visto come misura del va-
lore,46 lasciando trasparire nel patriarcato atteggiamenti “conservativi” riguar-
do alla moneta.47 Per far fronte alle ingenti spese della curia, del principato
ecclesiastico e delle campagne militari, il patriarca Raimondo era costretto a
contrarre debiti e per estinguerli ricorreva a varie forme di prestito.48 Affidava
a privati, specie a società di uomini d’affari toscani, la gestione delle mute,49
ossia le tasse che si pagavano sulle merci in entrata nel patriarcato, decime,50
dazi e altre tasse e vendite di boschi.51 Il patriarca assegnava loro in appalto
la raccolta delle somme perché erano in grado di anticipare il capitale, con
lo stesso metodo usato nell’antica Roma nei confronti degli equites. Essi go-
devano di facilitazioni, esigevano garanzie prima di stipulare un contratto, e
godevano della fiducia del patriarca, che si servì di alcuni di loro52 anche come
monetieri nella zecca.53 I patriarchi aquileiesi nonostante coniassero moneta

45    Cammarosano/De Vitt/Degrassi (vedi nota 4), 271–435; 419–23.
46    D. Degrassi, Uso del denaro e circolazione monetaria in Friuli e nel litorale alto-adriatico
      tra la metà del xii e la metà del xiii secolo, in Ead., Continuità e cambiamenti nel Friuli
      tardo-medievale (xii-xv secolo). Saggi di storia economica e sociale, Trieste 2009, 13–41
      (già in: Die Friesacher Münze in Alpen-Adria Raum / La moneta frisacense nell’Alpe-
      Adria, Akten der Friesacher Sommerakademie, Friesach-Kärnten, 14.-18. September 1992,
      a cura di R. Härtel, Graz, 1996, 313–338; A. Tilatti, Il denaro e i preti. Qualche riflessio-
      ne per i secoli basso medievali, in: CrSt 33/2 (2012) 493–517.
47    Ibid., 499; G. Fasoli, Prestazioni in natura nell’ordinamento economico feudale: feudi
      ministeriali dell’Italia nord-orientale, in: Storia d’Italia, Annali 6, Torino 1983, 67–89; B.
      Castiglioni, L’altro feudalesimo. Vassallaggio, servizio e selezione sociale in area vene-
      ta nei secoli xi-xiii, Venezia 2010.
48    Vi aveva fatto ricorso prima di iniziare il viaggio d’ingresso in Friuli chiedendo ai fratelli
      la somma di 10000 lire di mezzani, impegnando il suo palazzo di Milano e altri beni a
      Montorfano.
49    Demontis, Raimondo della Torre (vedi nota 1), 356, 392–94, 394–96, 491, 514, 557–58.
50    Ibid., 365–66, 369, 470–71.
51    Ibid., 396, 397–98.
52    I Toscani – per lo più Fiorentini e Senesi – operanti in Friuli nella seconda metà del xiii
      secolo erano presenti in tutti i settori dell’economia: mercanti, imprenditori, esattori,
      banchieri, uomini d’affari alla ricerca di profitti. Nonostante questa diversità di ruoli e
      trattando una pluralità di affari nelle fonti sono sempre definiti mercatores, vedi: ibid.,
      269–287, 411–412.
53    Nel 1278 un certo Letto era monetiere del Patriarca, vedi: ibid., 280.

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Raimondo della Torre e il concilio di Aquileia (1282)                                        437

dall’xi secolo,54 non furono capaci di varare una robusta politica monetaria
tale da sostenere uno sviluppo economico della regione.55 Di conseguenza
l’attenzione era rivolta a preservare i beni e i diritti della Chiesa, usurpati fin
troppo spesso nel corso del xiii secolo dall’espansionismo dei comuni e dei
signori laici.
    Il nono canone Ne excomunicatorum corpora tradantur ecclesiastice sepul-
ture era conseguente all’ottavo. Infatti si vietava espressamente di dare sepol-
tura cristiana a coloro che erano incorsi nella scomunica oppure che, assolti
in punto di morte, non avessero avuto l’occasione di riparare ai danni per cui
furono scomunicati. Solo dopo che i loro eredi avessero dato la giusta soddisfa-
zione dei danni arrecati nelle mani del vescovo, del suo vicario o del pievano,
i defunti avrebbero potuto trovare posto in suolo consacrato. La formula era
rigorosissima: il sacerdote che avesse trasgredito questa norma sarebbe incor-
so nella sospensione dell’ufficio e del beneficium, e i corpi degli scomunicati
sarebbero stati esumati.

54   Il diritto di battere moneta pubblica risaliva a una concessione di Corrado ii il Salico del
     1028 al patriarca Poppone rimasta in vigore fino al 1420, quando il patriarca perse il potere
     temporale. In questo periodo ebbero luogo 20 rinnovazioni della moneta. Raimondo della
     Torre la rinnovò quattro volte (1274, 1277, 1281, 1287). Il denaro aquileiese era l’unità di
     misura del sistema monetario del patriarcato. Il denaro d’argento equivaleva a 14 piccoli
     battuti in rame con un ottavo d’argento. Il “grosso” equivaleva a 2 denari d’argento. Erano
     le monete reali circolanti. Il denaro e il grosso erano ritenute monete “buone” e avevano
     corso anche fuori del patriarcato; i piccoli avevano corso legale solo all’interno di esso.
     Le monete di conto erano la lira di denari (ne conteneva 20) e la lira di soldi, che pur
     contenendone 20 aveva meno valore, perché ogni soldo era costituito da 12 piccoli, come
     nella moneta veronese. La moneta di conto più utilizzata era la marca di denari, che ne
     conteneva 160. Un quarto d’una marca era detto fertone. La moneta di conto di maggior
     valore era la marca ad usum curie, così chiamata perché la Camera patriarcale computava
     con essa i suoi redditi. Questa corrispondeva a 800 denari d’argento, ma spesso veniva
     associata a una rendita costituita da derrate agricole e insieme da denaro contante. Da
     questa derivava anche la moneta chiamata denaro curiale equivalente a 5 denari d’argen-
     to. Un esempio di tale rendita è in un documento del 1298 marzo 12 contenente il canone
     d’affitto che un massaro è tenuto a versare: X marcas de redditibus ad usum curie, cioè
     76 staia di frumento cum tribus staris frumenti de avocanti, 5 staia di fave e segale, 43 di
     miglio, 80 di avena, 15 urne e mezza di vino, 46 galline e 8 spalle di maiale, et in denarium
     una marca aquileiese e 28 denari, vedi: ibid., 168–181; F. Di Manzano, Annali del Friuli,
     ossia raccolta delle cose storiche appartenenti a questa regione,iii, dall’anno 1231 dell’era
     volgare all’anno 1310, Udine 1860, 109.
55   Tilatti, Il denaro (vedi nota 46), 501.

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4        Canoni 10–11: visite ad limina e osservanza delle norme

Il decimo canone Ut suffraganei Aquilegensis Ecclesie ipsam annis singulis vi-
sitent ut tenentur prescriveva ai vescovi, secondo il giuramento prestato, di far
visita al patriarca e alla Chiesa di Aquileia almeno una volta all’anno. Gli ordi-
nari che non avessero prestato quel giuramento avevano un mese di tempo per
farlo. Coloro che non potevano recarsi di persona dovevano farsi rappresentare
da un procuratore.56 Questo canone doveva servire a rinsaldare i rapporti tra i
suffraganei e il patriarca e a garantire a quest’ultimo informazioni precise sulla
situazione in ciascuna diocesi. Un esempio dell’applicazione di questo cano-
ne è senz’altro il caso del frate Predicatore Giovanni Savelli vescovo di Padova
che il 15 agosto 1296 delegava il cappellano Stefano di Giordano de Urbe ad se
presentandum nostro nomine et nostre Ecclesie Paduane coram venerabili patre
domino R(aymundo) patriarcha Aquilegensi prefato, et ad prestandum eidem
nomine Aquilegensis Ecclesie iuramentum sibi debitum secundum canonicas
sanctiones, et ad visitandum ipsam Ecclesiam Aquilegensem.57 La formula del
giuramento era piuttosto chiara: il vescovo, oltre a giurare fedeltà e obbedien-
za ai santi Ermagora e Fortunato, alla Chiesa di Aquileia, al patriarca e ai suoi
successori, secundum modum debitum de iure et consuetudine approbatum,
dichiarava che non avrebbe tramato né partecipato ad attentati contro il pa-
triarca58 e che non avrebbe rivelato a suo danno le confidenze da lui ricevute;
sarebbe intervenuto al sinodo, avrebbe fatto ogni anno la visita ad limina, non

56    Vedi oltre il giuramento di fra Giovanni vescovo di Padova.
57    Demontis, Raimondo della Torre (vedi nota 1), doc. cxlvii (1296 agosto 15, Padova).
58    Questa è la formula: (…) Ego Stephanus (…) nomine et vice ipsius domini fratris Johannis
      episcopo Paduani iuro in animam eius quod ipse frater Johannes episcopus Paduanus ab
      hac hora in antea fidelis et obediens erit beato Hermachore et sancte Aquilegensi Ecclesie
      et reverendo patriarche Aquilegensi et suis successoribus canonice intrantibus. Numquam
      erit in consilio aut consensu vel facto ut vitam perdant aut membrum aut capiantur mala
      captione. Consilium vero quod sibi confidatum fuerit per se aut per nuncios suos seu per
      litteras ad eorum damnum nemini pandet. Patriarchatum Aquilegensem et regalia patriar-
      chatus eiusdem adiutor erit ad retinendum et defendendum, salvo ipsius ordine, contra om-
      nem hominem. Legatos et nuncios ipsius domini patriarche et Ecclesie Aquilegensis eundo et
      redeundo honorifice tractabit et in suis necessitatibus adiuvabit. Vocatus ad synodum veniet,
      nisi prepeditus fuerit canonica prepeditione. Limina Ecclesie Aquilegensis annis singulis vi-
      sitabit aut per se aut per suum nuncium, nisi dicti domini patriarche absolvatur licentia.
      Possessiones vero ad mensam sue Ecclesie Paduane pertinentes non vendet neque donabit
      neque impignoravit neque de novo infeudabit, neque alio modo alienabit inconsulto domino
      patriarcha Aquilegensi (…), vedi: ibid., 537–38.

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Raimondo della Torre e il concilio di Aquileia (1282)                           439

avrebbe mai alienato né infeudato di nuovo i possedimenti relativi alla mensa
episcopale.
    L’ultimo canone Ut quilibet suffraganei Aquilegensis Ecclesie presentes con-
stitutiones habeant ordinava che ogni vescovo suffraganeo avesse una copia
delle costituzioni e le pubblicasse nella propria diocesi. Inoltre ciascun vesco-
vo doveva divulgarle ogni anno all’interno del proprio sinodo diocesano.
    Il documento delle costituzioni del concilio provinciale del 1282 si chiudeva
con l’elenco dei testimoni e con l’espressione ac aliorum fidelium tam clerico-
rum religiosorum et secularium, quam laicorum Aquilegensis civitatis, diocesis
et provincie multitudine copiosa: al concilio avevano preso parte in gran nume-
ro, sia laici che ecclesiastici e religiosi. Le norme delle costituzioni entrarono
in vigore circa tre mesi dopo: il 21 marzo 1283 a Cividale, Bernardo decano di
Cividale, con l’autorità conferitagli dal patriarca, rendeva solennemente pub-
bliche le costituzioni da poco emanate nel concilio provinciale comminando
la scomunica contro coloro che continuavano a tenere occupati i beni delle
chiese se non li avessero restituiti entro otto giorni. Il rito della pubblicazione
si svolgeva nel modo consueto durante la messa solenne mediante la lettura
del testo prima in latino poi in volgare: Idem dominus Bernardus decanus de
Civitate in missarum solempniis publicavit constitutiones reverendi patris domini
Raymundi Dei gratia patriarche Aquilegensis noviter editas apud Aquilegiam in
sua provinciali synodo, legens ipsas litteraliter, postea vulgariter exponendo, pre-
cipiens ipsis sub excommunicationis pena conservari.59

5       Conclusioni

Le costituzioni di Raimondo del 1282 furono ripubblicate dai suoi successo-
ri come il patriarca Ottobono de Razzi nel 1307, e confermate e rinnovate da
Bertrando di Saint-Geniès nel 1351. La riforma della Chiesa portata avanti dal
patriarca Raimondo ebbe senz’altro effetti benefici e positivi sulla provincia
ecclesiastica di Aquileia del xiii secolo. L’energia dimostrata nel reprimere gli
abusi aveva dato inizio a un nuovo corso nel patriarcato mettendo dei limiti
all’arroganza di molti: mentre prima alcuni agivano nella sicurezza dell’im-
punità, ora sapevano di dover render conto del loro operato. I singoli casi di
disobbedienza alle costituzioni che si verificarono lo stesso fino agli ultimi
anni della vita del patriarca Raimondo furono trattati da lui con misericordia,
fermezza e rigore insieme: caratteristiche proprie di un vero pastore che si
prendeva cura della sua Chiesa.

59   Ibid., doc. lxviii (1283 marzo 21, Cividale).

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