Che cosa potremmo aver imparato dalla pandemia

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Editoriale
Che cosa potremmo aver imparato
dalla pandemia

Abstract
What we might have learned from the pandemic
During the pandemic, the difficulties that the school revealed in trying
to counteract the consequences of the contagion could be read as a
consequence of the fall of its ability to contradict a social conformism
long covered by the rituality of practices and behaviors. Didactic prac-
tices already appear worn out because they are increasingly distant
from the conditions of the students' experience and have been restored
by adopting a different transmissive technology. According to the au-
thors, there is a need for an educational rethink that enhances all avail-
able student experiences, both implicit and explicit, in the school and
family context.
Keywords: Covid-19, transmissive teaching, didactic mediation, dis-
tance learning, experience.

Resumen
Lo que podríamos haber aprendido de la pandemia
Durante la pandemia, las dificultades que la escuela puso de manifiesto
al tratar de contrarrestar las consecuencias del contagio podrían leerse
como consecuencia de la caída de su capacidad para ser alternativa a un
conformismo social largamente amparado en la ritualidad de las prácti-
cas y los comportamientos. Las prácticas pedagógicas, ya desgastadas
por estar cada vez más alejadas de las circunstancias de los alumnos,
han sido restauradas mediante la adopción de una tecnología transmisi-
va diferente. Según los autores, es necesario un replanteamiento didác-
tico que potencie todas las experiencias disponibles para los alumnos,
tanto implícitas como explícitas, en el contexto escolar y familiar.
Palabras clave: Covid-19, didáctica transmisiva, mediación didáctica,
enseñanza a distancia, experiencia.

EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica, X, 1 (2021), pp. 1-6.
ISSN 2280-7837 © 2021 Editoriale Anicia, Roma, Italia.
DOI: 10.14668/Educaz_10101
Editoriale

Siamo ormai bene addentro al 2021, secondo anno da
quando la pandemia da Covid 19 ci ha costretto a cambiar
modo di vivere e, qualunque fossero i nostri interessi abi-
tuali, a occuparci della varia fenomenologia associata al
contagio. Abbiamo attraversato fasi alle quali hanno corri-
sposto diversi livelli di ansia e nei quali al pessimismo ini-
ziale ha fatto seguito un ingiustificato ottimismo, cui è se-
guito il manifestarsi di una recrudescenza dell’infezione,
peggiore di quella che ci si era illusi di aver superato. E
saremmo ancora in una condizione di totale incertezza se
nel frattempo formidabili organizzazioni di ricerca non
avessero messo a punto vaccini capaci di contrastare il
virus attraverso campagne di immunizzazione di massa.
      Così richiamati, i principali momenti della pandemia
sono ridotti ad una narrazione piuttosto lineare, che non
lascia intravedere i contrasti sociali, politici ed economici
che hanno segnato il volgere dei mesi. E, invece, occorre
soffermarsi proprio sui momenti di questa narrazione, a
maggior ragione in queste pagine, dal momento che la sua
apparente linearità ha finito con l’inglobare anche le prati-
che dell’educazione. È inutile dire che lo schema narrativo
ha mostrato di essere funzionale, invece che alla compren-
sione, alla riduzione a senso comune dei tratti di una realtà
inconsueta. In breve, i sistemi di comunicazione hanno
enfatizzato i fattori di disagio, hanno presentato come
inaudite vessazioni misure volte al contenimento del con-
tagio, hanno accreditato categorie del reale coerenti solo
con rappresentazioni prescientifiche.
      Ai sofferti tentativi di individuare le origini e com-
prendere le dinamiche espansive della pandemia di tanti
ricercatori e all’impegno dei medici e dell’insieme del per-
sonale sanitario per curare o quanto meno contenere gli
effetti del contagio, si sono contrapposte esibizioni sapien-
ziali volte a strappare un consenso utilizzabile a fini di po-
tere. Lo sfociare della sapienzialità in forme di negazioni-

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Cosa potremmo aver imparato dalla pandemia

smo, disposto a prescindere dall’evidenza del gran numero
di vittime della pandemia per affermare la presunta libertà
derivante da arbitri del comportamento, in particolare gio-
vanile, dal poter dedicare le ore notturne all’invasione
schiamazzante dei centri urbani, è stato rivelatore di una
cultura sociale degradata non meno di quella formale. Se
proviamo a ricostruire la scala dei valori collettivi che si
sono sentiti affermare anche nelle fasi più critiche del con-
tagio, si ottiene un catalogo morale degno di un’orda di
lanzichenecchi, ma avvilente agli inizi del XXI secolo.
     Dobbiamo pensare che una simile deriva culturale
della società civile (fortunatamente solo di una sua frazio-
ne) sia stata la conseguenza del deteriorarsi delle condi-
zioni consuete della vita nel tempo del contagio? Non sa-
rebbe più prudente chiedersi se la cultura sociale, in Italia
come altrove, non fosse già permeata da un virus deva-
stante, che l’associazione con quello della pandemia ha
improvvisamente e rovinosamente liberato? Le difficoltà
che la scuola ha rivelato nel cercare di contrastare le con-
seguenze del contagio potrebbero essere lette come una
conseguenza della caduta della sua capacità di contraddire
un conformismo sociale a lungo coperto dalla ritualità del-
le pratiche e dei comportamenti. Non è un caso che molta
dell’attenzione nel confronto educativo si sia riversata sul-
la valutazione, ossia proprio sull’attività che era più im-
probabile riprendere e adattare secondo schemi usuali in
un sistema profondamente squassato dalla pandemia.
     Da considerazioni generali relative alla crisi che stia-
mo attraversando siamo giunti a formulare ipotesi che ri-
guardano l’educazione. L’attenzione si è rivolta soprattutto
all’educazione formale, per la maggiore evidenza che as-
sume il suo carattere di attività organizzata, ma ci sono
validi motivi per ritenere che sia in atto un processo invo-
lutivo nell’educazione informale i cui effetti non possono
non riversarsi su quella formale. Di fronte all’incalzare del
contagio, la decisione subito assunta dalle autorità scola-

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stiche è stata quella di sospendere il succedersi giorno do-
po giorno delle attività in presenza e di sostituirle con
l’offerta di istruzione a distanza. Il problema è stato consi-
derato nei suoi aspetti fisici: si trattava di interrompere la
continuità spaziale tra soggetti potenzialmente in grado di
subire l’infezione o di trasmetterla ad altri. Che si trattasse
di un problema reale non c’è dubbio, ma non c’è neanche
dubbio che non si poteva pensare di risolverlo semplice-
mente modificando le condizioni fisiche della comunica-
zione.
      È avvenuto così che pratiche didattiche spesso già lo-
gorate perché sempre più lontane dalle condizioni di espe-
rienza degli allievi siano state ripristinate adottando una
diversa tecnologia trasmissiva. Quel che è stato ignorato, e
che è il segnale dell’inadeguatezza della cultura educativa,
è che un conto è la definizione di nuovi intenti e nuove
strutture per le pratiche educative, un conto ritenere che
basti far ricorso ad uno scenario inconsueto per promuove-
re l’innovazione. Centinaia di migliaia di insegnanti da un
giorno all’altro hanno dovuto impegnarsi in pratiche che
per la grande maggioranza di loro erano solo un sentito
dire, al quale non associavano modelli né interpretativi né
di comportamento. Certo, non è stata responsabilità degli
insegnanti la sconnessione metodologica che ne è derivata.
Eppure, non doveva essere difficile immaginare che non
può bastare porre a disposizione di insegnanti e allievi un
certo corredo strumentale, in assenza di una accumulazio-
ne conoscitiva e di esperienza alla quale poter fare riferi-
mento. Si capisce quindi che, se in un primo momento
l’effetto della novità ha sollecitato l’impegno di insegnanti
e allievi, nel volgere di poco tempo tale effetto si è stem-
perato e ha lasciato spazio ad atteggiamenti negativi.
      Sarebbe stato necessario promuovere una cultura di-
dattica che considerasse, in parallelo con il progredire del-
le pratiche che suppongono un’interazione diretta, anche
quelle che prevedono un’interazione mediata. Chi ritiene

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che l’istruzione a distanza abbia bisogno solo di uno stru-
mentario per la comunicazione, farebbe bene a seguirne
gli sviluppi negli ultimi tre secoli. Troverebbe (ci limitia-
mo a proporre alcuni esempi) che nel Settecento un’impor-
tante esperienza di istruzione a distanza è stata ideata e
condotta da Jean-Jacques Rousseau; che nel secolo suc-
cessivo grazie all’istruzione a distanza è stato possibile
fornire educazione formale in paesi, come l’Australia o il
Canada, nei quali la dispersione degli allievi nel territorio
non consentiva di creare una rete di scuole; che nel Nove-
cento in paesi come l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti o la
Cina il contributo dell’istruzione a distanza per lo sviluppo
dell’istruzione superiore è stato determinante. Basterebbe
tuttavia esaminare documenti significativi del funziona-
mento delle principali istituzioni per l’istruzione a distanza
(dalla Open University nel Regno Unito al CNED in Fran-
cia, dalla Pennsylvania University alla FernUniversität di
Hagen, dall’Uned in Spagna alla Athabasca University in
Canada ecc.) per rendersi conto di quanto sia importante
l’impegno nella ricerca e complessa l’organizzazione delle
attività, dal punto di vista didattico e da quello gestionale.
     In un primo momento potevano accamparsi ragioni di
urgenza per giustificare l’assunzione di decisioni improv-
visate ma in qualche modo sostitutive di un funzionamento
delle attività scolastiche correnti reso impossibile dall’in-
calzare del contagio. Quel che non si comprende è perché
poi il tempo sia trascorso invano, senza che si siano pro-
mossi progetti che non solo dessero senso alle attività in-
consuete nelle quali allievi e insegnanti erano impegnati,
ma contribuissero ad incrementare la capacità di fare scuo-
la, affiancando soluzioni nuove a quelle già disponibili.
Gli insegnanti che hanno cercato di delineare scenari di-
dattici più impegnativi non possono che averne tratto
un’impressione depressiva: a che cosa è servito il loro im-
pegno? Se la tendenza alla regressione del contagio doves-
se ristabilire condizioni di normalità liberando dalla deva-

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stante presenza del virus nella vita quotidiana, dobbiamo
pensare che il prossimo anno scolastico si apra all’insegna
della continuità col modo in cui l’educazione formale era
proposta fino al 2019?
      È proprio ciò che non dovrebbe accadere. I guasti
provocati dalla pandemia hanno lasciato emergere non
solo la forza distruttiva del morbo, ma anche i tanti limiti
che nel tempo si erano manifestati nella cultura scolastica
e il cui più evidente era la contrazione del repertorio sim-
bolico disponibile. Dopo due anni in cui la proposta edu-
cativa si è drasticamente ridotta, non ci si poteva attendere
che una riduzione ulteriore nella disponibilità di simboli.
Oltre tutto si tratterebbe di una riduzione che trova inco-
raggiamento nella decadenza della cultura sociale, in par-
ticolare per ciò che si riferisce al linguaggio verbale.
Bambini e ragazzi (solo per non ampliare eccessivamente
il campo di queste riflessioni ci si astiene dal menzionare
gli adulti) trascorrono parte consistente delle loro giornate
(tanto più se non hanno impegni scolastici) nella condizio-
ne di chi è esposto a messaggi che non consentono una
interazione. Dal punto di vista dell’apprendimento, ciò
equivale a far prevalere le esperienze implicite, quelle che
si compiono nel contesto della vita quotidiana, su quelle
esplicite, proprie dell’educazione scolastica. Tra esperien-
ze esplicite (più frequenti in condizioni sociali favorevoli)
e implicite (spesso collegate a un limitato livello culturale
delle famiglie) si estende l’intervallo: è questo il modo in
cui la povertà delle ipotesi collegate alla modernizzazione
didattica trascina verso l’inadeguatezza il corredo verbale
dei bambini e dei ragazzi. Le conseguenze sono sotto gli
occhi di tutti. C’è bisogno di un ripensamento didattico
che valorizzi tutte le esperienze disponibili.

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