Cassazione: l'amministratore del condominio deve eliminare situazioni di pericolo. Anche se non c'è delibera dell'assemblea

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Cassazione: l'amministratore del condominio deve eliminare
     situazioni di pericolo. Anche se non c'è delibera dell'assemblea

L'amministratore del condominio rischia una condanna penale se omette interventi
di manutenzione sullo stabile condominiale. se qualcuno si fa male, infatti,
l'amministratore può finire sotto processo per il delitto di cui all'articolo 590 commi 1
e 2 del codice penale. Nel caso esaminato dai giudici di piazza Cavour
l'amministratore di un condominio aveva omesso di ripristinare un avvallamento che
si era creato tra il pavimento in un tombino destinato alla raccolta di acque reflue
condominiali. Questo avvallamento si trovava proprio di fronte all'accesso ad una
farmacia situata al piano terra dello stabile condominiale.
Era accaduto che un'anziana donna, nell'accedere alla farmacia, v'inciampasse
procurandosi una frattura omerale giudicata guaribile in più di 40 giorni. Ne
scaturiva una condanna penale con tanto di risarcimento in favore della parte civile.
Secondo la Cassazione il giudice dell'appello ha ricostruito l'accaduto con un
adeguato apprezzamento delle risultanze processuali. Ciò che era emerso, come
dato certo, è che i dislivelli che si erano creati non erano mai stati oggetto di
interventi diretti ad eliminare il pericolo per chi vi transitava.
L'unico responsabile del fatto dunque doveva ritenersi l'amministratore per aver
colposamente omesso di sistemare il passaggio pedonale o quantomeno di ridurne
la pericolosità "con idonee delimitazioni". Come si legge nella parte motiva della
sentenza, l'amministratore riveste "una specifica posizione di garanzia, su di lui
gravando l'obbligo ex art. 40 cpv. codice penale di attivarsi al fine di rimuovere, nel
caso di specie, la situazione di pericolo per l'incolumità del terzi".
La Corte fa notare, che contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa
dell'imputato l'obbligo di eliminare le situazioni di pericolo, non è subordinato alla
preventiva delibera dell'assemblea. Il disposto di cui all'art. 1130 n. 4 del codice
civile - scrive al Corte - "viene invero interpretato dalla giurisprudenza di legittimità
nel senso che sull'amministratore grava il dovere di attivarsi a tutela dei diritti
inerenti le parti comuni dell'edificio, a prescindere da specifica autorizzazione dei
condomini ed a prescindere che si versi nel caso di atti cautelativi ed urgenti (cfr.
Sez. 4 n. 3959 del 2009; Sez. 4 n. 6757 del 1983). Dalla lettera dell'art. 1135,
ultimo comma del codice civile si evince peraltro a contrario che l'amministratore ha
facoltà di provvedere alle opere di manutenzione straordinaria, in caso rivestano
carattere di urgenza, dovendo in seguito informare l'assemblea".
Per questo l'eliminazione di un'insidia o trabocchetto deve considerarsi un
intervento "sia conservativo del diritto sia manutentivo di ordine urgente anche a
tutela della incolumità dei passanti e quindi determinante dell'obbligo di agire ex art.
40 comma 2 codice penale".

(17/09/2012 - N.R.)

 Cassazione: sì al Grande Fratello negli spazi comuni di un immobile

Proprio adesso che il programma televisivo del Grande Fratello chiude per una
"pausa di riflessione" (sul flop di ascolti dell'ultima edizione), c'è chi già forse lo
rimpiange. Così c'è chi si cimenta in versioni molto fai-da-te, o meglio viene
accusato di volerlo fare con rudimentali sistemi di...videosorveglianza! È quanto
accaduto al signor Salvatore R., proprietario di una palazzina a Messina, che ha
piazzato due telecamere, una all'ingresso dell'immobile ed una nel portone di
ingresso all'appartamento in cui egli steso vive.
Una semplice precauzione a seguito di minacce ricevute, apparentemente lecito.
Se non fosse per la di lui gentil genera, che da quelle telecamere si è sentita
depaupera della dovuta privacy, vivendo anche lei nello stesso stabile. Ora, non si
sa Cosa mai potesse fare la signora di così intimo nel tragitto tra cancello e portone
(presumibilmente di pochi metri), fatto sta che Maria R. ha preferito denunciare il
suocero.
E il Tribunale di Messina, nel 2009, le ha dato pienamente ragione, riconoscendo la
violazione della privacy e ordinando la rimozione dell'impianto. Sottolineando anche
che il posizionamento di telecamere sia avvenuto dopo due anni dalle minacce,
mettendo dunque in dubbio che fosse quello il motivo reale di tale scelta. Che ci
fossero dubbi sulla integrità morale della cognata poco ci importa. Ed ancor meno
alla Cassazione, a cui il proprietario ha fatto ricorso, per poter far valere il suo diritto
di spiare...ehm, controllare i movimenti all'ingresso dello stabile.
La Prima sezione civile della Corte di Cassazione ha ribaltato la sentenza, facendo
notare che "se l'azione, pur svolgendosi in luoghi di privata dimora, può essere
liberamente osservata dagli estranei, senza ricorrere a particolari accorgimenti
(nella specie si tratta dello spazio, esterno del fabbricato, intercorrente fra il
cancello e il portone d'ingresso), il titolare del domicilio non può accampare una
pretesa alla riservatezza". Sottolineando anche che "i luoghi sottoposti a
videosorveglianza sono destinati all'uso di un numero indeterminato di persone e di
conseguenza la tutela penalistica non si estende alle immagini eventualmente qui
riprese".
Forse che la signora abbia deciso di andare a vivere lontano da occhi indiscreti?

(12/09/2012 - Barbara LG Sordi)

     Cassazione: reato far scrivere 100 volte ad un alunno 'sono un
                 deficiente', condannata professoressa

"Far scrivere ad uno studente di 11 anni per cento volte "sono un deficiente" sul
quaderno è reato. È quanto stabilito dalla Cassazione, che ha confermato la
condanna in appello nei confronti di una professoressa che aveva sottoposto un
suo alunno alla bizzarra punizione. Secondo la sentenza della Suprema Corte,
l'insegnante, con cattedra in una scuola media statale di Palermo sarebbe stata
colpevole di "aver abusato dei mezzi di correzione e di disciplina" nei confronti
dell'alunno, di averlo "mortificato nella dignità" venendo meno al "processo
educativo in cui è coinvolto un bambino".
Nessuna giustificazione quindi per la professoressa, che avrebbe punito l'allievo a
causa di "un atteggiamento derisorio ed emarginante nei confronti di un compagno
di classe".
"Non può ritenersi lecito l'uso della violenza, fisica o psichica, distortamente
finalizzata a scopi ritenuti educativi e ciò sia per il primato attribuito alla dignità della
persona del minore, ormai soggetto titolare di diritti e non più, come in passato,
semplice oggetto di protezione (se non addirittura di disposizione) da parte degli
adulti", sottolinea parte del testo della sentenza, nel quale è aggiunto che "non può
perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità,
sensibile ai valori di pace, tolleranza, convivenza e solidarietà, utilizzando mezzi
violenti e costrittivi che tali fini contraddicono".
Nonostante la condanna a 15 giorni di reclusione, all'insegnante è stato tuttavia
riconosciuto uno sconto di pena a fronte dei 30 giorni inizialmente stabiliti. Non
sarebbe sussistita infatti l'aggravante che era stata ipotizzata dopo che uno
psicologo aveva ipotizzato che la condotta della docente avrebbe innescato nel
giovane un disturbo del comportamento.

(11/09/2012 - Andrea Proietti) -

  Cassazione: legittimo il licenziamento del dipendente che inoltra e-
                              mail offensive

Il licenziamento del dipendente che inoltra e-mail offensive ai dirigenti della propria
azienda è legittimo. Lo ha deciso la Corte di Cassazione con sentenza 7 settembre
2012, n. 14995, rigettando il ricorso di un lavoratore che era stato demansionato e
si era sentito emarginato nel contesto lavorativo in cui operava, cosa che aveva
provocato la sua reazione, manifestatasi attraverso l'invio di una missiva per posta
elettronica il cui contenuto era stato indicato come motivo del suo licenziamento.
Nei precedenti giudizi non emergeva, dalla complessiva istruttoria, un intento
persecutorio della società ma il demansionamento appariva ascrivibile ad una
condotta dell'azienda che, seppur censurabile, era dovuta più ad una difettosa
organizzazione aziendale che ad un intento persecutorio nei confronti del
lavoratore.
Quindi si escludeva la sussistenza del "mobbing" e di conseguenza si dichiarava il
comportamento del lavoratore inescusabile. Inoltre le espressioni contenute nella
"e-mail" del ricorrente, indirizzate ai propri diretti superiori (amministratore delegato,
direttore del personale e superiore gerarchico), avevano contenuto diffamatorio ed
offensivo, integrando con ciò la giusta causa di licenziamento. La Corte d'Appello
aveva evidenziato il contenuto offensivo del messaggio e la sua diffusione tra più
persone che non erano solo i diretti destinatari, fatto che aveva giustificato la
sanzione espulsiva come proporzionata alla gravità delle espressioni usate che
travalicavano certamente il diritto di cronaca e che erano teoricamente riconducibili
a fattispecie penali, quali l'ingiuria e la diffamazione. Per questa ragioni la
Cassazione rigetta il ricorso del lavoratore.

(12/09/2012 - L.S.)
Cassazione: risponde l'amministratore di condominio per le opere
               urgenti di manutenzione straordinaria

"L'amministratore ha facoltà di provvedere alle opere di manutenzione straordinaria,
in caso rivestano carattere di urgenza, dovendo in seguito informare l'assemblea
(art. 1135, ultimo comma, c.c.)." Questo è il principio di diritto affermato dalla Corte
di Cassazione con sentenza 6 settembre 2012, n. 34147. La Corte di Cassazione
ha respinto il ricorso dell'Amministratore di condominio che si è visto condannare
per il reato lesioni personali colpose ex art. 590 c.p. Nel caso di specie,
l'amministratore per imperizia, imprudenza e negligenza aveva omesso di eseguire
i lavori per eliminare un'avvallamento esistente tra il pavimento ed il tombino di
raccolta delle acque reflue posto sul marciapiedi di accesso al piano terra del
condominio.
Al fine di superare l'ostacolo era stato predisposto uno scivolo a lieve pendenza
costituito dal gradino tra il piano stradale e il marciapiedi antistante ad una farmacia
che consentiva il passaggio che presentava evidenti elementi di rischio, come da
documentazione fotografica assunta come prova. In questo scivolo un'anziana
donna era inciampata riportando gravi lesioni personali, guaribili, secondo i medici,
in 40 giorni. L'amministratore aveva dichiarato che "in veste di amministratore del
condominio mai aveva avuto incarico dai condomini, riunitisi in assemblea, di
provvedere ad eliminare una potenziale situazione di pericolo causata dalla
sopravvenuta sconnessione della pavimentazione né aveva ricevuto dagli stessi o
da terzi segnalazioni di una siffatta situazione interessante la proprietà
condominiale tale da imporre un tempestivo intervento; donde l'insussistenza di un
obbligo positivo cui adempiere. Né avrebbe potuto disporre lavori di manutenzione
straordinaria se non connotati dal requisito dell'assoluta urgenza tanto più che il
dislivello era assolutamente visibile di guisa che, difettando l'invisibilità
imprevedibilità". La Cassazione specifica che "l'amministratore del condominio
riveste una specifica posizione di garanzia, su di lui gravando l'obbligo ex art. 40
cpv. c.p. di attivarsi al fine di rimuovere, nel caso di specie, la situazione di pericolo
per l'incolumità del terzi, integrata dagli accertati avvallamenti/sconnessioni della
pavimentazione in prossimità del tombino predisposto ai fini dell'esercizio di fatto
della servitù di scolo delle acque meteoriche a vantaggio del condominio, ciò
costituendo una vera e propria insidia o trabocchetto, fonte di pericolo per i
passanti ed inevitabile con l'impiego della normale diligenza; massime per una
persona anziana di 75 anni di età. Né l'obbligo di attivarsi onde eliminare la riferita
situazione di pericolo doveva ritenersi subordinato, come erroneamente sostenuto
dal ricorrente, alla preventiva deliberazione dell'assemblea condominiale ovvero ad
apposita segnalazione di pericolo tale da indurre un intervento di urgenza. Il
disposto dell'art. 1130 n. 4 c.c. viene invero interpretato dalla giurisprudenza di
legittimità nel senso che sull'amministratore grava il dovere di attivarsi a tutela dei
diritti inerenti le parti comuni dell'edificio, a prescindere da specifica autorizzazione
dei condomini ed a prescindere che si versi nei caso di atti cautelativi ed urgenti".

(13/09/2012 - L.S.)
Cassazione penale: padre-studente deve pagare mantenimento per
             figli minori anche se in difficoltà economica
La Corte di Cassazione, con sentenza 10 settembre 2012, n. 34481, ha stabilito che i
minori hanno diritto ad essere mantenuti anche se il padre è solo uno studente e per di più
in una situazione di difficoltà economica. Il ricorrente, aveva avuto, al di fuori del
matrimonio, dalla sua convivente tre figli. Nei primi tre anni di vita dei bambini non aveva
provveduto al loro mantenimento, ed era tornato a vivere nella casa dei genitori per
proseguire gli studi. Solamente dopo una sentenza di condanna penale, ha iniziato a
versare 150 euro di mantenimento.
Ricorrendo alla Suprema corte contro la sentenza della Corte d'Appello il padre-studente
aveva sostenuto che la Corte territoriale non aveva tenuto conto dell'oggettiva
impossibilità dell'imputato, all'epoca studente, di provvedere al mantenimento dei figli
minori per mancanza di reddito.
La Cassazione, ha bocciato il ricorso convalidando le motivazioni "coerenti e complete"
della Corte d'Appello.
La Suprema Corte ammesso l'accento sulla sussistenza dello stato di bisogno dei minori e
sulla mancata dimostrazione da parte del ricorrente di trovarsi in un vero e proprio stato
d'indigenza economica e non in una semplice situazione di difficoltà economica.
La sola difficoltà economica, infatti, spiega la Cassazione, non è sufficiente a far venire
meno l'obbligo di assistenza e contribuzione al mantenimento dei figli.
Inoltre il padre non ha dimostrato di aver tentato di ottenere un'occupazione lavorativa per
far fronte ai suoi obblighi, lasciando a carico della madre il mantenimento e la cura dei
minori.
Questa condotta omissiva è molto grave, essendosi protratta per un lasso di tempo lungo
(tre anni) e considerando che la quota somministrata successivamente alla sentenza della
corte d'Appello era del tutto irrisoria e non adeguata al mantenimento dei figli, anzi la
Cassazione definisce la Corte benevola in quanto aveva concesso all'imputato le
attenuanti generiche.

(14/09/2012 - L.S.) -

    Cassazione: l'uso del bene condominiale non basta per usucapire

Con ordinanza n.13893/2012 la Corte di Cassazione, nel respingere una istanza di
trattazione in pubblica udienza, ha convalidato una sentenza della corte di appello
di Roma ricordando peraltro che non è possibile usucapire un bene condominiale
semplicemente dimostrandone il possesso. Quando si tratta di proprietà
condominiali è necessario fornire la prova di un possesso esclusivo mentre non
risultano sufficienti, ad usucapire, quelle condotte che sono la semplice
manifestazione di un uso da parte del compossessore che non è in contrasto "con il
concorrente diritto degli altri condomini di accedere al locale".
Nel caso di specie - scrive la Cassazione - la Corte territoriale ha preso in
considerazione tutta la documentazione rilevante (come gli atti di compravendita e
il regolamento condominiale) e, all'esito di una loro interpretazione, non censurabile
in sede di legittimità, ha concluso affermando che il bene che s'intendeva usucapire
era di natura condominiale.
Nella sentenza la Corte richiama anche un'altra parte della motivazione della Corte
d'Appello laddove si riferisce alla proprietà di una cabina idrica. I giudici di merito
avevano rilevato che non potevano integrarsi i presupposti per l'usucapione.
Trattandosi di bene condominiale, infatti, non è sufficiente il mero non uso da parte
degli altri condomini perché non è prevista la prescrizione del diritto di proprietà.
Nel caso di specie oltretutto il locale risultava privo di serratura.

(16/09/2012 - N.R.)

Colpa medica: Cassazione, scusabile l'errore del professionista che ha
                       un buon curriculum
Si può essere clementi, almeno sotto il profilo delle sanzioni disciplinari, nei confronti di un
medico che ha commesso errori così gravi da provocare la morte di un paziente. A patto
però che non abbia registrato precedenti episodi di colpa e che goda di un buon
curriculum. E' quanto emerge da una sentenza della terza sezione penale della Corte di
Cassazione (la numero 35472/2012) che ha dato ragione a un ginecologo di Pescara
indagato per omicidio colposo e che nel corso del procedimento, era stato colpito da
provvedimenti disciplinari che lo avevano sospeso dall'incarico con il divieto di esercitare
la professione per due mesi.
L'accusa nei suoi riguardi era piuttosto grave dato che la procura aveva ipotizzato che una
serie di condotte negligenti avevano condotto alla morte di una paziente che si era
sottoposta a un intervento in laparoscopia.
Considerato anche il fatto che le indagini del procedimento penale erano ancora in corso,
secondo la Suprema Corte i giudici di merito avrebbero dovuto compiere una valutazione
del percorso professionale del ricorrente che non può ricevere notazioni negative in
relazione ad accertamenti ancora in corso o da procedimenti archiviati in relazione a fatti
diversi.
Il caso era finito già una volta dinanzi alla stessa corte che aveva già chiarito come per
irrogare la sanzione disciplinare sarebbe stato necessario esaminare in dettaglio le
concrete modalità di commissione del reato e i parametri indicati dall'articolo 133 del
codice penale idonei ad evidenziare la personalità del soggetto.
Sarà ora il tribunale dell'Aquila a doversi occupare di un nuovo esame della vicenda.

(16/09/2012 - N.R.)

   Cassazione: va sanzionato l'avvocato che notifica il precetto senza
                          avvisare il collega
Gli avvocati che hanno fretta di notificare l'atto di precetto sono avvertiti: se non hanno
informato il collega della loro intenzione di procedere per via esecutiva e se non si sono
visti opporre un rifiuto esplicito di dare un'esecuzione spontanea sentenza, possono
incorrere in una sanzione disciplinare. È quanto afferma la Corte di Cassazione ricordando
che il codice di deontologia forense impone doveri di colleganza che impongono agli
avvocati di collaborare tra loro e di comunicare.
Il monito arriva dalle sezioni unite (sentenza n.13797/2012) che hanno reso definitiva una
sanzione disciplinare inflitta a un avvocato che aveva notificato una sentenza in formula
esecutiva alla controparte senza che il dispositivo fosse stato ancora comunicato alle parti
e senza accertarsi se legale di controparte avessi avuto notizia del provvedimento.
L'avvocato sottoposto a procedimento disciplinare non aveva neppure informato il collega
della sentenza, nè si era curato di chiedergli quali fossero le intenzioni del cliente in merito
all'adempimento di quanto disposto in sentenza, per evitare la notifica del precetto.
In questo modo il professionista era incorso nella violazione dell'articolo 38 L.P. in
riferimento all'art. 49 ed all'art. 22 del Codice Deontologico Forense.
Dopo il provvedimento disciplinare il caso finiva dinanzi al Consiglio Nazionale Forense
che però, accogliendo l'impugnazione, riteneva insussistente un simile obbligo
deontologico.
Di diverso avviso però la corte di cassazione che ha richiamato anche una precedente
pronuncia in cui la stessa Corte (sentenza n. 27214 pubblicata il 23.12.2009) aveva
affermato che "viola l'art. 22 del Codice deontologico Forense l'avvocato che sulla base di
sentenza favorevole al proprio cliente, nonostante la modestia - in relazione alle condizioni
economiche del debitore - del credito accertato nella pronunzia giurisdizionale e pur in
assenza di un rifiuto esplicito di dare spontanea esecuzione alla sentenza, notifichi al
debitore atto di precetto (così aggravando la posizione debitoria di questo), senza
previamente informare l'avvocato dell'avversario della propria intenzione di dare corso alla
procedura esecutiva".

(16/09/2012 - N.R.)
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