CAREABLES ON AIR PODCAST - PUNTATA 0 - Per progettare un ausilio è più adatto un designer, un medico o l'utilizzatore finale? - OpenDot

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CAREABLES ON AIR PODCAST
PUNTATA 0 - Per progettare un ausilio è più adatto un designer, un medico o
l’utilizzatore finale?

Ospiti: Laura Traldi, Antonia Madella Noja, Cristina Dornini
Conduce: Enrico Bassi
Per informazioni: ​http://www.opendotlab.it/careables-on-air/

Introduzione
[sigla elettronica]

Enrico Bassi
“Benvenuti a tutti al primo Careables On Air, un palinsesto di incontri per confrontarsi e
conoscere come sta cambiando il mondo della cura della salute.
Ogni mese racconteremo i protagonisti di questo cambiamento che siano medici, terapisti,
designer, maker, le persone con disabilità.
Careables On Air nasce all'interno del progetto europeo Made4You che ha come obiettivo
quello di scovare, raccogliere, condividere su una piattaforma Careables.org i Careables,
ovvero le soluzioni open, co-progettate con persone con disabilità che puntano migliorare la
qualità della loro vita.
Io sono Enrico bassi, coordino il Fab Lab Milanese ​OpenDot​ e da anni ci occupiamo di
co-design per la salute oltre a essere uno dei sette partner del progetto europeo Made4You.

Per questa puntata 0 siamo con Laura Traldi, curatrice della mostra ​Design Collisions - The
power of Creative Ideas​; Antonia Madella Noja e Cristina Dornini della ​Fondazione TOG-
Together to Go​ che si occupano di riabilitazione di bambini con patologie neurologiche
complesse.
Oggi siamo in Cascina Cuccagna all’interno di questa mostra particolare; Laura tu hai
organizzato questa mostra che come titolo ha Design Collisions. Come mai parli di collisions
all'interno del design?”

Laura Traldi
“Allora l'idea della mostra è nata osservando un po' il mondo. Io faccio la giornalista, quindi
osservando quello che ci sta intorno si osserva che è un mondo pieno di fratture.
E’ un mondo in cui è difficile trovare soluzioni perché spesso si lavora in modo individualista.
Ho pensato di mettere insieme dei progetti che avessero in comune la capacità di attivare
un’intelligenza non individuale ma collettiva e in questo senso la parola collisions poteva
essere interessante perché una collisione in italiano è quello che accade quando c'è un
incidente automobilistico, per esempio, e quindi si crea un qualcosa di negativo.
In realtà in chimica la collisione è qualcosa che avviene tra due particelle: uno
sprigionamento di energia che avviene quando due particelle si incontrano a caso.
La parola Design davanti alla parola Collision da in qualche modo un senso a questa
energia, per cui mi sono chiesta: è possibile progettare gli incontri quasi casuali dalle
persone? E’ possibile progettare lo stare insieme di modo tale che l'energia che viene
sprigionata sia positiva? Quindi i progetti di cui si parla in Design Collisions sono progetti che
hanno in comune il fatto di attivare tante persone e di farlo attraverso una metodologia che è
essa stessa reiterabile.
Quindi è un effetto un po' virale che tutti questi progetti hanno: virale non da un punto di vista
online di cui si parla tanto ora ma virale attraverso le persone.”

Enrico Bassi
“Tra i progetti si parla anche di salute, che il motivo per cui ci siamo incontrati. Come mai
quello secondo te è un ambito in cui è importante fare design?”

Laura Traldi
“E’ importante fare design della Salute, mi sembra abbastanza ovvio nel senso che
chiaramente tutti quelli che sono gli ausili per la salute, ma anche i grandi macchinari
(pensiamo anche alle macchine per fare la risonanza magnetica) vengono qualche modo
progettate da designer perché altrimenti avrebbero anche un aspetto molto più terrificante di
quello che hanno già ora.
Parlare di design e salute in questa mostra aveva senso perché volevo far vedere come,
facendo un design partecipato, la qualità di quelli che sono gli strumenti per la salute
disponibili alle persone che hanno bisogno e che spesso non hanno accesso a prodotti
personalizzati, sia molto più allargato.
Quindi i prodotti che vengono creati attraverso la fabbricazione digitale e che sono
co-progettati dai pazienti di solito sono meno costosi sono più custom-made,
personalizzabili, e hanno un impatto molto più positivo sulla vita sia dei pazienti che di chi se
ne occupa.

Enrico Bassi
“Nei progetti mostrati c'è anche UNICO (UNICO - The Other Design), questo set di prodotti
co-progettati tra OpenDot e TOG.
Antonia, tu lavori nel mondo della riabilitazione da più di 30 anni, sei docente del metodo
riabilitativo Feuerstein e Segretario Generale della Fondazione TOG nata nel 2011.
Avresti mai pensato di finire al Salone del Mobile a parlare di design?

Antonia Madella Noja
“No, anche per la questione tecnologica. Io ho una formazione originaria di tipo filosofico e
poi sono entrata nel mondo della medicina.
Quindi per me la questione della tecnologia è sempre stata vissuta con una grande paura,
con una grande emozione negativa.
Laura l'ha detto bene: è stato un po' una casualità ma il mondo è pieno di casualità che
hanno messo d'accordo certi punti di vista. Ci siamo entrati perché il nostro lavoro è un
lavoro medico e riabilitativo su bambini che hanno delle lesioni neurologiche estremamente
complesse, cioè lesioni del cervello, quindi capacità sia motorie che cognitive che
comunicative profondamente alterate.
Quindi sembra un mondo a sé anche all'interno della medicina: è una fetta piccola della
medicina (non è l'oncologia che è un mondo enorme oppure la salute in generale), è proprio
specifico.
Il tema è se questi bambini da sempre hanno avuto bisogno di ausili, ausili che permettono
loro di muoversi per esempio su una carrozzella; avere dei corsetti ortopedici; avere degli
split se hanno dell'emiplegia eccetera.
Questi ausili, nella storia della riabilitazione, sono sempre stati un po' il punto debole della
riabilitazione perché la riabilitazione è quasi un'arte con questi bambini, cioè li tocca, li
muove, li modifica, li fa apprezzare terreni che non sono conosciuti.
Quando si entrava nel mondo degli ausili si entrava in un mondo piuttosto cupo, un mondo
non bello: le carrozzine non sono belle, i tavoli su cui si lavora non sono belli, gli strumenti
che vengono dati ai bambini non erano belli e questo la dice lunga su una sorta di non
investimento su di loro.
Siccome le patologie sono gravi, l'investimento non è forte. Invece questi sono settori in cui
un investimento importante anche dal punto di vista della bellezza, del creare cose
estremamente personalizzate per loro può veramente cambiargli la qualità della vita.
Com’è stato il nostro incontro? Il nostro incontro è stato casuale perché una delle nostre
psicologhe conosceva una docente della Domus Academy, è entrata in connessione e ha
detto: ma voi che fate così fatica e desiderate così tanto creare ausili estremamente belli e
che abbiano la capacità di essere perfetti, adattissimi a quel bambino ma che insieme siano
delle cose piacevoli, dovreste mettervi in contatto con il mondo del design. E noi che
facciamo mille cose abbiamo detto “Ottimo, è un'altra via”.
Io sono più di 30 anni che lavoro nella riabilitazione e non ci siamo mai tirati indietro di fronte
alla novità, sia dal punto di vista cognitivo sia dal punto di vista dell' imparare nuovi sistemi
eccetera.
Quindi era un nuovo sistema, una nuova strada, un nuovo orizzonte e ci siamo buttati
dentro. Il Bless è stato incontrare un gruppo come il gruppo di OpenDot e, lo dico
veramente, perché mi ritrovo in un'altra cosa detta da Laura, che è questa della di avere
l'umiltà di mettere insieme le proprie competenze ad altissimo livello. Cioè se noi non
avessimo trovato loro, avessimo trovato un altro gruppo e avessi messo sul tavolo la nostra
competenza ma non avessimo visto dal loro punto di vista la loro disponibilità a capire la
nostra e da parte nostra a capire la loro, questa sintesi non sarebbe avvenuta.
Allora è stata veramente una cosa un po' magica: cioè noi come terapeuti, come neurologi,
come cinesiologi, abbiamo cercato di spiegare tutto quello che potevamo del movimento e
dello status di questi bambini e loro l'hanno preso, hanno cercato di comprenderlo e l'hanno
trasformato nel mondo del design e della tecnologia.
Quindi un'alchimia veramente un po' magica.”

Enrico Bassi
“Quello che tu dici (Antonia) descrive molto bene questo concetto di Collisions. Per cui
Laura, tu hai lavorato 8 anni in Olanda in Philips, sei fondatrice del blog designlarge.it, sei
stata giornalista e sei freelance per le maggiori testate italiane e questa è la tua prima
mostra: il primo momento in cui anziché raccontare per iscritto e per immagini, crei uno
spazio, porti dei progetti, fai le visite alle persone e decidi di parlare di questo.
Il tuo accento è sulle Community più che sugli autori in un mondo in cui la firma, il Brand
conta tantissimo: è una scelta coraggiosa che sembra essere andata molto bene. Come mai
questa scelta?
Laura Traldi
“Ci sono tanti motivi. Innanzitutto, a livello di fuorisalone io trovo che ci sia sempre così tanta
roba che se tu fai un'altra cosa, un'altra installazione wow, un'altra cosa con un mega brand,
un altro prodotto meraviglioso, personalmente non mi sarebbe interessato. Nel senso che
non sarei stata neanche forse in grado di farla, non è quello che mi interessa.
Nel mio lavoro di giornalista queste tematiche le affronto da anni, quindi tutto quello che
avete visto in mostra, di tutti i progetti io avevo in realtà già scritto: di voi (OpenDot) avevo
scritto 2 anni fa sul blog, di altri progetti in mostra ho scritto su D Repubblica.
Quindi sono tematiche che mi stanno a cuore nel lavoro di giornalista e che ho visto anche
avere un gran riscontro nel pubblico quando le pubbliche sul blog.
Ad esempio, se sul blog io parlo di una sedia o di un tavolo, ho notato non esserci un
grande seguito, un grande interesse. Mentre se si parla in modo critico di un problema che ci
riguarda tutti, per esempio del rapporto tra cittadini e istituzioni, di democrazia partecipativa
piuttosto che salute, alla gente queste cose interessano perché parlano di loro, sono loro
problemi.
Da sempre credo che il design non sia solo fare l'oggetto bello ma sia fare l'oggetto
intelligente, o anche che sia progettare un sistema di connessione intelligente perché il
design è sempre stato relazione, il design disegna la relazione tra me e un oggetto oppure la
relazione tra me e uno spazio o la relazione tra me e qualcosa che accade, quindi
un'esperienza.
Però è anche disegnare una relazione tra le persone e di questo non si era mai molto
parlato. E ho pensato: perché non provare a parlarne? E quindi è così che è nata l'idea (di
Design Collisions)
E un'altra cosa che a me dà molto fastidio è quando vado alle mostre, dove spesso mi capita
di non capire veramente nulla di quello che sto guardando e quindi chiedo e poi le persone
mi spiegano il loro design.
E a volte ci sono delle cose meravigliose dietro quegli oggetti che però non vengono
raccontate.
Allora io mi chiedo perché non lo facciamo? E tutti i curatori dicono che bisogna che la gente
spazi con la fantasia davanti a un'opera d'arte. Ma davanti un progetto di design se non lo
spieghi secondo me è perché tu non hai niente da dire.
E quindi ho sempre pensato che se mai farò una mostra, farò di tutto perché la gente
capisca quello di cui stiamo parlando. E’ anche una questione di rispetto perché se pensi
che tutti debbano sapere già tutto, che senso ha raccontargli qualcosa?
Se tu entri in una mostra ed esci che sei la stessa persona, secondo me la mostra è stata
curata male.
E’ un po' quello che fate anche voi: il rispetto della persona è dargli spazio per far sì che
possa avere la sua dignità.”

Enrico Bassi
“Sulla questione di linguaggi, molto spesso c'è un aspetto critico: alcune cose nel design
vengono chiamate in un modo e in altri mondi vengono chiamati in un altro ma il concetto è
lo stesso.
User centered design, lavorare con le persone o tenere il paziente al centro sono molto simili
ma c'è effettivamente questo problema di linguaggio.
Secondo te come si può superare? Come possiamo spiegare al mondo della Salute che il
design non è solo il design della sedia o della lampada ma che è un modo di approcciare un
problema?”

Laura Traldi
“La prima risposta che mi viene da dire è: attraverso la comunicazione.
Però io non credo che ormai basti la comunicazione: penso che sia proprio coinvolgendo le
persone a livello personale, che è un lavoro immenso, ma se ci pensi sono anni che alcuni
giornalisti di design parlano di design oltre l'oggetto ma questo messaggio non passa perché
è un messaggio un po' più complicato.
Ma a volte, anche se spieghi alle persone esattamente quello che vuoi dire, loro non
ascoltano.
Ad esempio, ieri ero davanti alla scultura di Pesce in Piazza Duomo: c'è un pannello enorme
che spiega esattamente che cos'è e perché è lì, che cosa vuol significare.
Eppure tutte le persone che leggevano il pannello dicevano: ma cos’è?
Giuro, veramente impressionante! Quindi anche parlare alla fine forse non porta a nulla.
Io penso che bisognerebbe lavorare attraverso una serie di progetti educativi; ad esempio a
Barcellona, Francesca Bria fa questi atelier aperti ai cittadini per spiegargli che cos'è una
Smart city, cosa sono le tecnologie e perché non bisogna diffondere i dati, eccetera
eccetera.
Forse, nel vostro caso, una serie di workshop negli ospedali potrebbe essere una buona
occasione per creare momenti di confronto: momenti brevi, anche di mezz’ora per una
comunicazione concisa e ​hands on​ (applicata) “.

Enrico Bassi
“Dall’altra parte chiederei ad Antonia: il contrario come si fa? Cioè come spiego ai
professionisti della Salute che il design non è solo mettere i fiocchetti e fare l’estetica degli
oggetti ma è un metodo per trovare delle soluzioni?

Antonia Madella Noja
“Intanto condivido molto la questione della chiarezza, cioè se la mente ha chiaro l'obiettivo,
la possibilità di spiegare qualunque cosa in parole accessibili è possibile.
Enrico è venuto a molti dei nostri convegni strettamente medici, strettamente neurologici,
strettamente legati alla neuropsichiatria infantile e ha sentito relazioni in cui il racconto del
funzionamento del cervello e il racconto di come il cervello, che non funziona bene per una
lesione, funziona in maniera disfunzionale ed era quasi una favola meravigliosa.
Enrico diceva che il racconto di una serie di situazioni che si intrecciano è
comprensibilissimo quando c'è dell'esoterismo o quando c'è una volontà di fare l'esoterismo,
che è il contrario della possibilità di diffondere.
E quindi io lo condivido, che sia il mondo del design, che sia il mondo della tecnologia, che
sia il mondo della medicina: ci sono delle attitudini che pensano che tutto debba essere
condiviso dal punto di vista della conoscenza, e delle altre attitudini che preferiscono la
cripticità.
Noi ci siamo trovati molto con OpenDot perché all'inizio le nostre riunioni erano qualche cosa
di veramente divertente, nel senso che Enrico usava un linguaggio e noi dicevamo: ​no
guarda, non capiamo niente quindi per favore smettila con questo glossario e spiegacelo in
una maniera comprensibile da tutti.​ E lo stesso è stato per noi, perchè quando diciamo che
uno degli usili che abbiamo creato con UNICO-The other design è migliore per un bambino
per esempio che ha un emiplegia, dobbiamo spiegare quali sono i muscoli che vengono
favoriti e quali quelli che non vengono favoriti.
Quindi condivido perfettamente: c'è un'attitudine della condivisione che permette di spiegare
al mondo, e c'è un'attitudine misteriosa che separa, segrega.
Il mondo della medicina è un mondo molto segregatorio, e il mondo del design è un mondo
che ama il mistero perché magari un po' irraggiungibile come il mondo dell'arte, altrettanto i
medici a volte non spiegano neanche ai loro pazienti in maniera chiara che cosa essi hanno.
Chiara vuol dire condivisibile.
Proprio come è successo tra noi: la condivisione del linguaggio del codice.
Questa è la strada, altrimenti è davvero come diceva Laura: ognuno ha una attitudine
egocentrica che nella storia della cognitività non è una funzione positiva, è una funzione
cognitiva, una diminuzio, un'attitudine egocentrica che non permette la condivisione.
Ma questo non è un bene.”

Enrico Bassi
“Cristina, tu sei una terapista della riabilitazione e ti occupi di persone con disabilità da più di
30 anni, in particolare della fascia 0-18.
In realtà sei anche la mente dietro a molte delle richieste dei progetti, e quindi in un certo
senso chi li ha fatti partire.
Da dove nasce questa richiesta?”

Cristina Dornini
“Nasce abbastanza spontaneamente, nel senso che è da tanto che lavoro con questi
bambini che hanno delle patologie complesse.
E’ un settore della medicina e riabilitativo molto particolare dove combatti veramente con
situazioni complesse sul piano motorio-cognitivo.
Da tanto tempo, lavorando con questi bambini che arrivava il momento dell’ausilio,
dell’oggetto che poteva aiutarli, arrivava sempre questo discorso della difficoltà, perché
questi oggetti erano proprio brutti, tristi.
Noi abbiamo sempre combattuto contro questo atteggiamento che di fronte a questi bambini
ci si accontenta, ecco. Ci si accontenta anche di una cosa brutta, e quando poi l’ausilio
veniva provato dicevi sempre che mancava qualcosa: ci vorrebbe questo pezzo fatto
diverso, ci vorrebbe un’altra cosa costruita diversamente e io non avevo risposte.
Per cui, la prima volta che ho visto le stampanti tridimensionali è stato un po' spontaneo dire:
finalmente c'è qualcosa che ci può aiutare nella costruzione di queste cose.
Abbiamo vinto un bando col quale siamo riusciti a comprare le stampanti: grande
entusiasmo ma poi è venuto un periodo di disperazione perché avevo molte aspettative e al
di là di tutte queste tecnologie - fai lo scanner dell’oggetto, metti il file nella stampante e
crea- ma a noi non creava niente.
Durante questo periodo di disperazione sapevamo però che era quello che ci serviva, e poi
c'è stato l'incontro con OpenDot e con Enrico che, quando è venuto nel nostro centro mi
ricordo che ha detto due/tre cose e io ho detto: ci siamo, abbiamo trovato colui che ci può
aiutare e da lì poi non lo abbiamo più lasciato.
Loro (OpenDot) hanno costruito per noi un software molto semplificato che anche i terapisti
possono utilizzare per creare degli oggetti con le stampanti, e questo è stato un passo
eccezionale.
Adesso gli oggetti costruiti ottengono grandi risultati perché vediamo che per i bambini si
stanno facendo cose molto belle.”

Enrico Bassi
“Uno degli oggetti in mostra è Glifo, e a prima vista molte persone commentano: ma cosa c’è
di diverso rispetto a ciò che è già acquistabile sul mercato?
Ci racconteresti il percorso e appunto cosa c'è di diverso?”

Chiara Dornini
“Glifo è proprio una ​creatura​ molto significativa, nel senso che è un oggetto nato da un
bisogno.Questi bambini, anche i bambini molto gravi, avevano la necessità di lasciare una
semplice traccia su un foglio che è una cosa importantissima: gli altri bambini colorano e
disegnano e anche per loro era importante lasciare una traccia con una matita su un foglio.
Anche se non è un disegno codificato, è una cosa importantissima: l'entusiasmo di questi
bambini quando fanno questa cosa, lasciare una traccia, è qualcosa di meraviglioso.
Devo dire che però tutti gli oggetti per aiutarli a scrivere sono tutti oggetti che lavorano
praticamente all'interno della mano: ci sono tante forme in commercio, ma tutte vengono
messe all'interno della mano, sul palmo della mano e per i nostri bambini già lì il problema si
crea perché quando stringono la mano avviene la contrazione del braccio, il braccio viene
bloccato e non riuscivano a fare niente.
Abbiamo provato un po' di tutto e su questa cosa non riuscivamo ad arrivare a un risultato
soddisfacente e allora abbiamo iniziato a pensare di creare qualche cosa che invece è
proprio diversa: un qualcosa che, invece di metterlo all'interno, potesse essere messo sul
dorso della mano in modo da facilitare un movimento di estensione del braccio.
Abbiamo iniziato a lavorare con OpenDot e con gli studenti: abbiamo dato l’idea, abbiamo
cercato di spiegare quello che volevamo raggiungere ed è stato creato questo oggetto.
C'è stato un primo prototipo, poi è stato provato sui bambini, poi modificato ed è nato questo
oggetto eccezionale, semplicissimo, che viene fatto praticamente su ogni bambino con dei
piccoli accorgimenti che riguardano la misura e l'inclinazione dell'oggetto.
Nelle scuole è stato accettato molto bene anche perché gli insegnanti che aiutano i bambini
possono metterglielo in modo molto facile, molto veloce. Anche queste sono cose da
considerare perché se noi diamo un oggetto complesso e per metterlo ci impiego un quarto
d'ora poi non viene utilizzato.
E’ stato pensato anche con delle misure è codificate, per cui anche uno che non è a Milano
e vede il file lo può ricostruire solo prendendo le misure della mano del bambino: quando i
nostri bambini hanno iniziato a utilizzarlo, alcuni di loro sono riusciti addirittura a scrivere.
E’ proprio bellissimo vedere bambini che lo utilizzano perché c'è un accompagnamento del
movimento molto naturale che a loro porta un rilassamento, non una contrazione com'era
prima. Per cui riescono a esprimersi anche su piani molto più ampi, per cui l'esperienza mi è
sembrata davvero molto bella.”
Enrico Bassi
“Laura, in Italia spesso il design è stato associato al prodotto o addirittura all'industria. Però
stanno emergendo varianti di questo modo di design: si parla di design thinking, di open
design e ultimamente di co-design.
Mi racconteresti un po' che cos'è e qual è il tuo punto di vista sul concetto di co-design?”

Laura Traldi
“Progettare con in mente lo ​user​, la persona che utilizzerà il prodotto il prodotto è una cosa
che si fa da sempre. E’ una cosa codificata che fa parte del normale processo di design.
Se parliamo di co-design, nel senso di creazione partecipata, secondo me ce n'è tanta: ad
esempio a Nolo, qui a Milano, sono stati attivati i cittadini per renderlo plastic-free durante il
Salone del Mobile. E’ una bellissima iniziativa che andrebbe fatta diventare un sistema: è
questo ciò che intendo per co-progettazione, nel senso che è stata un'iniziativa che è partita
ed è stata diffusa, e adesso la sfida che loro hanno (i cittadini) è di codificarla attraverso una
metodologia.
Quindi il co-design, che dal mio punto di vista vuol dire trovare quel punto in comune in cui
tutte le persone che sanno progettare o sanno pensare a qualcosa di nuovo, riescono a
integrare il loro sapere per farlo progredire.
Questo è quello che io intendo. Poi non so se sia veramente così, però penso che ce ne sia
tanto, che ci sia tantissima volontà da parte delle persone di co-progettare anche se non
sanno neanche cosa vuol dire la parola.
La gente ha voglia di mettersi in gioco. Poi però il vero design è quello che riesce a mettere
in gioco le persone attraverso una metodologia che poi riesce a portare quella energia nel
posto giusto perché alla fine si arrivi all'obiettivo.
Tutti quei designer che rispondono alle call - è giusto che rispondono alle call anche se ce
ne sono tante - però queste sono codificate in modo tale che tutte le call rispondono a un
certo tipo di domanda e insieme offrono una risposta.”

Enrico Bassi
“Esatto, sembra un po' un passaggio di cui disegnare la soluzione, disegnare il processo e
applicarlo.
L'hai visto in altri ambiti al di fuori della della salute?”

Laura Traldi
“I progetti che sono qui (in mostra a Design Collisions) erano tutti pensati in quel modo, ma
io penso che sia un’attitudine che viene veramente naturale a tutti. Penso che venga
naturale a chiunque quando c'è un problema ben chiaro, un obiettivo ben chiaro che è
definito insieme. Penso che venga naturale per tutti dare il proprio meglio per cercare di
risolverlo.
Poi però non tutti hanno gli strumenti per risolvere i problemi, quindi forse la sfida più grande
del design adesso è quella di dare alle persone che hanno voglia di trovare soluzioni gli
strumenti per arrivare a dare delle soluzioni.
Ovviamente non sto parlando di Industrial design che invece è una cosa dove c'è il designer
e le Industrie e va bene così, ma penso ai quartieri, penso a tutta l'energia che c'è nei
quartieri di Milano ma anche dove abito io, sul Lago Maggiore.
C'è un paesino dove hanno fatto la democrazia partecipativa - un paesino che si chiama
Taino - e hanno fatto questo budget partecipato. E come l'hanno fatto funzionare?
Malissimo, nel senso che hanno detto: chi ha idee per progetti ce le faccio vedere.
E c'è una persona che voleva lo skateboard Park ecc e alla fine hanno scelto non mi ricordo
che cosa, ma in base a cosa non si sa.
Questa è un'idea bella, c'è un'energia pazzesca ma non c’è progetto.
Ed è questo quello che forse farebbe il co-design.”

Enrico Bassi
“Allora il co-design in alcuni ambiti ha già preso piede, in altri si sta codificando.
Cristina, in base alla tua esperienza dei progetti fatti, come credi che sia il passaggio da
co-design di designer a co-design per medici e terapisti e healthcare professionals in
generale?”

Cristina Dornini
“Io sono molto d'accordo su quello che diceva Laura, sugli obiettivi.
La chiarezza dell'obiettivo è sicuramente importante; la chiarezza dell’obiettivo vuol dire
avere, secondo me, anche una grande competenza e formazione da parte dei due settori.
Nel senso che per arrivare a costruire degli oggetti belli, che sono utili per i bambini, che
abbiano un’utilità, tu come terapista devi studiare tanto, devi conoscere molto bene alcune
cose.
Penso che anche per i designer sia così, per cui il anche la collaborazione che viene fatta
con le scuole è importantissimo.
Da noi sono venuti molto studenti della scuola di design ed è stato un momento molto bello,
anche per i genitori secondo me, perché il Centro diventa anche più vivo e con questa
attenzione che hai sul bambino, anche di persone che vengono dal mondo esterno che non
sono sempre quelle che si occupano del bambino, è un messaggio importantissimo.
L'altra cosa secondo me è che sarebbe molto bello poter intervenire sulle scuole di
fisioterapia. Ecco, dovrebbe essere lì, nel momento della formazione che tu incominci a
parlare di alcune cose e a spiegarle, per aprire un po' la mente anche alle persone che poi
lavoreranno nel nostro ambito riabilitativo: c'è un mondo che si può affrontare, ma bisogna
prepararsi a studiare molto per entrare nel mondo della formazione dei terapisti.”

Enrico Bassi
“Molto bello che tornino gli stessi ambiti, partendo da punti completamente diversi.
Quindi, se l’innovazione avviene, come dire, nelle collisions tra mondi diversi, confrontarsi è
fondamentale. Parlare un linguaggio simile è fondamentale. Studiare è assolutamente
fondamentale.
Bene, ringraziamo Laura Traldi curatrice della mostra Design Collisions-The power of
Collective Ideas; Antonia Madella Noja e Cristina Dornini della Fondazione TOG per essere
state con noi e aver raccontato il loro punto di vista su questo mondo in evoluzione.
Se avete domande o commenti potete scriverci a info@opendotlab.it e per i prossimi
appuntamenti di Careables On Air seguiteci su Facebook, Instagram e sul sito internet
Opendotlab.it​.
Grazie a tutti!”
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