Capitolo 2. Il bilancio generale dell'Unione Europea e la politica fiscale
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Capitolo 2. Il bilancio generale dell’Unione Europea e la politica fiscale Un aspetto qualificante delle caratteristiche sovranazionali dell’impianto istituzionale dell’Unione Europea consiste nell’aver permesso che le istituzioni comuni godessero, fin dai primi anni di questo percorso, di un certo grado d’indipendenza dai governi nazionali. Ciò fu assicurato dall’avvio di una certa autonomia finanziaria, che si esercita attraverso la gestione del bilancio generale, oltre che dall’evoluzione delle procedure decisionali. L’importanza di questo aspetto - soprattutto simbolica, se si riflette sull’esiguità delle dimensioni del bilancio stesso, attualmente pari all’1,07% del Reddito Nazionale Lordo del paesi dell’UE - è stata ben presente agli estensori dei Trattati fin dall’istituzione della CECA nel 1951. Si temeva, infatti, che la dipendenza del finanziamento delle attività comuni dai contributi finanziari versati dagli stati membri avrebbe potuto permettere un’eccessiva discrezionalità ai governi, i quali avrebbero potuto decurtare, o anche trattenere, il proprio contributo finanziario annuale, ostacolando il normale svolgimento dell’attività comune. Con l’attuazione del Trattato di Parigi del 1951, si era deciso di autorizzare la CECA a finanziarsi attraverso l’istituzione di “risorse proprie”, che consistevano in un prelievo fiscale diretto, commisurato al valore della produzione del carbone e dell’acciaio, e che venivano gestite in due bilanci separati, distinguendo le spese per l’attività comune da quella per le spese amministrative. Il Trattato di Roma assegnò alla Commissione della CEE lo stesso ruolo indipendente dai governi degli stati membri che era prerogativa dell'Alta Autorità nella CECA e, analogamente, anche il compito della stesura del bilancio. Nella CEE, tuttavia, il potere di approvazione del bilancio inizialmente fu assegnato al Consiglio dei Ministri anziché, come disposto dal Trattato CECA, alla commissione formata dai quattro presidenti delle principali istituzioni: Commissione, Parlamento, Consiglio dei Ministri e Corte di Giustizia. Il rafforzamento del potere del Consiglio che ne conseguì fu forse all’origine del conflitto con il Parlamento Europeo, conflitto che si risolse solo a metà degli anni Ottanta quando il Parlamento ottenne una nuova procedura, la procedura di cooperazione, che riequilibrava i rispettivi ruoli. Il Trattato di Roma stabiliva che per la CEE il finanziamento - in un primo tempo affidato a contributi nazionali ripartiti secondo un vago criterio di proporzionalità riferito alla numerosità della popolazione: 28% per Francia, Germania e Italia, 7,9% per Belgio e Paesi Bassi e 0,2% per il Lussemburgo - dovesse poi essere reso autonomo attraverso l’istituzione di “risorse proprie”. Stabiliva, inoltre che questo regime entrasse in vigore solo quando gli stati membri fossero giunti ad un accordo unanime sul tipo di imposizione fiscale dalla quale trarre i fondi da assegnare al bilancio comune. Le disposizioni finanziarie del Trattato di Roma ravvisavano nei proventi dei dazi doganali una possibile fonte di entrata per il bilancio, anche in considerazione del fatto che, se tale gettito fosse stato trattenuto dai singoli paesi, si sarebbe potuto indurre un gioco non cooperativo nella fissazione del livello comune al quale armonizzare le singole tariffe. Infatti, alcuni paesi, dotati di una posizione geografica favorevole, o di infrastrutture più efficienti – basti pensare ai porti di Rotterdam e di Anversa – avrebbero prevedibilmente registrato un aumento nel volume degli scambi con i pesi terzi, scambi che in buona parte potevano essere solo in transito da e verso i paesi più interni. Se ogni paese avesse potuto beneficiare dei proventi delle tariffe comuni, l’interesse nazionale avrebbe potuto stimolare un comportamento strategico in merito alla fissazione della tariffa comune che, al termine del periodo transitorio, per ciascun prodotto, avrebbe sostituito i dazi doganali nazionali sulle importazioni dai paesi terzi. 57
2.1. Una conflittualità di lunga data Per favorire il controllo democratico della spesa comunitaria da parte di rappresentanti eletti - controllo espressamente richiesto da alcuni paesi, anche in osservanza del principio no taxation without representation - già nel 1965 la Commissione aveva proposto che al Parlamento fosse assegnato un qualche potere di sorveglianza sul bilancio. Questa proposta incontrò l’opposizione della Francia. Il presidente de Gaulle era infatti poco favorevole al rafforzarsi del carattere sovranazionale della Comunità. Per evitare l’approvazione di questo provvedimento (proposto insieme ad un minore ricorso a votazioni all’unanimità e ad alcune modifiche alla politica agricola comune), la Francia ritirò i suoi rappresentanti dalle sedute degli organismi comuni dando origine al “periodo della sedia vuota” che ebbe termine con il Compromesso del Lussemburgo, del 30 gennaio 1966, con il quale si decise che ciascun paese avrebbe potuto invocare la salvaguardia di propri legittimi interessi nel caso in cui una votazione a maggioranza li avesse potuti pregiudicare. Tuttavia, le necessità di finanziamento derivanti dall’organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli nell’ambito della Politica Agricola Comune (PAC), in cui gli interessi francesi erano preminenti, determinarono, nel reperimento di fondi, quell’urgenza che divenne strumentale per l’approvazione delle prime fonti di entrata per le “risorse proprie”. In un primo tempo i contributi finanziari versati dai governi degli stati membri furono affiancati dai proventi dei prelievi agricoli e dei dazi doganali, che costituiscono le “risorse proprie tradizionali”. Il varo del regime delle risorse proprie, inizialmente osteggiato dalla Francia, fu quindi favorito dal fatto che la mancanza di fondi, limitando la spesa per il sostegno dei prezzi dei prodotti agricoli, che al tempo era l’unica politica comune e che corrispondeva a circa i nove decimi del bilancio, avrebbe colpito in primo luogo gli interessi degli agricoltori francesi, di quel paese che si riteneva a vocazione agricola. Il passaggio dal finanziamento attraverso i contributi finanziari nazionali al regime delle “risorse proprie” fu graduale. Disposto nel 1970 con la decisione del Lussemburgo, furono necessari ancora dieci anni prima che i contributi finanziari venissero abbandonati e il regime delle risorse proprie divenisse interamente operativo. L’accordo permetteva al Parlamento europeo di intervenire nelle questioni di bilancio e provvedeva alla suddivisione delle uscite in spese obbligatorie e spese non obbligatorie. Ratificando l’accordo, il governo francese acconsentì a conferire maggiori poteri al Parlamento Europeo, purché la spesa, ed in particolare la spesa agricola, fosse mantenuta nell’ambito del controllo governativo. Ciò fu eseguito distinguendo le uscite del bilancio in spese obbligatorie e spese non obbligatorie ed affidando l’approvazione delle prime al Consiglio (Pinder, 1991). Il Parlamento reagì pretendendo di avere l’ultima parola almeno in merito alle decisioni sulle spese non obbligatorie. Ne seguì un contenzioso tra Consiglio e Parlamento che sarebbe durato decenni. Concettualmente, le spese obbligatorie derivavano dall’applicazione del Trattato e comprendevano tutte le spese necessarie al funzionamento delle politiche ivi previste, in primo luogo le spese agricole, mentre le altre, a carattere più discrezionale, includevano, oltre alla politica regionale e sociale, anche le spese per la ricerca, l'energia, l'informazione, l'industria, i trasporti, nonché i salari e gli altri costi amministrativi. La difficoltà dell’accordo sulla classificazione delle uscite tra questi due tipi di spesa può essere misurata in termini del tempo richiesto per la sua approvazione. Introdotta nel 1970, questa distinzione fu redatta solo nel 1982, con una dichiarazione approvata dalla Commissione, dal Consiglio e dal Parlamento. La classificazione delle voci aggiunte in 58
seguito poneva tra le spese obbligatorie gli aiuti al reddito degli agricoltori, le indennità per il ritiro dei seminativi dalla produzione, una parte degli aiuti nel quadro della cooperazione con i paesi dell’Europa centro-orientale, la riserva monetaria e le spese relative allo smaltimento ed al deprezzamento delle scorte agricole. La distinzione tra spese obbligatorie e non obbligatorie non era nominalistica. L’accordo prevedeva che i due tipi di spesa dovessero essere approvati seguendo due procedure diverse, cui corrispondeva un diverso equilibrio nel potere delle due istituzioni legislative: la spesa obbligatoria decisa dal Consiglio, e la spesa non obbligatoria controllata dal Parlamento. La definizione stessa delle spese obbligatorie, congiuntamente al tipo di regolamentazione concordata per il settore agricolo, implicava che il Consiglio potesse assumere decisioni di spesa in autonomia e senza preoccuparsi delle conseguenze che avrebbero avuto sul bilancio. Per questa ragione è stata spesso motivo di aspra conflittualità con il Parlamento principalmente a causa della esiguità dei fondi destinabili alle spese non obbligatorie che finivano con l’avere carattere residuale. In seguito all’adozione nel 1977 della Sesta Direttiva (77/388/CEE), che impegnava tutti i paesi a introdurre nel proprio ordinamento fiscale l’imposta sul valore aggiunto (IVA), i contributi finanziari nazionali vennero sostituiti da un prelievo commisurato alla nuova imposta “comunitaria” che divenne così la terza fonte delle “risorse proprie”. Allo scopo di porre un limite alle dimensioni del bilancio si stabilì che il prelievo che sarebbe stato eseguito in base alla terza fonte dovesse rimanere nei limiti di una quota non superiore all'1% della base imponibile comune armonizzata dell’IVA. Dal momento che era stata lasciata facoltà ai paesi di stabilire autonomamente le aliquote, l’ammontare per ciascun paese di questo contributo sarebbe stato calcolato non in base all’effettivo gettito dell’imposta, ma in base ad un imponibile virtuale concordato e calcolato in modo uniforme in tutti paesi. In previsione dell’entrata in vigore del nuovo regime di finanziamento del bilancio, che costituiva un passo notevole in direzione del rafforzamento del carattere sovranazionale della CE, nel 1975 fu istituita la Corte dei Conti con il compito di controllare che la gestione finanziaria fosse corretta. Il Trattato imponeva al bilancio generale la chiusura in pareggio. La copertura delle spese veniva effettuata calcolando la percentuale dell’IVA corrispondente alla differenza da finanziare, al netto dell’ammontare delle risorse proprie tradizionali. Al momento della decisione questa regola non corrispondeva ad un vincolo debole. Il limite dell’1% era stato stabilito ad un livello che era parso abbastanza ampio. Tuttavia, già dal terzo anno di applicazione del nuovo regime si constatò l’incompatibilità delle risorse disponibili con gli impegni di spesa; incompatibilità che derivava dal principio secondo il quale le spese obbligatorie, determinate in conseguenza dei provvedimenti assunti dal Consiglio in merito al livello dei prezzi agricoli comuni, dovevano essere saldate a piè di lista. L’accordo sul livello dei prezzi agricoli, la cosiddetta “maratona agricola”, che seguiva la procedura di consultazione, non verteva direttamente sull’ammontare delle spese stesse, ma ne determinava indirettamente il volume nel caso (molto frequente) in cui l’offerta dei prodotti agricoli fosse risultata superiore alla capacità di assorbimento del mercato interno e si rendesse necessario sussidiare l’esportazione della produzione eccedentaria. Le risorse proprie del bilancio generale dunque includevano: 1. i proventi dei prelievi variabili che gravano su tutti i prodotti agricoli importati, 2. i proventi dei dazi doganali prelevati sulle importazioni dei beni non agricoli e 3. un prelievo legato all’IVA. Le entrate del bilancio generale erano poi completate da voci di minore rilievo non ripartibili tra i paesi 59
membri e non comprese nelle risorse proprie, quali le eccedenze disponibili, gli interessi di mora, multe, tasse e canoni, prelievi sul funzionamento amministrativo, contributi nazionali ai programmi comunitari ed altre voci varie. Queste entrate minori tuttavia vengono di solito trascurate dall’analisi del bilancio generale, anche se la loro incidenza nel complesso non è trascurabile. Questa differenza di trattamento potrebbe essere dovuta al fatto che per le voci che compongono le risorse proprie è immediato risalire allo stato membro contribuente, mentre per le altre voci ciò richiede un esame più accurato I lunghi tempi di gestazione di questo regime di finanziamento - che rispecchiano fedelmente tutte le difficoltà sia simboliche che di principio comprese nei rapporti tra i paesi e tra le istituzioni comunitarie - superarono abbondantemente la durata del regime stesso che, nella forma concordata, ebbe una breve e travagliata esistenza, marchiata da continue crisi che mettevano a repentaglio l’esecuzione delle politiche oltre che i rapporti tra i paesi membri e le istituzioni comunitarie. Tale regime funzionò tra il 1980, anno in cui da parte di tutti i paesi furono abbandonati i contributi finanziari nazionali e si adottò il regime delle risorse proprie, ed il 1988, anno in cui, con l’adozione del cosiddetto “Pacchetto Delors” fu avviato l’inizio della risoluzione del problema del finanziamento del bilancio comune. La proposta di riforma presentata dalla Commissione e nota come il pacchetto Delors COM(87)101 indicava nell’1,4% non più dell’IVA, ma del PNL della CE il tetto da imporre alle risorse proprie, che sarebbe stato raggiunto con l’introduzione di una quarta fonte da prelevarsi sulla differenza fra la base armonizzata dell'IVA ed il PNL, in modo da includere nella base imponibile, oltre ai consumi, anche gli investimenti, contrastando così il carattere regressivo di questo prelievo. Il testo approvato, e poi emendato per evitare un aggravio del contributo per i paesi più ricchi, avrebbe poi ridotto la quarta fonte all’1,2% commisurato a tutto il PNL. Fu anche deciso che, per i paesi per i quali la base IVA fosse stata superiore al 55% del PNL, la parte in eccedenza sarebbe stata esente da imposizione per non aggravare il carattere regressivo di questo contributo. Questa proposta riguardava i tre elementi fondamentali del bilancio: 1) il gettito, con l’aggiunta di una quarta fonte di finanziamento calcolata in base al prodotto nazionale lordo (PNL) dei paesi; 2) la spesa, con l’accordo sulle prospettive finanziarie che fissavano una programmazione pluriennale del bilancio e limitavano l’aumento della spesa agricola al 74% della crescita del PIL; e 3) il controllo, da attuarsi attraverso un doppio limite del bilancio che avrebbe potuto crescere fino all'1,2% del PNL comunitario entro il 1992 o fino all’1,3% con riferimento agli stanziamenti per impegni. Rispetto al sistema precedente nel calcolo fu introdotto un nuovo limite per determinare il contributo in base all’IVA. In pratica si poteva prelevare fino all’1,4% dell'IVA, su una quota non eccedente il 55% del rapporto tra IVA e PNL: in questo modo venne quindi abbandonato il principio in base al quale agli stati membri si applicava un'aliquota uniforme. Il rimborso al Regno Unito si doveva calcolare come se venisse finanziato dagli altri stati membri in proporzione alle proprie basi IVA, con la solita riduzione di un terzo per la Germania. Se dopo la correzione per il rimborso al Regno Unito per alcuni stati membri risultasse necessaria l'applicazione di percentuali superiori all’1,4% dell’IVA, la parte rimanente sarebbe andata ad aggiungersi al contributo in base al PNL. La riforma del 1988, che recepiva le proposte contenute nel Pacchetto Delors, rappresenta uno spartiacque nella gestione delle finanze comunitarie. In primo luogo mise termine alla conflittualità tra i paesi e tra le istituzioni comunitarie togliendo dall’agenda l’annuale occasione di scontro. Inoltre, nel tempo ha dato una notevole prova di resistenza e di adattabilità, tanto che i suoi principi cardine, con le poche modifiche apportate dai 60
successivi rinnovi del finanziamento, approvati ciascuno per i sette anni successivi, rimangono tuttora in essere. Il “pacchetto Delors 2” presentato al Consiglio di Edimburgo nel febbraio 1992, fissava le prospettive finanziarie dal 1993 al 1999 secondo le stesse direttrici di spesa cui si aggiungeva il Fondo di coesione, aumentava la dotazione di risorse portandola all’1,27% del PNL gradualmente e variava il criterio di prelievo della terza e quarta fonte delle risorse proprie per tener conto della capacità contributiva dei paesi. 2.2. L’evoluzione delle entrate e delle spese I successivi rinnovi, che coprivano il periodo 2000-2006 e poi 2007-2013, hanno apportato una correzione nella ripartizione tra i paesi dell’onere del rimborso a favore del Regno Unito ed introdotto deroghe a vario titolo anche per altri paesi membri. Tuttavia, in queste due successive edizioni delle “prospettive finanziarie” la concezione dell’impianto e della sua periodicità è rimasta sostanzialmente fedele ai criteri introdotti dalla riforma del 1988. Le entrate La normativa relativa alle entrate del bilancio prende la forma di Decisioni che devono essere approvate all’unanimità e ratificate dai parlamenti nazionali. La Decisione del Consiglio del 29 settembre 2000 conferma le quattro fonti di finanziamento, che dal 1989 costituiscono le entrate del bilancio generale, ed apporta qualche correzione volta a tener conto meglio della capacità contributiva dei paesi. Le entrate dunque sono le seguenti: 1. i proventi dei prelievi agricoli che gravano sui prodotti regolati dalla Politica Agricola Comune e sono dati dalla differenza fra il prezzo di importazione fissato dal Consiglio ed il prezzo che si realizza sul mercato mondiale; questa voce include anche le altre risorse che derivano dall’applicazione della PAC pur non interessando gli scambi, come ad esempio i prelievi sulla produzione di zucchero. 2. i proventi dei dazi doganali prelevati sul commercio dei beni non agricoli, secondo quanto viene stabilito dagli impegni assunti con i paesi terzi nell’ambito dei negoziati internazionali prima del General Agreement on Tariffs and Trade (GATT) e poi del World Trade Organization (WTO) (organizzazione mondiale del commercio OMC); 3. un’aliquota uniforme calcolata sulla base imponibile comune armonizzata dell’IVA, ma comunque non eccedente il 50% del PNL di ciascun paese a prezzi di mercato; 4. un prelievo calcolato in base ad un’aliquota uniforme da determinarsi sulla somma del PNL relativo a tutti gli stati membri. Il gettito che proviene dalle risorse proprie tradizionali, essendo prelevato sulle importazioni dai paesi terzi, dipende in gran parte da fattori al di fuori del controllo comunitario, come il livello dei prezzi sui mercati internazionali o il corso del dollaro - la valuta utilizzata per le transazioni internazionali - mentre per la parte relativa ai prelievi agricoli dipende anche dal sostegno ai prezzi agricoli decisi annualmente dal Consiglio nell’ambito dell’organizzazione comune dei mercati. Lo sviluppo di queste due fonti è stato modesto sia a causa del progressivo abbattimento delle barriere tariffarie in seguito ai successivi negoziati sul commercio internazionale che ha eroso il gettito proveniente dei dazi doganali, sia perché la Comunità Europea, un tempo il maggiore mercato importatore di prodotti agricoli, per molti prodotti è successivamente passata da una posizione deficitaria ad una eccedentaria facendo così mancare la base imponibile per questa fonte. L’erosione progressiva delle risorse proprie tradizionali ha causato una maggiore pressione sulla terza fonte delle risorse proprie nel periodo durante il quale non sembrava possibile arrestare la dinamica delle spese agricole. La percentuale di IVA necessaria a pareggiare il bilancio, pertanto, arrivò subito a toccare livelli pericolosamente vicini al 61
limite dell’1%, e già nel 1984 fu necessario approvare un aumento di tale percentuale fino all’1,4% per consentire l’applicazione del regime di finanziamento autonomo. Tuttavia, neppure questa fonte di finanziamento è stata del tutto esente da problemi. Crescendo ad un ritmo più lento di quello del PNL, anche la base armonizzata dell’IVA si prevedeva sarebbe stata soggetta ad erosione fiscale. Era una facile previsione immaginare che sarebbe stato necessario aumentare continuamente l’aliquota uniforme, per rispettare il rapporto tra la dotazione di fondi del bilancio e il PNL stabilito dagli accordi. Figura 1 risorse proprie 90000 80000 70000 60000 milioni di Ecu/Euro 50000 40000 30000 20000 10000 0 1980 1981 1982 1983 1984 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 Prelievi agricoli Dazi doganali Percentuale IVA IV fonte-PNL Fonte: Commissione europea Inoltre, proprio per essere commisurata a quella sola parte del reddito che viene consumata, anche questa entrata viene ritenuta regressiva sul reddito individuale e presumibilmente, quindi, anche sul reddito collettivo. Si osserva infatti che, al crescere del livello di attività economica, nei paesi industrializzati, la spesa dei consumatori, soggetta all’imposizione IVA, assorbe quote di reddito declinanti a vantaggio non solo dei risparmi, ma anche di istruzione e sanità, che, quando sono a carico del settore pubblico, non fanno parte della base imponibile. Ne consegue che anche l’aspetto equitativo del prelievo in base all’IVA è insoddisfacente, poiché si ritiene che quella parte di reddito consumata e soggetta all'IVA, sia generalmente tanto maggiore quanto più basso è il reddito del paese. Tra i paesi dell’UE ciò non è sempre stato vero: ad esempio è accaduto che in Lussemburgo la proporzione dell’IVA sul PNL fosse pari a quella dell’Irlanda e in Grecia pari a quella della Danimarca. Il carattere regressivo di questo tipo di prelievo, dal quale si traeva la parte più cospicua del finanziamento della CE, poneva dunque problemi di equità tra i paesi, cui si era cercato di rimediare con vari espedienti estemporanei, come ad esempio il rimborso al Regno Unito concesso perché non avrebbe potuto beneficiare adeguatamente dalle voci dedicate alla spesa. 62
Anche le risorse proprie tradizionali condividono questa caratteristica di regressività, ma a questa osservazione viene obiettato che queste entrate sono prelevate sulle importazioni dell’UE alla frontiera, e i porti e le altre infrastrutture sono solo incidentalmente situati in un paese, mentre non necessariamente le merci in ingresso sono destinate allo stesso paese. L’imputazione di queste entrate a un dato paese sarebbe dunque “illegittima” in quanto frutto del caso o della storia e delle norme comuni. In merito alla regressività di un’imposta commisurata ai consumi occorre tuttavia distinguere se, come in questo caso, tale regressività viene riferita ai paesi oppure viene riferita ai cittadini. L’introduzione della quarta fonte di finanziamento basata sul PNL aveva il duplice scopo di correggere sia l’erosione del gettito, garantendo meglio l’equilibrio del bilancio tra entrate ed uscite, sia la regressività del sistema impositivo. Derivando dall’applicazione di un’aliquota alla somma dei PNL di tutti i paesi, definiti uniformemente secondo una contabilità comune, non avrebbe dovuto gravare maggiormente sui paesi più poveri, ma colpire allo stesso modo anche i paesi ricchi. Questo modo di ripartire le entrate osserva infatti un criterio di proporzionalità che riflette la capacità contributiva di ciascuno. Anche in questo caso si considera che l’imposizione colpisca i paesi dei quali si valuta la capacità contributiva; se invece l’imposta fosse riferita ai cittadini, lo stesso criterio non potrebbe prescindere dal prendere in considerazione la distribuzione del reddito individuale nei diversi paesi. La riforma del bilancio avviata nel 1988 comportò una notevole complicazione nella comprensione della logica del bilancio generale per la determinazione delle formule in base alle quali si calcolano i contributi degli stati membri alle risorse proprie. In seguito a questa decisione, l’uniformità delle aliquote per il prelievo in base all’IVA è venuta a decadere in quanto solo alcuni paesi, tra cui l’Italia, furono soggetti all’aliquota massima, mentre altri ricadevano nelle eccezioni a questa regola. Tutto ciò venne poi reso più complesso dal conteggio del rimborso al Regno Unito e della ripartizione dei relativi oneri calcolata tenendo conto delle deduzioni accordate dal Consiglio europeo di Berlino nel 1999 alla Germania, all’Austria, ai Paesi Bassi e alla Svezia per alleviare la loro posizione di contribuenti netti. La linea del “fair return” sostenuta dal Regno Unito, secondo la quale i contributi dei paesi membri al bilancio comune devono essere pari alle spese della Comunità a loro favore, sembra dunque essere stata, comunque, ove possibile, applicata da tutti gli stati, benché non condivisa ed anzi osteggiata in primo luogo dalla Commissione. Presentata allo stesso tempo come “risorsa complementare” e come “la chiave di volta del nuovo sistema di finanziamento della Comunità” il problema maggiore della quarta fonte sembra risiedere nella reintroduzione di fatto dei contributi finanziari da parte degli stati dopo un lungo periodo durante il quale l’autonomia finanziaria della Comunità sembrava assicurata. Dal momento che, per gli indubbi vantaggi che presenta, questa fonte ha sostituito gradualmente i prelievi in base all’IVA, un maggiore ricorso a questa fonte ripropone il dilemma tra il privilegiare una maggiore equità nel prelievo oppure una maggiore indipendenza delle istituzioni comunitarie. La quarta risorsa oggi rappresenta la principale fonte di finanziamento del bilancio generale. Originariamente l’aliquota ammontava all’1,15%, all’1,20% nel 1993 e, per il periodo 2000-2006 fissata all’1,27%. Nella programmazione finanziaria 2007-2013 questa risorsa è stata ricalcolata, passando dall’1,27% all’1,24% del RNL seguendo i criteri del Sistema Europeo dei Conti nazionali e regionali (SEC) con base 1995. 63
Figura 2 Fonte: Commissione europea Il quadro finanziario pluriennale successivo (2014-2020) prevede il ricorso alle solite fonti di entrate, anche se la loro composizione nel corso degli anni si è progressivamente spostata verso la quarta risorsa che già nel 2013 costituiva il 75% del gettito, mentre dalle risorse proprie tradizionali (prelievi agricoli e dazi doganali) proveniva il 13% e dall’IVA l’11%. Un altro 1% proveniva dall’insieme di tutte le altre fonti minori: imposte e altre trattenute sulle retribuzioni del personale dell’UE; interessi bancari; contributi di paesi terzi ad alcuni programmi dell’UE (ad esempio nella ricerca); rimborsi di assistenza finanziaria dell’UE non utilizzata; interessi di mora e multe; l’eccedenza dell’esercizio precedente. L’entità del finanziamento per il prossimo settennato è stato fissato in poco meno di mille miliardi di euro, per 134 mila miliardi circa nel primo anno fino a poco più di 140 mila miliardi circa all’ultimo anno della programmazione. Attualmente le risorse proprie costituiscono il 97% delle entrate, cui si aggiungono le eccedenze, ciò che resta dall'esercizio precedente per l’1% e per il restante 2% le altre fonti: multe alle imprese che violano le norme dell'UE sulla concorrenza e imposte sugli stipendi. Le spese Per molti anni la spesa agricola ha monopolizzato le uscite del bilancio comune: per lungo tempo impegnando dai due terzi ai tre quarti degli esborsi, in massima parte classificati come spese obbligatorie. Nel progetto iniziale del bilancio, il sostegno al settore agricolo – che in un primo tempo assorbiva poco meno dell’intero bilancio comune – avrebbe dovuto autofinanziarsi (Tracy, 1988) attraverso il sistema di prelievi variabili all’importazione e di sussidi all’esportazione. Per garantire agli agricoltori il prezzo amministrato - stabilito in sede comunitaria, generalmente superiore al prezzo riscontrabile sul mercato internazionale - fin dai primi anni Sessanta era stato varato un sistema di protezione del settore agricolo basato su un meccanismo dei prelievi sulle importazioni di prodotti agricoli, che desse luogo ad entrate per il bilancio, e di “restituzioni alle esportazioni” per cui lo smaltimento delle eccedenze veniva effettuato sussidiando le esportazioni a spese del bilancio comune. La differenza tra il prezzo garantito agli agricoltori per i propri prodotti ed il prezzo sul mercato mondiale veniva introitata dal bilancio comune in caso di eccesso di domanda sull’offerta sotto forma 64
di prelievi all’importazione, mentre nel caso opposto di eccesso di offerta sulla domanda si corrispondeva all’esportatore come spesa da parte del bilancio comune. La grande difficoltà di reperimento dei fondi, unita all’impossibilità dell’esercizio di controllo della spesa aveva dato luogo ad una serie di provvedimenti ad hoc, che, senza mai rivelarsi risolutivi, comportarono una notevole complicazione nella valutazione degli effetti della PAC sul bilancio ed una pari frustrazione del Parlamento la cui competenza in tema di bilancio rimaneva largamente sulla carta, essendo limitata alla determinazione delle spese non obbligatorie. Figura 3 prospettive finanziarie 100000 90000 80000 70000 milioni di Ecu/euro 60000 50000 40000 30000 20000 10000 0 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 1.PAC 2.azioni strutturali 3.politiche interne 4.azioni esterne 5.spese amministrative 6.riserve Fonte: Commissione europea Il pacchetto Delors introdusse un’innovazione anche dal lato delle spese, dove la disciplina di bilancio prevedeva che le istituzioni competenti per il bilancio si dovessero attenere al rispetto delle “prospettive finanziarie”, che stabiliva per ogni anno, tra il 1988 e il 1992, l’ammontare da destinare alle sei categorie o “rubriche” di spesa tra cui erano state ripartite le voci in uscita: 1. sezione Garanzia del FEOGA, 2. Operazioni strutturali, 3. Politiche pluriennali, 4. Altre politiche, 5. Rimborsi e spese di amministrazione, 6. Riserva monetaria. Con poche variazioni, questa impostazione è stata confermata anche nelle due successive occasioni – al Consiglio di Edimburgo nel 1992 e di Berlino nel 1999 - nelle quali il bilancio è stato rifinanziato. Le uscite di bilancio furono sottoposte a una serie di obblighi che riguardavano sia la spesa agricola che le altre spese, in particolare quelle relative ai fondi strutturali, in un contesto nel quale si prevedeva che le nuove iniziative che la CE avrebbe intrapreso nel futuro più prossimo, in breve avrebbero richiesto fondi necessariamente in competizione con quelli destinati alla PAC. 65
Il tasso di incremento della spesa a carico della sezione Garanzia del FEOGA non avrebbe potuto superare il tetto del 74% del tasso di incremento del PNL comunitario nello stesso periodo, e per l’effettiva osservazione di questo vincolo venne introdotto un sistema di allarme tempestivo in grado di tenere costantemente sotto controllo la spesa agricola utilizzando tutte quelle informazioni sul suo andamento che precedentemente, non potendo essere utilizzate ufficialmente nel processo decisionale, non venivano nemmeno rese disponibili dalla Commissione. Venne anche istituita una riserva monetaria pari a 1 miliardo di Ecu all’anno per fronteggiare le eventuali maggiori spese che la sezione Garanzia del FEOGA avrebbe potuto dover sostenere a causa di impreviste variazioni del tasso di cambio tra l’Ecu e il dollaro. Si stimava infatti che un apprezzamento di un punto percentuale dell’Ecu rispetto al dollaro si traducesse in circa 100 milioni di Ecu di aggravio per le uscite dal bilancio della CE a causa dell’aumento delle spese relative alle restituzioni alle esportazioni (Shackleton, 1990). La riserva monetaria si sarebbe potuta utilizzare solo se la variazione nel tasso di cambio tra il dollaro e l’Ecu avesse comportato una variazione nelle spese superiore ai 400 milioni di Ecu. Nel 1989, tuttavia, dato che le spese agricole erano risultate inferiori alle previsioni, furono trasferiti 819 milioni di Ecu alla riserva monetaria. Questo nuovo strumento, la cui funzione era di camera di compensazione per trasferire i fondi tra la spesa agricola e le altre voci del bilancio avrebbe potuto funzionare anche in senso contrario se si fossero realizzati risparmi imprevisti rispetto alle previsioni sulla spesa agricola. Gli stanziamenti di impegno dei fondi strutturali avrebbero dovuto raddoppiare nel 1993 rispetto al 1987, passando da 7 a 14 milioni di Ecu in termini reali, con aumenti annuali prestabiliti. La spesa per i fondi strutturali continuava ad essere non obbligatoria, ma - a differenza delle spese obbligatorie che, pur considerate una necessità, potevano aumentare solo entro il tasso massimo - la spesa per i fondi strutturali fu trasformata in un obiettivo politico, i cui incrementi annui si erano resi indipendenti dall’evoluzione del PNL comunitario. L’aumento delle disponibilità dei fondi strutturali dà seguito a quanto stabilito in merito al principio della coesione dall'AUE che annunciava la volontà di perseguire una politica ridistributiva a favore degli stati ad economia più debole. Tali spese vengono destinate in gran parte ai paesi “periferici” nei quali si trovano in proporzione maggiore quelle aree identificate come obiettivo primario per l’assistenza comunitaria. Il giudizio sul primo quinquennio di gestione del bilancio seguendo le nuove regole fu positivo, anche per una congiuntura esterna favorevole alla CE per due motivi: a) gli alti prezzi dei prodotti agricoli sul mercato mondiale, in quel periodo avevano permesso di contenere la spesa agricola nei limiti stabiliti, inoltre b) la crescita dell’economia nei paesi della CE ad un tasso maggiore del previsto rese disponibili maggiori risorse destinabili alla spesa (Pinder, 1991). Il clima favorevole del 1988, quando tutta l’attenzione era rivolta al nuovo progetto del completamento del mercato interno e stava a cuore delle istituzioni l’eliminazione degli ostacoli alla sua realizzazione, dimostrerebbe che la possibilità di fare progressi sostanziali nell’integrazione di paesi sovrani si realizza solo se si raggiunge un accordo su un pacchetto che comprenda tutte le aree di interesse delle politiche comunitarie e permetta di combinare gli interessi delle varie parti (Stahl, 1992). In seguito, anche nelle successive prospettive finanziare attualmente ri-denominate programmazioni pluriennali, fu mantenuta la tendenza verso un contenimento della spesa agricola ed un maggiore impegno nei confronti della spesa destinata ai potenziamento fondi strutturali. Per il settennato in corso (2014-2020) sono stati previsti massimali di indirizzo 66
della spesa, in altre parole sono state previste cifre massime disponibili per i settori di spesa. Questi, a loro volta sono stati ri-definiti seguendo le linee politiche e le priorità predefinite. Il Consiglio ed il Parlamento, che costituiscono l’autorità di bilancio dalla quale ogni anno dipende l’approvazione, devono accordarsi per l’anno successivo rendendo disponibili per ogni “rubrica” (così si indicano i capitoli di spesa) cifre comprese nei massimali. Figura 4 Fonte: Commissione europea Le rubriche delle spese hanno ricollocato la posizione di alcune voci, riaggregandole sulla base di criteri diversi. Non c’è quindi una diretta comparabilità con i capitoli di spesa delle precedenti prospettive finanziarie che impedisce la continuità delle serie storiche in assenza di una ricostruzione puntuale. La Figura 4 presenta le rubriche: 1. Crescita sostenibile. Riguarda il sostegno alla competitività ai fini della crescita e dell’occupazione in consonanza con gli obiettivi dell’Agenda di Lisbona che voleva rendere l’UE un’economia intelligente, sostenibile e inclusiva, in grado di assicurare elevati livelli di occupazione, produttività e coesione sociale. Fanno parte di questa rubrica, che assorbe oltre il 40% dei fondi alcuni programmi europei: il Settimo programma quadro per la ricerca e lo sviluppo tecnologico (PQ7), che costituisce il principale impegno dell’UE nel campo della ricerca, il programma di Apprendimento permanente (LLL), il programma Competitività e innovazione (CIP) e le reti transeuropee (TEN). La parte del leone, tuttavia, appartiene ai Fondi strutturali: il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR), il Fondo Sociale Europeo (FSE), il Fondo di Coesione (FC). Si tratta di spese volte essenzialmente allo sviluppo infrastrutturale e alla formazione della forza lavoro a vantaggio delle regioni meno prospere. La dotazione di questa rubrica è cresciuta costantemente: dal 38% del 2007 al 48% nel 2013. 2. Conservazione delle risorse naturali. In questa rubrica trovano posto le spese per l’agricoltura: sia le spese per il mercato che gli aiuti diretti e il sostegno allo sviluppo rurale. Anche le spese per le questioni marittime e la politica della pesca sono comprese in questo capitolo insieme alle spese per l’ambiente e le azioni per il clima. Lo scopo di queste spese si ravvisa nella protezione della natura e la biodiversità, nella riduzione della produzione di rifiuti e delle emissioni di gas a effetto serra, nello sviluppo di tecnologie pulite e nello sforzo relativo alla gestione della qualità dell’aria. Tuttavia, la maggiore voce di spesa in 67
questa rubrica riguarda ancora la gestione della politica agricola comune. La dotazione di questa rubrica è diminuita costantemente: dal 48% del 2007 al 40% nel 2013. 3. Cittadinanza, libertà, sicurezza, giustizia. Questa voce, la cui importanza simbolica non dovrebbe essere discutibile, ma che per ora è molto sottodimensionata, dovrebbe farsi carico della solidarietà europea non solo nella gestione dei flussi migratori, del rispetto dei diritti fondamentali, della giustizia, della sicurezza e della tutela delle libertà; come già oggi ha iniziato a fare, ma anche della prevenzione del terrorismo e della lotta alla criminalità, garantendo lo scambio di informazioni e l’intervento congiunto dei paesi dell’UE. La dotazione di questa rubrica si è aggirata tra l’1 ed il 2% senza mostrare un evidente trend. 4. UE come fattore globale. In alcuni casi, il bilancio UE finanzia gli aiuti d’urgenza a seguito di catastrofi naturali anche fuori dai propri confini. Viene inoltre fornita a diversi paesi l’assistenza a lungo termine atta a favorire prosperità, stabilità e sicurezza. Tra questi spiccano i programmi di Assistenza preadesione (IPA), di Vicinato e partenariato (ENPI), di Cooperazione allo sviluppo (DCI). Il programma Spring (Sostegno al partenariato, alle riforme e alla crescita inclusiva) appoggia i paesi della primavera araba. In generale si tratta di strategie di riduzione della povertà, miglioramento delle loro istituzioni e lotta contro la corruzione. La dotazione di questa rubrica ha mostrato una contrazione contenuta: dal 6% del 2007 al 5% nel 2013. 5. Amministrazione. Questa rubrica copre le spese di personale e immobiliari di tutte le istituzioni dell’UE. La spesa totale per l’amministrazione di tutte le istituzioni europee in questi anni ha rappresentato sempre il 6 % dell’intero bilancio. La somma delle prime due rubriche pesava poco meno del 90% delle spese. In questi due aggregati trovano posto, infatti, quelle che fino ad oggi sono state le principali spese comuni: la Politica agricola comune che impegna quasi la totalità delle spese per la conservazione delle risorse naturali attraverso il Fondo europeo agricolo di garanzia e il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEAGA e FEASR rispettivamente) e la Politica di coesione che include i fondi strutturali (FESR, FSE e FC) cui si ascrive la maggior parte delle spese relative alla crescita inclusiva e intelligente. Nel bilancio 2013 adottato nel dicembre 2012 si investe nei settori prioritari indicati nella strategia Europa 2020 con due criteri principali: il rafforzamento della crescita economica e la creazione di posti di lavoro. A tali iniziative furono destinati 64,5 miliardi di euro con un incremento del 2,7 % rispetto al 2012. 2.3. L’accordo sul bilancio 2014-2020 Nel corso degli anni la conflittualità non è diminuita. Non solo a causa dell’aumentare del numero di paesi membri. Più probabilmente è stato a causa dello scarso coraggio derivante dall’ancora insufficiente legittimazione del PE, che a sua volta riflette il non superamento della fragilità del demos europeo. In previsione dello scadere del settennato, che si sarebbe concluso nel 2013, dopo una “maratona” di 25 ore, il Consiglio europeo, riunito sotto la presidenza irlandese, in febbraio aveva stabilito i punti dell’accordo. Per la prima volta nella storia si prospettava una riduzione del bilancio1: la proposta sull’ammontare massimo previsto nella programmazione pluriennale consisteva in 960 miliardi di euro per gli impegni e 908 per i pagamenti. Non passava, dunque, la proposta avanzata dalla Commissione e sostenuta dal 1 Era già accaduto che l’entità complessiva si fosse ridotta in termini assoluti, ma si trattava di una conseguenza della riduzione del PNL in termini assoluti nei momenti più duri della crisi. 68
Parlamento che, chiedendo di stanziare 1083 miliardi pari all’1,11% del PIL dell’UE, già comportava una riduzione, ma di entità più lieve. La reazione del PE non si fece attendere: il 13 marzo 2013 emise un comunicato nel quale “… prende atto delle conclusioni del Consiglio europeo sul quadro finanziario pluriennale, che rappresentano soltanto un accordo politico tra i capi di Stato e di governo; respinge l'accordo nella sua versione attuale in quanto non riflette le priorità e le preoccupazioni espresse dal Parlamento […] e ignora il ruolo e le competenze del PE previsti dal trattato di Lisbona; ritiene che l'accordo, che vincolerà l'Unione per i prossimi sette anni, non possa essere accettato senza che siano soddisfatte determinate condizioni fondamentali ...”. La contrarietà del PE, che bocciò l’accordo con 506 voti contrari, non riguardava principalmente la riduzione nell’ammontare delle risorse, anche perché da qualche anno la difficoltà nel seguire le procedure di spesa faceva portare all’anno successivo avanzi di un’entità simile al taglio. Da un lato, l’irritazione per la procedura seguita che, oltre ad escluderlo, non teneva conto del dettato del Trattato di Lisbona, dall’altro, la mancanza di garanzie sulle priorità e la scarsa trasparenza del modo in cui il compromesso era stato raggiunto non potevano non suscitare censura da parte di chi sentendosi portatore degli interessi generali dell’UE, anche per bocca del proprio presidente Martin Schulz, non potè esimersi dall’esprimere contrarietà. Le richieste principali erano tre: 1. un bilancio orientato alla crescita e all'occupazione, che promuova politiche realmente europee: investimenti nell'innovazione e nelle infrastrutture, nella ricerca e nello sviluppo, nei giovani e nella formazione; 2. un bilancio che elimini lo scarto tra impegni e pagamenti per non cadere nella trappola del debito già esistente a livello europeo; 3. un bilancio con una clausola di revisione efficace, che offra la massima flessibilità tra gli esercizi e le voci di spesa, un accordo per un aumento delle risorse proprie e il mantenimento dell'unità del bilancio dell'Unione. Uno dei punti controversi era costituito dall’importanza da dare all’innovazione, alla diffusione della banda larga, alla politica di coesione, alla protezione dei diritti fondamentali tra cui l'accesso ai servizi sanitari essenziali e ad alloggi a costi accessibili, in modo da ridurre le diseguaglianze anche incoraggiando l’innovazione. Dall’adozione del Trattato di Lisbona la procedura di adozione del bilancio comune attribuiva maggiori poteri al PE, che non aspettava altro che il rinnovo del nuovo Quadro Finanziario Pluriennale per esercitarli. La presidenza lituana ovviamente mise tra le proprie priorità l’accordo sul settennato imminente. Dal luglio 2013 si susseguirono negoziati tra le parti. Mentre sarebbe troppo lungo dar conto qui delle varie fasi in cui è stata condotta la trattativa, si osserva che solo dopo aver stipulato a larga maggioranza con 557 voti favorevoli, 118 contrari e 11 astenuti un accordo Inter-Istituzionale tra Parlamento, Consiglio e Commissione il 14 novembre fu sbloccato lo stallo. La questione era appesantita dal fatto che doveva essere approvato anche il bilancio per il 2013, che aveva sollevato riserve da parte della Corte dei Conti. Il PE quindi era nelle condizioni di poter negoziare da una posizione di forza ed ottenne l’approvazione di alcuni punti importanti quali una revisione nel 2016, a metà periodo, l’aggiunta di 3,9 miliardi di euro al bilancio del 2013 in modo da evitare di iniziare il 2014 in debito, il passaggio di tutti i programmi alla procedura di co-decisione, l’istituzione di un gruppo di lavoro per la riforma delle risorse proprie. Dopo l’approvazione in commissione di conciliazione, il 19 69
novembre 2013 il Parlamento approvò la versione finale del Bilancio per il periodo 2014- 2020 con 537 voti a favore, 126 contrari e 19 astenuti. Il criterio principale cui ispirarsi per il nuovo bilancio entrato in vigore dal 1° gennaio 2014, è il principio di sussidiarietà, in base al quale un euro di spesa effettuata dal bilancio comune rende di più che se fosse speso da un governo nazionale o regionale. In altre parole, il contribuente europeo dovrebbe beneficiare dalla spesa finanziata da risorse comuni piuttosto che essere chiamato a finanziare servizi che ciascun governo nazionale in ogni caso dovrebbe fornire, quali ad esempio i servizi diplomatici. Il 2 dicembre 2013 il bilancio 2014-2020 fu approvato anche dal Consiglio dell’UE. Le variazioni principali, rispetto agli stanziamenti del precedente periodo (2007- 2013) di programmazione pluriennale riguardavano un aumento del 37% per le spese relative alla competitività ed alla crescita ed uno di quasi il 27% per le spese per la sicurezza e la cittadinanza, mentre una riduzione dell’11% si applicava alla seconda rubrica destinata alla crescita sostenibile ed alle risorse naturali. Variazioni di minor impatto percentuale, ma consistenti in valore assoluto, riguardano una riduzione di circa l’8% per i fondi destinati alla politica di coesione ed un aumento dell’8% per i fondi riservati all’amministrazione. La riduzione di oltre il 3% rispetto agli stanziamenti precedenti fu presentata come l’applicazione di una disciplina di bilancio condivisa a tutti i livelli. Il limite fu posto a circa l’1% del Reddito Nazionale Lordo dell’UE con 28 paesi membri e l’ammontare totale di poco meno di mille miliardi di euro ripartito nell’intero settennato 2014-2020. Tabella 1 – QFP 2014-2020 Fonte: Commissione europea 70
Le funzioni del bilancio L’impostazione del dibattito sul bilancio risente della sua tradizionale funzione di semplice raccolta di fondi destinati al finanziamento delle politiche comuni seguendo un approccio decisionale di tipo intergovernativo nel quale l’aspetto sovra-nazionale è costituito dalla possibilità di intervenire da parte del Parlamento europeo. La questione del “deficit democratico” è stata sollevata anche per la gestione del bilancio, ma a tale obiezione è stata spesso opposta la considerazione che, data l’esiguità delle sue dimensioni, si trattasse di un problema più di principio che di effettivo rilievo. Mettendo in evidenza le considerevoli differenze che intercorrono tra il bilancio generale dell’Unione Europea ed il bilancio di uno qualsiasi degli stati che la compongono, si concludeva che le regole stabilite potevano essere considerate sufficienti proprio perché non si trattava del bilancio di uno stato, cioè negandone le caratteristiche di sovra-nazionalità necessarie perché potesse svolgere un ruolo più impegnativo. Uno degli elementi principali che contribuiscono a classificare l’Unione Europea come una costruzione pre-federale è proprio la ridotta dimensione del suo bilancio che impedisce l’espletamento delle funzioni normalmente attribuite nei paesi al livello superiore di governo. Tuttavia, con il varo dell’unione monetaria e la trasformazione di un sottoinsieme dei paesi dell’UE in un’area valutaria unica, si è aperta la discussione sull’inadeguatezza del bilancio comune, che ne investe sia le dimensioni che le funzioni, e sui possibili rimedi. Le funzioni che il bilancio svolge in uno stato nazionale – in primo luogo quelle redistributive e di stabilizzazione – finora non sono mai state svolte dal bilancio comune se non incidentalmente. Tuttavia, con l’estensione del processo di integrazione alla politica monetaria, è emerso il problema della necessità dell’inclusione della politica fiscale nel novero delle politiche comuni, e del bilancio quale strumento centrale per il perseguimento degli obiettivi che la politica fiscale si sarebbe data. Questa carenza era stata messa in luce fin dagli anni Settanta dal Rapporto MacDougall (1977) nel quale si sosteneva che sarebbe stato necessario un bilancio pari almeno al 2,5% del PNL per poter avere un apprezzabile, seppure modesto, impatto redistributivo nella CE, che allora, prima dell’ampliamento a sud, contava solo nove paesi. Un primo riconoscimento della necessità di garantire la compatibilità della politica fiscale con la politica monetaria è stato offerto dall’istituzione del Patto di Stabilità e Crescita, che tuttavia non viene gestito nell’ambito del bilancio generale costituendo quindi un’eccezione all’universalità della politica fiscale, ma soprattutto rappresenta il tentativo di affermare la praticabilità del disegno di una politica monetaria centralizzata accompagnata da una politica fiscale decentrata. Il maggiore ostacolo all’istituzione di una politica fiscale comune risiede nella possibilità di trovare un accordo tra i paesi sulla funzione redistributiva, prima ancora che di stabilizzazione, che il bilancio potrebbe, o magari anche dovrebbe, svolgere. Una netta separazione di queste due funzioni, utile dal punto di vista analitico, è però quasi impossibile nei fatti e ciò costituisce certamente il primo problema che si incontra nel trasferimento a livello sovranazionale di queste due importanti funzioni finora svolte a livello nazionale. Per la politica di stabilizzazione occorre stabilire non solo i meccanismi di intervento che si dovrebbero attivare al verificarsi di shock asimmetrici in qualche area, regionale o nazionale, dell’UE in modo da neutralizzarne gli effetti sul ciclo, ma anche quanto e quale impatto sul piano redistributivo, che eventualmente ne conseguisse, possa essere sostenuto. 71
Per la politica redistributiva occorre stabilire non solo quali disuguaglianze possano essere ritenute tollerabili nella distribuzione dei redditi pro capite, calcolati a livello nazionale o regionale, ma anche quali misure siano necessarie allo scopo di stimolare la crescita nelle aree arretrate e come ripartirne l’onere tra i paesi. Sulla base dell’esperienza passata, che ha visto l’attività delle istituzioni comunitarie a lungo bloccata sulla questione della ripartizione dei contributi e delle spese del bilancio tra i paesi, è facile prevedere la difficoltà di soluzione di questo doppio nodo che coinvolge la sfera economica, così come quella politica. Benché il saldo fiscale con il bilancio comune non indichi affatto quali benefici un paese tragga dall’appartenenza all’UE, il suo facile computo in base alla differenza tra i flussi finanziari in entrata e in uscita rende praticamente impossibile ignorare gli eventuali effetti redistributivi che possono essere contabilizzati. Non esiste infatti alcuna relazione precisa tra le poste del bilancio e la rilevanza economica di una politica, come dimostra il peso che ancora riveste il settore agricolo nel bilancio comune dal quale è, ad esempio, assente la politica monetaria. Inoltre la mobilità dei fattori impedisce una corrispondenza in base alla nazionalità calcolabile in modo preciso tra la spesa ed i suoi beneficiari. Infine occorre ricordare che nell’UE l’integrazione ha sempre privilegiato la strategia della comunanza delle regole, piuttosto che la condivisione della spesa e proprio questo ha permesso di poter raggiungere risultati considerevoli con poco più dell’1% del PNL. Una politica di bilancio in grado di svolgere adeguatamente le sue due funzioni necessariamente avrebbe sui saldi fiscali conseguenze incompatibili con il principio del “fair return” che tuttora caratterizza i negoziati tra i paesi su questo argomento. 2.4. L’accordo sul bilancio 2021-2027 Il 17 dicembre 2020 il Consiglio ha adottato il regolamento concernente il quadro finanziario pluriennale (QFP) dell'UE per il periodo 2021-2027. Si prevede che l’ammontare sia di 1074,3 miliardi di euro per l'UE-27 a prezzi 2018. Insieme al Next Generation EU che stanzia 750 miliardi di euro, finanzierà nei prossimi anni più di 1800 miliardi di euro per la ripresa dopo la pandemia e per le priorità stabilite dall'UE nei diversi settori d'intervento durante il settennato. L’iter è stato lungo. All’inizio del 2018 si definirono i settori prioritari: contenimento della migrazione illegale, difesa e sicurezza, programma Erasmus+. Qualche mese dopo il Consiglio europeo chiese al Parlamento europeo e al Consiglio di esaminare le proposte della Commissione sul QFP per il periodo 2021-2027, in cui la Commissione proponeva di ampliare il gettito ricorrendo a nuove imposte. In autunno, sotto la presidenza finlandese, la discussione fu estesa dalle priorità alle cifre, che nella passata avevano visto forti divisioni tra i paesi. Al Consiglio europeo di dicembre la proposta in discussione proponeva di stanziare 1087 miliardi di euro, pari all'1,07% del reddito nazionale lordo (RNL) dell'UE a 27 e di considerare il clima una priorità. Questa proposta fu recepita, ma gli eventi successivi, in primo luogo la pandemia, impressero più di una novità. Il Presidente del Consiglio, Charles Michel, in febbraio aveva presentato una proposta che riguardava sia il livello del bilancio che l’allocazione tra le sue poste. Il Consiglio europeo si espresse favorevolmente e in aprile la presidente della Commissione europea von der Leyen, propose un’iniziativa per la ripresa dopo la pandemia di coronavirus che aveva costretto a rivedere le decisioni precedenti. Si decise per l’istituzione di un Piano di Ripresa Europeo, presentato dalla Commissione ed indicato prima come Recovery fund 72
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