BERGOGLIO, L'IMMIGRAZIONE E - FREUD di Moreno Pasquinelli

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BERGOGLIO, L'IMMIGRAZIONE E - FREUD di Moreno Pasquinelli
BERGOGLIO, L’IMMIGRAZIONE E
FREUD di Moreno Pasquinelli

Daremo un giudizio organico sulla ultima e densa Lettera
Enciclica di Papa Francesco “Fratelli tutti”. Diverse e
importanti le novità che contiene, tra cui una visione del
globalismo che a torto viene liquidata come complementare a
quella delle classi dominanti. Confermata invece, anzi
rafforzata, la “linea immigrazionista”.

Ripubblichiamo, sul tema, quanto scrivemmo nel gennaio scorso.

Papa Francesco, a conferma della posizione a favore
dell’accoglienza degli immigrati senza sé e senza ma,
concludendo in San Pietro la sua catechesi nell’udienza
generale, il 7 gennaio scorso [2]

«Chiediamo oggi al Signore di aiutarci a vivere ogni prova
sostenuti dall’energia della fede; e ad essere sensibili ai
tanti naufraghi della storia che
approdano esausti sulle nostre coste, perché anche noi
sappiamo accoglierli con quell’amore fraterno che viene
dall’incontro con Gesù. È questo che salva dal gelo
dell’indifferenza e della disumanità».

Bergoglio non fa qui che riproporci come prescrittivi gli
obblighi morali che discendono dalla fede in Cristo, fondati
sulla pietas — il credente deve non solo amare con affetto
filiale Dio, ma anche ogni essere umano in quanto sua
prediletta creatura —, e sulla caritas; dove caritas sta per
il radicale superamento dell’amor proprio in quanto esso solo
consente    l’identificazione     verticale    con   Cristo.
Identificazione spirituale con Cristo (vero Dio e vero uomo),
quindi specialmente con le figure di chi “ha fame, sete, è
malato” [3], la quale soltanto apre la strada all’amore
orizzontale e incondizionato verso tutto il genere umano. La
caritas, l’amore fraterno e disinteressato verso gli altri —
“Amerai il prossimo tuo come te stesso” [4] —, in quanto
immagine di quello misericordioso di Dio verso l’uomo, è
dunque un vero e proprio “nuovo comandamento” [5], che per la
precisione fonda la stessa cristologia che contraddistingue la
fede cattolica.

Siamo, com’è evidente, ben al di là della filantropia già nota
alla cultura e all’ethos greci:

«E’ come un fratello lo straniero e colui che chiede
protezione. (…) Sono sotto la protezione di Zeus tutti gli
stranieri ed i mendicanti». [6]

E’ tuttavia su queste basi meta-politiche e trascendenti,
quindi improbabili, che Papa Bergoglio invoca “porti aperti” e
prescrive l’accoglienza incondizionata degli immigrati. Una
prescrizione che ha valore assoluto, malgrado Bergoglio sappia
e denunci lo sradicamento che l’immigrazione implica e
l’ingistizia sociale che la provoca,[7] nonostante sappia che
la gran parte degli immigrati che giungono in Italia siano
condannati all’esclusione sociale, all’illegalità, ad una vita
da paria ove non al vero e proprio schiavismo.

Il discorso sull’immigrazione andrebbe riportato sul terreno
della politica, più precisamente del realismo politico. La
qual cosa il Papa, e con lui le sinistre immigrazioniste, non
fanno, e si rifiutano di fare, brandendo come anatema l’accusa
di razzismo. Ma su certe nequizie abbiamo scritto più volte.
Qui dobbiamo chiederci se l’antropologia che avanza Bergoglio
sia plausibile. Secondo chi scrive non lo è affatto. Il
comandamento cristiano non chiede infatti all’uomo solo
benevolenza e solidarietà disinteressata verso il prossimo;
chiede uno sforzo spirituale e materiale che sfiora il divino,
un’illimitatezza che evidentemente chiede l’implicazione di un
dono supremo, quello della grazia. La qual cosa, appunto,
appartiene solo a quegli esseri che Dio premia investendoli
della Sua santità.

Bergoglio risponde spesso tirando in ballo la bontà, la
compassione, il cuore, la fede prima della ragione. In una
parola i sentimenti. Hegel, bestia nera di certo
cattolicesimo, fu spietato nel demolire quest’approccio, per
lui

«… il pensiero è ciò che l’uomo ha di più propriamente suo,
ciò che lo differenzia dai bruti, mentre il sentire lo
accumuna a questi».[8]

Ancor più correttamente ebbe a dire che l’etica, alias il
Politico, è una cosa seria e non può “dissolversi nella pappa
del cuore, dell’amicizia e dell’entusiasmo”. [9] Per questo, a
sua difesa, Hegel citava proprio i vangeli:

«Dal cuore, infatti, provengono i propositi malvagi, gli
omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, le false
testimonianze, le bestemmie», [10]

Non ci si può chiedere assoluta benevolenza, totale empatia,
addirittura amore verso chiunque, verso chi non si conosce,
verso chi non fa parte della mia famiglia, della mia cerchia
di amici, nemmeno della mia comunità politica e nazionale. E
non lo si può chiedere non solo perché fattivamente
impossibile. Non lo si deve chiedere perché sarebbe, in barba
alle più pie intenzioni, letale per la comunità medesima di
cui faccio parte. Il “prossimo” implica infatti prossimità:
che vincolo di solidarietà avrei mai verso chi mi è davvero
prossimo, se lo considerassi alla pari di chi non conosco
nemmeno? Come potrei “sentire” un vincolo sincero e forte di
solidarietà verso chi, oltre a non parlare la mia lingua, non
ha le mie stesse consuetudini, che vuole anzi preservare,
opponendomele, le sue proprie tradizioni e la sua propria
cultura?

Solo una concezione individualistica, atomistica e anarco-
liberista della società può concepire l’orrore di una comunità
come addizione sgangherata di singole monadi — concezione alla
quale fa da contraltare la visione di certi comunitaristi che
la immaginano come conglomerato meticcio di etnie e/o di sette
confessionali.

Una comunità politica non si regge se non grazie a legami di
solidarietà che si costruiscono e si consolidano in
quell’opificio che è la storia, ovvero in quel processo
spietato che spesso ha chiesto che ogni comunità risolvesse
allo stesso proprio interno, nel conflitto e anche ricorrendo
alla lotta fratricida, cosa essa volesse diventare, quale
identità scegliesse di assumere. Così che, quando la comunità,
dopo tanti tormenti, è riuscita a stabilire cosa davvero sia,
essa tenderà a difendere da ogni intrusione ciò che è
diventata.

Si può perdonare il Papa, a cui non si può chiedere di violare
uno dei comandamenti della sua fede, non si può perdonare una
sinistra transgenica che scimmiotta il Pontefice ma sulla base
di un cosmopolitismo senza fede, verniciato con una
sconclusionata visione antropologica dell’uomo.
Proprio perché ci occorre credere nell’essere umano, si deve
capire di che materiale esso sia affettivamente fatto. Per
quanto si possa dissentire dalla visione pessimistica della
sua ultima fase di ricerca, ci giunge in soccorso Sigmund
Freud, che vogliamo citare:

 «Ce ne può indicare la traccia una delle cosiddette
 pretenzioni ideali della società civilizzata, quella che
 dice: “amerai il prossimo tuo come te stesso”. E’ una pretesa
 nota in tutto il mondo, certamente più antica del
 cristianesimo, che la ostenta come la sua più grandiosa
 dichiarazione, ma certamente non antichissima; sono esistite
 perfino epoche storiche in cui era ancora estranea al genere
 umano. Proponiamoci di adottare verso di essa un
 atteggiamento ingenuo, come se ne sentissimo parlare per la
 prima volta. Impossibile in tal caso reprimere un senso di
 sorpresa e disappunto.

 Perché mai dovremmo far ciò? Che vantaggio ce ne può
 derivare? Ma soprattutto, come arrivarci? Come ne saremo
 capaci?

 Il mio amore è una cosa preziosa, che non ho il diritto di
 gettar via sconsideratamente. Mi impone degli obblighi e devo
 essere pronto a fare dei sacrifici per adempierli. Se amo
 qualcuno, in qualche modo egli se lo deve meritare. (trascuro
 i vantaggi che egli mi può arrecare e anche il suo eventuale
 significato come mio oggetto sessuale; relazioni di questi
 due tipi non hanno nulla a che vedere col precetto di amare
 il prossimo). Costui merita il mio amore se mi assomiglia in
 certi aspetti importanti talché in lui io possa amare me
 stesso; lo merita se è tanto più perfetto di me da poter io
 amare in lui l’ideale di me stesso; devo amarlo se è figlio
 del mio amico, poiché il dolore del mio amico se gli
 accadesse qualcosa sarebbe anche il mio dolore, un dolore che
 dovrei condividere. Ma se per me è un estraneo e non può
 attrarmi per alcun suo merito personale o per alcun
 significato da lui già acquisito nella mia vita emotiva,
amarlo mi sarà difficile. E se ci riuscissi, sarei ingiusto,
 perché il mio amore è stimato da tutti i miei cari un segno
 di predilezione; sarebbe un’ingiustizia verso di loro mettere
 un estraneo sullo stesso piano. Ma se debbo amarlo di
 quell’amore universale, semplicemente perché anche lui è un
 abitante di questa terra, al pari di un insetto, di un verme,
 di una biscia, allora temo che gli toccherà una porzione
 d’amore ben piccola e mi sarà impossibile dargli tutto quello
 che secondo il giudizio della ragione sono autorizzato a
 serbare per me stesso.

 A che pro un precetto enunciato tanto solennemente, se il suo
 adempimento non si raccomanda da se stesso come razionale.

 Se osservo le cose più da vicino, le difficoltà aumentano.
 Non solo questo estraneo generalmente non è degno d’amore, ma
 onestamente devo confessare che avrebbe piuttosto diritto
 alla mia ostilità e persino al mio odio. Sembra non avere il
 minimo amore per me, non mi mostra la minima considerazione.
 Se gli fa comodo, non esita a danneggiarmi, senza nemmeno
 domandarsi se il vantaggio che ricava sia proporzionato alla
 gravità del danno che mi procura. (…)

 Se si comportasse diversamente, se verso di me estraneo
 mostrasse rispetto e indulgenza, io a buon conto, a parte
 qualsiasi precetto, sarei disposto a trattarlo nella stessa
 maniera. Se quel grandioso comandamento avesse ordinato: “ama
 il prossimo tuo come il prossimo tuo ama te”, non avrei
 niente in contrario.

 C’è un secondo comandamento che mi sembra ancora più
 incomprensibile e che solleva in me un’opposizione ancora più
 violenta. E’: “ama i tuoi nemici”. Riflettendoci, ho torto a
 considerarlo una pretesa ancora più assurda. In fondo è la
 medesima cosa». [11]

Marx ebbe modo di scrivere che «Se si vuole essere un bue,
naturalmente si può voltare la schiena ai tormenti
dell’umanità e badare solo alla propria pelle».[12]

Proprio perché non siamo buoi ma “animali politici”, proprio
perché non voltiamo “la schiena ai tormenti dell’umanità”,
sappiamo che non è con il cuore e i buoni sentimenti che si
porrà fine a quei tormenti, ma con la lotta pratica, la quale
chiede una teoria politica adeguata, che non nasce se non da
uno sforzo teorico, da quella che Hegel chiamava la “fatica
del concetto”. [13]

NOTE

[2] La prolusione era dedicata al libro degli Atti degli
Apostoli e alla figura di San Paolo. Molte sarebbero le cose
da dire al riguardo, ovvero sulla distanza siderale che separa
la Chiesa cattolica (come del resto Protestanti e Ortodossi)
dalle prime comunità cristiane. Diverso sarebbe il giudizio
sulla concordanza o meno con la teologia paolina.

[3] Mt 25, 30-40

[4] Mc 12, 28-34

[5] Gv, 13,34

[6] Odissea, (VIII, 546 e VI, 207)

[7] Ha afffermato Bergoglio«Siamo di fronte ad un’altra morte
causata dall’ingiustizia. Già, perché è l’ingiustizia che
costringe molti migranti a lasciare le loro terre. È
l’ingiustizia che li obbliga ad attraversare deserti e a
subire abusi e torture nei campi di detenzione. È
l’ingiustizia che li respinge e li fa morire in mare». ANSA,
19 dicembre 2019

[8]    G.W.F.Hegel, Fenomenologia dello spirito, UTET, p.145

[9] «Con il     semplice rimedio casalingo dí basare sul
sentimento ciò che è l’opera, invero piú che millenaria, della
ragione e dell’intellezione di essa, ci si risparmia
certamente tutta la fatica dell’intendimento razionale e della
conoscenza guidati dal concetto pensante [ … ] . Ma il marchio
peculiare che [questa retorica] porta in fronte è l’odio
contro la legge. Che il diritto e l’eticità, e il mondo reale
del diritto e dell’etico, comprendano se stessi con il
pensiero,e mediante concetti diano a sé la forma della
razionalità, ossia universalità e determinatezza, tale fatto,
ossia la legge, è ciò che quel sentimento che riserva a se
medesimo il libito, quella coscienza che ripone il diritto
nella convinzione soggettiva, considerano fondatamente come
l’elemento a loro piú ostile. La forma del diritto come un
dovere e una legge viene avvertita da quel sentimento e da
quella coscienza come una lettera morta e fredda e come una
catena […]». G.W.F.Hegel, Lineamenti della filosofia del
diritto, Prefazione, 1820, Laterza 199, pp.104-105

[10] Mt, 15,19

[11] Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, In Opere, vol.
II, pp.519-520, RBA

[12] K. Marx a S.Meyer, 30 aprile 1867

[8]   G.W.F.Hegel, Fenomenologia dello spirito, ibidem
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