Banksy e la street art: quando la creatività sfida il diritto - Mr ...

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Banksy e la street art:
quando la creatività sfida il
diritto
È un momento d’oro per Banksy, probabilmente lo street artist
più famoso a livello internazionale, anche grazie all’alone di
mistero che si cela dietro la sua vera identità. Se ne parla
un po’ ovunque, soprattutto dalla nota vicenda dell’opera
«Girl with Balloon», auto-distrutta in occasione dell’asta
diSotheby’s a Londra lo scorso ottobre e subito ribattezzata
«Love is in the Bin», che dal prossimo febbraio verrà esposta
al museo Burda di Baden Baden. Sono poi seguiti la mostra «A
VISUAL PROTEST. The art of Banksy», allestita al Mudec di
Milano, il graffito «Season’s greetings» apparso su un muro di
Port Talbot poco prima di Natale (e già venduto), nonché il
recente caso del murales raffigurante un topo con ombrello che
si protegge dalla pioggia, apparso nella stazione di Hinode a
Tokyo, al momento ancora “in fase di attribuzione” a Banksy
nell’eccitazione generale. Infine, è notizia di questi giorni
il furto di un suo murales apparso sulla porta del Bataclan di
Parigi in memoria delle vittime dell’attentato del 2015.
Tralasciando le opinioni sul valore artistico che ciascuno può
dare alla street art e al graffitismo urbano, va rilevato che
negli ultimi tempi l’attenzione sul fenomeno è decisamente
aumentata, anche grazie alla straordinaria eco mediatica che
queste vere e proprie performance spesso suscitano. Uno degli
elementi che contribuiscono ad aumentare la curiosità è senza
dubbio la sua componente intrinsecamente trasgressiva, non
tanto o non sempre con riguardo al contenuto delle opere,
quanto piuttosto al metodo con cui vengono realizzate. Il loro
collocarsi a metà strada tra espressioni creative e
comportamenti illeciti, oltre probabilmente a dare adrenalina
all’artista, pone questioni controverse dal punto di vista
giuridico. Non è un caso che un’altra mostra, tuttora in corso
presso l’Ifema di Madrid, si intitoli «Banksy, genio o
vandalo?»Provocazione e valore. Il tema di fondo è quello
legato al conflitto, reale o potenziale, che si crea tra
artista e proprietario del bene su cui viene realizzata
l’opera, il quale di norma non dà il proprio consenso a che
questo venga dipinto (evidentemente non sussiste problema
quando c’è, invece,,un accordo tra le parti). Si pone in
sostanza un problema di appartenenza dell’opera e di
titolarità dei diritti su di essa: può essere tutelata anche
contro la volontà del proprietario o quest’ultimo può
rivendicare il diritto di disporne liberamente (cancellandola
o rimuovendola, magari anche per venderla nel caso si tratti,
come con Banksy, di un lavoro di notevole valore)? In altre
parole va stabilito se si tratti di un’opera d’arte da
tutelare o del prodotto di un reato, da eliminare con tanto di
condanna del suo autore e risarcimento del danno subito a
causa dell’imbrattamento. E se, invece, fosse entrambe le cose
contemporaneamente? Il tema non è nuovo ed ha costituito più
volte terreno di confronto e scontro tra esperti d’arte e
giuristi, ma anche tra gli stessi artisti e gli operatori del
mercato dell’arte, quando si tratti di gestire la vendita,
l’esibizione o la riproduzione dei murales. Sono peraltro
interrogativi che hanno suscitato la creatività anche di
registi e videomaker, come nel caso del recente documentario
di Marco Proserpio dal titolo «The Man Who Stole Banksy».
Un caso, tra i molti, per rendere l’idea: nel 2010 alcuni
artisti della 555 Nonprofit Gallery and Studios, nel Wayne,
rimossero un dipinto di Banksy apparso sulla parete esterna di
un edificio in un sito abbandonato a Detroit, destinato con
ogni probabilità a deperire progressivamente fino a scomparire
del tutto. La società Bioresource, proprietaria del sito e
dunque dell’edificio in questione, fece causa alla galleria
rivendicando la proprietà dell’opera e chiedendone la
restituzione. Dopo fasi alterne, la vicenda si concluse
transattivamente con la cessione del murales da parte della
società alla galleria per un importo simbolico di 2.500
dollari, a condizione che il lavoro fosse esposto per la
pubblica fruizione e non immediatamente messo in vendita.
Altre volte è capitato che lavori come questi venissero
cancellati: o per sbaglio – come quando, alcuni anni fa,
comparvero due opere di Banksy su un muro nel quartiere di
Fitzroy a Melbourne, inavvertitamente ridipinto nel corso di
un intervento di manutenzione dell’edificio – o volutamente,
come nel caso del murales apparso a Napoli e raffigurante una
reinterpretazione dell’estasi della beata Ludovica
Albertoni del Bernini, che venne coperto dal graffito di un
altro writer prima che Banksy tornasse più di recente a
omaggiare la città con un secondo lavoro in piazza Gerolomini,
la “Madonna con la pistola”, oggi fortunatamente preservato da
una copertura trasparente. Per non parlare del caso
dell’artista statunitense Ron English che, dopo aver
acquistato l’opera «Slave Labour», sempre di Bansky, per
730.000 dollari, dichiarò di volerla cancellare ridipingendola
interamente (cosa peraltro non nuova nel mondo dell’arte:
correva l’anno 1953 quando Robert Rauschenberg cancellò un
disegno di Willem de Kooning dipingendoci sopra). L’elenco di
esempi è lungo: cambia il contesto, ma non cambia il fatto di
trovarsi di fronte a situazioni borderline per il diritto.

Le radici della street art. Alcuni sostengono che sia
connaturato alla street art un disinteresse da parte
dell’artista nei confronti della proprietà del suo lavoro: lo
street artist non crea tanto per sé, quanto per dare un
messaggio alla collettività e, per farlo ancora più
efficacemente, lo fa pubblicamente. Poco importa, seguendo
questa logica, se ciò avviene su una superficie altrui, poiché
l’artista rinuncia alla proprietà materiale del suo lavoro e
dunque non dovrebbe porsi, sotto questo aspetto, alcun
conflitto con il proprietario della parete su cui è stato
realizzato. Questi, per effetto della regola civilistica
dell’accessione tra due beni, acquista anche la proprietà
della cosa incorporata (il murales) e, con essa, il diritto di
disporne. A margine, resterebbe poi da chiedersi se il valore
dell’opera di Banksy, rispetto a quello dell’edificio su cui è
realizzato, ne costituisca un effettivo deturpamento o
piuttosto un qualche abbellimento, determinando un
accrescimento del valore complessivo dell’immobile, se non
addirittura dell’intera zona su cui sorge.
Ma il fenomeno non riguarda solo la proprietà di questi
lavori. Molto spesso sono implicati anche altri diritti, in
particolare quelli d’autore relativi alla paternità e
all’utilizzazione economica dell’opera, che tutelano e
disciplinano, tra gli altri, la sua integrità, la riproduzione
e l’esposizione. Se il graffito è arte, come tale è protetto
dalla legge e ciò significa due cose. La prima è che da una
condotta sostanzialmente illecita – l’imbrattamento o
deturpamento di un bene altrui è infatti penalmente perseguito
– possono derivare diritti legittimamente azionabili dai loro
titolari. La seconda è che tali titolari non necessariamente
sono anche i proprietari dell’opera e qui può generarsi un
contrasto tra diritti. Come quando nel 2016, in occasione
della mostra «Street Art Banksy & co. L’arte allo stato
urbano», organizzata a Palazzo Pepoli a Bologna, alcuni street
artist, contrari al distacco non autorizzato e alla
“musealizzazione” delle loro opere, rivendicarono il diritto
di chiederne la rimozione dalle sale del museo in quanto
decontestualizzata e quindi lesiva della loro reputazione di
artisti di strada. E sempre di violazione dei diritti degli
artisti si è trattato anche nel più recente caso del 2018,
quando un giudice federale di Brooklyn condannò Jerry Wolkoff,
proprietario del famoso complesso 5Pointz di New York, al
pagamento di un maxi-risarcimento di oltre 6 milioni di
dollari a 21 artisti per aver distrutto quella che era
considerata la mecca della street art americana cancellando
per sempre i graffiti realizzati sui suoi muri con una
ridipintura totale.
Per non parlare ancora di quando un’opera d’arte urbana si
appropria senza autorizzazione di un’altra opera, di un’icona
o di un marchio già protetti dal diritto (lo stesso Banksy non
è nuovo a questo fenomeno). Ma questa è un’altra storia
ancora. Insomma, quello tra arte di strada e diritto è
fisiologicamente un rapporto di odio/amore: o la prima si
priva del suo tratto di originaria illegalità – è il caso, ad
esempio, dell’artista comasco Mr. Savethewall, da alcuni
ribattezzato il Banksy italiano, che in aperta critica alla
street art tradizionale, non dipinge sui muri, ma li preserva
fissando le sue opere con semplice nastro adesivo alle pareti
– oppure il suo destino continuerà ad essere quello di sfidare
il pubblico e gli addetti ai lavori anche in punta di diritto.
Ma forse il suo bello è (anche) questo.

di Mattia Pivato
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