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Bandiere sul torrazzo. Aprile 1945: i giorni della liberazione di Cremona Comune di Cremona, ANPI, ANPC Associazione Emilio Zanoni, Archivio di Stato di Cremona nel 70° anniversario della Liberazione
Testi a cura di Giuseppe Azzoni Foto di copertina dall’archivio fotografico ANPI di Cremona Stampato nella Tipografia…, aprile 2015
PRESENTAZIONE DEL SINDACO 3
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NOTA DEL CURATORE Si presentano in queste pagine, nel settantesimo anniversario della Liberazione e della fine della seconda guerra mondiale, alcune essenziali documentazioni relative agli avvenimenti di fine aprile 1945 nella nostra città. Sono riportati: il testo del patto tra le principali forze politiche del CLN cremonese; il racconto scritto 10 anni dopo da Emilio Zanoni che era stato all’epoca membro del CLN; il resoconto del Sindaco della Liberazione, Bruno Calatroni; le parti riguardanti la città dai diari storici delle brigate partigiane; il Proclama del CLN ai cittadini pubblicato il 27 aprile 1945. Seguono alcune notizie integrative. Le fonti, tutte consultabili, sono indicate nelle brevi annotazioni iniziali. Presentando il racconto di quegli eventi, così decisivi per il futuro della nostra città, scritto ad opera di chi ne fu protago- nista, non dimentichiamo l’avvertimento del grande Fernand Braudel sulla “storia ancora bruciante quale i contemporanei l’hanno descritta e vissuta. Al ritmo della loro vita essa ha le dimensione delle loro collere, dei loro sogni e delle loro illusioni”. Pertanto abbiamo presenti le visioni di parte, le inevi- tabili lacune, le possibili contraddizioni di testi come questi. Ma ancor prima abbiamo ben presente che essi sono il portato di chi ha contribuito, rischiando di persona, a restituire la libertà alle generazioni successive, che essi sono ricchi di informazioni quali nessun altro poteva darci, che essi ancora ci colpiscono per i valori che ci trasmettono. Giuseppe Azzoni 7
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PATTO D’UNITÀ D’AZIONE A Cremona, durante la lotta di liberazione, venne sottoscritto un documento unitario tra i partiti socialista, comunista e democratico cristiano. La sua grande rilevanza, sia sul piano operativo che per i valori condivisi, è desumibile dalla stessa lettura ed è anche sotto- lineata dal fatto che lo si ritrova in un rapporto informativo di Pietro Secchia da Milano a Palmiro Togliatti (pubblicato in Luigi Longo, I centri dirigenti del PCI nella Resistenza, Roma 1973). Il documento è anche ripreso integralmente in AAVV, Quarant’anni dopo, ANPI Cremona 1986 ed in altre pubblicazioni. Nei testi pubblicati non c’è la data, viene accreditato per il 1944 nel volume dell’ANPI cremonese, mentre Pietro Secchia scrive in data 30.3.1945: “È stato realizzato in questi giorni a Cremona un accordo del quale riporto il testo”. Ecco di seguito il testo integrale. A tutti i compagni socialisti e comunisti ed ai membri del partito democristiano si dà preciso incarico di dare la massima diffu- sione a questo importante documento e di far in modo che il “Patto d’Unità d’Azione” diventi fattore di collaborazione concreta ed attiva tra i tre grandi partiti di massa del popolo italiano anche nella nostra provincia. Il Comitato d’Unità d’Azione dei tre Partiti. I dirigenti delle Federazioni della provincia di Cremona dei tre grandi partiti di massa del popolo italiano: Partito Socialista, Partito Democratico Cristiano e Partito Comunista, riconosciuta unanimemente la necessità dell’unità di tutte le forze anti- fasciste e di tutto il popolo nella lotta contro l’invasore tedesco e i traditori fascisti perché vedono solo in questa unità la garanzia della vittoria, si sono riuniti per stabilire un piano di lotta comune e di collaborazione duratura. La divisione fra le correnti marxiste e quelle cattoliche nel movimento operaio e nel più vasto movimento popolare è stata una delle cause che hanno portato il fascismo al potere. L’unione di tutte le forze progressive è condizione della libertà 9
ed i tre partiti vogliono superare le incomprensioni e le divisioni del passato in una sincera e fattiva collaborazione. I partiti Comunista, Socialista e Cattolico sono alleati nel C.L.N. Questa alleanza, che deve essere mantenuta e rafforzata oggi nella lotta di liberazione e domani nell’opera di ricostruzione, è essenziale per i rapporti fra i tre partiti, ma non abbraccia tutti gli aspetti della loro collaborazione. L’unione che si è stabilita nella lotta di liberazione deve sussistere sul terreno della ricostruzione democratica del nostro paese nell’attuazione di una democrazia progressiva che non abbia altro limite che la volontà del popolo, attraverso la libera elezione ed anche attraverso le libere organizzazioni delle grandi masse popolari. Ma il problema più urgente è oggi quello della lotta di libera- zione per la cacciata del nazifascismo ed è per questo scopo essenziale che cattolici, comunisti e socialisti nella provincia di Cremona, lottando uniti, si impegnano a fare ogni sforzo: 1) per organizzare, sostenere e sviluppare la lotta del Corpo Volontari della Libertà collaborando nel Comando Unificato e coordinando l’attività delle loro formazioni per il fonda- mentale scopo della liberazione del Paese; 2) per rendere più attiva la collaborazione in seno al Comitato di Liberazione Nazionale provinciale mediante accordi preli- minari e per contribuire alla costituzione in ogni comune della provincia dei CLN periferici, strumenti essenziali della nuova democrazia italiana; 3) per sviluppare sul piano sindacale la lotta per il miglio- ramento delle condizioni di vita delle masse lavoratrici operaie, contadine, impiegatizie; per la difesa delle risorse alimentari e del patrimonio nazionale, rifiutando il grano agli ammassi fascisti ed impedendo l’esportazione del macchina- rio in Germania; per sviluppare l’azione delle masse contro le deportazioni, le sopraffazioni e le violenze dei nazifascisti. Si provvederà a tale scopo alla costituzione di un Comitato 10
Sindacale provinciale paritetico e di Comitati d’Agitazione periferici sostenendo sempre l’unità del movimento sinda- cale; 4) per collaborare nella difesa degli interessi delle grandi masse popolari e nell’applicazione integrale, per quanto concerne l’amministrazione della provincia, dei principi della democra- zia progressiva, garantendo a tutti i raggruppamenti politici, sociali, religiosi libertà di stampa, di organizzazione, di parola, di riunione, di culto, all’atto della liberazione del Paese; 5) per contribuire al consolidamento e alla attivazione degli organismi di massa: Fronte della Gioventù, Gruppi di difesa della Donna, Comitati dei Contadini, cui parteciperanno senza distinzioni elementi di tutti i partiti, o senza partito, ma ove i membri dei tre partiti potranno trovare il piano comune per una più stretta collaborazione. La fraternità che si raggiunge oggi nella lotta deve trasformarsi in durevole unità d’intenti e d’azione: solo così i tre partiti contribuiranno a rinforzare profondamente la vita sociale, politica e culturale della provincia e, sulla base delle grandiose tradizioni di lotta del movimento popolare cattolico, socialista e comunista nelle campagne della provincia, confermando che, uniti nella lotta e nella ricostruzione, sapranno spezzare defini- tivamente ogni resistenza del nazifascismo ed impedire qua- lunque tentativo di ritorno al potere delle correnti fasciste e reazionarie ed instaurare un regime di democrazia popolare progressiva in una Italia libera ed indipendente. La Federazione Cremonese del Partito Socialista Italiano La Federazione Cremonese del Partito Comunista Italiano La Direzione del Partito Democristiano per la Provincia di Cremona. 11
EMILIO ZANONI IL CROLLO DEL FASCIMO IN CITTÀ. CREMONA LIBERA! Viene qui integralmente trascritto, con il titolo originale, il XXI capitolo de Il movimento cremonese di Liberazione nel secondo Risorgimento – Saggio storico di Emilio Zanoni, scritto nel 1955. Il dattiloscritto, inedito ma già utilizzato come fonte in alcuni suoi passaggi, è depo- sitato in Archivio di Stato, Fondo carte Zanoni. Emilio Zanoni, che fu sindaco della città nel decennio 1970- 80, all’epoca era dirigente del Partito socialista clandestino e membro del CLN. Sono state operate alcune minime modifiche meramente formali. La sensazione chiara, precisa, irreparabile della débacle nazi- fascista si ebbe a Cremona a cominciare dal pomeriggio del 22 aprile 1945. Da una decina di giorni il fronte meridionale dell’ottava armata britannica e della prima americana si era messo in movi- mento, prima con formidabili concentramenti di fuoco sulle posizioni difensive tedesche in Romagna a sud di Bologna e nella zona della Garfagnana, poi con puntate di assaggio ope- rate da colonne corazzate. Divisioni italiane potentemente armate (fra esse il “gruppo di combattimento Cremona”) colla- boravano con gli alleati. La battaglia per la Germania era sul declinare. I russi com- battevano fra le case di Berlino, le armate angloamericane, superato il Reno, si spingevano nel cuore stesso della Germania frantumando a colpi di ariete le disperate difese della Wehr- macht, dei raccogliticci “granatieri del popolo”, e le insidie dei così detti “lupi mannari”. La seconda guerra mondiale, dopo la distruzione dell’apparato offensivo germanico, mirava ora all’abbattimento degli ultimi vestigi di resistenza organizzati, con la forza dell’esasperazione, dai più accaniti corifei dell’or- dine nuovo. 12
Sul fronte italiano l’iniziata battaglia doveva portare all’annichilimento totale dell’esercito tedesco qui dislocato, per impedirgli di recare un contributo all’estrema difesa del balu- ardo alpino concepito da Hitler, forse più nei vaneggiamenti dei sogni che nella praticità dei piani, come ultimo riparo dei più fanatici nazisti e delle divisioni SS. Il piano alleato era diretto a questo scopo: sfondare il fronte tedesco in Italia e precedere, con rapidissima puntata attraverso il Veneto, il nemico in ritirata per distruggerlo e impedirgli di riportare al Brennero truppe organizzate, anche se sconfitte. La funzione che i partigiani italiani dovevano svolgere era, oltre a quella di abbattere lo staterello nazista di Mussolini, impedire ai tedeschi di sganciarsi, attaccarli in tutti i modi, distruggerli o costringerli alla resa. Le punte corazzate della VIII armata, dopo alcuni giorni impiegati nello sfondamento del settore adriatico della linea gotica, si erano affacciate sulla pianura emiliana, lembo estremo della gran pianura che “da Vercelli a Marcabò dichina”. Con l’operato sfondamento tutto il fronte tedesco entrò in crisi. L’alto comando germanico, per le solite questioni di prestigio, aveva voluto mantenere un fronte amplissimo, dalle Alpi alla Liguria e poi dal Tirreno, attraverso tutta la penisola, fino all’Adriatico. La frattura in un sol punto minacciava tutto lo schieramento, con illimitate possibilità di accerchiamento e col tremendo peso dei bombardamenti aerei alleati pronti a frantu- mare qualsiasi concentramento, qualsiasi nodo di comunica- zione, qualsiasi sbarramento difensivo. Ne seppe qualcosa la divisione germanica che, ritirandosi dal fronte, si era attestata proprio in quei giorni sulla riva del Po, dirimpetto a Cremona, tra i vestigi del ponte in ferro distrutto e il primo baracchino. Essa attendeva che il Genio Militare ripristinasse il ponte in barche per il passaggio, quando venne presa sotto il fuoco poderoso di una formazione aerea 13
alleata. Invano i reparti germanici coi loro carriaggi cercarono di mimetizzarsi tra gli ancor folti boschi della riva. La tempesta di fuoco distrusse e bruciò uomini, materiale, autocarri, bestie da soma. I tedeschi, impazziti per il panico, si gettarono a nuoto o con mezzi di fortuna nelle acque infide del fiume. Annegarono a centinaia. La divisione germanica, salvo pochi fuggiaschi, venne letteralmente distrutta e in ciò, forse, fu fortuna per Cremona chè, altrimenti, essa si sarebbe schierata sul Po a difesa del transito dei sopravenienti reparti in ritirata. Affacciandosi alla pianura padana, l’ottava armata si apprestò a vibrare i colpi risolutivi alle sconfitte divisioni tedesche. Reparti celeri, tra cui formazioni italiane dell’esercito regolare e dei partigiani del ravennate, sfondarono, oltre il Po, verso la pianura veneta. Altri reparti, occupata Bologna, si spinsero verso il cuore dell’Emilia. Formazioni celeri anglo- americane puntavano verso Mantova per investire da questo lato la Lombardia. Siamo dunque alle estreme battute della guerra. Come si diceva, la percezione chiara della disfatta nazifascista si ebbe a Cremona nel pomeriggio del 22 aprile. Ancora il giorno prima, 21 aprile, annuale di Roma, i fascisti, incorreggibili nella retorica imperiale, si erano riuniti a udir la concione di Farinacci. Il quale il dì di Pasqua aveva scritto sul Regime: “Con Cristo risor- geremo”. Come se Cristo assistesse i nemici e persecutori del popolo! Nel meriggio del 22 la scena improvvisamente mutò. Com- patibilmente con gli allarmi, che ormai duravano mezze giornate e non si capiva più se la sirena suonava l’inizio oppure la fine delle incursioni, era un pomeriggio calmo, assolato, di quella particolare quietudine che, in questa stagione, mette solitamente languore in corpo e pacata tristezza nell’anima. Cominciarono a giungere in città le prime bande fuggiasche dei fascisti incalzati alle spalle dalle formazioni partigiane. Era 14
giunto il giorno della giustizia! I rastrellatori si mutavano in rastrellati. Stanchi, affannati, coperti di polvere, su biciclette rapinate ai cittadini, eran giunti in città i fuggiaschi dell’Emilia. Era la ramazzaglia delle bande nere, la feccia del repubbli- chinismo fascista. Deposta dal volto l’usata minaccia, entra- vano negli esercizi pubblici a calmare l’arsura della strozza da cui non uscivano che bestemmie ed imprecazioni all’indirizzo dei capi paurosi e traditori. Molti di queste canaglie si erano sdraiati sotto gli alberi, sul verde delle aiuole dei giardini, bivaccando stancamente in attesa di chissà quali ordini. Gli anziani, al vederli, ricordavano che proprio negli stessi luoghi gli squadristi si erano ammassati ai bei giorni della mobilitazione per la marcia su Roma. Erano questi i “fascisti poveri”, il gregge armentizio portato allo sbaraglio e al crimine per propensione propria e per sug- gestione di capi. Cominciavan anche a circolare automezzi e macchine carichi di fascisti più “fortunati” i quali, armati di moschetti e di mitra, guardavano in cagnesco la folla come se presagissero l’insurrezione anche qui imminente. La notte dal 22 al 23 aprile non apportò alcun mutamento nella situazione in città. In quelle prime ore dell’alba le forma- zioni partigiane del casalasco, ricevuti avvisi certi dalla sponda emiliana, già si muovevano all’occupazione delle caserme e all’azione. Già dai campanili della zona le campane, battute a martello, davano il segnale della lotta iniziata. La città era tranquilla. Si notava un accresciuto afflusso di fuggiaschi e un continuo movimento di reparti tedeschi lungo le strade di circonvallazione. Tratto tratto le sirene suonavano il segnale di allarme grande. Ma nessuno vi badava. Il Regime fascista uscì regolarmente come al solito in un foglio solo, con le notizie di guerra secondo le quali, anche se Hitler era già nel bunker pronto per il rogo, le sorti non erano ancora del tutto perdute. La federazione dei fasci repubblichini 15
era ancora aperta ai camerati di oltrepo. In complesso un simu- lacro di ordinaria amministrazione alla vigilia del crollo. Nel pomeriggio del 23, verso le ore 17, il CLN provinciale si riunì nello studio dell’avv. Calatroni, in via Bertesi. Da Milano, col corriere del PSIUP, erano arrivate le direttive da seguire per l’insurrezione generale. Le norme contenute nella circolare furono attentamente esaminate e discusse. Riguardavano le disposizioni sulla tattica da seguire nel campo pratico: occupazione degli edifici pubblici; presa del potere; provve- dimenti da adottare contro i fascisti prigionieri; provvidenze a favore della popolazione; disposizioni sull’ordine pubblico; segni di riconiscimento dei patrioti per l’insurrezione. In quella seduta si deliberò l’allargamento del CLN a due rappresentanti per partito in luogo di uno solo come fino allora la tattica clandestina aveva consigliato. Il segno di riconoscimento degli insorti, esclusi naturalmente quelli propri di ogni formazione, doveva essere una fascia tricolore con stampigliate le sigle C.L.N. L’incarico di preparare i contrassegni venne preso dal delegato del partito socialista. Per due notti consecutive donne patriote confezionarono i distintivi adottati per la battaglia. Uscendo da quella seduta del CLN (da allora il massimo organo provinciale per la Liberazione sedette praticamente in permanenza) taluni membri ebbero la chiara sensazione che le cose potessero precipitare da un momento all’altro. I primi spari dell’insurrezione in città si erano uditi in quel pomeriggio, provenienti dal popolare rione di S. Imerio, come si vedrà in seguito. Qui giovani arditi erano già in azione. Verso piazza Castello e lungo l’attuale via Ghinaglia sfilava una formazione di “bande nere” diretta alla stazione del trenino per Edolo. Probabilmente defilavano, secondo i piani di Graziani e Pavolini, verso la linea arretrata di difesa estrema. Con quelle truppe però i gerarchi di Dongo non sarebbero sfuggiti alla loro sorte, anche se fossero arrivate e non invece fermate, come avvenne nei pressi di Soncino, dall’insurrezione. 16
Demoralizzati e in preda al panico, gli squadristi delle bri- gate nere vedevano già ovunque agguati e partigiani. Lo sbattere improvviso di una porta, nel silenzio della strada creato dal loro passaggio mentre mille volti maledicenti li spiavano dalle imposte socchiuse, o un colpo d’arma da fuoco inavvertitamente esploso da qualcuno dei briganti in prima fila, accese improvvisamente una sparatoria come di plotone. Nascosti negli angiporti delle case, dietro gli spigoli, gli eroici “fidanzati della morte” sparavano alla cieca, all’aria, contro un nemico immaginario che si sentivano alle calcagna. Non c’era ancora il nemico, era rappresentato da tutto un popolo, impersonificato in quei giovani che in quelle ore scavavano febbrilmente in cantina le armi nascoste, contavano le car- tucce, oliavano mitraglie sottratte al vecchio esercito, parlottavano col capodistaccamento per preparare l’azione da svolgere. Anche il 24 aprile trascorse in città calmo e tranquillo, con una situazione di demoralizzazione fascista sempre più evidente. Di nuovo c’era che in piazza S. Agata, là dove nel ’48 alla Gran Guardia stavano due pezzi di artiglieria con le micce accese, oggi erano stati collocati, a protezione del comando tedesco di palazzo Trecchi, quattro mortai con la bocca rivolta due verso corso Campi e due verso S. Luca. L’accresciuto via vai di fuggiaschi dell’Emilia, il muoversi più concitato di staffette e di pattuglie germaniche accresceva la tensione e l’attesa di prossimi avvenimenti. Il bollettino di guerra alleato dava per imminente la liberazione di Mantova. C’era anche in una parte della cittadinanza qualche timore che i fascisti mettessero in atto quanto una truculenta campagna di Farinacci aveva minacciato a parole: una difesa “colle unghie e coi denti” della pianura padana ed azioni di rappresaglia. I truculenti propositi, le orripilanti divise, gli arsenali ambulanti delle brigate nere avevano impressionato certuni i quali non pensavano che i fascisti si sarebbero eclissati al primo compa- 17
rire di un fazzoletto partigiano o al lontano rombo di una jeep degli alleati. Sta di fatto che i più attenti osservatori poterono accorgersi che in quelle ore, come ai tempi del delitto Matteotti e del 25 luglio, molti distintivi metallici col fascio repubblicano sparivano dall’occhiello delle giacche. Non si vedevano più in giro le famose “ausiliarie” ed i “sacerdoti di don Calcagno” si erano messi in abito secolare. Nessuna notizia sicura è possibile avere circa la proget- tazione di piani di resistenza fascista in città, data la scomparsa di tutti gli atti dei principali organismi e dei maggiori dirigenti repubblichini locali. Tuttavia, data la direzione presa dai fuggiaschi verso le montagne del bresciano e la stessa fuga posteriore di Farinacci, è possibile ritenere che l’unico piano adottato, se non realizzato, dal fascismo repubblichino cremo- nese fu quello della fuga generale verso la zona montana. Anche in questo i fascisti rimasero vittime della loro stessa propaganda. A forza di ripetere che i partigiani erano stati schiacciati ed altri non ne sarebbero sorti, si persuasero che fosse così in realtà. Nella loro fuga caddero perciò dalla padella nella bragia ed andarono ad offrirsi, fuggendo come un branco di stambecchi, al piombo della giustizia partigiana scesa dai monti e sorta in pianura dalle tombe dei gloriosi caduti. Indubbiamente ci furono in giornata “consigli di guerra” tra il gruppo dirigente neofascista (Farinacci, Ortalli, Milillo ed alcuni altri) ed il comando militare provinciale. I tedeschi, così come avvenne a Dongo con Mussolini, si tennero in disparte. Dopo aver spremuto il limone dei loro alleati, si disinte- ressavano della loro sorte occupandosi unicamente della, anche per loro, non troppo felice situazione. Roberto Farinacci aveva da parecchio tempo compreso che la sorte era segnata. Aveva persistito fino all’ultimo, come tratto dalla voragine di una forza superiore. Quella sera, nella sede del Regime Fascista, egli parlò chiaramente ad una commissione di operai che gli chiedeva 18
della situazione, preoccupata della sorte dello stabilimento tipografico che avrebbe forse potuto essere distrutto dai tedeschi o da fascisti esasperati. Disse che la situazione per i fascisti era ormai disperata. Diede disposizioni perché del milione e più di lire depositate nella cassa del giornale, una parte servisse a pagare una mensilità agli addetti. Trattenne il resto per la sua fuga imminente. Quindi si trasferì nel suo studio. Dove per mesi e anni aveva, con una perseveranza degna di più nobile causa, speso la sua attività a scrivere feroci articoli contro avversari vinti, a studiare i mezzi onde arrivare a posizioni di maggior rilievo. In questo studio egli scrisse l’articoletto “Ai cremonesi” che comparve il giorno seguente su Regime Fascista, nell’ultimo giorno di vita dello sporco libello. Sostanzialmente si trattava di un appello ai cremonesi perché, nell’eventualità della fuga fascista ormai stabilita, si astenessero da atti ostili contro i fascisti rimasti e le loro famiglie. Conscio dei metodi fascisti di rappresaglia contro le famiglie dei patrioti, egli riteneva che i suoi avversari fossero della stessa natura morale e si vendi- cassero su persone incolpevoli dei soprusi subiti. Lo scritto di Farinacci comparve dunque alle stampe la mattina del 25 aprile. Il Comitato di Liberazione, dopo una breve riunione nel pomeriggio del 24, si era aggiornato al dì successivo 25 aprile. Gino Rossini, il futuro sindaco di Cremona, quel mattino aveva letto il giornale. Uscendo di casa trovò Guido Miglioli il quale, ricatturato dopo una parentesi di vita alla macchia, viveva presso la famiglia della sorella e poteva, sotto la vigilanza di un agente, andare in giro per la città. Guido Miglioli convenne con Rossini che la situazione pei fascisti volgeva ormai alla catastrofe. Da questa convinzione e dal nobile desiderio di evitare stragi e spargimento di sangue alla città, l’impon- derabile desiderio che venne dal lato melodrammatico del carattere di Miglioli. 19
Quando egli era stato ricatturato dai lanzi della polizia repubblichina, fra lui e Farinacci c’era stato un colloquio le cui uniche tracce sono in un corsivo dello stesso Farinacci, pubblicato sul Regime agli inizi del ’45, il cui contenuto è diametralmente opposto al racconto che dell’incontro faceva Miglioli agli amici. Comunque sia, Miglioli, di sua iniziativa, prese su di sé l’incarico di chiedere un colloquio a Farinacci onde stabilire un accordo circa il passaggio dei poteri. Naturalmente Gino Rossini obiettò che il CLN nulla sapeva e che era necessario che esso deliberasse in proposito. Dello stesso parere fu Ottorino Rizzi, che era sopravvenuto in quel momento. Il Comitato di Liberazione si riunì quella mattina alle ore 11 in una sala dell’Associazione Mutilati, in via Beltrami. Oggetto primo all’ordine del giorno le trattative con Farinacci. Emilio Zanoni, già in separata sede di partito, aveva espresso a Rossini l’intempestività del passo che faceva apparire la Resistenza come disposta a compromessi in assoluto contrasto con le disposizioni date dal CLNAI. Ai nazifascisti non doveva essere lasciata altra scelta che la “resa senza condizioni”. Che si traduceva nella parola d’ordine “arrendersi o perire”. Il problema venne ampiamente ed a lungo discusso in sede di CLN. I rappresentanti del PSIUP, del PCI e del PDA sosten- nero che l’unica condizione da porre ai fascisti era la resa incondizionata. Anche gli altri partiti convennero che non c’era altra soluzione onorevole. A Guido Miglioli, che non aveva ancora ottenuto di parlare con Farinacci, venne comunicata quella deliberazione: il CLN accettava dai fascisti solo la resa senza condizioni. Il colloquio, ugualmente tenutosi tra Miglioli e Farinacci, non ha perciò altro sapore che quello di una melodrammatica pagina di storia romanzata vergata dall’impressionabile, se pur grande, sotto certi aspetti, ex deputato di Soresina. 20
La seduta del CLN si aggiornò al pomeriggio del 25 nello studio di Calatroni, in via Bertesi. Superato rapidamente lo scoglio del “pour parler” coi fascisti col colloquio Farinacci – Miglioli, su cui riferì Rossini, si passò a discutere di cose ben più importanti, cioè la preparazione dell’insurrezione in città. Giungevano le prime notizie, incerte e confuse, che già in talune zone della provincia i partigiani e i patrioti erano passati all’offensiva. In città l’insurrezione doveva mirare all’elimina- zione dei centri di resistenza fascista, all’occupazione degli uffici pubblici, alla liberazione dei detenuti politici nelle carceri, alla successiva instaurazione del nuovo potere ed all’applica- zione delle norme del CLNAI nei confronti dei fascisti dichiarati “criminali di guerra e comuni”. Restava il problema dei tedeschi di stanza nella città. Salvo il citato appostamento dei mortai in piazza S. Agata, essi non avevano preso particolari misure di emergenza. C’era la sensa- zione che, finché non fossero stati direttamente assaliti, essi si sarebbero disinteressati della sorte dei loro alleati. Il CLN, senza indugio, decise l’insurrezione generale della città per l’indomani 26 aprile alle ore 14. L’avviso si doveva dare, a mezzo delle staffette, alle SAP partigiane, già in allarmi ed armate, e alla popolazione col suono simultaneo a martello delle campane delle chiese cittadine. Il CLN in via Bertesi agiva già quasi liberamente, vi affluivano da ogni parte staffette, membri del comitato militare, rappresentanti dei partiti. Su proposta del rappresentante del PSIUP venne redatto un breve appello ai patrioti che, stampato al ciclostile, venne rapida- mente diffuso. Era così concepito: Patrioti di Cremona! Cittadini tutti! È giunta l’ora da tanto tempo sognata di impugnar le armi contro i traditori fascisti che hanno venduto l’Italia all’invasore, trucidando, rapi- nando, saccheggiando le tranquille popolazioni della zona. In Germania e in Italia le truppe alleate battono il nemico ormai in fuga disastrosa. In quest’ora grave e solenne il CLN di 21
Cremona rivolge ai partigiani, ai patrioti, a tutti i cittadini democratici l’appello di lotta e di concordia. L’insurrezione nazionale si accende in tutta Italia. Cittadini, alle armi contro i fascisti e contro i tedeschi! Viva il CLNAI! Viva l’Italia Libera! L’indomani, 26 aprile, ebbe così inizio la gloriosa insurre- zione. Nella sera e nella notte precedente le SAP, mobilitate dai rispettivi comandi, si erano raggruppate in località prestabilite in attesa di entrare in azione. Formazioni partigiane della provincia, specie della zona Vescovato – Isola Dovarese – Drizzona – Ostiano (Brigata Garibaldi “Cerioli” comandata da Arnaldo Uggeri e 2a Brigata Matteotti) che erano le meglio armate ed addestrate tra quelle a disposizione del Comando, iniziavano la marcia di avvicinamento alla città. La mattinata del 26 era grigia, fredda, nebbiosa. Circolavano ancora squadrette di fascisti in fuga che si guardavano d’attorno sospettosi, vedendo ovunque pericoli in agguato. Dal comando provvisorio delle Matteotti, cui si era aggre- gato l’esecutivo politico del partito sistemato in una villa a porta Venezia, il comandante Ottorino Frassi intimò per tele- fono al procuratore della rapubblica fascista, Pagnacco, di far immediatamente scarcerare i detenuti politici, tra cui c’erano uomini valorosi del periodo clandestino. Fu il primo ultimatum lanciato pubblicamente ad una autorità fascista. Una squadra partigiana fu inviata sul posto per appoggiare, con la forza se occorreva, l’intimazione. Le squadre patriottiche, prima ancora del segnale, entravano man mano in azione in tutta la periferia cittadina. Si è accennato alla prima scaramuccia coi fascisti avvenuta nel pomeriggio del 23 aprile nel popolare rione di S. Imerio. Oggi una lapide murata su “Casa Manini” ricorda l’avvenimento. Un maresciallo delle brigate nere volle resistere ad essere disarmato e venne abbattuto da una scarica di mitra. Sopravvenne, alla sparatoria, ancora una pattuglia fascista ma venne dispersa. In questa zona la SAP garibaldina, rafforzata da elementi patriottici che erano stati arruolati nell’esercito 22
repubblichino ed avevano disertato da qualche giorno con armi e bagagli, entrò in azione con decisione e sprezzo del pericolo. Attuò una serie di colpi di mano e di attacchi nell’ampia zona compresa tra via Altobello Melone, via Giordano e via del Sale. Anche le altre squadre patriottiche erano in movimento. Nella mattinata la SAP di Porta Po compiva un colpo di mano sulla caserma della polizia sistemata in via Colletta, davanti al distretto militare: un considerevole bottino di armi pesanti e munizioni veniva così messo a disposizione dei patrioti. Questa SAP si spostava poi lungo l’argine del Morbasco attendendo l’ora dell’attacco. Qualche sera prima la SAP dei ferrovieri matteottini aveva compiuto, guidata dal bravo Carlo Granata, un’azione contro un nucleo fascista sistemato nel ricovero dei vecchi a Castel- verde. Il nucleo si era arreso consegnando il materiale tra cui, con moschetti, munizioni e bombe a mano, c’erano due mitra- gliatrici pesanti Breda. Con infinite precauzioni le armi pesanti, smontate, furono introdotte in città. Una mitragliatrice andò a finire nella zona di S. Michele dove, nei giorni della lotta, tenne sotto il suo fuoco i tedeschi che cercavano di passare. L’altra fu a disposizione della SAP che si sistemò negli edifici della sta- zione ferroviaria. Notevole la SAP matteottina della [fabbrica] Cavalli e Poli che si era dotata di armi automatiche. Dal comando delle Garibaldi, sistemato in casa di Carlo Granata in via dei Platani, partivano le staffette per la mobili- tazione dei loro nuclei. Così Giustizia e Libertà e Fiamme Verdi mobilitavano i loro elementi. Un calcolo approssimativo, sulla base delle formazioni e nuclei esistenti in quel momento, porta ad una forza di 600-700 patrioti organizzati, nelle ore dell’in- surrezione si aggiungeranno ad essa altri elementi. Limiti e carenze tipici delle forze insurrezionali e clandestine sarebbero però emersi come serio handicap, non tanto contro i fascisti quanto contro i tedeschi. Questi erano fortemente armati ed 23
esperti veterani di tanti scontri, anche in agglomerati urbani. Per questo era necessario attendere rinforzi dalla provincia. A confronto con quelle del CLN, le forze nazifasciste erano imponenti. A Cremona il comando germanico disponeva di 150 – 200 uomini della Feldgendarmeria e di un distaccamento di SS cui si aggiungeva un continuo flusso di truppe in ritirata. Si aggiungeva la brigata nera “Augusto Felisari” con centinaia di militi, la GNR, le SS italiane. Nei centri maggiori del cremonese, poi, esistevano presidi tedeschi e fascisti che potevano all’occorrenza raggiungere celermente la città: 60 tedeschi a Piadena, 50 a Vescovato, 40 ad Ostiano, 150 uomini delle brigate nere nel distaccamento speciale di Voltido ecc. Se ci fosse stata resistenza fascista ad oltranza, molto sangue sarebbe stato sparso durante la libe- razione della città. Ma i repubblichini avevano perso – lo dimostrava la fuga disordinata di quei giorni – ogni volontà di morire per la loro causa. Si preoccuparono invece, lo dimostra- vano tentativi effettuati presso le banche cittadine, di avere a disposizione un po’ di milioni come viatico dei capi per i dubi- tosi tramiti della fuga. La mattina del 26 il CLN di Cremona era convenuto in casa di Gino Rossini, in piazza Castello. La riunione venne interrotta da una telefonata. Il “Capo della provincia” [denominazione del prefetto nella RSI, n.d.c.], Vincenzo Ortalli, aveva chiesto a Mons. Cazzani, arcivescovo della città, che lo si mettesse in comunicazione con rappresentanti del CLN. Il comando mili- tare, aggregato in quelle ore al CLN, delegò a rappresentarlo il tenente Ottorino Frassi, commissario delle brigate. Questi si recò immediatamente al palazzo vescovile, ove era fissato l’appuntamento. Era quivi un tenente colonnello della GNR che doveva accompagnare alla prefettura fascista la delegazione del CLN, composta da Ennio Zelioli, Ottorino Rizzi e dal citato Ottorino Frassi. 24
Nelle sale e nei corridoi del palazzo di via Vittorio Emanuele regnava una certa animazione, con gruppi di ufficiali della GNR e brigate nere che vi stazionavano chiacchierando sommessa- mente. La delegazione venne subito introdotta nell’ufficio del “Capo della provincia” fascista. L’avv. Vincenzo Ortalli da qualche mese deteneva ufficialmente nelle sue mani la somma dei poteri politici e militari, così come statuito da un decreto della Repubblica Sociale. Lo stesso Farinacci, formalmente, doveva seguire le sue direttive così come il 20° Comando Militare fascista. Quel mattino del 26 Ortalli doveva avere ben compreso la situazione. Le truppe alleate avanzavano a raggiera proce- dendo ovunque con punte corazzate. Le unità tedesche ripie- gavano in disordine, a nulla sarebbero servite sacche di resistenza. L’insurrezione era già vittoriosa a Genova, a Torino, a Milano. Era finita pel fascismo. Agli uomini del fascismo non restava che la via dell’accordo con quegli avversari che fino al giorno prima avevano trattato come banditi e fuorilegge. La discussione, fondata su questi elementi di fatto e sulla certezza nei rappresentanti della Resistenza che gli interlo- cutori non potevano che convenire per la resa senza condi- zioni, si svolse rapidamente e con una certa qual formale cortesia. Venne comunque interrotta da due incidenti. Il primo determinato dal comandante della XVII legione GNR, console Tambini, che entrò nell’ufficio gridando: “Perché trattare? Costoro ci fucileranno tutti!”. Vincenzo Ortalli fece allontanare l’esagitato. Egli forse presagiva che sarebbe caduto, come avvenne in provincia qualche giorno dopo sotto il piombo degli insorti [in quel di Soncino, n.d.c.]. Il secondo fu una telefonata di Roberto Farinacci che stava preparando la fuga in quei momen- ti. Gli astanti logicamente non sentirono le sue parole. Deposto il telefono il Capo della provincia disse: “era quell’asino (o qualcosa di simile) di Farinacci, se ne va… buon viaggio” (fatto raccolto da un testimone presente). 25
In effetti Farinacci, poco dopo mezzogiorno, partiva per sempre dalla sede del suo giornale su un’automobile carica di valigie e bauli. Lo accompagnavano l’autista, la segretaria dei fasci femminili, marchesa Medici del Vascello, e il redattore capo di Regime Fascista, Mario Mangani. Partiva da Cremona, dove aveva spadroneggiato per vent’anni e dove, negli ultimi venti mesi, aveva coscientemente appoggiato i più vili misfatti della tirannide nazista. Andava incontro al destino segnato dai mitra dei partigiani della Divisione fiume Adda, che lo avrebbero abbattuto, dopo regolare processo, nella piazza di Vimercate. Inconsape- volmente trascinava con sé a morte persone relativamente incolpevoli: l’autista e il redattore del suo giornale. Questi non furono fucilati ma caddero uccisi nella sparatoria dopo che la macchina non si era fermata all’ingiunzione di resa. Nello stesso frangente venne colpita a morte, e morirà la sera stessa all’ospedale, la marchesa Medici. Quella mattina, dopo Farinacci, anche lei aveva parlato al telefono con Ortalli per salutarlo, anche questo riferì il testimone. L’incontro con Vincenzo Ortalli si concluse con un accordo di massima. Il “Capo della provincia”, come supremo coman- dante delle forze fasciste, offriva la resa senza condizioni. I fascisti si sarebbero raccolti nel palazzo della rivoluzione e nella caserma Ettore Muti, situata in via Ettore Sacchi vicino alla chiesa di S. Pietro. I militi fascisti, non colpevoli di reati comuni o comunque non responsabili di fatti contrari al codice e all’ordinamento statale, sarebbero stati rispettati. I rappresentanti del CLN accettarono questo accordo che, sostanzialmente, equivaleva alla resa senza condizioni, pre- messa prima ed inequivocabile delle esigenze della resistenza cremonese. Terminata la missione, la delegazione si restituì al CLN clan- destino per rendere conto dell’operato e dell’accordo. D’altro canto non c’era una diversa via d’uscita. Con Farinacci si erano 26
allontanati i più faziosi settari del fascismo. Fuggivano anche i gregari, abbandonando armi ed equipaggiamenti in ogni angi- porto di casa e angolo di strada. Le pattuglie patriottiche nella mattinata si erano date ad azioni di disarmo in grande stile su quanti fascisti e tedeschi incontravano. Alla periferia i concentramenti partigiani riceve- vano rinforzi dalla provincia. Echeggiavano spari nella città fattasi muta e concentrata. Le vie centrali erano sgombre di fascisti. Verso le 13 la colonna Farinacci partiva dalla zona centrale. Fu un errore che non fosse stato predisposto un posto di blocco partigiano verso Porta Milano ché, altrimenti, il “ducetto” cremonese sarebbe stato colto nella stessa nostra città. L’ultimo nucleo fascista, disorganizzato e allarmato, appar- ve poco prima delle 14 all’angolo del palazzo delle Poste là dove, venti mesi prima, i bersaglieri avevano opposto resisten- za al tedesco. Un ufficialetto delle brigate nere minacciava la folla inerme con una pistola puntata. Colpi secchi della fucileria battevano già sui muri delle case della periferia. Scariche di mitraglia si avvertivano da case prospicenti i giardini pubblici. Alle 14, l’ora segnata dell’azione, le campane delle chiese si misero a suonare. Entravano le colonne partigiane dai posti di periferia dove si erano con- centrate. Dalle vie deserte, mentre scrosciavano colpi di fucile e raffiche di mitraglia, sbucavano su due file i nuclei patriottici. Con l’arma spianata, attenti ad ogni allarme, i partigiani della provincia e i giovani della città avanzavano. Risuonavano già gli applausi della gente che si faceva alle finestre e sui portoni. Mazzi di fiori e lacrime di gioia accoglievano i volontari della libertà che, finalmente, sbucavano dall’ombra per la reden- zione di Cremona. Qualche tedesco in fuga circolava nelle viuzze del centro, qualche automobile tedesca solcava gli ampi viali della periferia. I fascisti erano scomparsi dalla circolazione. La SAP 27
dei ferrovieri matteottini dalla stazione mosse all’assalto della vicina caserma Paolini. Nel corpo di guardia stavano ancora sei o sette briganti neri. Vennero rapidamente disarmati e lasciati partire. Carlo Granata, dello stesso gruppo di patrioti, partecipe e testimone di questa azione, racconta che nelle camerate della caserma furono trovati taluni dei cosiddetti “fidanzati della morte”. Questi, per sfuggire all’abbraccio della tanto deside- rata (a parole) “fidanzata morte”, si erano nascosti sotto montagne di materassi e di coperte da dove vennero snidati a calci dai partigiani. La resistenza fascista, quasi ovunque, era nulla. I “Pirgopolinice” della X mas, delle brigate nere, della guardia nazionale repubblicana, si nascondevano come topi di chiavica. Nella stessa villa Merli, dove alloggiavano sicari e seviziatori, non c’era più nessuno. Erano fuggiti attraverso case e giardini, dopo aver forato la muraglia e aperto un vero e proprio cunicolo, come nelle fortezze assediate del medioevo. Erano i più compromessi. Se fossero stati colti nella villa dal nucleo partigiano, di cui facevano parte elementi sottoposti a torture in quel luogo, certamente avrebbero pagato un prezzo elevato per i loro misfatti. Nella zona di Porta Venezia – S. Michele, oltre il crepitio delle fucilate contro ultimi nidi di resistenza fascista, si udiva il rombo pesante delle mitragliatrici partigiane che battevano le strade di arroccamento su cui passavano automezzi tedeschi. I nuclei patriottici di S. Imerio, arroccati presso le case popolari di via Giordano, affrontavano coraggiosamente pattuglie tedesche di passaggio. Si videro episodi di elevato patriot- tismo, sangue freddo e sprezzo del pericolo. Un giovane, dall’età apparente di 16 o 17 anni, si mise in mezzo alla strada col moschetto spianato intimando l’alt a una camionetta tedesca su cui erano cinque soldati con una mitragliatrice. L’automezzo si fermò all’audace imposizione, da ogni parte saltarono fuori i patrioti che disarmarono i soldati. 28
La SAP di Porta Po, dall’argine maestro del fiume dove si era posizionata, si avvicinava alla città con l’armamento recuperato nella mattinata. La stessa mattina era stato catturato dai tedeschi il comandante Ughini. Furono catturati anche Guido Percudani e Milanesi mentre, in macchina, cercavano di rag- giungere la formazione per collegarla con le altre forze del raggruppamento Ghinaglia – Garibaldi. Si erano imbattuti in un forte gruppo germanico che defluiva dal traghetto del Po. I due, minacciati in un primo momento di fucilazione immediata, vennero portati al comando tedesco posto nelle colonie pada- ne. Il giorno seguente vennero liberati grazie ad uno scambio di prigionieri pattuito tra il comando piazza partigiano e il co- mando germanico. Nelle tarde ore del 26 aprile la battaglia per la liberazione della città consisteva in una serie di scaramucce e scontri a fuoco contro gli ultimi nuclei fascisti asserragliati in qualche edificio e contro pattuglie tedesche in ritirata. Un nucleo tedesco si era arroccato in un edificio di viale Trento e Trieste essendo stato fatto oggetto del fuoco dei partigiani che presidiavano la caserma Paolini. Un nucleo di Fiamme Verdi, generosamente, cercò di snidare i tedeschi dall’improvvisato fortilizio. Morirono qui, da fortissimi eroi, due adolescenti: Bernardino Zelioli, figlio di Ennio, ed Attilio Barbieri, entrambi delle Fiamme Verdi. Come non ripetere col poeta del Risorgimento: “Oh della bella Ausonia – gigli defunti al crin”? Quella pattuglia tedesca veniva poi, dal fuoco dei partigiani ivi affluiti, costretta ad allontanarsi, con perdita di uomini e di materiali. Cadde alla stazione ferroviaria il matteottino Abramo Casaletti, ferroviere, mentre difendeva l’approccio della sta- zione contro una pattuglia germanica. In un cascinale della periferia, presso la Madonnina, si erano annidati fascisti emiliani, disposti a difendere fino all’ultimo una esistenza carica di delitti. All’assalto della posizione mosse un 29
nucleo garibaldino, comandato dall’eroico Bruno Ghidetti. Egli cadde mentre, allo scoperto, incitava i patrioti dirigendo contro i nemici il fuoco della sua arma automatica. Così combattevano e morivano, senza distinzione di partito, i giovani cremonesi animati dall’impulso possente della libertà e della patria italiana. Non è facile, a dieci anni di distanza, ricostruire, con le testimonianze dei viventi, una conseguente trama delle opera- zioni. Del resto sarebbe stato difficile anche allora, data la minuta frammentarietà dei fatti ed il repentino svolgersi degli eventi. Altri fatti avvenivano nei diversi rioni cittadini, oltre quelli menzionati. Le caserme periferiche e centrali erano già tutte cadute nelle mani dei patrioti. Nuclei di Giustizia e Libertà occupavano, per salvaguardarli da sabotaggi tedeschi, la centrale elettrica e quella dell’acqua potabile. Le Poste, la Prefettura e il Distretto Militare venivano pure occupati dai partigiani. In mano ai tedeschi rimaneva la zona, quasi neutrale per tacita convenzione, compresa fra Palazzo Trecchi e piazza S. Agata. In un primo tempo i tedeschi avevano proibito il transito per la piazza, poi, per un accordo con un nucleo partigiano, si erano ritirati sul lato di Palazzo Cittanova pur lasciando in mezzo alla via i mortai e le mitraglie. Forse anche qui si commise l’errore di non aver attaccato il comando prima delle 14, quando c’erano lì solo una decina di soldati. Presto però era stato richiamato dalle colonie padane un fortissimo nucleo germanico, con armi automatiche, a presidio di Palazzo Trecchi ed adiacenze. Molti fascisti reggiani erano stati disarmati nella mattinata, negli alberghi dove alloggiavano, da patrioti guidati da Alberto Callegari. I fascisti rimasti erano rinserrati nella caserma Muti e nel Palazzo della Rivoluzione. Anche i questurini della cosid- detta polizia repubblicana avevano abbandonato i locali dove, in veste di funzionari, avevano commesso tante nefandezze. Nel pomeriggio il CLN si era nuovamente trasferito nei locali 30
dell’Associazione Mutilati in via Beltrami. Affluivano qui le notizie, vi accorrevano le staffette. Era insediato accanto al CLN, pure esso in permanenza, il comando piazza partigiano, che doveva coordinare e dirigere l’azione e le formazioni. Il “Capo della provincia” Ortalli aveva concordato la resa senza la partecipazione del “commissario federale” Milillo, che comandava le brigate nere. I componenti di queste, ormai tremebondi, erano rinserrati nel Palazzo della Rivoluzione attorno al quale si stringeva il cerchio dei partigiani di Giustizia e Libertà, della Garibaldi e della Matteotti. Guidati da un parla- mentario Milillo, dal comandante del 20° comando fascista e da alcuni altri gerarchi di Salò, vennero al CLN ad offrire la resa. Cosa giusta sarebbe stata non accettarla e mettere al muro i fascisti responsabili di fucilazioni di patrioti e di altri crimini. La resa venne accettata con la riserva che i delitti sarebbero stati appurati dalla Corte di Assise straordinaria. Sulla base di questo accordo supplementare di resa anche gli ultimi nuclei fascisti organizzati nella città cedevano le armi. Gli ufficiali si consegnavano sul Vescovato a rappresentanti del comando piazza partigiano. Venivano poi condotti, assieme alla truppa fascista fatta prigioniera o arresasi spontaneamente, nei campi provvisori di concentramento: la caserma Muti a S. Pietro e la caserma S. Giorgio (“del diaol”) a Porta Romana. I prigionieri fascisti in mano partigiana superavano i 700. Molti altri si sarebbero spontaneamente consegnati nei giorni suc- cessivi. Terminava così, ingloriosamente, l’“epopea fascista” iniziata 24 anni prima. Il Palazzo della Rivoluzione, col relativo ripristinato “sacrario”, veniva occupato da forze partigiane. La grottesca e feroce dittatura fascista sprofondava nell’igno- minia della viltà dopo i lividi bagliori della barbarie con cui aveva cercato di sostenersi contro la volontà del popolo cremonese. Nel vespro e nella serata, fattasi nitida dopo un fosco tempo mattinale ed un breve acquazzone vespertino, echeggiavano fuochi di fucileria e di mitraglia. Nuclei volontari, 31
tra i quali si distinguevano i giovani della Brigata Curiel, stana- vano, dalle cantine e da isolati nascondigli, fascisti irriducibili o paurosi per i delitti commessi, costringendoli alla resa. Il CLN sedeva ancora all’Associazione Mutilati ed era alle prese coi mille e mille problemi sorgenti dalle circostanze. Ora la preoccupazione principale era la lotta contro i tedeschi, quelli racchiusi nel fortilizio del Trecchi e quelle truppe che, ormai trasformate in orde disordinate, affluivano ai traghetti e volevano passare il fiume per mettersi in salvo. La sera del 26 infatti vide il CLN impegnato in discussioni coi comandi tedeschi. Quella sera, per qualche ora, il CLN si era trasferito in prefettura, accanto al Prefetto della Liberazione già insediato. La mattina del 27 esso trasferì la propria sede nel palazzo di Cremona Nuova, dove c’erano lo stabilimento tipografico del Regime Fascista e l’abitazione privata e lo studio dell’ex gerarca Farinacci. Ironia della sorte: il Comitato pose la propria sede in quell’ufficio. Erano passati 22 anni e nove mesi dal giorno in cui le masnade fasciste erano penetrate brutalmente ed illegalmente nella Sala della Giunta del Palazzo Comunale per cacciarne gli eletti dal popolo. Ora il popolo, a mezzo dei suoi rappresen- tanti, si insediava nello sgominato quartier generale della vinta tirannide cremonese. Mentre la lotta contro i tedeschi, finalmente privi dei loro ausiliari, teneva occupati gli animi e le forze patriottiche, il CLN cominciava ad esercitare le funzioni che gli erano state dele- gate dal governo legittimo di Roma. In applicazione dei relativi decreti, pubblicati su Fronte Democratico, in Comune si insediava l’amministrazione democratica del CLN, così avveniva in Questura e in tutti gli altri uffici, secondo il programma concordemente predisposto in periodo clandestino. Con decreto del CLN venivano chiuse le scuole, onde non esporre i ragazzi ai pericoli della guerra ancora in corso. Chiuse anche le banche ed altri uffici non indispensabili. L’onere 32
dell’ordine pubblico veniva assunto dal comando di piazza. Nelle caserme cittadine erano sistemati i partigiani delle varie brigate, con gli insurrezionalisti che ad esse si erano aggregati, comprese quelle giunte dalla provincia a marce forzate. Le brigate Matteotti erano nel centro scolastico Capra, Giustizia e Libertà con le Fiamme Verdi nella caserma Manfredini, le Ghinaglia- Garibaldi in prevalenza nella “caserma del diavolo”, posta sotto il comando del bravo Giuseppe Marabotti. Il comando piazza si era sistemato nei locali del Distretto Militare in via Colletta. Pattuglie partigiane continuavano a battere le vie della città per tutta la notte del 26 e la giornata del 27, in regolare servizio di vigilanza. Così forti posti di blocco partigiani, ora muniti di armi pesanti ed automatiche, attaccavano con puntate improv- vise e colpi di mano le piccole pattuglie tedesche in transito. Come aveva ordinato la radio alleata, elementi di Giustizia e Libertà avevano esposto sul torrazzo una grande bandiera bianca. Significava che la città era ormai in mano ai patrioti. Ben presto questa bandiera veniva sostituita da quella tricolore che, come nei momenti più drammatici della storia di Cremona, sventolò libera e solenne dalla gran torre, a salvaguardia e conforto di tutti i liberi cittadini cremonesi. Il 27 aprile 1945 usciva il giornale della Liberazione: Fronte Democratico - organo del Comitato di Liberazione Nazionale di Cremona. Recava in apertura il proclama e saluto del CLN ai cremonesi. Tale proclama, redatto dal prof. Giulio Grasselli, era volutamente moderato nei termini e calcava, forse un po’ troppo, la mano su un avvenire di stenti, miserie e lavoro che attendeva la nazione. Certamente era ciò che si prevedeva, ma forse in quell’ora ci sarebbe voluto un maggior impeto di forza e di indignazione contro i nazifascisti, sconfitti sì ma dentro di sé non ancora domi. La comparsa del giornale quotidiano e subito dopo dei primi settimanali di partito (L’Eco del partito socialista reca, sul primo 33
numero del dopoguerra, la data del 29 aprile) fu salutata dal più vivo entusiasmo popolare. L’aborrito giornale fascista ave- va finalmente cessato di stamburare le sue fandonie, i suoi insulti, le sue urlate invettive. Usciva un quotidiano, modesto nella forma, improvvisato sulle notizie, con una seconda pagina occupata per metà da una grande scritta: “W l’Italia libera! W i patrioti”. Nella solennità dell’ora venne accolto con inusato successo, decine e decine di migliaia di copie furono diffuse e vendute in poche ore. Quel giorno sopravvenne a Cremona la prima camionetta alleata, con due giornalisti che si recavano a Milano. Ora tutto il popolo cremonese, come nella tradizione del ’48 e del ’59, era sulle vie e sulle piazze, anche se dalle zone periferiche giungevano ancora all’orecchio raffiche di mitraglia e il rumore di aerei alleati ancora in caccia di automezzi germanici. Scontri coi tedeschi continuavano ancora in tutta la provincia. Per disposizione del CLNAI, trasmessa mesi prima al CLN provinciale, si riuniva frattanto il tribunale di guerra della Divi- sione partigiana Cremona, composta da tutte le formazioni patriottiche della provincia. Nove fascisti rastrellatori e spie, rei della morte di patrioti, venivano condannati a morte. Alla pena capitale venivano condannati anche tre elementi della locale Questura, responsabili di sevizie e torture ai danni di partigiani caduti in loro mano. Venivano condannati a morte in contu- macia anche i dirigenti del famigerato Ufficio politico della GNR. Dodici di questi tristi arnesi venivano pertanto passati per le armi nella “caserma del diavolo”. Un’altra spia veniva fucilata in piazza Marconi. Altre poche fucilazioni di fascisti, sempre sulla base di un regolare processo, venivano eseguite in altri centri della provincia. Comprese alcune “dispersioni”, il numero dei fascisti giustiziati non superò i 40. I capi maggiori del fascismo cremonese giustiziati dai patrioti fuori provincia furono: Farinacci a Vimercate, il console Tambini nei pressi di 34
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