Bandiere sul torrazzo. Aprile 1945: i giorni della liberazione di Cremona - Comune di Cremona, ANPI, ANPC Associazione Emilio Zanoni, Archivio di ...

Pagina creata da Nicola Tedeschi
 
CONTINUA A LEGGERE
Bandiere sul torrazzo. Aprile 1945: i giorni della liberazione di Cremona - Comune di Cremona, ANPI, ANPC Associazione Emilio Zanoni, Archivio di ...
Bandiere sul torrazzo.
Aprile 1945: i giorni della liberazione di Cremona

         Comune di Cremona, ANPI, ANPC
   Associazione Emilio Zanoni, Archivio di Stato di
   Cremona nel 70° anniversario della Liberazione
Testi a cura di Giuseppe Azzoni
Foto di copertina dall’archivio fotografico ANPI di Cremona

Stampato nella Tipografia…, aprile 2015
PRESENTAZIONE DEL SINDACO

                            3
4
5
Immagine?

6
NOTA DEL CURATORE

Si presentano in queste pagine, nel settantesimo anniversario
della Liberazione e della fine della seconda guerra mondiale,
alcune essenziali documentazioni relative agli avvenimenti di
fine aprile 1945 nella nostra città. Sono riportati: il testo del
patto tra le principali forze politiche del CLN cremonese; il
racconto scritto 10 anni dopo da Emilio Zanoni che era stato
all’epoca membro del CLN; il resoconto del Sindaco della
Liberazione, Bruno Calatroni; le parti riguardanti la città dai
diari storici delle brigate partigiane; il Proclama del CLN ai
cittadini pubblicato il 27 aprile 1945. Seguono alcune notizie
integrative. Le fonti, tutte consultabili, sono indicate nelle brevi
annotazioni iniziali.
Presentando il racconto di quegli eventi, così decisivi per il
futuro della nostra città, scritto ad opera di chi ne fu protago-
nista, non dimentichiamo l’avvertimento del grande Fernand
Braudel sulla “storia ancora bruciante quale i contemporanei
l’hanno descritta e vissuta. Al ritmo della loro vita essa ha le
dimensione delle loro collere, dei loro sogni e delle loro
illusioni”. Pertanto abbiamo presenti le visioni di parte, le inevi-
tabili lacune, le possibili contraddizioni di testi come questi. Ma
ancor prima abbiamo ben presente che essi sono il portato di
chi ha contribuito, rischiando di persona, a restituire la libertà
alle generazioni successive, che essi sono ricchi di informazioni
quali nessun altro poteva darci, che essi ancora ci colpiscono
per i valori che ci trasmettono.

                                                  Giuseppe Azzoni

                                                                  7
Immagine?

8
PATTO D’UNITÀ D’AZIONE

A Cremona, durante la lotta di liberazione, venne sottoscritto un
documento unitario tra i partiti socialista, comunista e democratico
cristiano. La sua grande rilevanza, sia sul piano operativo che per i
valori condivisi, è desumibile dalla stessa lettura ed è anche sotto-
lineata dal fatto che lo si ritrova in un rapporto informativo di Pietro
Secchia da Milano a Palmiro Togliatti (pubblicato in Luigi Longo, I
centri dirigenti del PCI nella Resistenza, Roma 1973). Il documento è
anche ripreso integralmente in AAVV, Quarant’anni dopo, ANPI
Cremona 1986 ed in altre pubblicazioni. Nei testi pubblicati non c’è la
data, viene accreditato per il 1944 nel volume dell’ANPI cremonese,
mentre Pietro Secchia scrive in data 30.3.1945: “È stato realizzato in
questi giorni a Cremona un accordo del quale riporto il testo”. Ecco di
seguito il testo integrale.

A tutti i compagni socialisti e comunisti ed ai membri del partito
democristiano si dà preciso incarico di dare la massima diffu-
sione a questo importante documento e di far in modo che il
“Patto d’Unità d’Azione” diventi fattore di collaborazione
concreta ed attiva tra i tre grandi partiti di massa del popolo
italiano anche nella nostra provincia. Il Comitato d’Unità
d’Azione dei tre Partiti.

I dirigenti delle Federazioni della provincia di Cremona dei tre
grandi partiti di massa del popolo italiano: Partito Socialista,
Partito Democratico Cristiano e Partito Comunista, riconosciuta
unanimemente la necessità dell’unità di tutte le forze anti-
fasciste e di tutto il popolo nella lotta contro l’invasore tedesco
e i traditori fascisti perché vedono solo in questa unità la
garanzia della vittoria, si sono riuniti per stabilire un piano di
lotta comune e di collaborazione duratura.
La divisione fra le correnti marxiste e quelle cattoliche nel
movimento operaio e nel più vasto movimento popolare è
stata una delle cause che hanno portato il fascismo al potere.
L’unione di tutte le forze progressive è condizione della libertà
                                                                      9
ed i tre partiti vogliono superare le incomprensioni e le divisioni
del passato in una sincera e fattiva collaborazione. I partiti
Comunista, Socialista e Cattolico sono alleati nel C.L.N.
Questa alleanza, che deve essere mantenuta e rafforzata oggi
nella lotta di liberazione e domani nell’opera di ricostruzione, è
essenziale per i rapporti fra i tre partiti, ma non abbraccia tutti
gli aspetti della loro collaborazione.
L’unione che si è stabilita nella lotta di liberazione deve
sussistere sul terreno della ricostruzione democratica del
nostro paese nell’attuazione di una democrazia progressiva
che non abbia altro limite che la volontà del popolo, attraverso
la libera elezione ed anche attraverso le libere organizzazioni
delle grandi masse popolari.
Ma il problema più urgente è oggi quello della lotta di libera-
zione per la cacciata del nazifascismo ed è per questo scopo
essenziale che cattolici, comunisti e socialisti nella provincia di
Cremona, lottando uniti, si impegnano a fare ogni sforzo:
1) per organizzare, sostenere e sviluppare la lotta del Corpo
    Volontari della Libertà collaborando nel Comando Unificato
    e coordinando l’attività delle loro formazioni per il fonda-
    mentale scopo della liberazione del Paese;
2) per rendere più attiva la collaborazione in seno al Comitato
    di Liberazione Nazionale provinciale mediante accordi preli-
    minari e per contribuire alla costituzione in ogni comune
    della provincia dei CLN periferici, strumenti essenziali della
    nuova democrazia italiana;
3) per sviluppare sul piano sindacale la lotta per il miglio-
    ramento delle condizioni di vita delle masse lavoratrici
    operaie, contadine, impiegatizie; per la difesa delle risorse
    alimentari e del patrimonio nazionale, rifiutando il grano agli
    ammassi fascisti ed impedendo l’esportazione del macchina-
    rio in Germania; per sviluppare l’azione delle masse contro le
    deportazioni, le sopraffazioni e le violenze dei nazifascisti. Si
    provvederà a tale scopo alla costituzione di un Comitato

10
Sindacale provinciale paritetico e di Comitati d’Agitazione
   periferici sostenendo sempre l’unità del movimento sinda-
   cale;
4) per collaborare nella difesa degli interessi delle grandi masse
   popolari e nell’applicazione integrale, per quanto concerne
   l’amministrazione della provincia, dei principi della democra-
   zia progressiva, garantendo a tutti i raggruppamenti politici,
   sociali, religiosi libertà di stampa, di organizzazione, di
   parola, di riunione, di culto, all’atto della liberazione del
   Paese;
5) per contribuire al consolidamento e alla attivazione degli
   organismi di massa: Fronte della Gioventù, Gruppi di difesa
   della Donna, Comitati dei Contadini, cui parteciperanno
   senza distinzioni elementi di tutti i partiti, o senza partito,
   ma ove i membri dei tre partiti potranno trovare il piano
   comune per una più stretta collaborazione.
La fraternità che si raggiunge oggi nella lotta deve trasformarsi
in durevole unità d’intenti e d’azione: solo così i tre partiti
contribuiranno a rinforzare profondamente la vita sociale,
politica e culturale della provincia e, sulla base delle grandiose
tradizioni di lotta del movimento popolare cattolico, socialista
e comunista nelle campagne della provincia, confermando che,
uniti nella lotta e nella ricostruzione, sapranno spezzare defini-
tivamente ogni resistenza del nazifascismo ed impedire qua-
lunque tentativo di ritorno al potere delle correnti fasciste e
reazionarie ed instaurare un regime di democrazia popolare
progressiva in una Italia libera ed indipendente.

     La Federazione Cremonese del Partito Socialista Italiano
     La Federazione Cremonese del Partito Comunista Italiano
     La Direzione del Partito Democristiano per la Provincia di
     Cremona.

                                                                11
EMILIO ZANONI
       IL CROLLO DEL FASCIMO IN CITTÀ. CREMONA LIBERA!

Viene qui integralmente trascritto, con il titolo originale, il XXI capitolo
de Il movimento cremonese di Liberazione nel secondo Risorgimento
– Saggio storico di Emilio Zanoni, scritto nel 1955. Il dattiloscritto,
inedito ma già utilizzato come fonte in alcuni suoi passaggi, è depo-
sitato in Archivio di Stato, Fondo carte Zanoni.
Emilio Zanoni, che fu sindaco della città nel decennio 1970- 80, all’epoca
era dirigente del Partito socialista clandestino e membro del CLN. Sono
state operate alcune minime modifiche meramente formali.

    La sensazione chiara, precisa, irreparabile della débacle nazi-
fascista si ebbe a Cremona a cominciare dal pomeriggio del 22
aprile 1945.
    Da una decina di giorni il fronte meridionale dell’ottava
armata britannica e della prima americana si era messo in movi-
mento, prima con formidabili concentramenti di fuoco sulle
posizioni difensive tedesche in Romagna a sud di Bologna e
nella zona della Garfagnana, poi con puntate di assaggio ope-
rate da colonne corazzate. Divisioni italiane potentemente
armate (fra esse il “gruppo di combattimento Cremona”) colla-
boravano con gli alleati.
    La battaglia per la Germania era sul declinare. I russi com-
battevano fra le case di Berlino, le armate angloamericane,
superato il Reno, si spingevano nel cuore stesso della Germania
frantumando a colpi di ariete le disperate difese della Wehr-
macht, dei raccogliticci “granatieri del popolo”, e le insidie dei
così detti “lupi mannari”. La seconda guerra mondiale, dopo la
distruzione dell’apparato offensivo germanico, mirava ora
all’abbattimento degli ultimi vestigi di resistenza organizzati,
con la forza dell’esasperazione, dai più accaniti corifei dell’or-
dine nuovo.
12
Sul fronte italiano l’iniziata battaglia doveva portare
all’annichilimento totale dell’esercito tedesco qui dislocato, per
impedirgli di recare un contributo all’estrema difesa del balu-
ardo alpino concepito da Hitler, forse più nei vaneggiamenti dei
sogni che nella praticità dei piani, come ultimo riparo dei più
fanatici nazisti e delle divisioni SS.
    Il piano alleato era diretto a questo scopo: sfondare il
fronte tedesco in Italia e precedere, con rapidissima puntata
attraverso il Veneto, il nemico in ritirata per distruggerlo e
impedirgli di riportare al Brennero truppe organizzate, anche
se sconfitte.
    La funzione che i partigiani italiani dovevano svolgere era,
oltre a quella di abbattere lo staterello nazista di Mussolini,
impedire ai tedeschi di sganciarsi, attaccarli in tutti i modi,
distruggerli o costringerli alla resa. Le punte corazzate della VIII
armata, dopo alcuni giorni impiegati nello sfondamento del
settore adriatico della linea gotica, si erano affacciate sulla
pianura emiliana, lembo estremo della gran pianura che “da
Vercelli a Marcabò dichina”.
    Con l’operato sfondamento tutto il fronte tedesco entrò in
crisi. L’alto comando germanico, per le solite questioni di
prestigio, aveva voluto mantenere un fronte amplissimo, dalle
Alpi alla Liguria e poi dal Tirreno, attraverso tutta la penisola,
fino all’Adriatico. La frattura in un sol punto minacciava tutto lo
schieramento, con illimitate possibilità di accerchiamento e col
tremendo peso dei bombardamenti aerei alleati pronti a frantu-
mare qualsiasi concentramento, qualsiasi nodo di comunica-
zione, qualsiasi sbarramento difensivo.
    Ne seppe qualcosa la divisione germanica che, ritirandosi
dal fronte, si era attestata proprio in quei giorni sulla riva del
Po, dirimpetto a Cremona, tra i vestigi del ponte in ferro
distrutto e il primo baracchino. Essa attendeva che il Genio
Militare ripristinasse il ponte in barche per il passaggio, quando
venne presa sotto il fuoco poderoso di una formazione aerea

                                                                 13
alleata. Invano i reparti germanici coi loro carriaggi cercarono
di mimetizzarsi tra gli ancor folti boschi della riva. La tempesta
di fuoco distrusse e bruciò uomini, materiale, autocarri, bestie
da soma.
    I tedeschi, impazziti per il panico, si gettarono a nuoto o con
mezzi di fortuna nelle acque infide del fiume. Annegarono a
centinaia. La divisione germanica, salvo pochi fuggiaschi, venne
letteralmente distrutta e in ciò, forse, fu fortuna per Cremona
chè, altrimenti, essa si sarebbe schierata sul Po a difesa del
transito dei sopravenienti reparti in ritirata.
    Affacciandosi alla pianura padana, l’ottava armata si
apprestò a vibrare i colpi risolutivi alle sconfitte divisioni
tedesche. Reparti celeri, tra cui formazioni italiane dell’esercito
regolare e dei partigiani del ravennate, sfondarono, oltre il Po,
verso la pianura veneta. Altri reparti, occupata Bologna, si
spinsero verso il cuore dell’Emilia. Formazioni celeri anglo-
americane puntavano verso Mantova per investire da questo
lato la Lombardia.
    Siamo dunque alle estreme battute della guerra. Come si
diceva, la percezione chiara della disfatta nazifascista si ebbe a
Cremona nel pomeriggio del 22 aprile. Ancora il giorno prima,
21 aprile, annuale di Roma, i fascisti, incorreggibili nella retorica
imperiale, si erano riuniti a udir la concione di Farinacci. Il quale
il dì di Pasqua aveva scritto sul Regime: “Con Cristo risor-
geremo”. Come se Cristo assistesse i nemici e persecutori del
popolo!
    Nel meriggio del 22 la scena improvvisamente mutò. Com-
patibilmente con gli allarmi, che ormai duravano mezze
giornate e non si capiva più se la sirena suonava l’inizio oppure
la fine delle incursioni, era un pomeriggio calmo, assolato, di
quella particolare quietudine che, in questa stagione, mette
solitamente languore in corpo e pacata tristezza nell’anima.
    Cominciarono a giungere in città le prime bande fuggiasche
dei fascisti incalzati alle spalle dalle formazioni partigiane. Era

14
giunto il giorno della giustizia! I rastrellatori si mutavano in
rastrellati. Stanchi, affannati, coperti di polvere, su biciclette
rapinate ai cittadini, eran giunti in città i fuggiaschi dell’Emilia.
Era la ramazzaglia delle bande nere, la feccia del repubbli-
chinismo fascista. Deposta dal volto l’usata minaccia, entra-
vano negli esercizi pubblici a calmare l’arsura della strozza da
cui non uscivano che bestemmie ed imprecazioni all’indirizzo
dei capi paurosi e traditori.
    Molti di queste canaglie si erano sdraiati sotto gli alberi, sul
verde delle aiuole dei giardini, bivaccando stancamente in
attesa di chissà quali ordini. Gli anziani, al vederli, ricordavano
che proprio negli stessi luoghi gli squadristi si erano ammassati
ai bei giorni della mobilitazione per la marcia su Roma.
    Erano questi i “fascisti poveri”, il gregge armentizio portato
allo sbaraglio e al crimine per propensione propria e per sug-
gestione di capi. Cominciavan anche a circolare automezzi e
macchine carichi di fascisti più “fortunati” i quali, armati di
moschetti e di mitra, guardavano in cagnesco la folla come se
presagissero l’insurrezione anche qui imminente.
    La notte dal 22 al 23 aprile non apportò alcun mutamento
nella situazione in città. In quelle prime ore dell’alba le forma-
zioni partigiane del casalasco, ricevuti avvisi certi dalla sponda
emiliana, già si muovevano all’occupazione delle caserme e
all’azione. Già dai campanili della zona le campane, battute a
martello, davano il segnale della lotta iniziata. La città era
tranquilla. Si notava un accresciuto afflusso di fuggiaschi e un
continuo movimento di reparti tedeschi lungo le strade di
circonvallazione. Tratto tratto le sirene suonavano il segnale di
allarme grande. Ma nessuno vi badava.
    Il Regime fascista uscì regolarmente come al solito in un
foglio solo, con le notizie di guerra secondo le quali, anche se
Hitler era già nel bunker pronto per il rogo, le sorti non erano
ancora del tutto perdute. La federazione dei fasci repubblichini

                                                                  15
era ancora aperta ai camerati di oltrepo. In complesso un simu-
lacro di ordinaria amministrazione alla vigilia del crollo.
    Nel pomeriggio del 23, verso le ore 17, il CLN provinciale si
riunì nello studio dell’avv. Calatroni, in via Bertesi. Da Milano,
col corriere del PSIUP, erano arrivate le direttive da seguire per
l’insurrezione generale. Le norme contenute nella circolare
furono attentamente esaminate e discusse. Riguardavano le
disposizioni sulla tattica da seguire nel campo pratico:
occupazione degli edifici pubblici; presa del potere; provve-
dimenti da adottare contro i fascisti prigionieri; provvidenze a
favore della popolazione; disposizioni sull’ordine pubblico;
segni di riconiscimento dei patrioti per l’insurrezione. In quella
seduta si deliberò l’allargamento del CLN a due rappresentanti
per partito in luogo di uno solo come fino allora la tattica
clandestina aveva consigliato. Il segno di riconoscimento degli
insorti, esclusi naturalmente quelli propri di ogni formazione,
doveva essere una fascia tricolore con stampigliate le sigle
C.L.N. L’incarico di preparare i contrassegni venne preso dal
delegato del partito socialista. Per due notti consecutive donne
patriote confezionarono i distintivi adottati per la battaglia.
    Uscendo da quella seduta del CLN (da allora il massimo
organo provinciale per la Liberazione sedette praticamente in
permanenza) taluni membri ebbero la chiara sensazione che le
cose potessero precipitare da un momento all’altro.
    I primi spari dell’insurrezione in città si erano uditi in quel
pomeriggio, provenienti dal popolare rione di S. Imerio, come
si vedrà in seguito. Qui giovani arditi erano già in azione.
    Verso piazza Castello e lungo l’attuale via Ghinaglia sfilava
una formazione di “bande nere” diretta alla stazione del
trenino per Edolo. Probabilmente defilavano, secondo i piani di
Graziani e Pavolini, verso la linea arretrata di difesa estrema.
Con quelle truppe però i gerarchi di Dongo non sarebbero
sfuggiti alla loro sorte, anche se fossero arrivate e non invece
fermate, come avvenne nei pressi di Soncino, dall’insurrezione.

16
Demoralizzati e in preda al panico, gli squadristi delle bri-
gate nere vedevano già ovunque agguati e partigiani. Lo
sbattere improvviso di una porta, nel silenzio della strada
creato dal loro passaggio mentre mille volti maledicenti li
spiavano dalle imposte socchiuse, o un colpo d’arma da fuoco
inavvertitamente esploso da qualcuno dei briganti in prima fila,
accese improvvisamente una sparatoria come di plotone.
Nascosti negli angiporti delle case, dietro gli spigoli, gli eroici
“fidanzati della morte” sparavano alla cieca, all’aria, contro un
nemico immaginario che si sentivano alle calcagna. Non c’era
ancora il nemico, era rappresentato da tutto un popolo,
impersonificato in quei giovani che in quelle ore scavavano
febbrilmente in cantina le armi nascoste, contavano le car-
tucce, oliavano mitraglie sottratte al vecchio esercito,
parlottavano col capodistaccamento per preparare l’azione da
svolgere.
    Anche il 24 aprile trascorse in città calmo e tranquillo, con
una situazione di demoralizzazione fascista sempre più
evidente. Di nuovo c’era che in piazza S. Agata, là dove nel ’48
alla Gran Guardia stavano due pezzi di artiglieria con le micce
accese, oggi erano stati collocati, a protezione del comando
tedesco di palazzo Trecchi, quattro mortai con la bocca rivolta
due verso corso Campi e due verso S. Luca.
    L’accresciuto via vai di fuggiaschi dell’Emilia, il muoversi più
concitato di staffette e di pattuglie germaniche accresceva la
tensione e l’attesa di prossimi avvenimenti. Il bollettino di
guerra alleato dava per imminente la liberazione di Mantova.
C’era anche in una parte della cittadinanza qualche timore che i
fascisti mettessero in atto quanto una truculenta campagna di
Farinacci aveva minacciato a parole: una difesa “colle unghie e
coi denti” della pianura padana ed azioni di rappresaglia. I
truculenti propositi, le orripilanti divise, gli arsenali ambulanti
delle brigate nere avevano impressionato certuni i quali non
pensavano che i fascisti si sarebbero eclissati al primo compa-

                                                                 17
rire di un fazzoletto partigiano o al lontano rombo di una jeep
degli alleati. Sta di fatto che i più attenti osservatori poterono
accorgersi che in quelle ore, come ai tempi del delitto
Matteotti e del 25 luglio, molti distintivi metallici col fascio
repubblicano sparivano dall’occhiello delle giacche. Non si
vedevano più in giro le famose “ausiliarie” ed i “sacerdoti di
don Calcagno” si erano messi in abito secolare.
    Nessuna notizia sicura è possibile avere circa la proget-
tazione di piani di resistenza fascista in città, data la scomparsa
di tutti gli atti dei principali organismi e dei maggiori dirigenti
repubblichini locali. Tuttavia, data la direzione presa dai
fuggiaschi verso le montagne del bresciano e la stessa fuga
posteriore di Farinacci, è possibile ritenere che l’unico piano
adottato, se non realizzato, dal fascismo repubblichino cremo-
nese fu quello della fuga generale verso la zona montana.
Anche in questo i fascisti rimasero vittime della loro stessa
propaganda. A forza di ripetere che i partigiani erano stati
schiacciati ed altri non ne sarebbero sorti, si persuasero che
fosse così in realtà. Nella loro fuga caddero perciò dalla padella
nella bragia ed andarono ad offrirsi, fuggendo come un branco
di stambecchi, al piombo della giustizia partigiana scesa dai
monti e sorta in pianura dalle tombe dei gloriosi caduti.
    Indubbiamente ci furono in giornata “consigli di guerra” tra
il gruppo dirigente neofascista (Farinacci, Ortalli, Milillo ed
alcuni altri) ed il comando militare provinciale. I tedeschi, così
come avvenne a Dongo con Mussolini, si tennero in disparte.
Dopo aver spremuto il limone dei loro alleati, si disinte-
ressavano della loro sorte occupandosi unicamente della,
anche per loro, non troppo felice situazione. Roberto Farinacci
aveva da parecchio tempo compreso che la sorte era segnata.
Aveva persistito fino all’ultimo, come tratto dalla voragine di
una forza superiore.
    Quella sera, nella sede del Regime Fascista, egli parlò
chiaramente ad una commissione di operai che gli chiedeva

18
della situazione, preoccupata della sorte dello stabilimento
tipografico che avrebbe forse potuto essere distrutto dai
tedeschi o da fascisti esasperati. Disse che la situazione per i
fascisti era ormai disperata. Diede disposizioni perché del
milione e più di lire depositate nella cassa del giornale, una
parte servisse a pagare una mensilità agli addetti. Trattenne il
resto per la sua fuga imminente. Quindi si trasferì nel suo
studio. Dove per mesi e anni aveva, con una perseveranza
degna di più nobile causa, speso la sua attività a scrivere feroci
articoli contro avversari vinti, a studiare i mezzi onde arrivare a
posizioni di maggior rilievo.
    In questo studio egli scrisse l’articoletto “Ai cremonesi” che
comparve il giorno seguente su Regime Fascista, nell’ultimo
giorno di vita dello sporco libello. Sostanzialmente si trattava di
un appello ai cremonesi perché, nell’eventualità della fuga
fascista ormai stabilita, si astenessero da atti ostili contro i
fascisti rimasti e le loro famiglie. Conscio dei metodi fascisti di
rappresaglia contro le famiglie dei patrioti, egli riteneva che i
suoi avversari fossero della stessa natura morale e si vendi-
cassero su persone incolpevoli dei soprusi subiti. Lo scritto di
Farinacci comparve dunque alle stampe la mattina del 25 aprile.
    Il Comitato di Liberazione, dopo una breve riunione nel
pomeriggio del 24, si era aggiornato al dì successivo 25 aprile.
Gino Rossini, il futuro sindaco di Cremona, quel mattino aveva
letto il giornale. Uscendo di casa trovò Guido Miglioli il quale,
ricatturato dopo una parentesi di vita alla macchia, viveva
presso la famiglia della sorella e poteva, sotto la vigilanza di un
agente, andare in giro per la città. Guido Miglioli convenne con
Rossini che la situazione pei fascisti volgeva ormai alla
catastrofe. Da questa convinzione e dal nobile desiderio di
evitare stragi e spargimento di sangue alla città, l’impon-
derabile desiderio che venne dal lato melodrammatico del
carattere di Miglioli.

                                                                19
Quando egli era stato ricatturato dai lanzi della polizia
repubblichina, fra lui e Farinacci c’era stato un colloquio le cui
uniche tracce sono in un corsivo dello stesso Farinacci,
pubblicato sul Regime agli inizi del ’45, il cui contenuto è
diametralmente opposto al racconto che dell’incontro faceva
Miglioli agli amici. Comunque sia, Miglioli, di sua iniziativa,
prese su di sé l’incarico di chiedere un colloquio a Farinacci
onde stabilire un accordo circa il passaggio dei poteri.
Naturalmente Gino Rossini obiettò che il CLN nulla sapeva e
che era necessario che esso deliberasse in proposito. Dello
stesso parere fu Ottorino Rizzi, che era sopravvenuto in quel
momento.
     Il Comitato di Liberazione si riunì quella mattina alle ore 11 in
una sala dell’Associazione Mutilati, in via Beltrami. Oggetto
primo all’ordine del giorno le trattative con Farinacci. Emilio
Zanoni, già in separata sede di partito, aveva espresso a Rossini
l’intempestività del passo che faceva apparire la Resistenza
come disposta a compromessi in assoluto contrasto con le
disposizioni date dal CLNAI. Ai nazifascisti non doveva essere
lasciata altra scelta che la “resa senza condizioni”. Che si
traduceva nella parola d’ordine “arrendersi o perire”.
    Il problema venne ampiamente ed a lungo discusso in sede
di CLN. I rappresentanti del PSIUP, del PCI e del PDA sosten-
nero che l’unica condizione da porre ai fascisti era la resa
incondizionata. Anche gli altri partiti convennero che non c’era
altra soluzione onorevole. A Guido Miglioli, che non aveva
ancora ottenuto di parlare con Farinacci, venne comunicata
quella deliberazione: il CLN accettava dai fascisti solo la resa
senza condizioni.
    Il colloquio, ugualmente tenutosi tra Miglioli e Farinacci,
non ha perciò altro sapore che quello di una melodrammatica
pagina di storia romanzata vergata dall’impressionabile, se pur
grande, sotto certi aspetti, ex deputato di Soresina.

20
La seduta del CLN si aggiornò al pomeriggio del 25 nello
studio di Calatroni, in via Bertesi. Superato rapidamente lo
scoglio del “pour parler” coi fascisti col colloquio Farinacci –
Miglioli, su cui riferì Rossini, si passò a discutere di cose ben più
importanti, cioè la preparazione dell’insurrezione in città.
    Giungevano le prime notizie, incerte e confuse, che già in
talune zone della provincia i partigiani e i patrioti erano passati
all’offensiva. In città l’insurrezione doveva mirare all’elimina-
zione dei centri di resistenza fascista, all’occupazione degli
uffici pubblici, alla liberazione dei detenuti politici nelle carceri,
alla successiva instaurazione del nuovo potere ed all’applica-
zione delle norme del CLNAI nei confronti dei fascisti dichiarati
“criminali di guerra e comuni”.
    Restava il problema dei tedeschi di stanza nella città. Salvo il
citato appostamento dei mortai in piazza S. Agata, essi non
avevano preso particolari misure di emergenza. C’era la sensa-
zione che, finché non fossero stati direttamente assaliti, essi si
sarebbero disinteressati della sorte dei loro alleati.
    Il CLN, senza indugio, decise l’insurrezione generale della
città per l’indomani 26 aprile alle ore 14. L’avviso si doveva
dare, a mezzo delle staffette, alle SAP partigiane, già in allarmi
ed armate, e alla popolazione col suono simultaneo a martello
delle campane delle chiese cittadine. Il CLN in via Bertesi agiva
già quasi liberamente, vi affluivano da ogni parte staffette,
membri del comitato militare, rappresentanti dei partiti. Su
proposta del rappresentante del PSIUP venne redatto un breve
appello ai patrioti che, stampato al ciclostile, venne rapida-
mente diffuso. Era così concepito:
    Patrioti di Cremona! Cittadini tutti! È giunta l’ora da tanto
    tempo sognata di impugnar le armi contro i traditori fascisti
    che hanno venduto l’Italia all’invasore, trucidando, rapi-
    nando, saccheggiando le tranquille popolazioni della zona. In
    Germania e in Italia le truppe alleate battono il nemico ormai
    in fuga disastrosa. In quest’ora grave e solenne il CLN di

                                                                   21
Cremona rivolge ai partigiani, ai patrioti, a tutti i cittadini
    democratici l’appello di lotta e di concordia. L’insurrezione
    nazionale si accende in tutta Italia. Cittadini, alle armi contro i
    fascisti e contro i tedeschi! Viva il CLNAI! Viva l’Italia Libera!
    L’indomani, 26 aprile, ebbe così inizio la gloriosa insurre-
zione. Nella sera e nella notte precedente le SAP, mobilitate dai
rispettivi comandi, si erano raggruppate in località prestabilite
in attesa di entrare in azione. Formazioni partigiane della
provincia, specie della zona Vescovato – Isola Dovarese –
Drizzona – Ostiano (Brigata Garibaldi “Cerioli” comandata da
Arnaldo Uggeri e 2a Brigata Matteotti) che erano le meglio
armate ed addestrate tra quelle a disposizione del Comando,
iniziavano la marcia di avvicinamento alla città. La mattinata del
26 era grigia, fredda, nebbiosa. Circolavano ancora squadrette
di fascisti in fuga che si guardavano d’attorno sospettosi,
vedendo ovunque pericoli in agguato.
    Dal comando provvisorio delle Matteotti, cui si era aggre-
gato l’esecutivo politico del partito sistemato in una villa a
porta Venezia, il comandante Ottorino Frassi intimò per tele-
fono al procuratore della rapubblica fascista, Pagnacco, di far
immediatamente scarcerare i detenuti politici, tra cui c’erano
uomini valorosi del periodo clandestino. Fu il primo ultimatum
lanciato pubblicamente ad una autorità fascista. Una squadra
partigiana fu inviata sul posto per appoggiare, con la forza se
occorreva, l’intimazione. Le squadre patriottiche, prima ancora
del segnale, entravano man mano in azione in tutta la periferia
cittadina. Si è accennato alla prima scaramuccia coi fascisti
avvenuta nel pomeriggio del 23 aprile nel popolare rione di S.
Imerio. Oggi una lapide murata su “Casa Manini” ricorda
l’avvenimento. Un maresciallo delle brigate nere volle resistere
ad essere disarmato e venne abbattuto da una scarica di mitra.
Sopravvenne, alla sparatoria, ancora una pattuglia fascista ma
venne dispersa. In questa zona la SAP garibaldina, rafforzata da
elementi patriottici che erano stati arruolati nell’esercito

22
repubblichino ed avevano disertato da qualche giorno con armi
e bagagli, entrò in azione con decisione e sprezzo del pericolo.
Attuò una serie di colpi di mano e di attacchi nell’ampia zona
compresa tra via Altobello Melone, via Giordano e via del Sale.
Anche le altre squadre patriottiche erano in movimento. Nella
mattinata la SAP di Porta Po compiva un colpo di mano sulla
caserma della polizia sistemata in via Colletta, davanti al
distretto militare: un considerevole bottino di armi pesanti e
munizioni veniva così messo a disposizione dei patrioti. Questa
SAP si spostava poi lungo l’argine del Morbasco attendendo
l’ora dell’attacco.
    Qualche sera prima la SAP dei ferrovieri matteottini aveva
compiuto, guidata dal bravo Carlo Granata, un’azione contro
un nucleo fascista sistemato nel ricovero dei vecchi a Castel-
verde. Il nucleo si era arreso consegnando il materiale tra cui,
con moschetti, munizioni e bombe a mano, c’erano due mitra-
gliatrici pesanti Breda. Con infinite precauzioni le armi pesanti,
smontate, furono introdotte in città. Una mitragliatrice andò a
finire nella zona di S. Michele dove, nei giorni della lotta, tenne
sotto il suo fuoco i tedeschi che cercavano di passare. L’altra fu
a disposizione della SAP che si sistemò negli edifici della sta-
zione ferroviaria. Notevole la SAP matteottina della [fabbrica]
Cavalli e Poli che si era dotata di armi automatiche.
    Dal comando delle Garibaldi, sistemato in casa di Carlo
Granata in via dei Platani, partivano le staffette per la mobili-
tazione dei loro nuclei. Così Giustizia e Libertà e Fiamme Verdi
mobilitavano i loro elementi. Un calcolo approssimativo, sulla
base delle formazioni e nuclei esistenti in quel momento, porta
ad una forza di 600-700 patrioti organizzati, nelle ore dell’in-
surrezione si aggiungeranno ad essa altri elementi. Limiti e
carenze tipici delle forze insurrezionali e clandestine sarebbero
però emersi come serio handicap, non tanto contro i fascisti
quanto contro i tedeschi. Questi erano fortemente armati ed

                                                                23
esperti veterani di tanti scontri, anche in agglomerati urbani.
Per questo era necessario attendere rinforzi dalla provincia.
    A confronto con quelle del CLN, le forze nazifasciste erano
imponenti. A Cremona il comando germanico disponeva di 150
– 200 uomini della Feldgendarmeria e di un distaccamento di SS
cui si aggiungeva un continuo flusso di truppe in ritirata. Si
aggiungeva la brigata nera “Augusto Felisari” con centinaia di
militi, la GNR, le SS italiane.
    Nei centri maggiori del cremonese, poi, esistevano presidi
tedeschi e fascisti che potevano all’occorrenza raggiungere
celermente la città: 60 tedeschi a Piadena, 50 a Vescovato, 40
ad Ostiano, 150 uomini delle brigate nere nel distaccamento
speciale di Voltido ecc. Se ci fosse stata resistenza fascista ad
oltranza, molto sangue sarebbe stato sparso durante la libe-
razione della città. Ma i repubblichini avevano perso – lo
dimostrava la fuga disordinata di quei giorni – ogni volontà di
morire per la loro causa. Si preoccuparono invece, lo dimostra-
vano tentativi effettuati presso le banche cittadine, di avere a
disposizione un po’ di milioni come viatico dei capi per i dubi-
tosi tramiti della fuga.
    La mattina del 26 il CLN di Cremona era convenuto in casa di
Gino Rossini, in piazza Castello. La riunione venne interrotta da
una telefonata. Il “Capo della provincia” [denominazione del
prefetto nella RSI, n.d.c.], Vincenzo Ortalli, aveva chiesto a
Mons. Cazzani, arcivescovo della città, che lo si mettesse in
comunicazione con rappresentanti del CLN. Il comando mili-
tare, aggregato in quelle ore al CLN, delegò a rappresentarlo il
tenente Ottorino Frassi, commissario delle brigate. Questi si
recò immediatamente al palazzo vescovile, ove era fissato
l’appuntamento. Era quivi un tenente colonnello della GNR che
doveva accompagnare alla prefettura fascista la delegazione
del CLN, composta da Ennio Zelioli, Ottorino Rizzi e dal citato
Ottorino Frassi.

24
Nelle sale e nei corridoi del palazzo di via Vittorio Emanuele
regnava una certa animazione, con gruppi di ufficiali della GNR
e brigate nere che vi stazionavano chiacchierando sommessa-
mente. La delegazione venne subito introdotta nell’ufficio del
“Capo della provincia” fascista. L’avv. Vincenzo Ortalli da
qualche mese deteneva ufficialmente nelle sue mani la somma
dei poteri politici e militari, così come statuito da un decreto
della Repubblica Sociale. Lo stesso Farinacci, formalmente,
doveva seguire le sue direttive così come il 20° Comando
Militare fascista.
     Quel mattino del 26 Ortalli doveva avere ben compreso la
situazione. Le truppe alleate avanzavano a raggiera proce-
dendo ovunque con punte corazzate. Le unità tedesche ripie-
gavano in disordine, a nulla sarebbero servite sacche di
resistenza. L’insurrezione era già vittoriosa a Genova, a Torino,
a Milano. Era finita pel fascismo. Agli uomini del fascismo non
restava che la via dell’accordo con quegli avversari che fino al
giorno prima avevano trattato come banditi e fuorilegge.
     La discussione, fondata su questi elementi di fatto e sulla
certezza nei rappresentanti della Resistenza che gli interlo-
cutori non potevano che convenire per la resa senza condi-
zioni, si svolse rapidamente e con una certa qual formale
cortesia. Venne comunque interrotta da due incidenti. Il primo
determinato dal comandante della XVII legione GNR, console
Tambini, che entrò nell’ufficio gridando: “Perché trattare?
Costoro ci fucileranno tutti!”. Vincenzo Ortalli fece allontanare
l’esagitato. Egli forse presagiva che sarebbe caduto, come
avvenne in provincia qualche giorno dopo sotto il piombo degli
insorti [in quel di Soncino, n.d.c.]. Il secondo fu una telefonata di
Roberto Farinacci che stava preparando la fuga in quei momen-
ti. Gli astanti logicamente non sentirono le sue parole. Deposto
il telefono il Capo della provincia disse: “era quell’asino (o
qualcosa di simile) di Farinacci, se ne va… buon viaggio” (fatto
raccolto da un testimone presente).

                                                                  25
In effetti Farinacci, poco dopo mezzogiorno, partiva per
sempre dalla sede del suo giornale su un’automobile carica di
valigie e bauli. Lo accompagnavano l’autista, la segretaria dei
fasci femminili, marchesa Medici del Vascello, e il redattore
capo di Regime Fascista, Mario Mangani.
    Partiva da Cremona, dove aveva spadroneggiato per
vent’anni e dove, negli ultimi venti mesi, aveva coscientemente
appoggiato i più vili misfatti della tirannide nazista. Andava
incontro al destino segnato dai mitra dei partigiani della
Divisione fiume Adda, che lo avrebbero abbattuto, dopo
regolare processo, nella piazza di Vimercate. Inconsape-
volmente trascinava con sé a morte persone relativamente
incolpevoli: l’autista e il redattore del suo giornale. Questi non
furono fucilati ma caddero uccisi nella sparatoria dopo che la
macchina non si era fermata all’ingiunzione di resa. Nello
stesso frangente venne colpita a morte, e morirà la sera stessa
all’ospedale, la marchesa Medici. Quella mattina, dopo
Farinacci, anche lei aveva parlato al telefono con Ortalli per
salutarlo, anche questo riferì il testimone.
    L’incontro con Vincenzo Ortalli si concluse con un accordo
di massima. Il “Capo della provincia”, come supremo coman-
dante delle forze fasciste, offriva la resa senza condizioni. I
fascisti si sarebbero raccolti nel palazzo della rivoluzione e nella
caserma Ettore Muti, situata in via Ettore Sacchi vicino alla
chiesa di S. Pietro. I militi fascisti, non colpevoli di reati comuni
o comunque non responsabili di fatti contrari al codice e
all’ordinamento statale, sarebbero stati rispettati.
    I rappresentanti del CLN accettarono questo accordo che,
sostanzialmente, equivaleva alla resa senza condizioni, pre-
messa prima ed inequivocabile delle esigenze della resistenza
cremonese.
    Terminata la missione, la delegazione si restituì al CLN clan-
destino per rendere conto dell’operato e dell’accordo. D’altro
canto non c’era una diversa via d’uscita. Con Farinacci si erano

26
allontanati i più faziosi settari del fascismo. Fuggivano anche i
gregari, abbandonando armi ed equipaggiamenti in ogni angi-
porto di casa e angolo di strada.
    Le pattuglie patriottiche nella mattinata si erano date ad
azioni di disarmo in grande stile su quanti fascisti e tedeschi
incontravano. Alla periferia i concentramenti partigiani riceve-
vano rinforzi dalla provincia. Echeggiavano spari nella città
fattasi muta e concentrata. Le vie centrali erano sgombre di
fascisti. Verso le 13 la colonna Farinacci partiva dalla zona
centrale. Fu un errore che non fosse stato predisposto un
posto di blocco partigiano verso Porta Milano ché, altrimenti, il
“ducetto” cremonese sarebbe stato colto nella stessa nostra
città.
    L’ultimo nucleo fascista, disorganizzato e allarmato, appar-
ve poco prima delle 14 all’angolo del palazzo delle Poste là
dove, venti mesi prima, i bersaglieri avevano opposto resisten-
za al tedesco. Un ufficialetto delle brigate nere minacciava la
folla inerme con una pistola puntata.
    Colpi secchi della fucileria battevano già sui muri delle case
della periferia. Scariche di mitraglia si avvertivano da case
prospicenti i giardini pubblici. Alle 14, l’ora segnata dell’azione,
le campane delle chiese si misero a suonare. Entravano le
colonne partigiane dai posti di periferia dove si erano con-
centrate. Dalle vie deserte, mentre scrosciavano colpi di fucile e
raffiche di mitraglia, sbucavano su due file i nuclei patriottici.
Con l’arma spianata, attenti ad ogni allarme, i partigiani della
provincia e i giovani della città avanzavano. Risuonavano già gli
applausi della gente che si faceva alle finestre e sui portoni.
Mazzi di fiori e lacrime di gioia accoglievano i volontari della
libertà che, finalmente, sbucavano dall’ombra per la reden-
zione di Cremona.
    Qualche tedesco in fuga circolava nelle viuzze del centro,
qualche automobile tedesca solcava gli ampi viali della
periferia. I fascisti erano scomparsi dalla circolazione. La SAP

                                                                 27
dei ferrovieri matteottini dalla stazione mosse all’assalto della
vicina caserma Paolini. Nel corpo di guardia stavano ancora sei
o sette briganti neri. Vennero rapidamente disarmati e lasciati
partire. Carlo Granata, dello stesso gruppo di patrioti, partecipe
e testimone di questa azione, racconta che nelle camerate della
caserma furono trovati taluni dei cosiddetti “fidanzati della
morte”. Questi, per sfuggire all’abbraccio della tanto deside-
rata (a parole) “fidanzata morte”, si erano nascosti sotto
montagne di materassi e di coperte da dove vennero snidati a
calci dai partigiani. La resistenza fascista, quasi ovunque, era
nulla. I “Pirgopolinice” della X mas, delle brigate nere, della
guardia nazionale repubblicana, si nascondevano come topi di
chiavica. Nella stessa villa Merli, dove alloggiavano sicari e
seviziatori, non c’era più nessuno. Erano fuggiti attraverso case
e giardini, dopo aver forato la muraglia e aperto un vero e
proprio cunicolo, come nelle fortezze assediate del medioevo.
Erano i più compromessi. Se fossero stati colti nella villa dal
nucleo partigiano, di cui facevano parte elementi sottoposti a
torture in quel luogo, certamente avrebbero pagato un prezzo
elevato per i loro misfatti.
    Nella zona di Porta Venezia – S. Michele, oltre il crepitio
delle fucilate contro ultimi nidi di resistenza fascista, si udiva il
rombo pesante delle mitragliatrici partigiane che battevano le
strade di arroccamento su cui passavano automezzi tedeschi. I
nuclei patriottici di S. Imerio, arroccati presso le case popolari
di via Giordano, affrontavano coraggiosamente pattuglie
tedesche di passaggio. Si videro episodi di elevato patriot-
tismo, sangue freddo e sprezzo del pericolo. Un giovane,
dall’età apparente di 16 o 17 anni, si mise in mezzo alla strada
col moschetto spianato intimando l’alt a una camionetta
tedesca su cui erano cinque soldati con una mitragliatrice.
L’automezzo si fermò all’audace imposizione, da ogni parte
saltarono fuori i patrioti che disarmarono i soldati.

28
La SAP di Porta Po, dall’argine maestro del fiume dove si era
posizionata, si avvicinava alla città con l’armamento recuperato
nella mattinata. La stessa mattina era stato catturato dai
tedeschi il comandante Ughini. Furono catturati anche Guido
Percudani e Milanesi mentre, in macchina, cercavano di rag-
giungere la formazione per collegarla con le altre forze del
raggruppamento Ghinaglia – Garibaldi. Si erano imbattuti in un
forte gruppo germanico che defluiva dal traghetto del Po. I
due, minacciati in un primo momento di fucilazione immediata,
vennero portati al comando tedesco posto nelle colonie pada-
ne. Il giorno seguente vennero liberati grazie ad uno scambio di
prigionieri pattuito tra il comando piazza partigiano e il co-
mando germanico.
    Nelle tarde ore del 26 aprile la battaglia per la liberazione
della città consisteva in una serie di scaramucce e scontri a
fuoco contro gli ultimi nuclei fascisti asserragliati in qualche
edificio e contro pattuglie tedesche in ritirata.
    Un nucleo tedesco si era arroccato in un edificio di viale
Trento e Trieste essendo stato fatto oggetto del fuoco dei
partigiani che presidiavano la caserma Paolini. Un nucleo di
Fiamme Verdi, generosamente, cercò di snidare i tedeschi
dall’improvvisato fortilizio. Morirono qui, da fortissimi eroi, due
adolescenti: Bernardino Zelioli, figlio di Ennio, ed Attilio
Barbieri, entrambi delle Fiamme Verdi.
    Come non ripetere col poeta del Risorgimento: “Oh della
bella Ausonia – gigli defunti al crin”?
    Quella pattuglia tedesca veniva poi, dal fuoco dei partigiani
ivi affluiti, costretta ad allontanarsi, con perdita di uomini e di
materiali. Cadde alla stazione ferroviaria il matteottino Abramo
Casaletti, ferroviere, mentre difendeva l’approccio della sta-
zione contro una pattuglia germanica.
    In un cascinale della periferia, presso la Madonnina, si erano
annidati fascisti emiliani, disposti a difendere fino all’ultimo una
esistenza carica di delitti. All’assalto della posizione mosse un

                                                                 29
nucleo garibaldino, comandato dall’eroico Bruno Ghidetti. Egli
cadde mentre, allo scoperto, incitava i patrioti dirigendo contro
i nemici il fuoco della sua arma automatica. Così combattevano
e morivano, senza distinzione di partito, i giovani cremonesi
animati dall’impulso possente della libertà e della patria
italiana.
     Non è facile, a dieci anni di distanza, ricostruire, con le
testimonianze dei viventi, una conseguente trama delle opera-
zioni. Del resto sarebbe stato difficile anche allora, data la
minuta frammentarietà dei fatti ed il repentino svolgersi degli
eventi. Altri fatti avvenivano nei diversi rioni cittadini, oltre
quelli menzionati. Le caserme periferiche e centrali erano già
tutte cadute nelle mani dei patrioti. Nuclei di Giustizia e Libertà
occupavano, per salvaguardarli da sabotaggi tedeschi, la
centrale elettrica e quella dell’acqua potabile. Le Poste, la
Prefettura e il Distretto Militare venivano pure occupati dai
partigiani. In mano ai tedeschi rimaneva la zona, quasi neutrale
per tacita convenzione, compresa fra Palazzo Trecchi e piazza
S. Agata. In un primo tempo i tedeschi avevano proibito il
transito per la piazza, poi, per un accordo con un nucleo
partigiano, si erano ritirati sul lato di Palazzo Cittanova pur
lasciando in mezzo alla via i mortai e le mitraglie.
     Forse anche qui si commise l’errore di non aver attaccato il
comando prima delle 14, quando c’erano lì solo una decina di
soldati. Presto però era stato richiamato dalle colonie padane
un fortissimo nucleo germanico, con armi automatiche, a
presidio di Palazzo Trecchi ed adiacenze.
     Molti fascisti reggiani erano stati disarmati nella mattinata,
negli alberghi dove alloggiavano, da patrioti guidati da Alberto
Callegari. I fascisti rimasti erano rinserrati nella caserma Muti e
nel Palazzo della Rivoluzione. Anche i questurini della cosid-
detta polizia repubblicana avevano abbandonato i locali dove,
in veste di funzionari, avevano commesso tante nefandezze.
     Nel pomeriggio il CLN si era nuovamente trasferito nei locali

30
dell’Associazione Mutilati in via Beltrami. Affluivano qui le
notizie, vi accorrevano le staffette. Era insediato accanto al
CLN, pure esso in permanenza, il comando piazza partigiano,
che doveva coordinare e dirigere l’azione e le formazioni.
    Il “Capo della provincia” Ortalli aveva concordato la resa
senza la partecipazione del “commissario federale” Milillo, che
comandava le brigate nere. I componenti di queste, ormai
tremebondi, erano rinserrati nel Palazzo della Rivoluzione
attorno al quale si stringeva il cerchio dei partigiani di Giustizia
e Libertà, della Garibaldi e della Matteotti. Guidati da un parla-
mentario Milillo, dal comandante del 20° comando fascista e da
alcuni altri gerarchi di Salò, vennero al CLN ad offrire la resa.
Cosa giusta sarebbe stata non accettarla e mettere al muro i
fascisti responsabili di fucilazioni di patrioti e di altri crimini. La
resa venne accettata con la riserva che i delitti sarebbero stati
appurati dalla Corte di Assise straordinaria.
    Sulla base di questo accordo supplementare di resa anche
gli ultimi nuclei fascisti organizzati nella città cedevano le armi.
Gli ufficiali si consegnavano sul Vescovato a rappresentanti del
comando piazza partigiano. Venivano poi condotti, assieme alla
truppa fascista fatta prigioniera o arresasi spontaneamente,
nei campi provvisori di concentramento: la caserma Muti a S.
Pietro e la caserma S. Giorgio (“del diaol”) a Porta Romana. I
prigionieri fascisti in mano partigiana superavano i 700. Molti
altri si sarebbero spontaneamente consegnati nei giorni suc-
cessivi. Terminava così, ingloriosamente, l’“epopea fascista”
iniziata 24 anni prima. Il Palazzo della Rivoluzione, col relativo
ripristinato “sacrario”, veniva occupato da forze partigiane. La
grottesca e feroce dittatura fascista sprofondava nell’igno-
minia della viltà dopo i lividi bagliori della barbarie con cui
aveva cercato di sostenersi contro la volontà del popolo
cremonese. Nel vespro e nella serata, fattasi nitida dopo un
fosco tempo mattinale ed un breve acquazzone vespertino,
echeggiavano fuochi di fucileria e di mitraglia. Nuclei volontari,

                                                                    31
tra i quali si distinguevano i giovani della Brigata Curiel, stana-
vano, dalle cantine e da isolati nascondigli, fascisti irriducibili o
paurosi per i delitti commessi, costringendoli alla resa.
    Il CLN sedeva ancora all’Associazione Mutilati ed era alle
prese coi mille e mille problemi sorgenti dalle circostanze. Ora
la preoccupazione principale era la lotta contro i tedeschi,
quelli racchiusi nel fortilizio del Trecchi e quelle truppe che,
ormai trasformate in orde disordinate, affluivano ai traghetti e
volevano passare il fiume per mettersi in salvo. La sera del 26
infatti vide il CLN impegnato in discussioni coi comandi
tedeschi. Quella sera, per qualche ora, il CLN si era trasferito in
prefettura, accanto al Prefetto della Liberazione già insediato.
La mattina del 27 esso trasferì la propria sede nel palazzo di
Cremona Nuova, dove c’erano lo stabilimento tipografico del
Regime Fascista e l’abitazione privata e lo studio dell’ex gerarca
Farinacci. Ironia della sorte: il Comitato pose la propria sede in
quell’ufficio.
    Erano passati 22 anni e nove mesi dal giorno in cui le
masnade fasciste erano penetrate brutalmente ed illegalmente
nella Sala della Giunta del Palazzo Comunale per cacciarne gli
eletti dal popolo. Ora il popolo, a mezzo dei suoi rappresen-
tanti, si insediava nello sgominato quartier generale della vinta
tirannide cremonese.
    Mentre la lotta contro i tedeschi, finalmente privi dei loro
ausiliari, teneva occupati gli animi e le forze patriottiche, il CLN
cominciava ad esercitare le funzioni che gli erano state dele-
gate dal governo legittimo di Roma. In applicazione dei relativi
decreti, pubblicati su Fronte Democratico, in Comune si
insediava l’amministrazione democratica del CLN, così avveniva
in Questura e in tutti gli altri uffici, secondo il programma
concordemente predisposto in periodo clandestino.
    Con decreto del CLN venivano chiuse le scuole, onde non
esporre i ragazzi ai pericoli della guerra ancora in corso. Chiuse
anche le banche ed altri uffici non indispensabili. L’onere

32
dell’ordine pubblico veniva assunto dal comando di piazza.
Nelle caserme cittadine erano sistemati i partigiani delle varie
brigate, con gli insurrezionalisti che ad esse si erano aggregati,
comprese quelle giunte dalla provincia a marce forzate. Le
brigate Matteotti erano nel centro scolastico Capra, Giustizia e
Libertà con le Fiamme Verdi nella caserma Manfredini, le
Ghinaglia- Garibaldi in prevalenza nella “caserma del diavolo”,
posta sotto il comando del bravo Giuseppe Marabotti. Il
comando piazza si era sistemato nei locali del Distretto Militare
in via Colletta.
    Pattuglie partigiane continuavano a battere le vie della città
per tutta la notte del 26 e la giornata del 27, in regolare servizio
di vigilanza. Così forti posti di blocco partigiani, ora muniti di
armi pesanti ed automatiche, attaccavano con puntate improv-
vise e colpi di mano le piccole pattuglie tedesche in transito.
Come aveva ordinato la radio alleata, elementi di Giustizia e
Libertà avevano esposto sul torrazzo una grande bandiera
bianca. Significava che la città era ormai in mano ai patrioti. Ben
presto questa bandiera veniva sostituita da quella tricolore che,
come nei momenti più drammatici della storia di Cremona,
sventolò libera e solenne dalla gran torre, a salvaguardia e
conforto di tutti i liberi cittadini cremonesi. Il 27 aprile 1945
usciva il giornale della Liberazione: Fronte Democratico - organo
del Comitato di Liberazione Nazionale di Cremona. Recava in
apertura il proclama e saluto del CLN ai cremonesi. Tale
proclama, redatto dal prof. Giulio Grasselli, era volutamente
moderato nei termini e calcava, forse un po’ troppo, la mano su
un avvenire di stenti, miserie e lavoro che attendeva la nazione.
Certamente era ciò che si prevedeva, ma forse in quell’ora ci
sarebbe voluto un maggior impeto di forza e di indignazione
contro i nazifascisti, sconfitti sì ma dentro di sé non ancora
domi.
    La comparsa del giornale quotidiano e subito dopo dei primi
settimanali di partito (L’Eco del partito socialista reca, sul primo

                                                                 33
numero del dopoguerra, la data del 29 aprile) fu salutata dal
più vivo entusiasmo popolare. L’aborrito giornale fascista ave-
va finalmente cessato di stamburare le sue fandonie, i suoi
insulti, le sue urlate invettive. Usciva un quotidiano, modesto
nella forma, improvvisato sulle notizie, con una seconda pagina
occupata per metà da una grande scritta: “W l’Italia libera! W i
patrioti”. Nella solennità dell’ora venne accolto con inusato
successo, decine e decine di migliaia di copie furono diffuse e
vendute in poche ore. Quel giorno sopravvenne a Cremona la
prima camionetta alleata, con due giornalisti che si recavano a
Milano.
    Ora tutto il popolo cremonese, come nella tradizione del
’48 e del ’59, era sulle vie e sulle piazze, anche se dalle zone
periferiche giungevano ancora all’orecchio raffiche di mitraglia
e il rumore di aerei alleati ancora in caccia di automezzi
germanici. Scontri coi tedeschi continuavano ancora in tutta la
provincia.
    Per disposizione del CLNAI, trasmessa mesi prima al CLN
provinciale, si riuniva frattanto il tribunale di guerra della Divi-
sione partigiana Cremona, composta da tutte le formazioni
patriottiche della provincia. Nove fascisti rastrellatori e spie, rei
della morte di patrioti, venivano condannati a morte. Alla pena
capitale venivano condannati anche tre elementi della locale
Questura, responsabili di sevizie e torture ai danni di partigiani
caduti in loro mano. Venivano condannati a morte in contu-
macia anche i dirigenti del famigerato Ufficio politico della
GNR. Dodici di questi tristi arnesi venivano pertanto passati per
le armi nella “caserma del diavolo”. Un’altra spia veniva fucilata
in piazza Marconi. Altre poche fucilazioni di fascisti, sempre
sulla base di un regolare processo, venivano eseguite in altri
centri della provincia. Comprese alcune “dispersioni”, il
numero dei fascisti giustiziati non superò i 40. I capi maggiori
del fascismo cremonese giustiziati dai patrioti fuori provincia
furono: Farinacci a Vimercate, il console Tambini nei pressi di

34
Puoi anche leggere