Aspirina per la prevenzione eventi - Coagulum Report

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Aspirina per la prevenzione
primaria    degli    eventi
cardiovascolari
L’interesse nei confronti dell’ASA in prevenzione primaria è
sempre molto alto. Lo dimostra la pubblicazione di una nuova
meta-analisi pubblicata sul Journal of the American College of
Cardiology, che ha utilizzato i dati di 15 trial randomizzati
e controllati, comprendenti i tre grandi studi pubblicati nel
corso del 2018: ASCEND [2] rivolto a pazienti diabetici,
ARRIVE a soggetti a rischio cardiovascolare intermedio,
ASPREE a soggetti in età più avanzata, per un totale di oltre
165.000 partecipanti.

Dall’analisi dei dati non sono emerse differenze significative
per quanto riguarda la mortalità totale e non cardiovascolare.
La mortalità cardio-vascolare ha presentato una riduzione
modesta del 7% nei pazienti trattati con ASA ma la differenza
non ha raggiunto la significatività statistica.

Per quanto riguarda gli outcome cardio-vascolari, il
trattamento con ASA è risultato significativamente associato
con una riduzione dell’incidenza di infarto miocardico non
fatale (-18%), attacco ischemico transitorio (TIA) (-21%),
ictus ischemico (-13%) e dell’outcome composito comprendente
infarto miocardico non fatale, ictus non fatale, TIA e morte
per cause cardio-vascolari (-10%).

Non si sono rilevate differenze significative per quanto
riguarda il rischio di sviluppare angina pectoris,
vasculopatia periferica sintomatica e di andare incontro ad
intervento di rivascolarizzazione coronarica. Il trattamento
con ASA è risultato invece associato ad un incremento del
rischio   di   ictus   emorragico   (+21%)   ai   limiti   della
significatività statistica.

Per quanto riguarda gli eventi avversi, il trattamento con ASA
è risultato associato ad un incremento significativo di
emorragie maggiori (+50%), emorragie intra-craniche,
comprendenti l’ictus emorragico, (+32%), di emorragie gastro-
intestinali maggiori (+52%) e di ulcera gastro-intestinale
(+37%).

Sono stati valutati anche i dati relativi alla incidenza di
cancro e di mortalità correlata al cancro che sono risultati
sovrapponibili nei pazienti trattati e non trattati.

Analisi secondarie pre-specificate hanno rilevato che il
trattamento con ASA:
è associato ad una riduzione significativa della mortalità
totale dopo un follow-up di 5 anni;
mostra un trend verso la riduzione della mortalità cardio-
vascolare solo nei soggetti con rischio cardio-vascolare più
elevato (≥ 7.5% a 10 annI);
è associato ad una riduzione del rischio di ictus solo se si
utilizzano dosi non superiori a 100 mg/die.

Le analisi per sottogruppi non hanno evidenziato differenze
significative dei risultati nella popolazione diabetica o
legate al genere, fatta eccezione per il rischio di infarto
miocardico che risulta ridotto negli uomini (-31%, p
l’efficacia preventiva additiva di un ulteriore intervento.

L’analisi dei risultati in termini di rischio assoluto e in
particolare di NNT (numero di pazienti da trattare per evitare
un evento cardio-vascolare) e di NNH (numero di pazienti da
trattare per provocare un evento avverso) documenta una
sostanziale equivalenza di rischi e benefici legati al
trattamento con ASA.

E’ pertanto impossibile derivare da questi dati indicazioni
univoche valide per tutti i soggetti in prevenzione cardio-
vascolare primaria. La scelta di trattare o non trattare
dovrebbe essere personalizzata tenendo conto del rischio
cardio-vascolare e del rischio emorragico e dovrebbe
considerare anche le preferenze del paziente.

Un ulteriore elemento di valutazione, per quanto secondario
rispetto ai precedenti, potrebbe essere rappresentato dalla
opportunità di ridurre il rischio oncologico nei soggetti nei
quali esso è elevato. La meta-analisi non ha evidenziato un
beneficio in termini di mortalità o morbilità per cancro nei
soggetti trattati. Tuttavia bisogna osservare che il follow-up
medio degli studi considerati era di poco superiore ai 6 anni
ed è verosimile che l’effetto protettivo dell’ASA si manifesti
in un arco temporale più ampio.

Fonte: Aspirin for Primary Prevention of Cardiovascular
Events J Am Coll Cardiol. 2019 Jun 18;73(23):2915-2929
Statine da utilizzate solo
per la prevenzione degli
eventi cardiovascolari e non
per ridurre il rischio di
altri esiti clinici al di
fuori dell’ambito CV
Secondo i risultati di una revisione delle meta-analisi
disponibili, pubblicata su “Annals of Internal Medicine”, le
statine devono essere utilizzate solo per la prevenzione degli
eventi cardiovascolari (CV) e non per ridurre il rischio di
altri esiti clinici al di fuori del rischio cardiovascolare.

Le statine sono utilizzate per ridurre la morbilità e la
mortalità cardiache nella prevenzione primaria e secondaria
delle malattie CV e precedenti metanalisi hanno suggerito che
le statine potrebbero essere associate a esiti di diverse
altre malattie.

Sono state analizzate 256 meta-analisi, sia di studi
osservazionali che randomizzati controllati, per valutare la
validità e la credibilità delle prove relative a queste
affermazioni, i ricercatori hanno analizzato 112 meta-analisi
di studi osservazionali e 144 meta-analisi di studi
randomizzati controllati.

Negli studi osservazionali sono state identificate: nessuna
evidenza convincente (classe I); 2 associazioni altamente
suggestive (classe II) relative alla riduzione della mortalità
per cancro e della frequenza delle riacutizzazioni nella BPCO;
21 associazioni suggestive (classe III) e 42 associazioni
deboli (classe IV).
Nei trial ha raggiunto un livello sufficiente di evidenza
priva di bias l’associazione con la riduzione della mortalità
per tutte le cause nei pazienti con malattia renale cronica.

Per gli eventi avversi, gli studi osservazionali hanno
mostrato una prova indicativa del fatto che le statine
aumentano il rischio di diabete e miopatia. Tra gli studi
randomizzati, non sono stati rilevati effetti statisticamente
significativi su miopatia, mialgia o rabdomiolisi.

Nonostante i problemi muscolari comunemente riportati dall’uso
di statine, lo studio non è riuscito a identificare prove
evidenti di eventi muscolari avversi con l’uso di statine.
L’assenza di effetti dannosi, specialmente quelli con prove
altamente convincenti o altamente suggestive, è rassicurante.
Tuttavia, non si può escludere la possibilità che alcuni di
questi danni, come la rabdomiolisi o la miopatia grave,
possano essere troppo rari per essere esclusi con certezza.
Mentre ci sono state     prove consistenti che le statine
aumentassero modestamente il rischio di diabete, i dati non
erano abbastanza forti da giustificare la sospensione delle
statine a causa di queste evidenze. La terapia con statine
deve essere prescritta a pazienti con o senza fattori di
rischio di diabete di tipo 2 per ridurre il rischio di eventi
cardiovascolari, senza timore di aumentare il rischio di
diabete di tipo 2.

Le raccomandazioni cliniche sottolineano anche l’importanza
delle modifiche dello stile di vita per i pazienti che
iniziano la terapia con statine per diminuire il rischio sia
per eventi cardiovascolari che per il diabete.

L’analisi ha concluso che      con una  mancanza di prove a
supporto dell’uso di statine per indicazioni non CV, i
risultati non raccomandano modifiche alle attuali linee guida
cliniche per l’uso di statine.

Fonte:    Statins    and    Multiple     Noncardiovascular
Outcomes: Umbrella Review of Meta-analyses of Observational
Studies and Randomized Controlled Trials

USPSTS. Aggionamento delle
raccomandazioni          2012
sull’utilizzo dell’ ECG nelle
malattie cardiovascolari
La Task Force dei servizi preventivi statunitensi   (USPSTS) ha
emanato    un  aggiornamento     delle   raccomandazioni
2012 sull’utilizzo dell’elettrocardiografia, a riposo e da
sforzo, nello screening della malattia cardiovascolare in
soggetti asintomatici.
Le conclusioni, basate sui dati di letteratura più recenti,
non sono molto diverse da quelle della precedente edizione.

In particolare, nei soggetti asintomatici adulti a basso
rischio di eventi cardiovascolari (rischio a 10 anni calcolato
con l’algoritmo di Framingham < 10%) si ritiene molto
improbabile che l’ECG, a riposo o durante sforzo, possa
modificare in modo significativo la valutazione del profilo di
rischio ottenuta con i fattori convenzionali al punto da
influenzare la strategia preventiva e determinare un
miglioramento degli esiti.
Considerando che lo screening può determinare anche degli
effetti nocivi, connessi con gli approfondimenti diagnostici
invasivi e gli eventuali interventi terapeutici, si ritiene
che lo screening elettrocardiografico nei soggetti
asintomatici a basso rischio debba essere scoraggiato.

Nei soggetti asintomatici a rischio cardiovascolare intermedio
(10-20%) o elevato (> 20%) non sono disponibili sufficienti
evidenze per valutare il valore predittivo aggiuntivo dell’ECG
a riposo o da sforzo e se le informazioni derivanti da questi
esami sono realmente utili del guidare la gestione del rischio
e al fine di ridurre l’incidenza di eventi cardiovascolari. La
scelta, quindi, se sottoporre il paziente a questi esami è
lasciata al clinico.

Queste affermazioni possono apparire eccessivamente
restrittive nei confronti della metodica elettrocardiografica,
soprattutto se confrontate con l’uso corrente caratterizzato
da un largo utilizzo dell’ECG in vari contesti ed
indipendentemente dal profilo di rischio del soggetto
esaminato. Si pensi per esempio all’ECG che spesso viene
richiesto in preparazione alla somministrazione di mezzi di
contrasto radiologici.

In un editoriale di accompagnamento, pubblicato sullo stesso
numero della rivista, sono esposte alcune considerazioni che
ci aiutano a meglio inquadrare le conclusioni del documento
USPSTF.

A) Anche se non opportuno come test di screening, potrebbe
comunque essere utile avere registrato un ECG in cartella da
utilizzare per confrontare eventuali tracciati registrati
successivamente in caso di comparsa di sintomi sospetti.

B) La stratificazione in rischio basso, intermedio ed elevato
è ovviamente arbitraria ed esiste un gradiente continuo di
rischio che il medico deve valutare individualmente tenendo
conto anche di fattori, come la familiarità, che generalmente
non sono considerati dagli algoritmi.
C) L’incertezza relativa alla utilità dell’ECG di screening
nei soggetti a rischio medio-alto ovviamente non significa che
il test sia da proscrivere ma implica che è necessario
sviluppare ulteriore ricerca in questo campo. Sono in corso
alcuni studi per identificare markers predittivi di eventi
cardiovascolari i cui risultati potrebbero in futuro
modificare il giudizio relativo all’utilità dello screening
elettrocardiografico.

D) Le conclusioni del report USPSTS si riferiscono
esclusivamente all’utilizzo dell’ECG come screening
della malattia coronarica e non possono essere estese ad altre
patologie cardiache non ischemiche quali, per esempio, le
alterazioni del tratto QT, che possono essere rilevate con un
singolo ECG di screening.
Una categoria particolare è rappresentata dagli atleti che
svolgono attività agonistica per i quali lo screening
elettrocardiografico è generalmente ammesso e largamente
praticato. Ricordiamo che in Italia anche il rilascio del
certificato di attività fisica non agonistica è subordinato
alla esecuzione di almeno un ECG nella vita.

L’editoriale conclude affermando che sono necessarie ulteriore
ricerche relative al ruolo dell’ECG a risposo e da sforzo come
marker di rischio nei confronti della coronaropatia
aterosclerotica e di altre cardiopatie e per chiarire il
significato di alcune varianti elettrocardiografiche in
particolari categorie di soggetti quali gli atleti. L’emergere
di nuove conoscenze in questo campo, infatti, potrebbe
determinare una profonda revisione del ruolo di queste
procedure nella valutazione del rischio cardiovascolare.

Fonte:    Screening for Cardiovascular Disease Risk With
Electrocardiography US Preventive Services Task Force
Recommendation Statement. JAMA. 2018;319(22):2308-2314.
doi:10.1001/jama.2018.6848
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