ALLE ORIGINI DELLA MODA COME ISTITUZIONE SOCIALE - Marco Belfanti DSS PAPERS STO 1-06
←
→
Trascrizione del contenuto della pagina
Se il tuo browser non visualizza correttamente la pagina, ti preghiamo di leggere il contenuto della pagina quaggiù
Marco Belfanti ALLE ORIGINI DELLA MODA COME ISTITUZIONE SOCIALE DSS PAPERS STO 1-06
Nella società attuale la moda è ormai divenuta un fenomeno sociale di dimensioni impensabili soltanto qualche decennio fa, in grado di condizionare gusti, scelte e comportamenti dei consumatori - o, perlomeno di interagire con essi. Il tentativo di ricostruire il percorso attraverso il quale si mette in moto il processo di trasformazione che ha portato la moda ad imporsi come un’istituzione sociale destinata a durare nei secoli non può fare a meno di considerare il contesto economico-sociale in cui è maturato tale cambiamento. Non si tratta pertanto di arricchire con qualche fantasiosa interpretazione quello che è stato definito “il mito delle origini”(Segre Reinach 2005, p. 8), quanto di proporre argomentate analisi dei tempi e dei modi che hanno consentito l’affermazione della moda come istituzione della modernità. Sulla scorta delle articolate riflessioni proposte dagli studiosi di scienze sociali, si può infatti pensare alla moda come ad una istituzione sociale che regola l’avvicendamento di cicli di cambiamento delle fogge degli abiti, superando la pre-esistente regolazione fondata su principi di carattere ascrittivo1. L’assunto implica due elementi essenziali: il primo è dato dal costante cambiamento, più o meno rapido, delle fogge, mentre il secondo consiste nella facoltà degli individui di seguire tali avvicendamenti senza limitazioni normative. Si può perciò ritenere che il “fenomeno moda” fosse presente, in forma più o meno compiuta, in quelle società in cui fossero riscontrabili questi due elementi. Allora in quale fase della storia delle società occidentali è possibile ravvisare l’emergere del “fenomeno moda”? Mary Stella Newton, nel suo Fashion in the Age of the Black Prince (Newton 1980), non ha dubbi 1 Per un compendio delle posizioni emerse nell’ambito delle scienze sociali si veda l’agile sintesi di Marchetti 2004, pp. 13-69. Alle origini della moda come istituzione sociale 3
nell’indicare gli anni attorno al 1340 come il periodo in cui furono introdotte importanti innovazioni nelle acconciature, nelle calzature e soprattutto nella foggia degli abiti2: si passò infatti da fogge indifferenziate per l’abito maschile e quello femminile ad una netta distinzione di genere nell’abbigliamento, nonché dall’abito drappeggiato all’abito aderente, grazie ad una serie di cambiamenti nel taglio e all’adozione diffusa di allacciature fissate con i bottoni3. L’introduzione di tali innovazioni avrebbe poi aperto la strada ad un’evoluzione caratterizzata da ciclici cambiamenti nel gusto di vestirsi. Anche accettando la tesi che il XIV secolo sia stato il grande spartiacque tra un’epoca in cui l’abbigliamento non si discostava dalla tradizione ed un’epoca in cui, invece, il ritmo del cambiamento subì una accelerazione4, rimane però vero che si trattava comunque di una società in cui l’abito era espressione diretta dell’appartenenza ad un preciso ordine sociale. L’abbigliamento era considerato un preciso segnale di appartenenza ad un ceto sociale e/o ad una comunità etnica, ma anche un efficace indicatore dell’età, della professione e, ovviamente, di genere: le gerarchie sociali si rispecchiavano fedelmente nelle gerarchie delle apparenze. Lo esplicitava Giovanni Della Casa, autore del fortunato trattato sulle buone maniere Galateo, quando scriveva: “Ben vestito dèe andar ciascuno, secondo sua conditione e secondo sua età, perciò che, altrimenti facendo, pare che egli sprezzi la gente” (Della Casa 1558, p. 23). E ancora più chiaramente, laddove consigliava: “[La veste] quale ella si sia, vuole essere assettata alla persona e starti bene, acciò che non paia che tu abbi indosso i panni d'un 2 La tesi è stata poi ripresa da molti autori: si vedano, tra gli altri, Steele 1999, pp.15-18 e Wilson 2003, pp. 18-20. 3 Sui bottoni si veda Frugoni 2001, pp. 102-103. 4 Posizione più cauta è stata assunta da Ribeiro 2003, pp. 42-43. 4 Alle origini della moda come istituzione sociale
altro, e sopra tutto confarsi alla tua conditione, acciò che il cherico non sia vestito da soldato e il soldato da giocoliere.” (p. 80) Gli faceva eco dalla Spagna “l’arbitrista” Fernàndez Navarrete, il quale sentenziava che “es justo que los trajes de los nobles se diferencien de los que han de permitirse a los plebeyos” (Alvarez Ossorio 1998-99). Le numerose leggi suntuarie promulgate nei vari stati europei sono l’indicatore dello sforzo volto a regolamentare “le apparenze” in funzione delle gerarchie sociali. Così, ad esempio, nel 1551 tredici gentiluomini mantovani inviarono al signore di Mantova una lettera di protesta contro una prammatica suntuaria che non teneva in adeguato conto le differenze sociali, argomentando nel modo seguente: “Ma se pur deve essere a particolari osservato il grado, non veggiamo (sia detto senza ambitione) per qual ragione non dovesse esser per il meno il mercatante dal gentiluomo et l’ignobile dal nobile conosciuto. Et ci pare strano che la reputatione di alcuni di noi acquistata colla vertù de’ nostri antecessori et conservata per noi con tanto sudore et spesa in servigio di questa illustrissima casa, debba hora essere così vilipesa, ch’havendosi a far discernenza di persone, dobbiamo essere nuoi posti a rubbio con gli più infimi et vili di questa città” (Luzio 1913). Senza dubbio si può discutere fino a che punto le leggi suntuarie siano state efficaci o se, invece, la loro reiterazione non rappresenti piuttosto un segno della loro inefficacia5. Credo che tale argomento possa avere una valenza esplicativa per secoli come il XVI e il XVII, ma ho qualche dubbio per i secoli precedenti. Che l’abito fosse considerato funzione della gerarchia sociale è testimoniato anche dalla fortuna editoriale dei trattati illustrati sull’abbigliamento, nei quali venivano proposte vere e proprie gallerie di 5 Sulle legi suntuarie si vedano Hunt 1996 e il recente Muzzarelli e Campanini 2003. Alle origini della moda come istituzione sociale 5
costumi, sfilate su carta di abiti, classificati per area geografica, sesso, età e, naturalmente, condizione sociale di chi li indossava. Il punto culminante di questo genere di trattatistica fu probabilmente il volume di Cesare Vecellio, Habiti antichi e moderni di tutto il mondo, pubblicato a Venezia alla fine del secolo XVI6, in cui l’impegno a classificare in maniera chiara e incontrovertibile la “gerarchia delle apparenze” arrivava ad includere anche i popoli delle terre recentemente scoperte oltre Oceano7: il libro XII dell’opera è infatti dedicato all’America ed in esso sono descritti – e classificati per sesso, età e condizione sociale di chi li portava - gli abiti delle genti del Perù, del Messico, della Virginia e della Florida (Vecellio 1598). L’afflato classificatorio di Cesare Vecellio costituì probabilmente il tentativo supremo, più compiuto e maturo, di rappresentare gli ordini sociali inserendoli in una coerente e ordinata architettura vestimentaria, uno sforzo realizzato mentre emergeva più di un sintomo che segnalava l’esistenza di qualche crepa nell’apparato della gerarchia delle apparenze. In questa prospettiva l’opera di Vecellio si può anche leggere come il tentativo di fissare in immagini una visione della società che cominciava ad incrinarsi. E non è un caso che dopo Vecellio quel genere di trattatistica sull’abbigliamento cominciasse a declinare. E’ infatti proprio nel corso di quello stesso secolo XVI che cominciarono a venire alla luce i segni di un mutamento delle funzioni dell’abito. Vi sono testimonianze che mi sembrano illuminanti. L’avvento di cicli di avvicendamento del gusto vestimentario è attestato con chiarezza. Michel de 6 L’edizione del 1590 portava il titolo De gli abiti antichi et moderni di diverse parti del mondo, presso Damian Zenaro; quella successiva, del 1598, fu titolata Habiti antichi e moderni di tutto il mondo, presso Gio. Bernardo Sessa. 7 Sull’opera di Vecellio si vedano J.A. Olian 1977; Dalle Mese 1998; Grimes 2002. 6 Alle origini della moda come istituzione sociale
Montaigne lo ha rilevato con grande lucidità: “L’attuale maniera di vestirsi fa immediatamente condannare l’antica, con una sicurezza così grande e un consenso così generale che direste che è una specie di mania che sconvolge in tal modo il cervello. Poiché il nostro cambiamento in questo è così pronto e improvviso che l’inventiva di tutti i sarti del mondo non saprebbe fornire sufficienti novità, è giocoforza che molto spesso le fogge disprezzate tornino in credito e poco dopo cadano di nuovo in disprezzo” (Montaigne 1580, I pp.384-385). Ed era lo stesso Vecellio ad ammettere che “perchè gli habiti donneschi sono molto soggetti alla mutatione et variabili più che le forme della luna, non è possibile in una sola descrittione metter tutto quello che se ne può dire” (Vecellio, 1598, p. 109). Ma ciò che maggiormente colpisce nelle testimonianze dei contemporanei è la convergenza di valutazioni sulla crisi della gerarchia delle apparenze. Sono ben note, ad esempio, le indignate considerazioni del puritano Phillip Stubbes, autore del trattato Anatomie of the abuses in England, che nel 1583 scriveva: "Nowhere is suche a confused mingle-mangle of apparell [as in England] and such preposterous excesse thereof, as anyone is permitted to flaunt it out in what apparell he lusteth himself, or can get by with any kind of meanness, so that it is very hard to know who is noble, who is worshipful, who is a gentleman, who is not" (Hunt 1996, p. 108). Ma anche Fynes Moryson parlava di “babylonian confusion” e denunciava il fatto che ognuno “goe apparelled like a gentleman” (De Marly 1986, p. 24). Valutazioni di tenore molto simile erano espresse da autorevoli osservatori della società spagnola, come Sebastiàn de Covarrubias, letterato spagnolo attivo nella seconda metà del secolo XVI, che annotava: “Notorio es el excesso en Espana en el vestir, porque un dìa de festa el oficial y su muger no se diferencias de la gente noble” (Alvarez Ossorio 1998-99). Gli Alle origini della moda come istituzione sociale 7
faceva eco il vescovo di Limoges, che nel 1561 scriveva da Madrid alla regina di Francia, esprimendole il suo sdegno per la “vanità che domina gli uomini di questo paese, i quali si nutrono di boria, purchè siano considerati come nobili e possano averne l’abito e l’apparenza” (Braudel 1966, II, p. 774). La situazione non doveva però essere tanto diversa in Francia, se nei primi anni del Seicento Antoine de Montchrestien annotava: “Ce n' est point de nos jours, mais de tout temps que la necessité du vestement se tourne en vaine pompe. Les meilleurs estats en ont souffert de grands desordres, ausquels on a bien souvent esté contraint de remedier par de severes loix, le nostre mesme plusieurs fois, et maintenant en auroit-il besoin plus que jamais; car, pour en parler à la verité, il est à present impossible de faire distinction par l' exterieur. L' homme de boutique est vestu comme le gentilhomme. Cestuy-ci ne sçauroit plus estre connu, que par la seule bonne creance et belle façon. Si cela manque, àdieu toute difference. Au reste qui n' apperçoit point comme ceste conformité d' ornement introduit la corruption de nostre ancienne discipline ? Qui ne void point comme le vilain qui se void brave veut aller du pair avec le noble, croyant que l' habit fait le moyne? Qui ne void point comme le gentilhomme, se sentant méprisé du bourgeois, pour rendre ce qu' on luy preste méprize le seigneur? Si l' on continuë ainsi, il ne sera plus question desormais d' estre; il ne faudra que paréstre. Qui plus reluira sera de meilleur or. Mais garde la touche! Quel ordre peut on esperer de ceste creance, qui se tourne en habitude, et ceste habitude en coustume? Quelle obeissance pour l' advenir aux superieurs? Qui prendra plus à gloire l' honneur d' estre commandé? Si vos majestez ne nous retirent de ceste confusion et indifference, c' en est fait; tous generalement vont faire banqueroute à la vraye et solide vertu, tous se vont 8 Alle origini della moda come istituzione sociale
mettre apres la vanité. La discipline sera banie des troupes et l' ordre des armées. La naifve valeur sera contrainte de ceder à la vaine pompe” (Montchrestien 1615, pp. 59-61). Stefano Guazzo, autore del trattato La civil conversazione, pubblicato per la prima volta nel 1574 in Italia, con altre 20 edizioni entro la fine del secolo, e tradotto in Francia, Inghilterra, Olanda e Germania, condannava “l’indiscretezza d’alcuni ignobili ricchi, i quali non si vergognano di vestirsi nobilmente e portare arme indorate a canto, con quegli altri ornamenti che converrebbono a soli cavalieri (…). Ed è scorsa ormai tanto oltre questa licenza in molte parti d’Italia, che, così negli uomini come nelle donne, non si conosce più alcuna distinzione de’ gradi loro e vedete che i contadini presumono di fare concorrenza nel vestire agli artefici e gli artefici ai mercatanti e i mercatanti ai nobili” (Guazzo 1574, p.140). Benché appartenenti a contesti molto diversi, gli autori dei brani citati condividevano la preoccupazione per il disordine e la confusione che regnava nella società a causa dell’abbigliamento: l’abito rappresentava un fondamentale strumento di identificazione e distinzione sociale, ma se ciascuno avesse avuto facoltà di vestirsi secondo il proprio capriccio, allora sarebbe divenuto impossibile riconoscere le persone e l’ordine sociale stesso avrebbe subito gravi conseguenze. Probabilmente si trattava di un fenomeno limitato ai centri urbani, la cui portata non può essere generalizzata, tuttavia le testimonianze citate fanno pensare al manifestarsi di una crescente attitudine al consumo connotata da comportamenti emulativi dello stile di vita dei ceti elevati. Quale interpretazione darne? Si tratta delle esagerate lamentele di moralisti afflitti da nostalgia del buon tempo antico, presenti in ogni epoca, o della preoccupata espressione di chi coglieva i sintomi di un pericoloso Alle origini della moda come istituzione sociale 9
mutamento in atto? Quest’ultima sembra essere la lettura più verosimile. In effetti, nel corso del secolo XVI le indignate reprimende morali della crescente dipendenza dalle variazioni della moda appaiono particolarmente dure e frequenti a confronto con i secoli precedenti (Ribeiro 2003, p. 59). Inoltre, a giudicare dall’incremento quantitativo delle leggi suntuarie promulgate nella maggior parte degli stati europei tra XVI e XVII secolo, in quel periodo i poteri politici si impegnarono in un’azione normativa allo scopo di restaurare l’ordine nella “gerarchia delle apparenze” (Hunt 1996, pp.28-29). Assai esplicito in questo senso fu il preambolo del proclama emanato nel 1588 in Inghilterra da Elisabetta I, nel quale si deplorava “the confusion of degrees of all estates, amongst whom diversity of apparel hath been always a special and laudable mark” (Vincent 2003, p. 125). E’ fuor di dubbio che dietro la questione dell’abito e della disciplina dell’abbigliamento si celavano tensioni sociali complesse e articolate, diverse a seconda delle varie situazioni, sulle quali si tornerà, ma mi sembra inevitabile ritenere che “l’attacco” alla gerarchia delle apparenze sia stato supportato dalla crescita e dall’ampliamento della propensione al consumo di capi di vestiario. Tale interpretazione è confortata anche dai risultati delle indagini condotte sugli inventari post-mortem, che hanno consentito ad Anton Schuurman e Lorena Walsh di affermare che “since the sixteenth century, consumption seems to have been growing” (Schuurman and Walsh 1994, p.14). Ma, se è vero che la gerarchia delle apparenze cominciava ad incrinarsi a causa delle accresciute possibilità di acquistare capi di abbigliamento, allora è necessario chiedersi quali fossero le condizioni economiche che avevano consentito tale cambiamento. Gli studi che consentono di affrontare la questione dell’evoluzione del potere d’acquisto durante i secoli dell’Età moderna sono innanzitutto le 10 Alle origini della moda come istituzione sociale
ricerche sui salari e prezzi e, in particolare, quelle focalizzate sulla ricostruzione della dinamica dei salari reali, che, dopo una stagione di indagini risalente ad alcuni decenni fa8, hanno recentemente ritrovato nuovo vigore, utilizzando nuove fonti e adottando metodologie statistiche più accurate9. Le informazioni messe a disposizione da questi studi non lasciano molto spazio alle interpretazioni: tra la metà del secolo XVI e la prima metà del XVII si verificò un consistente deterioramento dei salari reali (Allen 2001, pp. 441-447). Il fenomeno si presenta con intensità diversa a seconda delle aree geografiche e con oscillazioni, ma l’evoluzione secolare del potere d’acquisto dei salari sembra caratterizzata da una generale tendenza alla flessione, anche se tale dinamica fu più pesante nell’Europa centro- meridionale e meno drammatica nell’area dei Paesi Bassi (Allen 2001, pp. 427-243). E’ doveroso precisare che le pur accurate ricerche sull’evoluzione dei salari reali scontano alcuni limiti, di cui bisogna tener conto in sede interpretativa. Innanzitutto è opportuno sottolineare che la costruzione di serie storiche affidabili e continue di prezzi e salari è limitata dalla disponibilità delle fonti, reperibili soltanto in alcune aree, e che quanto più si risale indietro nel tempo tanto più rare si fanno le informazioni quantitative. In secondo luogo, laddove esistono e sono accessibili, i dati sui salari sono relativi soltanto ad alcune categorie professionali – per lo più muratori, dei quali possiamo conoscere la paga giornaliera individuale, ma ignoriamo il complesso del reddito familiare: informazione essenziale per avere una idea precisa delle risorse effettivamente disponibili per ogni unità domestica. Per quanto concerne poi i prezzi dei generi di consumo, ai quali rapportare i salari nominali per ottenere l’indicatore del potere d’acquisto, la costruzione 8 Per una sintesi si veda De Vries 1993, pp. 89-98. 9 Si vedano Allen 2001 e Allen, Bengtsson and Dribe 2005. Alle origini della moda come istituzione sociale 11
di un paniere di beni effettivamente rappresentativo dei modelli di consumo per periodi di tempo molto lunghi appare impresa assai ardua, le cui difficoltà hanno indotto i ricercatori ad adottare espedienti metodologici che possono anche essere tecnicamente raffinati, ma corrono il rischio di condurre a risultati di dubbia attendibilità (De Vries 1993, pp. 95-98). Tuttavia, le serie storiche costruite dagli studiosi attestano, con l’efficacia dimostrativa di formule, tabelle e grafici, che il secolo XVI non conobbe un incremento generalizzato della propensione al consumo sostenuto dalla lievitazione dei salari reali. Questa conclusione contrasta, almeno in apparenza, con le evidenze empiriche raccolte dai ricercatori che studiano le attitudini al consumo - il cosiddetto “world of goods” – attraverso l’analisi degli inventari notarili. Questa diversità di vedute è ben sintetizzata da Jan De Vries: “The historian who averts eye contact with the wage and price evidence just discussed and fixes his or her gaze firmly on what I will call ‘direct evidence’ of the world of goods will gain a very different – a decidely optimistic – impression of the changing standard of living from the sixteenth to the beginning of the nineteenth century” (De Vries 1993, p.98). Naturalmente nemmeno le indagini condotte sugli inventari notarili sono esenti da limiti e da cautele interpretative. Tra i rilievi che sono stati sollevati vi sono le osservazioni che si tratta in genere di ricerche a campione, di cui è difficile appurare la rappresentatività, e che la documentazione impiegata fornisce soltanto informazioni di stato e non di flusso, ossia la descrizione dei beni posseduti in un determinato momento senza la possibilità di capire come tale patrimonio materiale si è formato e modificato (De Vries 1993, p.98). In realtà, il contrasto tra i risultati ottenuti dai due filoni di ricerca – quello sui salari reali e quello sulla cultura materiale –, per quanto concerne 12 Alle origini della moda come istituzione sociale
l’ampliamento della propensione al consumo di capi d’abbigliamento che ha prodotto “l’attacco” alla gerarchia delle apparenze, è soltanto apparente, perché è plausibile ritenere che i comportamenti condannati nelle testimonianze citate fossero prerogativa di soggetti appartenenti a ceti abbienti, probabilmente arricchiti, verosimilmente cittadini, che aspiravano a forme di legittimazione e riconoscimento sociale di rango più elevato De Vries 1993, p. 106)10. Il Cinquecento è infatti descritto dalla storiografia come un periodo caratterizzato da mobilità sociale, particolarmente intensa in Inghilterra Koenigsberger and Mosse, 1968, p. 52; Stone 1965 e 1966, pp. 16-55), ma rilevabile anche sul continente (Kamen 1971, pp. 163 e 231- 232; Braudel 1966, II, pp. 770-775 e 1979, pp. 486-487). Per dirla con Henry Kamen: “L’ascesa dei ceti medi fu un fenomeno indiscutibile dell’Europa del XVI secolo. Coloro i quali si erano fatti strada nel commercio, con la carica e con la terra, si preoccupavano ormai di consolidare i vantaggi conseguiti dalla loro classe sul piano sia dello status sociale che dell’influenza politica” (Kamen 1971, p. 231). Si potrebbe osservare che questi ”ceti emergenti” non volevano abbattere la gerarchia delle apparenze, ma solo essere inclusi in essa. Non si può escludere che in una fase iniziale la tendenza fosse di questo tipo, ma ritengo che l’avvento della moda potesse essere ancor più funzionale alle esigenze di rappresentazione dell’ascesa sociale: essere “alla moda” sarebbe divenuto il criterio di distinzione alla portata di chi disponeva dei mezzi per poterselo permettere. Pertanto non è certo tra i muratori o i salariati non specializzati, impegnati a mettere insieme il pranzo con la cena, che dobbiamo cercare i protagonisti della sfida alla gerarchia delle apparenze stigmatizzata dagli 10 Cfr. De Vries, Between purchasing power, cit., p.106. Alle origini della moda come istituzione sociale 13
indignati contemporanei, come rilevano gli stessi Schuurman e Walsh: “From the sixteenth century onwards, material circumstances among those not abjectly poor appear to have gradually improved” (Schuurman and Walsh 1994, p. 14)11. La caduta, più o meno pesante, del potere d’acquisto dei salari, erosi dalla crescita del costo dei generi alimentari del secolo XVI, produsse senz’altro un inasprimento delle condizioni di vita dei lavoratori, ma non determinò necessariamente una contrazione generalizzata dell’attitudine al consumo: anzi, proprio l’aumento dei prezzi agricoli poteva causare al tempo stesso un ridimensionamento dei redditi reali dei salariati e una lievitazione, almeno in termini nominali, delle entrate dei ceti facoltosi (Hoffman, Jacks, Levin and Lindert 2005, pp. 131-165). Il meccanismo era stato ben inquadrato dall’agronomo settecentesco Sallustio Bandini, che osservava come un elevato prezzo del grano imprimesse “nel denaro un più veloce moto”, perché in tali occasioni “quel nobile spese tante migliaia di scudi in quella fabbrica, quell’altro tanti in quelle coltivazioni” (Cipolla 1979, p. 19): è verosimile che in siffatte congiunture anche la disponibilità al consumo ne risultasse favorita. Nel periodo compreso tra il 1500 ed il 1650 circa la disuguaglianza tra poveri e ricchi aumentò considerevolmente: mentre i salariati incontravano crescenti difficoltà a fronte del costante incremento dei prezzi dei beni di prima necessità – cibo, casa, riscaldamento -, che assorbivano la totalità del loro bilancio familiare, i ceti abbienti, quelli che ricavavano il loro reddito dalla proprietà fondiaria, potevano sfruttare sia l’incremento dei prezzi agricoli12, sia il contemporaneo declino del costo 11 Il corsivo è mio. 12 Tuttavia, non per tutti si trattò di un’opportunità: laddove le rendite fondiarie erano percepite in denaro, anche i proprietari furono danneggiati dalla spirale inflazionistica, mentre riuscirono a difendersi quanti riscuotevano i canoni in natura o gestivano direttamente le tenute (Braudel 1966, I, pp.565-566; Stone 1965, pp. 203-204). Sir Thomas Smith annotava nel 1549 che a beneficiare dell’alto prezzo del grano erano 14 Alle origini della moda come istituzione sociale
di quei beni e servizi del cosiddetto “consumo vistoso” che drenavano quote considerevoli del loro budget: arredamento, generi esotici, servitù e, naturalmente, abbigliamento (Hoffman, Jacks, Levin and Lindert 2005, pp. 164-165). Proprio i prezzi dei prodotti di base per la confezione delle molteplici tipologie di capi di vestiario, ossia i tessuti, manifestarono una chiara tendenza al declino nel corso del Seicento. Le accurate ricerche di Carole Shammas hanno messo in luce che il fenomeno sembra prendere le mosse già verso la fine del secolo XVI per consolidarsi poi nel corso del successivo (Shammas 1993 e 1994). Se è vero che le ragioni di tale evoluzione sarebbero da ricercare nella flessione dei salari percepiti dai lavoratori del settore (Shammas 1994, pp. 504-505), non è meno vero che questa non è l’unica spiegazione. I prezzi dei tessuti – e più in generale dell’abbigliamento – si contrassero anche perché i produttori allargarono e diversificarono la loro offerta, proponendo ai consumatori prodotti e soluzione vestimentarie nuove e più economiche rispetto al passato. Come ha scritto la stessa Shammas, “Prices declined, and the popularity of thinner, less expensive fabrics … and in the eighteenth century ready-made garments, also brought the costs down” (Shammas 1993, pp. 193-194). Sappiamo infatti che nell’industria tessile europea si orientò con impegno crescente verso la produzione di tessuti più leggeri e meno costosi di quelli tradizionali già nel tardo XV secolo e che tale tendenza andò rafforzandosi nel secolo successivo. L’evoluzione in tal senso nel settore laniero è piuttosto nota: la diffusione crescente di tessuti a buon mercato è un tratto “tutti coloro che hanno in gestione aziende o fattorie al vecchio fitto perché pagano al vecchio tasso e vendono al nuovo, cioè pagano per la loro terra ben poco e ne vendono i prodotti a caro prezzo”; erano invece penalizzati “tutti i nobili e i Alle origini della moda come istituzione sociale 15
caratteristico della dinamica produttiva del Cinquecento. Accanto alla ripresa di manifatture che si erano orientate alla lavorazione di tessuti leggeri già nel corso del Medioevo, sorsero, nel corso del secolo XVI, altri centri produttivi specializzati nella produzione di nuovi tipi di stoffe (Van Der Wee 2003, pp. 428-452). Tra le produzioni leggere tradizionali conobbero un notevole successo soprattutto i tessuti noti come baiette, saie, sarze (p. 439). Per quanto concerne le nuove tipologie produttive, si possono individuare due gruppi fondamentali. Da un lato vi erano le stoffe confezionate con filato di lana, che si distinguevano in tessuti pettinati, spesso definiti rascie, i drappi con finiture cangianti che imitavano gli effetti della seta (satins), ed infine stoffe tessute con l’impiego di lane di capra o di cammello. Appartenevano ad un secondo gruppo i tessuti misti, fabbricati con lana e altre fibre come cotone o lino (pp. 434-435). Forse meno nota, ma altrettanto rilevante, è l’analoga tendenza che emerge nell’ambito dell’industria della seta, dove pure appare in crescita la produzione di tessuti misti, cioè confezionati con filato di seta unitamente a fibre più economiche, come lana, lino, cotone o seta di qualità inferiore: i consumatori potevano così accedere a stoffe che emulavano gli effetti della superficie serica a costi inferiori rispetto a quelli dei drappi di seta pura e di prima scelta. L’esempio più conosciuto è forse quello dei cosiddetti broccatelli, la cui lavorazione si affermò a Venezia e in molti centri serici italiani ed europei durante il secolo XVI, ma accanto ad essi si producevano anche altre tipologie note come buratti, canevazze, cosacchi, dobloni, ferandine, rasetti, tabì (Molà 2000,pp. 170-184). gentiluomini e tutti coloro che vivono di fitti o di rendite imposte [cioè fisse], o che non si occupano di acquisti e vendite” (Kamen 1971, p. 91). 16 Alle origini della moda come istituzione sociale
Anche nell’ambito dei più preziosi velluti si adottarono tecniche di lavorazione finalizzate al contenimento dei costi, con presumibili ricadute sul prezzo finale del prodotto. Tra gli accorgimenti adottati vi fu quello di ridurre le dimensioni dei motivi decorativi dei velluti per abbigliamento: tale “miniaturizzazione” dei disegni consentiva un più semplice e veloce riassetto del telaio nel passaggio da una lavorazione ad un’altra, il che permetteva, oltre ad una maggiore flessibilità produttiva, una contrazione dei tempi e dei costi di produzione. Sempre diretta a comprimere i costi di lavorazione era la tecnica, adottata a partire dalla seconda metà del secolo, grazie alla quale si riproducevano sui velluti uniti gli effetti dei tessuti operati mediante impressione a caldo sulla stoffa (Orsi Landini 1999a, 1999b, 1999c, 1999d). Un altro importante cambiamento nell’offerta di soluzioni per il vestiario verificatosi nel corso del secolo XVI è rappresentato da quella che potremmo chiamare “la rivoluzione della maglia”, ossia l’avvento e la diffusione di articoli lavorati a maglia con gli aghi che andarono a sostituire capi d’abbigliamento tradizionalmente confezionati con il tessuto. L’esempio più noto è quello delle calze a maglia, primo caso di articolo di vestiario pret-à-porter, che poteva essere acquistato ed indossato senza passare attraverso il lavoro del sarto, come invece avveniva per le tradizionali calze di tessuto, con presumibili contrazioni del costo del prodotto (Belfanti 2005). Risale sempre del secolo XVI, probabilmente trainata dal successo ottenuto dalle calze a maglia, l’introduzione dell’innovazione di processo del telaio da maglieria, inventato dall’inglese William Lee (Chapman 2002; Belfanti 2005). Il discorso sulla maglieria conduce poi a considerare le prime forme di abito confezionato accessibili all’epoca. L’esempio più noto di abito Alle origini della moda come istituzione sociale 17
confezionato è ovviamente l’abito usato. Il mercato dell’abito usato, fiorente in tutte le principali città sin dal secolo XVI, offriva l’opportunità di acquistare una grande varietà di capi di vestiario. Gli abiti usati potevano essere acquistati presso rivenditori specializzati oppure nell’ambito di vendite all’asta (Allerston 1996, Deceulaer 1998, Du Mortier 1991, Zander Seidel 1991). Studi recenti hanno inoltre dimostrato che in alcuni centri urbani anche la vendita di abbigliamento ready-to-wear, appositamente confezionato, era praticata già tra la fine del secolo XVI e l’inizio del XVII: a Gand e Anversa, ad esempio, la vendita di articoli confezionati era prerogativa dei rigattieri, che commissionavano ai sarti cittadini la confezione dei capi (Deceulaer 1998, pp. 6-9). Infine, si può ricordare che consumatori dell’epoca potevano anche accedere ad una soluzione meno gravosa dell’acquisto, che era quella del noleggio di abiti per partecipare a particolari occasioni (Allerston 2000, pp. 367-390). Le evidenze empiriche esaminate sembrano inserirsi in un quadro d’assieme coerente. La costante e fruttuosa ricerca di innovazioni di prodotto e, in misura minore, di processo che caratterizzò il settore tessile- abbigliamento nel corso del Cinquecento fu contraddistinta da un fondamentale obiettivo: allargare e diversificare l’offerta con prodotti sempre meno costosi allo scopo di raggiungere una platea più ampia di consumatori. Questa strategia comportò un abbassamento del livello qualitativo e una riduzione della durata dei beni prodotti, ma accentò la flessibilità produttiva ed ampliò la varietà allo scopo di interagire in maniera più elastica con una composizione della domanda che si stava facendo sempre più articolata. Quanto sin qui esposto e discusso non porta certo ad anticipare al secolo XVI la cosiddetta “rivoluzione dei consumi”: i casi presi in considerazione 18 Alle origini della moda come istituzione sociale
dimostrano però come, almeno nelle principali città europee, esistessero concrete opportunità di accedere ad un’ampia gamma di opzioni in materia di abbigliamento per eludere la “gerarchia delle apparenze”. Come si è detto, tali opportunità erano in origine riservate ai ceti elevati ed è probabile che la possibilità di partecipare “al gioco della moda” si sia allargata ad altri gruppi sociali soltanto nel corso del secolo XVII, quando il potere d’acquisto cominciò a lievitare in maniera consistente e diffusa, in coincidenza con quella de Jan De Vries ha chiamato “industrious revolution” (De Vries 1994). Tuttavia, mi sembra importante sottolineare che il meccanismo del cambiamento si innescò partire dal secolo XVI, anche se il consolidamento avvenne più tardi. La tradizionale “gerarchia delle apparenze” entrò in crisi per un concorso di cause: la difficoltà di “enforcement” delle leggi suntuarie, la pressione di ceti con aspirazioni di ascesa sociale, le nuove opportunità offerte dal mercato dell’abbigliamento. Il sistema basato su un codice normativo rigido – le leggi suntuarie – fu sostituito con un’ istituzione sociale, dalle regole non meno severe, - la moda - che non cessava di attribuire significati di rappresentazione e identificazione all’abito, ma assolveva questa funzione in modo molto più flessibile e, al tempo stesso, più efficace. Alle origini della moda come istituzione sociale 19
BIBLIOGRAFIA Allen, R. C., 2001, The Great Divergence in European Wages and Prices from the Middle Ages to the First World War, “Explorations in Economic History”, 38, pp. 411-447. Allen R.C., T. Bengtsson and M. Dribe, a cura, 2005, Living Standards in the Past. New Perspectives on Well-Being in Asia and Europe, Oxford, Oxford University Press. Allerston, P.A., 1999, Reconstructing the second-hand clothes trade in sixteenth- and seventeenth-century Venice, “Costume”, 33 , pp. 46-56. Allerston, P.A., 2000, Clothing and early modern Venetian society, “Continuity and Change”, vol. 15, n. 3, pp. 367-390. Alvarez-Ossorio Alvarino A., 1998-99, Rango y aparencia. El decoro y la quiebra de la distinciòn en Castilla (siglos XVI-XVIII), “Revista de Historia Moderna”, n. 17, pp. 263-278. Belfanti, C.M., 2005, Calze e maglie, Mantova, Tre Lune. Braudel, F., 1966, La Mediterranée et le Monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, Paris, Librairie Armand Colin; trad. it. 1976, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi. Braudel, F., 1979, Civilisation matérielle, economie et capitalisme (XVe-XVIIIe siècles). Les jeux de l’échange, Paris, Librairie Armand Colin; trad. it. 1981, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII). I giochi dello scambio, Torino, Einaudi. 20 Alle origini della moda come istituzione sociale
Chapman, S. D., (2002), Hosiery and Knitwear, Oxford, Oxford University Press. Cipolla, C.M., 1979, I pidocchi e il Granduca. Crisi economica e problemi sanitari nella Firenze del ‘600, Bologna, Il Mulino. Dalle Mese, J. G., 1988, L’occhio di Cesare Vecellio. Abiti e costumi esotici nel ‘500, Alessandria, Edizioni dell’Orso. Deceulaer, H., 1998, Guildsmen, Entrepreneurs and Market Segments: The Case of the Garment Trades in Antwerp and Ghent (Sixteenth to Eighteenth Centuries), “International Review of Social History”, vol. 43, pp. 1-29. Della Casa G., 1558, Galateo, Venezia; edizione a cura di D. Provenzal, 1950, Milano, Rizzoli. De Marly, D.,1986, Working dress. A history of occupational clothing, London, B.T. Batsford. De Vries, J., 1993, Between purchasing power and the world of goods: understanding the household economy in early modern Europe, in J. Brewer and R. Porter, a cura, Consumption and the World of Goods, London and New York, Routledge, pp. 85-131. De Vries, J., 1994, The Industrial Revolution and the Industrious Revolution, “The Journal of Economic History”, vol. 54, n. 2, pp. 249-270. Donati, C., 1988, L’idea di nobiltà in Italia, secoli XIV-XVIII, Roma- Bari, Laterza. Du Mortier, B.M., 1991, Introduction into the used-clothing market in the Netherlands, in A.A.V.V., Per una storia della moda pronta, Firenze, Edifir, pp. 117-125. Alle origini della moda come istituzione sociale 21
Frugoni, C., 2001, Il Medioevo sul naso. Occhiali, bottoni e altre invenzioni medievali, Roma-Bari, Laterza. Grimes, K. I., Dressing the World: Costume Books and Ornamental Cartography in the Age of Exploration, 2002, in E. Rodini and E. B. Weawer (editors), A Well Fashioned Image. Clothing and Costume in European Art, 1500- 1850, Chicago, The University of Chicago, pp. 13-21. Guazzo, S., 1574, La civil conversatione, Brescia, Bozzola; edizione a cura di Quondam A., 1993, Modena, Panini. Hoffman, P. T., Jacks, D. S. , Levin P.A. , and Lindert, P. H., 2005, Sketching the Rise of Real Inequality in Early Modern Europe, in Living Standards in the Past. New Perspectives on Well-Being in Asia and Europe, Oxford, Oxford University Press, pp. 131-165. Hunt, A., 1996, Governance of the consuming passion. A history of sumptuary law, London and New York, MacMillan. Kamen, H., 1971, The iron century: social change in counter-Reformation Europe 1550- 1660, London, Weidenfeld and Nicolson; trad. it. 1975, Il secolo di ferro, 1550-1660, Roma-Bari, Laterza. Koenigsberger, H.G, and Mosse, G. L., 1968, Europe in the Sixteenth century, London, Longmans; trad. it. 1969, L’Europa del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza. Luzio A., 1913, La Prammatica del Cardinal Ercole Gonzaga contro il lusso, in Miscellanea Renier, Torino, pp. 65-78. Marchetti, M.C., 2004, Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda. Moda e società, Roma, Meltemi, 2004. 22 Alle origini della moda come istituzione sociale
Molà, L., 2000, The Silk Industry of Renaissance Venice, Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press. Montaigne, M. 1580, Essais, Bordeaux; trad. it. 1970, Saggi, Milano, Mondadori. Montchrestien de, A., 1615, L’économie politique patronale. Traicté de l’oeconomie politique, Rouen; edizione a cura di Funck-Brentano, Th., 1899, Paris, Plon. Newton, M.S., 1980, Fashion in the Age of the Black Prince. A study of the years 1340-1365, Woolbridge, Boydell Press. Muzzarelli, M.G., e Campanini, A., a cura, 2003, Disciplinare il lusso. La legislazione suntuaria in Italia e in Europa tra Medioevo ed Età moderna, Roma, Carocci. Olian, J.A., 1977, Sixteenth-Century Costume Books, “Dress”, n. 3, pp. 20-48. Orsi Landini, R., 1999a, All’origine della produzione moderna: il differenziarsi della produzione per abbigliamento e arredamento nei velluti fra Cinque e Seicento, in Museo Poldi Pezzoli, Velluti e moda tra XV e XVIII secolo, Milano, Skira, pp. 17-22. Orsi Landini, R., 1999b, Il velluto da abbigliamento. Il rinnovamento del disegno, in Museo Poldi Pezzoli, Velluti e moda tra XV e XVIII secolo, Milano, Skira, pp. 57-72. Orsi Landini, R., 1999c, Il rinnovamento delle tecniche, in Museo Poldi Pezzoli, Velluti e moda tra XV e XVIII secolo, Milano, Skira, pp. 73-90. Orsi Landini, R., 1999d, Apparire, non essere: l’imperativo del risparmio, in Museo Poldi Pezzoli, Velluti e moda tra XV e XVIII secolo, Milano, Skira, pp. 91-104. Alle origini della moda come istituzione sociale 23
Ribeiro, A., 2003, Dress and Morality, Oxford and New York, Berg. Schuurman, A. J., and L. S., Walsh, 1994, Introduction, in Schuurman, A. J. and Walsh, L. S., a cura, Material culture: consumption, life-style, standard of living, 1500-1900, Milan, Eleventh International Economic History Congress, pp. 7-18. Segre Reinach, S., 2005, La moda. Un’introduzione, Roma-Bari, Laterza. Shammas, C., 1993, Changes in English and Anglo-American Consumption from 1550 to 1800, in J. Brewer and R. Porter, a cura, Consumption and the World of Goods, London and New York, Routledge, pp. 177-205 Shammas, C., 1994, The Decline of Textile Prices in England and British America Prior to Industrialization, “The Economic History Review”, vol. 47, n. 3, pp. 483- 507. Steele, V., 1999, Paris Fashion. A Cultural History, Oxford and New York, Berg. Stone, L., 1965, The Crisis of the Aristocracy, 1558-1641, Oxford, Oxford University Press; trad. it. 1972, La crisi dell’aristocrazia. L’Inghilterra da Elisabetta a Cromwell, Torino, Einaudi. Stone, L., 1966, Social mobility in England, 1500-1700, “Past and Present”, 33, pp. 16-55. Van Der Wee, H., 2003, The western European woollen industries, 1500-1750, in Jenkins, D., a cura, The Cambridge History of Western Textiles, Cambridge, Cambridge University Press, I, pp. 397-472. Vecellio, C., 1590, De gli abiti antichi et moderni di diverse parti del mondo, Venezia, presso Damian Zenaro. 24 Alle origini della moda come istituzione sociale
Vecellio, C., 1598, Habiti antichi e moderni di tutto il mondo, Venezia, presso Gio. Bernardo Sessa. Vincent, S., 2003, Dressing the élite. Clothes in Early Modern England, Oxford and New York, Berg. Wilson, E., 2003, Adorned in Dreams. Fashion and Modernity, New Brunswick and New Jersey, Rutgers University Press. Zander Seidel, J., 1991, Ready-to-wear clothing in Germany in the sixteenth and seventeenth centuries: new ready-made garments and second-hand clothes, in A.A.V.V., Per una storia della moda pronta, Firenze, Edifir, pp. 9-16. Alle origini della moda come istituzione sociale 25
Puoi anche leggere