A uccidere è l'organizzazione del lavoro

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A uccidere è l’organizzazione del
lavoro
Da Jacobin Italia.
A Prato è diffuso il «lavoro grigio», con operai assicurati per 4
ore al giorno che ne lavorano 16, e non a caso è anche la
provincia toscana con più contagi da Covid-19. Eppure i
Rappresentanti per la sicurezza sono considerati un ostacolo per
la ripartenza. Oggi lavoratori e lavoratrici in sciopero per la
morte di Luana D’Orazio

Qualche settimana fa proprio da alcuni capannoni di Montemurlo in
provincia di Prato, vicino a dove è successo il terribile
infortunio mortale di Luana D’Orazio, l’operaia tessile di 22 anni
rimasta intrappolata e stritolata nel subbio dell’ordito, inviai
ad alcuni compagni sindacalisti questa foto che avevo appena
scattato commentando «la solitudine del rappresentante dei
lavoratori per la sicurezza (Rls)».

Ero uscita da una ditta tessile artigiana e ancora una volta avevo
dovuto spiegare che non ero rappresentante in quanto «venditore di
qualcosa» ma sono una figura formata e obbligatoria per legge, che
cerca di rappresentare e dunque dare voce e tutela sulla salute,
la sicurezza e la prevenzione a lavoratrici e lavoratori nelle
aziende sotto i quindici dipendenti del territorio di Prato e
provincia.

Poco più di un anno prima, con l’inizio della pandemia, con il
lockdown, con i Dpcm e i protocolli anti-contagio improvvisamente
ci si era ricordati di questa figura, come ho già raccontato.
Purtroppo non è durata molto: dopo lo stordimento iniziale, le
riunioni, il coinvolgimento, i telefoni impazziti, le misure di
precauzione per il virus, gli Rls sono tornati i rompiscatole di
prima, più di prima. «Quante storie, quanta precauzione, bisogna
pur lavorare e andare avanti, no? Non ci volete far lavorare? Qua
se non si lavora chiudiamo tutto per davvero». Parole che potevi
sentire dappertutto. La prevenzione come ulteriore ostacolo alla
ripartenza.

C’era stato poi un altro grave fatto che aveva colpito sei Rls
ferrovieri che si sono costituiti parte civile nel processo della
strage di Viareggio e che in seguito alla sentenza di Cassazione
che non ha riconosciuto la mancata applicazione del Testo Unico
sulla sicurezza del lavoro come era stato fatto nei gradi di
giudizio precedenti, sono stati chiamati dai legali delle Ferrovie
dello stato a versare una somma complessiva di circa 80.000 euro
di spese legali. Dieci anni di tempo, carte, competenza,
conoscenza di procedure e leggi messe a disposizione della
battaglia a fianco dei familiari delle vittime e delle
organizzazioni sindacali per poi vedersi arrivare questa batosta.
È evidente che se fosse passato che le lotte per la salute e la
sicurezza, e per il riconoscimento delle figure di rappresentanza,
producono questi costi di impegno e soldi, sarebbe stata una
sconfitta per tutto il mondo del lavoro. Dopo un tam tam di
solidarietà per promuovere una cassa di resistenza, dopo un
appello di Rifondazione Comunista e svariate firme del mondo
culturale e dello spettacolo, il Primo Maggio i sei Rls hanno
annunciato la straordinaria partecipazione delle circa 3.000
persone che, sensibili a quella tragedia e ai temi della
sicurezza, hanno contribuito individualmente oppure in forma
organizzata al difficile traguardo di questa sottoscrizione
solidale raggiungendo più di 130.000 euro che oltre a coprire le
spese sosterranno altre lotte su salute e sicurezza.

La seconda ondata di contagi riesplosa a ottobre ci ha condotto
alle note zone colorate e a Prato, proprio negli ultimi mesi,
nonostante settimane di zona rossa, i contagi non calavano.
Continuavo a muovermi fra capannoni, ma sempre più a fatica:
quarantene, contagi, positivi, c’era sempre qualche ditta che
rimandava il sopralluogo. Agli amici che mi chiedevano come va,
rispondevo «scanso i birilli». La mia percezione era che non si
rispettassero i protocolli, ma non tanto su mascherine, gel e
distanza quanto sulle quarantene. Se c’è da rispondere a una
consegna, nelle ditte piccole soprattutto, anche se in attesa di
esito da tampone o con familiari positivi, vieni a lavoro lo
stesso per poi contagiare gli altri dipendenti. Se non previeni il
conto ti arriva tutto insieme o in contagiati o in infortuni. Se
le persone si ammalano poi non lavorano e magari per risparmiare
un giorno di quarantena hai perso due mesi di lavoro.

Abbiamo avuto la conferma dalla Asl che ha decretato che in
Toscana la provincia peggiore dei contagi è proprio Prato: ci si
contagia nelle fabbriche e dai controlli una ditta su quattro non
rispetta le regole. Sono arrivati anche i dati drammatici della
perdita dei posti di lavoro che in assenza del blocco dei
licenziamenti sarebbe un’emorragia: nel 2020 nell’area pratese si
sono persi 2.161 posti di lavoro, 955 nel tessile, soprattutto
nell’abbigliamento, e 1.242 nei servizi. Come mi ha detto un
artigiano: «io faccio filato per giubbotti e io che li faccio
nell’ultimo anno non ne ho comprati. Se esci in questa situazione
vai a prendere un gelato, una boccata d’aria e non a comprarti un
giubbotto». Un suo dipendente impiegato da 19 anni come tessitore
si è licenziato ed è tornato in Pakistan.

Prato e provincia poi hanno avuto 1.872.185 ore di cassa
integrazione in deroga solo nel periodo da gennaio a luglio 2020.
Le ore del Fondo di integrazione salariale nello stesso periodo
sono state 5.036.940. Girando per capannoni ho spesso avuto
l’impressione che o sei fermo con gli operai a casa o chi è a
lavorare corre, anche per rimediare al tempo perso o per colmare
le assenze da contagi e quarantene.

Prato ha un’insolita percentuale di lavoro part-time se
confrontata col resto della Regione: si assicurano i lavoratori
per 4 ore, se ne lavorano 16. Senza denunce di lavoratori e
lavoratrici le aziende sfuggono ai controlli perché il lavoro a
nero è subito identificabile, il sommerso e il grigio molto meno.
A Prato è balzata alla cronaca nazionale la lotta con sciopero e
presidio permanente dei lavoratori tessili della Texprint che
chiedono di lavorare 8 ore al giorno e di non essere sfruttati:
praticamente una conquista avuta all’inizio del Novecento, ma che
qua non è garantita.

Prato ha poi poco personale negli organi competenti per i
controlli. Ha avuto investimenti regionali per il piano del lavoro
sicuro che però ha concentrato e intensificato i controlli sulle
aziende a titolarità cinese e non per l’intera filiera della
moda.

Prato ha una superficie di capannoni industriali impressionante
che l’ha disegnata nei decenni, ma molti sono vuoti, altri
fatiscenti e senza innovazione. Tanti industriali hanno
abbandonato la produzione e gli investimenti per darsi alla più
comoda e redditizia rendita degli affitti dei capannoni. È un mio
cruccio, dopo aver seguito il processo per la morte dei sette
operai cinesi nel rogo del Teresa Moda nel 2013 e la sentenza che
ha scagionato i proprietari del capannone, definiti dal Pubblico
ministero «professionisti dell’immobiliare», trovare i dati sugli
affitti. Ma non ci sono e non interessa a nessuno trovarli. Il
distretto tessile era caratterizzato anche da un continuo studio
del territorio e della filiera, coniando concetti poi divenuti di
uso nazionale, ma adesso si è smesso di fare. La ricerca è un
orpello, quella sociale non ne parliamo. Anzi, si è fatto pure
peggio: molto spesso si continua a guardare il distretto tessile
con la lente della nostalgia del passato, di una gloriosa età
dell’oro, dove chiunque trovava da lavorare e giravano tanti
soldi, mettendo in campo risposte di pancia più che di studio del
contesto e dei cambiamenti in atto.

Si dice che a Prato vada riscoperta l’etica del lavoro. Quale
etica aveva Prato? Lavorare 16 ore il giorno, perdere falangi e
udito, bambini a gironzolare fra i macchinari, acque colorate e
inquinate nei fiumi, capannoni che vibrano di fianco alle case e
sognare di diventare padrone? Questa etica aiuta salute e
sicurezza nel lavoro e nella città?

A Febbraio 2020 è morto schiacciato da un macchinario Sabri
Jaballah, operaio tessile poco più che ventenne a Montale in
provincia di Pistoia in una ditta italiana strutturata. Luana
D’Orazio è morta in una piccola ditta artigiana italiana, di cui è
costellato questo contesto. Va accertata la dinamica perché un
ordito con fotocellule e protezioni non stritola un corpo. Due
ventenni in poco tempo nello stesso territorio e nello stesso
settore ci hanno schiaffeggiato di orrore per il modo terribile in
cui sono morti e ci hanno ricordato che gli operai e le operaie
esistono e che i racconti patinati sui giovani non la dicono
tutta. Come ha scritto Alberto Prunetti devi crepare per ricordare
che esisti.

Può sembrare paradossale dirlo, ma non sono le macchine che
uccidono, uccide l’organizzazione del lavoro e il contesto
lavorativo. Questa morte sul lavoro è avvenuta in un contesto
familiare. Nel luogo di lavoro tutti volevano bene a Luana, pure i
titolari. Ci mancherebbe. È un’altra caratteristica del territorio
avere ditte familiari. Un punto considerato da sempre di forza del
tessuto produttivo, ma anche questa è una distorsione per salute e
sicurezza. La famiglia non ti salva, volersi bene non ti salva.
L’affetto non è fare prevenzione sui luoghi di lavoro. Anzi,
spesso attutisce le richieste, soffocate nel pudore e in altri
sentimenti. Salvano, a Prato come in tutto il paese, le
protezioni, l’investimento in tecnologie (perché si investe solo
sulle App per sfruttare il lavoro e molto meno su macchinari,
procedure e protezioni?), la formazione seria e non il mercato
nero degli attestati, i contratti stabili e senza monetizzazione
del rischio, l’analisi di filiera e di territorio, lo studio dei
lavoratori come cittadini e poi come lavoratori, l’addestramento e
il passaggio di consegne di conoscenza delle maestranze, il
coinvolgimento di lavoratori e lavoratrici e delle loro
rappresentanze nella valutazione dei rischi e nella prevenzione.

Fra gli anni Sessanta e Settanta abbiamo conquistato lo Statuto
dei lavoratori e il Sistema sanitario nazionale grazie alle lotte
del movimento operaio e a una stretta collaborazione con tecnici,
medici, studiosi. Una sinergia che ha saputo fare rete e produrre
forza. Oggi tutto è frammentato e ognuno guarda al proprio
pezzettino, muovendosi in un magma per salvaguardare sé stesso e
sempre di più si disperde un patrimonio di relazioni e conoscenza
intorno al lavoro, alla salute e alla sicurezza. Enti pubblici,
procure, istituzioni, organi di vigilanza, medicina del lavoro,
sindacati sono strutturati più su gerarchie, burocrazie e rigidità
che non sul patrimonio di conoscenza comune e sulla capacità di
metterlo in rete. Bisogna riuscire a non disperdere e a riprodurre
la conoscenza.

Mia mamma, operaia tessile, mi ripeteva come un mantra di studiare
perché è brutto quando le parole ci vengono dopo, quando è tardi.
Ecco, studiare per difendersi. Studiamo e diamo valore per gli
altri al nostro studio. Non cerchiamole dopo, le parole. Non
svuotiamole di senso. Usiamole correttamente e coerentemente e
diamo parole per difendersi alle lavoratrici e ai lavoratori.
Perché siamo stanchi anche di chi usa la cultura della sicurezza
come un intercalare: di solito più la si invoca meno ce n’è.

Ci vediamo oggi in piazza per lo sciopero generale a Prato.

Tratto da Jacobin Italia

                                                  *Simona Baldanzi
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