Mezzo secolo di musica corale: un'indagine semiografica 1950-2000 - Alessandro Kirschner
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1950-2000 mezzo secolo di musica corale: un’indagine semiografica Alessandro Kirschner Pubblicato in Offerta musicale, rivista fondata e diretta da Giovanni Acciai. Anno II n.8, n.9 Ed. Carrara
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1950-2000 Mezzo secolo di musica corale: un’indagine semiografica. Premessa Questo breve scritto si pone l’obiettivo di indagare su una prassi notazionale comune che ha coinvolto la scrittura per coro con o senza strumenti. Tale indagine verrà effettuata attraverso la comparazione di alcuni brani di noti compositori europei, ritenuti esemplificativi di uno stile e di una tendenza generalizzata. È importante sottolineare che il problema estetico-filosofico che porta un compositore rispetto ad un altro ad adottare un tipo di grafia più o meno convenzionale, viene qui trattato se non in parte, soffermandosi su osservazioni di carattere generale ed esecutivo. Introduzione Si può includere il concetto di notazione come soluzione alla necessità di memorizzare una manifestazione reale o mentale. La notazione non è altro che una “mnemotecnica”, che ha avuto uno sviluppo particolare a seconda della disciplina a cui si riferiva. La semiotica è la scienza che studia la notazione, in altre parole lo studio del funzionamento dei segni in quanto veicoli di conoscenza. Il concetto di notazione è legato all’esigenza di trovare un mezzo di comunicazione comune che sia in grado di fissare un’idea che si trasforma in “segno”. Si può dire che la notazione contiene in maniera inscindibile “memoria” e “progetto”, che possono altrimenti essere letti come “passato” e “futuro”; racchiude il momento intuitivo-creativo e ha le premesse di una rivitaliz- zazione di tale idea primigenia. Per quanto riguarda la notazione musicale, essa viene a porsi come anello fondamentale della catena che porta dall’intuizione del compositore alla sua realizzazione sonora: autore – grafia – interprete – suono 3
La grafia è quindi il ponte che permette la relazione tra compositore ed esecutore. Come elemento mediale essa è necessaria sia al compositore che all’esecutore, ma crea tuttavia due differenti modalità di interazione. Generalizzando si può dire che il compositore si serve della grafia per fissare la musica, ha quindi con essa un rapporto di necessità per l’esternazione del proprio mondo musicale1. Viceversa l’esecutore, tramite la grafia, entra in contatto con un universo che, più o meno rapidamente, comincia ad appartenergli ed inizia a stimolare la propria personale creatività; la notazione è quindi suggestivo e duttile mezzo per l’esecutore di lasciarsi penetrare e portare a nuova vita l’intuizione di un’altra persona. La partitura è perciò l’emblematico “garante dell’opera”2, vittima quasi di una suggestione platonica che sembra animare trasversalmente il fragile rapporto tra molta produzione contemporanea e la notazione alla quale si affida. Mai come nel periodo 1950-70 si è potuto assistere ad un tale proliferare di grafie notazionali che hanno reso la relazione oggettiva autore-interprete sempre più labile. D’altra parte questa estrema soggettività notazionale ha reso necessaria un nuovo livello di comunicazione verbale da parte del compositore verso chi si avvicinava alla sua opera con intento esecutivo. Solo per dare un rapido sguardo d’insieme si può osservare come già in Webern questa relazione si faccia fragile traducendosi in un minuzioso ordine di configurazioni, tali da rispecchiarsi in un muto gioco di simmetrie che trascende la pura sonorizzazione in nome di un ordine superiore extra- musicale. Con autori come Xenakis il distacco da ogni pensiero musicale tradizionale si fa ancora più ampio: la musica è traduzione in note di altre forme, magari già grafiche come si può riscontrare nella tecnica delle arborescenze.3 La partitura diventa quindi un sovraccarico di informazioni tale da trasformarla in struttura ideale “al di qua” di qualsiasi risultato sonoro. Si giunge quindi con breve passo ad una notazione del tutto ermetica che fa dell’indecifrabilità un valore ed un fine. È quello che avviene, ad esempio, in tanta musica di Bussotti, in cui la notazione assume un ruolo, per così dire, oracolare da cui si fa dipendere l’interpretazione del segno. Prima esiste il segno nella sua oscura concretezza, poi il suono o il gesto-suono nella sua incerta 1 È illuminante a questo proposito quanto affermava Franco Donatoni: “…io penso se scrivo; se non scrivo non penso niente, non ho volontà”, come a dire che il pensiero compositivo risulta inscindibile da una prassi scrittoria. 2 Espressione utilizzata da Andrea Valle in La notazione musicale contemporanea pag. 173 EDT, Torino 2002 3 La “tecnica delle arborescenze” consiste nel prevedere la struttura melodica, polifonica e ritmica di un brano, attraverso tracciati puramente grafici su carta millimetrata, tracciati che occorre poi trascrivere in forma musicale. 4
interpretazione.4 La realizzazione acustica di tale musica è ritenuta un semplice livello di manifestazione non sempre biunivocamente legato all’opera in sé. Daniele Lombardo5 è arrivato a sintetizzare il rapporto tra suono e grafia alla luce delle esperienze musicali intercorse dagli anni ’50 fino ad oggi, attraverso quattro possibilità notazionali: 1. Scrittura di progetto: è una scrittura che contiene informazioni più o meno precise per la realizzazione di un evento sonoro. 2. Musica da leggere e da vedere: consiste in scritture di progetti che sono destinati a rimanere nel silenzio fisico, mediante una percezione diversa, oppure speculazioni metatestuali sulla scrittura. 3. Gradi intermedi di musica da leggere ascoltare e vedere: utilizzano forme diverse di comunicazione dell’evento sonoro-gestuale. 4. Musica solo da ascoltare: improvvisazione, rifiuto di un progetto esemplificativo. A loro volta queste quattro possibilità possono essere così suddivise: 1) Scrittura di progetto a) notazione tradizionale b) scrittura di azione (codici d’azione, intavolature, diagrammi, segni ideografici, foto, testi d’azione) c) progetti per musica elettronica (progetti con cifrature particolari, diagrammi, segni ideografici, appunti di testo e testi numerici) d) computer music (programmi in codice, diagrammi) e) poesia sonora (partiture verbali) 2) Musica da leggere e da vedere a) Progetti di musica concettuale (metanotazioni, diagrammi, segni ideografici di poesia visiva, testi di musica da immaginare) b) Poesia visiva (uso decontestualizzato della notazione, disegni e foto, testi di poesia, di azione, lettere, fonemi) 4 A. Valle op. cit. pag. 180 5 D. Lombardo Spartito preso: a proposito della scrittura musicale contemporanea Vallecchi Firenze, 1980 5
3) Gradi intermedi di musica da leggere ascoltare e vedere: a) progetti per azioni interdisciplinari (notazione tradizionale, diagrammi segni ideografici, testi di azione) b) progetti supplementari (partiture d’ascolto, diagrammi-segni ideografici) 4) Musica solo da ascoltare Ogni possibilità notazionale necessita poi di un codice che ne permetta la realizzazione. I codici, segnati tra parentesi nello schema precedente, possono essere così riassunti: • Codice cifrato: è un sistema di segni convenzionali con un preciso statuto più o meno complesso, ma che definisce lo svolgimento della composizione in modo tecnicistico. Impone quindi un lavoro di analisi sorretta dalla conoscenza di tutte le nozioni tecniche che il singolo tipo di scrittura implica. Oltre alla notazione tradizionale sono qui da includere tutti i codici d’azione, le intavolature, i programmi informatici, le metanotazioni. • Codice visivo: vengono utilizzate delle immagini, che sottendono una raffigurazione o dell’evento sonoro o dei gesti per produrlo. Si ascrivono a questo tipo di codice notazioni ideografiche inserite in diagrammi o convenzioni spaziali diverse, foto o disegni di azioni esecutive o di spazi dove compiere operazioni più o meno precisate. • Codice verbale: definizioni mediante testi linguistici di eventi sonori o delle istruzioni per realizzarle. Sono tuttavia rari i casi in cui una partitura scritta tra gli anni ‘50 e ‘70 utilizzi un solo codice notazionale; nella maggior parte dei casi viene operata una contaminazione tra codici diversi. Si può quindi spesso parlare di notazione mista, anche se spesso un codice prevale su un altro. Un esempio emblematico di questo può essere la partitura di Spiegel II per archi di Freiderich Cerha (esempio 1), che pur scritta in notazione tradizionale, realizzo l’intento di una scrittura costituita da arabeschi di linee ondulate risultanti dagli attacchi e dalle chiusure dei singoli strumenti in partitura. Ne nasce quindi una sintesi di effetti visivo-uditivi. 6
Esempio 1. Freiderich CERHA, Spiegel II In conclusione a questa breve introduzione sulle diverse possibilità notazionali, è importante notare come la scelta di una grafia non tradizionale coinvolga soprattutto l’atto creativo in sé, sia esso quello del compositore, sia quello dell’esecutore. Infatti è stato sperimentato che la notazione tradizionale ha la possibilità di trascrivere qualsiasi evento sonoro, dati i limiti fisici dell’orecchio umano. Se si assume il valore limite di 50 millisecondi come soglia di discriminazione percettiva delle durate,6allora è semplicemente necessario impiegare una 6 come nota Domenico Guaccero in Musica sperimentale a cura di A. Basso Enciclopedia storica della musica, UTET Torino 1966, tale soglia di percezione è soggettiva da individuo ad individuo ed a seconda della intensità e della frequenza del suono utilizzato. Tale imprecisione tuttavia non inficia l’argomentazione. 7
suddivisione in quintine del quarto a 240 di metronomo per trascrivere qualsiasi attacco7. La scelta di adottare una scrittura di tipo diverso nasce quindi dall’atteggiamento diverso che il compositore decide di assumere di fronte all’evento sonoro. Quello che è profondamente cambiato in quest’ultimo secolo è proprio il concetto profondo di evento sonoro che si articola nel tempo e nello spazio. La notazione occidentale si è sviluppata nel corso dei secoli cercando di risolvere la rappresentazione dei parametri altezza e sviluppo temporale dell’evento sonoro, ma bisogna riconoscere che tuttavia le proposte a noi accessibili si siano occupate nella maggioranza dei casi, a risolvere il problema delle altezze. Questo fenomeno è riconoscibile anche storicamente: sono dovuti passare diversi secoli da che Guido d’Arezzo aveva risolto il problema delle altezze, per trovare due tra i più semplici mezzi della nostra notazione: la stanghetta di battuta e la legatura di valore.8 Guardando rapidamente a quello che è avvenuto nel secolo appena passato, si può subito notare che già all’inizio del secolo è avvenuta una radicale trasformazione del concetto di tempo in musica, che da Debussy conduce, passando per Strawinskij e Webern, all’avanguardia dei Ferienkurse di Darmstadt e della scuola americana, e si può quindi a ragione sostenere l’affermazione di Mario Bortolotto che “la neue Musik è la distruzione del beat”9. Tale complicazione ritmica è stata risolta dai compositori della prima metà del secolo con una iperprecisione ritmica che a sua volta è stata risolta con espedienti notazionali diversi: frequenti cambi di metro, uso di raggruppamenti anomali rispetto al metro oppure una scrittura poliritmica. Tale tendenza si enfatizza dopo la metà del secolo tanto che si può notare come l’aritmia sia una delle caratteristiche generali delle produzione degli anni Cinquanta-Sessanta: basti pensare ai giganteschi cluster di Ligeti, o alla composition as process di Cage, o alle masse sonore di Xenakis. Il successivo ritorno ad una gestione del tempo in maniera più tradizionale può essere letto come un modo per evitare indebite incursioni improvvisative in una avventura sonora che cominciava ad apparire totalmente astratta.10 7 Tale argomentazione è sostenuta da A. Valle in op. cit. pag. 74. 8 Willi APEL, La notazione della musica polifonica, ed. Sansoni, Firenze 1984 pag. 92 9 Mario Bortolotto, Fase II, Studi sulla nuova musica pag. 17 Einaudi, Torino 1969 10 Affermazione di Feldman, citato da Smith Brindle Reginald in The new music. The Avant-garde since 1945, Oxford- New York, Oxford University Press, 1975 8
L’esplorazione delle possibilità timbriche dei singoli strumenti è probabilmente una delle prime cause dell’innovazione musicale semiografica novecentesca. Basti pensare solo all’uso del cluster, che ha subito fatto nascere l’esigenza di notare un evento sonoro del tutto fuori dall’ordinario. Tale esplorazione si è svolta in tutti gli ambiti organologici trovando soluzioni più o meno idiomatiche, che non sempre potevano essere trasferite ad altri contesti strumentali. Anche la letteratura corale ha subito un profondo sviluppo, inizialmente simile a quanto è avvenuto in ambito strumentale per poi diversificarsi a partire dagli anni Ottanta. Generalizzando, in ambito prettamente corale si può notare un ritorno in questi ultimi anni a notazioni di tipo tradizionale anche in compositori caratterizzati dall’utilizzo di notazioni alternative in ambiti strumentale. Le ragioni di tale fenomeno sono molteplici, e difficilmente sintetizzabili. Si possono addurre cause di ordine esecutivo, sociologico ma soprattutto, a parer di chi scrive, c’è stata una crescente esigenza di necessità di comunicazione tra compositore, esecutore e ascoltatore. L’utilizzo di una notazione più o meno tradizionale, con l’inserimento di un modesto numero di segni extra tradizionali, ha permesso a compositori, esecutori ed ascoltatori di parlare un linguaggio basato sulla volontà e sul desiderio di comunicazione, ristabilendo un naturale e chiaro procedere nella sequenza illustrata all’inizio: compositore – notazione – esecutore (corista) – ascoltatore. 9
Confronto semiografico Verranno ora analizzati dal punto di vista notazionale alcuni brani per coro a cappella composti in un arco di tempo compreso tra il 1950 e la fine degli anni novanta. Si è voluto limitare la scelta ad autori di provenienza europea, spaziando tuttavia tra il sud (Italia, Spagna) e il nord est europeo (Polonia, Paesi Baltici). Il cosiddetto fenomeno della globalizzazione, su cui tanto si discute oggi, è, fortunatamente, presente da molti decenni nel mondo della musica ed in special modo in quello corale. Questo alto livello di comunicazione ha permesso di comporre alla luce delle esperienze fatte da paesi di altre culture, pur mantenendo un minimo di identità nazionale. I brani che verranno ora descritti sono abbastanza esemplificativi di una tendenza generalizzata: sono musiche che vengono proposte ai vari corsi di direzione o presenti frequentemente nel repertorio di cori europei.11 I brani saranno suddivisi in tre gruppi, corrispondenti a tre modi di scrivere diversi: il primo gruppo rispecchia una scrittura ancora tradizionale, il secondo gruppo analizza brani che utilizzano notazioni particolari ed infine l’ultimo gruppo esaminerà una serie di brani scritti dal 1980 al 1998 che testimonia la direzione che ha assunto la modalità di scrittura per coro negli ultimi brani. Prima fase: 1952 Quinto Nonsense di Goffredo Petrassi Nonostante siano già presenti tutte le inquietudini che porteranno poi all’esplosione di nuove esigenze notazionali, la maggior parte dei compositori utilizza fino ai primi anni ’50 una modalità di scrittura del tutto tradizionale anche se il risultato sonoro può dar luogo a soluzioni del tutto destabilizzanti. Il brano scelto per illustrare questa prima fase è il quinto dei Nonsense di Goffredo Petrassi. I Nonsense rappresentarono per Petrassi una vacanza dopo due lavori di più vaste proporzioni quali 11 Posso personalmente confermare che i brani che verranno analizzati sono stati tutti oggetto di studio personale destinato ad una esecuzione pubblica: ho incontrato Nonsense di Petrassi ad un corso di direzione tenuto da Werner Pfaff, Rondes di Rabe ed Oremus di Sisask ad un corso sul repertorio tenuto da Gary Graden, Magnificat di Pärt ad un Corso di direzione tenuto da Tõnu Kaljuste ed è nel repertorio del coro che abitualmente dirigo; ho cantato il Concierto Coral di Marco con il Nuovo Coro Polifonico di Treviso diretto da Marina Malavasi e Stetit angelus di Bonato è stato incluso nell’antologia “Compositori Veneti, I volume” a cura dell’ASAC (Associazione Sviluppo Attività Corali – Veneto). L’unico brano che non ho avuto occasione di eseguire personalmente è la Passione secondo s. Luca di Penderecki ma è stato tuttavia oggetto di approfondito studio durante gli anni della mia formazione in conservatorio. 10
Noche oscura e il Secondo concerto per orchestra. Sono in tutto sei, su testi tratti da The Book of Nonsense di Edward Lear, tradotto da Carlo Izzo. L’austerità delle quattro parti a cappella e un testo così stravagante fornirono a Petrassi un interessante stimolo. Egli stesso ricorda: “C’è molta malizia sotto l’apparente innocenza, e se talvolta non mi sono trattenuto dal sottolineare un certo umorismo, ho almeno cercato di salvare il buon gusto. Ci sono episodo in cui la porola è spezzata, rimbalzante tra le quattro voci: inconsapevole presentimento di ben altre frantumazioni future, in cui la parola, dopo essere stata polverizzata nell’illusione di ricomporla dall’agglomerato sillabico complessivo, ha finito di ridursi allo stato brado di fonema. Componendo i Nonsense forse avevo intravisto tutto questo e ne avevo anticipato il mio personale giudizio”. Petrassi alludeva a tutte quelle sperimentazioni sul valore fonetico della parola che nel giro di pochi anni coinvolsero gran parte della produzione corale dell’avanguardia.12 Il quinto Nonsense si presenta fin dall’inizio con una grafia del tutto tradizionale ma animato da una grande energia ritmica, sostenuta da precise indicazioni agogiche: Allegro feroce con un’indicazione metronometrica di 170 alla semiminima. Fin dall’inizio si possono notare dei rapidi glissati d’ottava alle voci maschili13 (esempio 2), ma il punto forse più interessante è costituito dalle battute 17 – 21 (esempio 3), dove il testo viene interrotto in maniera irregolare per poi procedere omoritmicamente sempre piu forte (fff, duro e irato) fino al gridato. Certamente non siamo nel caso dello Sprechgesang, ma l’utilizzo del gridato è indice di una volontà di utilizzo della voce, e quindi dello strumento coro, fino ai limiti delle tradizionali possibilità. 12 Basti pensare a opere mirabili come Sarà dolce tacere di Luigi Nono, 1960, Angelus Domini di Giacinto Scelsi 1966 oppure il Lux aeterna di Gyorgy Ligeti 1962. 13 è abbastanza evidente il riferimento onomatopeico al suono inquietante ed inesorabile della sirena dell’ambulanza. 11
Es. 2 Goffredo PETRASSI, Nonsense V pagina 1 12
Es. 3 Goffredo PETRASSI, Nonsense V pagina 2 particolare Seconda fase: 1966 Passione secondo Luca di Krysztof Penderecki 1967 Rondes di Folke Rabe Le partiture in questione presentano molte caratteristiche comuni, pur nella loro sostanziale diversità. Rondes si pone quasi come un gioco musicale che utilizza tutti, o quasi, gli espedienti ritmico-sonori possibili ad un coro, mentre la Passione si presenta come un’imponente composizione dal carattere fortemente drammatico e narrativo, con organico estremamente vasto. Entrambe le partiture hanno molti riferimenti grafici e possono essere classificate come scritture di progetto con elementi di scrittura d’azione, talora con notazione tradizionale, con utilizzo di codici cifrato e visivo. Si pone per questo tipo di partiture il problema della gestione del tempo. Il metodo adottato in entrambi i casi è l’adozione di una linea mentale che indica lo scorrere del tempo da un riferimento all’altro, segnato o da episodi musicalmente compiuti gestiti dal direttore d’orchestra (nella partitura di Penderecki), o da indicazioni della durata degli episodi segnati minuziosamente in minuti secondi (nella partitura di Rabe). La rappresentazione del tempo attraverso l’utilizzo di una linea permette di avere subito la sensazione sia del singolo evento che del risultato sonoro complessivo. La linea ha infatti le 13
caratteristiche di successione (è la comune percezione del tempo) e di simultaneità (è la sensazione principale di tutti gli eventi che si svolgono nello spazio). Quindi anche la linea del tempo ha questa duplicità di successione e simultaneità. La mancanza in una partitura di una linearità, cioè del concetto spazio-temporale, provoca uno stato di indeterminatezza totale quale ad esempio quello dell’happening, o di alcune forme completamente libere di improvvisazione. L’opera Passio et mors Domini nostri Jesu Cristi secundum Lucam di Kriszystof Penderecki è stata eseguita per la prima volta a Cracovia il 22 aprile 1966. È una monumentale composizione che segna una tappa fondamentale dell’esperienza artistica del compositore polacco: c’è un distacco dall’acuta fase di sperimentazione delle prime opere verso un reinserimento nella tradizione opportunamente vitalizzata da apporti nuovi. Penderecki stesso indicava i motivi del parziale mutamento di rotta proprio in una concezione universalistica e cattolica: egli stesso amava definirsi “comunista cattolico”. A proposito della Passione dice “… successivamente ho voluto fare non qualcosa di nuovo, ma di diverso: ho sentito il bisogno di forme più vaste, di grandi forme, quelle che la scuola di Darmstadt e il “puntillismo” non sopportano e che invece io ho provato a realizzare, cominciando proprio dalla Passione.14 Il testo, s’intende, mi interessava soprattutto per il suo contenuto; ed era il testo stesso a suggerire gli sviluppi di quelle grandi forme, senza rinnegare alcuna esperienza musicale precedente”. Nonostante un ritorno ad atmosfere più tradizionale, quali ad esempio un rieccheggiamento al gregoriano o l’uso di cori di strawinskiana memoria, Penderecki fa largo uso di espedienti desunti dalla fase inventiva precedente, primo fra tutti un sistema di strutturazione seriale che permea l’intera composizione. Addentrandosi nella composizione per analizzare il contenuto delle parti corali da un punto di vista notazionale, è possibile trovare atteggiamenti molto diversi: si passa da una scrittura tradizionale a momenti in cui la notazione si arricchisce di una sovrabbondanza di segni grafici. È tuttavia importante notare come nulla è lasciato alla libera improvvisazione, anche i momenti, che all’ascolto risultano particolarmente caotici, sono in realtà codificati in ogni singolo intervento sonoro. L’unica eccezione sono i procedimenti di reiterazione di nuclei motivoci o ritmici che non vengono quantizzati in partitura ma sono guidati dal naturale scorrere del tempo. La composizione si apre con un solenne unisono del coro e dell’orchestra sulla parola “Crux”, quasi a scolpire l’elemento salvifico rendendolo universalmente intelleggibile. 14 Alla Passione seguì, solo un anno dopo, Dies irae, oratorio per soli, coro e orchestra alla memoria delle vittime di Auschwitz. 14
Ad atteggiamenti solenni ed omoritmici seguono interventi apparentemente più liberi dal carattere gregorianeggiante15(esempio 4). Es. 4, K. Penderecki, Passio et mors Domini nostri Iesu Christi secundum Lucam pagina 8 15 A livello compositivo è interessante notare come nell’ultima battuta dell’esempio, nella parte dell’organo sia esplicitato il nome di BACH per moto retrogrado. Oltre alle suggestioni storiche che possono da qui scaturire, le note in esame costituiscono la microserie su cui è costruita l’intera composizione. 15
A pagina 24 della partitura (esempio 5) si trova un altro punto interessante riguardo la notazione: una differenza tra il parlato mensurato con valori tradizionali e un parlare sulla nota con altezza predefinita. Inizialmente i tre cori cominciano declamando ritmicamente il nome “Iudas”, segue poi un vero e proprio parlato in pp fatto in rapida successione dalle sezioni dei tenori che si spegne poi in un pedale inferiore “più grave possibile” delle voci gravi maschili e femminili. Comincia poi una situazione eterogenea: un parlato su altezze predefinite con modelli reiteranti, ritmicamente sfasati tra loro, politestualità e un glissato delle voci gravi. Il tutto viene rapidamente portato ad un ff sulla nota più acuta possibile seguito da un subito piano con morendo, a bocca chiusa. L’episodio descritto non dura che pochi secondi, ma possiede un’enorme carica drammatica e descrittiva. Vi possono essere notate almeno sette situazioni di utilizzo della voce che esulano dalla scrittura più tradizionale.16 Es. 5, K. Penderecki, Passio, pagine 24, 25 16 In sequenza sono: declamato ritmico, recitato, nota più grave possibile, recitato su nota definita, glissato dal suono più grave possibile al più acuto possibile, suono più acuto possibile, bocca chiusa. 16
Gli esempi di utilizzo del coro in maniera non convenzionale presenti in questa partitura sono molteplici e ben si potrebbe approfondire l’analisi semiografica, ma rimanendo nei limiti di questa ricerca, si può ancora analizzare quanto avviene a pagina 40 della partitura (esempio 6). Il coro impersonifica ora la folla che schernisce Gesù che di qui a breve gli urlerà “Profetize, quis est qui te percussit?” Ad un primo colpo d’occhio la pagina presenta tre distinti atteggiamenti vocali estremamente efficaci dal punto di vista drammaturgico. Il primo consiste nel pronunciare molto rapidamente la consonante “p” ad altezza diversa secondo l’indicazione della partitura. Si identificano dei blocchi semantici, delle ondate, che lasciano relativa libertà all’interprete. Il secondo episodio è costituito da una serie di suoni più acuti possibile, che si avvicendano in maniera casuale tra le varie sezioni dei tre cori impegnati nella realizzazione. Nell’ultimo episodio si modifica il pentagramma: resta solamente il quinto rigo ed intorno a questo sono poste delle note prive di riferimenti temporali a cui seguono dei segmenti verso l’alto o il basso. È interessante far presente che la legenda che precede la partitura non descrive tutti i segni presenti ma in questo caso il segno descrive in maniera intuitiva il risultato sonoro finale. Le teste delle note possono essere lette come delle “o” a cui seguono dei glissati verso l’alto o verso il basso, ed in ogni caso il suono di partenza è un suono acuto in quanto resta solamente il quinto rigo del pentagramma.17 Oltre ai glissati una sezione di ogni coro dovrà fare in successione rispetto alle altre, un fischio il più acuto possibile. Anche in questo caso la durata della questa pagina non è che di pochi secondi, ma l’effetto complessivo è di grande impatto emotivo. Il coro assume qui un ruolo quasi di attore: rappresenta la folla che assiste cinicamente alla passione di Cristo ed esprime questo sentimento con effetti tipici della recitazione contemporanea. Si crea nella mente di chi ascolta una suggestione sonora che rimanda con immediatezza ad una suggestione visiva di una scena dalle vaste proporzioni. L’affiancare poi repentinamente queste tre differenti situazioni sonore può ricordare un montaggio cinematografico che con tre rapide inquadrature descrive una complessa ed articolata scena in tutta la sua drammaticità. 17 Questa è l’interpretazione che ne da Henryk Czyz con l’orchestra filarminica di Cracovia nella registrazione della Philips - Harmonia mundi. 17
Es. 6, K. Penderecki, Passio, pagina 40 18
Rondes di Folke Rabe è stato pubblicato per la prima volta nel 1967 a Stoccolma ed è stato successivamente inserito in una antologia di musica corale rivolta ad un ampio pubblico18. Per questo motivo è un brano conosciuto da un grande numero di coristi e direttori europei ed è diventato quasi un simbolo di un modo di scrivere quasi totalmente non tradizionale. Rondes rappresenta la provocazione di un compositore svedese ad un repertorio corale costretto tra una vocalità che conosceva unicamente la musica liturgica o, all’opposto, quella operistica19. Similmente a quanto accadeva negli anni ’60 in ambito strumentale, Rabe esaspera l’aspetto timbrico nella sua ricerca compositiva: vocali e consonanti, vengono utilizzate in modo autonomo senza nessuna relazione semantica e sono scelte solamente per le loro caratteristiche sonore. Lo studio sul “colore” viene chiarito nella legenda introduttiva che esplica in maniera chiara il tipo di suono che ogni lettera dovrà creare. (esempio 7). Es. 7, F.Rabe, Rondes, legenda 18 L’antologia è Chor aktuell, ein Chorbuch für den Musikunterricht an Gymnasien, Gustav Bosse Verlag Kassel 1983. 19 Si confronti l’analisi del brano presente nell’articolo di Lorenzo Donati Il come e il che cosa: la parola come punto d’unione tra il linguaggio musicale e quello verbale nella seconda metà del Novecento, in «La Cartellina» n. 143 settembre- ottobre 2002, Edizioni Musicali Europee, Milano. 19
Altre scelte innovative, sempre importate dall’esperienza compositiva in ambito strumentale, sono l’utilizzo del tempo cronometrico per descrivere la durata degli eventi sonori e l’uso di una scrittura “in campo aperto” quasi sempre senza pentagramma, per una maggiore suggestione grafica delle variazioni di altezza dei suoni. (Fig 8) Es. 8, F.Rabe, Rondes, pagina 1 particolare Un'altra importante caratteristica di questo brano è l’introduzione del direttore di sezione, per coordinare il coro nei momenti di poliritmia presenti nel brano. Queste figure ritmiche vengono 20
reiterate fino al segnale del direttore principale. Questa sezione, così ritmicamente regolata, segue di pochi secondi una sezione molto libera caratterizzata da un’aleatorità ritmica e melodica. (fig. 9) Es. 9, F.Rabe, Rondes, pagina 3 particolare Tuttavia Rabe stesso era consapevole della profonda novità, e diffidenza, che avrebbe potuto esercitare un brano corale del genere: sensazioni che potevano essere condivise tanto dal pubblico quanto dagli esecutori stessi. Con ironia Rabe propone quindi (ad libitum, tuttavia) che un basso del coro, poco oltre la metà del brano se ne scenda dal palcoscenico e abbandoni velocemente la sala. Inoltre nella parte finale del brano i coristi, oltre che a cantare, dovranno battere forte i piedi sul pavimento, sussurrare il proprio numero telefonico, scambiarsi di posto con il vicino e sussurrare velocemente il proprio indirizzo. Si assiste qui ad un procedimento inverso rispetto a quello che avveniva in Penderecki: mentre prima il coro suscitava nell’ascoltatore una emozione che rimandava ad una suggestione visiva, ora 21
è la emozione visivo-sonora che prende il sopravvento. Il corista da esecutore-mediatore si trasforma in attore che porta in scena la propria vita e le proprie spontanee reazioni (lo scambiarsi gli indirizzi o i numeri di telefono, o il disgusto per composizione stessa che porta uno dei bassi ad abbandonare platealmente l’esecuzione). È come se ora l’identificazione dell’ascoltatore non sia più nella musica che ascolta, quindi nel mondo poetico del compositore, ma sia piuttosto con il singolo corista che è coautore attivo e passivo al tempo stesso, della composizione. Viene quindi quasi messo in ombra il primo anello della catena: (compositore) – notazione – corista – ascoltatore. Terza fase: 1980 Concierto Coral di Tomas Marco 1989 Magnificat di Arvo Pärt 1988 Oremus di Urmas Sisask 1998 Stetit Angelus di Giovanni Bonato Solo pochi anni, poco più di una decina, separano i brani precedenti da quelli che verranno ora analizzati, ma si assiste ad un cambiamento radicale del modo di concepire la musica dal punto di vista notazionale, senza che tuttavia il risultato sonoro muti sostanzialmente. Quello che risulta subito evidente è una necessità di comunicazione, di stabilire un linguaggio consequenziale tra compositore, interprete e ascoltatore. Non bisogna infatti dimenticare che il mondo della coralità è costituito per la maggior parte da cori amatoriali, cori cioè in cui i coristi, seppur con adeguata preparazione tecnico-vocale, non fanno del cantare la loro unica professione. Diventa quindi di estrema importanza l’aspetto della gratificazione che deriva dal cantare e questa può nascere solamente dalla comprensione di quello che si sta facendo. La prima composizione presa in esame è il Concierto coral per violino solista e doppio coro di Tomas Marco. Compositore spagnolo, classe 1942, fu allievo di Boulez e Ligeti, e di Kagel e 22
Maderna per la musica elettronica; ha seguito i corsi di Darmstadt dal 1965 al 1967. È ora compositore di riferimento per la vita musicale spagnola ed insegnante di composizione a Madrid. Nonostante Marco abbia quindi una formazione quasi totalmente immersa nel clima avanguardistico degli anni ’60, stupisce come fin dalla prima pagina di questa composizione ci sia una chiarezza di scrittura del tutto inaspettata. Viene utilizzata una scrittura di tipo tradizionale su pentagramma. La vera novità consiste nell’utilizzo della voci in modo strumentale: non viene nemmeno indicata il fonema da pronunciare per emettere il suono ma la scelta è lasciata alla discrezione del direttore al fine di ottenere la maggior chiarezza ritmica possibile20. Es. 10 Tomas Marco, Concierto coral, pagina 1 20 Nell’esecuzione del Nuovo Coro Polifonico diretto da Marina Malavasi del novembre 1997 era stata utilizzata la sillaba “du”. 23
Anche l’aspetto temporale è gestito in maniera del tutto tradizionale: il metro resta invariato per ampie sezioni, e al cambio di metro corrisponde sempre un mutamento generale di situazione timbrico-melodica. In questa apparente semplicità non mancano però situazioni ritmiche complesse: è il caso di pagina 21 in cui alle battute 203 e seguenti si ha su ogni pulsazione una coincidenza di suddivisione binaria, ternaria e quaternaria. Es. 11 Tomas Marco, Concierto coral, pagina 21 24
Un altro elemento utilizzato da Marco è il glissato. Esso è presente già nella prima pagina (batt. 15 violino) ma trova la sua applicazione più interessante nelle battute 243 e seguenti. Il glissato di semitono delle voci e quello di tono per quinte parallele del solista creano un effetto di destabilizzazione sonora paragonabili a quelli ottenuti nella Passione di Penderecki ma con ben altri sistemi notazionali. Es. 12 Tomas Marco, Concierto coral, pagina 26 25
Con l’analisi dei prossimi due brani si è voluto dar spazio a due compositori estoni viventi sebbene quasi appartenenti a due generazioni diverse:Arvo Pärt ed Urmas Sisask. È interessante notare come per il mondo della musica corale la musica di paesi del Mar Baltico (Estonia, Svezia, Finlandia ed anche Lituania) abbia assunto a partire dalla metà degli anni Ottanta una notorietà senza pari. Le ragioni di questo sono molteplici: innanzitutto un isolamento politico e culturale che tuttavia ha permesso in quei paesi una ricerca artistica personale svincolata dalle tendenze stilistiche dell’Occidente. Autori come Arvo Pärt, Vejio Tormis, il polacco Henryk Gorecki lo svedese Sven Sandstrom e le nuove generazioni capeggiate da Urmas Sisask, Erkki Sven Tüür, Vytautas Miskinis ed altri ancora, hanno potuto esprimere le loro idee musicali senza il “peso” del rapporto di continuità con i grandi autori dell’Europa occidentale. Inoltre le particolari caratteristiche della cultura corale dei Paesi Scandinavi e delle repubbliche del Mar Baltico hanno dato un ulteriore ed importante stimolo per la composizione delle opere corali. Come in Ungheria, anche in questi paesi si è sviluppata, proseguendo una tradizione secolare, un’intensa alfabetizzazione musicale, basata principalmente sulla musica vocale. Questo ha favorito la nascita di numerosissimi cori di buon livello con una specializzazione sempre crescente per il repertorio contemporaneo21. L’omogeneità timbrica, l’assenza di vibrato, l’attenzione alla precisione ritmica e d’intonazione sono caratteristiche molto evidenti all’ascolto dei cori provenienti da questi paesi. I compositori hanno cercato di sfruttare queste caratteristiche utilizzando il coro a cappella, più che nelle sue potenzialità espressive lineari (contrappunti), nelle sue possibilità verticali, con il frequente uso di agglomerati sonori, l’uso degli armonici naturali della voce, e di armonie di carattere prevalentemente diatonico. Arvo Pärt è senz’altro il più noto dei compositori baltici. La sua evoluzione artistica è senz’altro significativa: dopo un primo periodo caratterizzato da una scrittura di tipo seriale, arriva -a partire dalla metà degli anni Settanta - ad una radicalizzazione dell’elemento sonoro con reminescenze gregoriane e medioevali. Si crea quasi una liturgia interiore che ha come sua rappresentazione temporale la musica che il coro fa vivere. Gli elementi usati sono di una estrema essenzialità: l’impianto armonico è tonale o al massimo modale, le figure ritmiche tendono ad una stilizzazione o ad una sorta di ripetitività legata alla parola. Il brano Magnificat, scritto nel 1989 su commissione dello Staats- und Domchor di Berlino, è oggi uno dei brani sacri contemporanei più cantati nel mondo. Fin dalla prima pagina (esempio 13), è evidente una estrema essenzialità di scrittura: l’altezza dei suoni è definita di battuta nella maniera più tradizionale mentre il problema ritmico viene risolto adottando soluzioni che ricordano la notazione della musica cinquecentesca, prima della adozione della stanghetta. I riferimenti in 21 Nella sola Stoccolma vi sono ora più di 200 cori professionisti. 26
tratteggio adottati dall’editore separano semplicemente le parole del testo senza avere una funzione legata alla suddivisione ritmica. Il discorso musicale fluisce quindi con estrema naturalezza, disegnando grandi arcate in strettissimo legame con il testo. Es. 13 Arvo Pärt, Magnificat, pagina 1 27
Urmas Sisask è un compositore estone nato nel 1960 che ha acquisito negli ultimi anni una sempre maggiore notorietà per la sua musica estremamente suggestiva ed evocativa. Oremus (figura 11) è il penultimo inno dell’Oratorio Gloria Patri scritto nel 1988 dopo studi di carattere cosmogonico che miravano alla creazione di sistemi modali che potessero essere esemplificazione musicale della musica dei pianeti. Tutta la composizione è basata sulle 6 note della scala giapponese Kumayoshi, una sorta di modo frigio privo del terzo e settimo grado. In Oremus tale scala è trasportata sul terzo modo. Sisask mira soprattutto a sottolineare le possibilità accordali di tale scala, creando delle armonie dense in continuità tra le quattro voci del coro. Mentre l’altezza dei suoni è segnata in maniera tradizionale con l’utilizzo del pentagramma, la durata dei suoni è segnata da una linea serpentina che continua fino al successivo cambio d’altezza. Il respiro viene gestito in maniera corale di modo da mantenere una continuità di suono per tutti i circa 9 minuti di durata del brano. In questo caso il metro di due semiminime viene segnato in partitura e la suddivisione in battute rende molto chiara la scansione ritmica del brano. Es. 14 Urmas Sisask, Oremus, pagina 1 28
L’ultimo brano analizzato è una breve composizione per coro femminile del compositore Giovanni Bonato22 dal titolo Stetit angelus23. Anche in questa breve composizione la maggior attenzione è stata rivolta al problema ritmico. La lunga melodia del soprano I è scritta senza un’indicazione ritmica precisa: la durata dei suoni è indicata dall’ampiezza grafica delle corone poste sopra alcune note o dalla grandezza dei respiri che separano una frase dall’altra. La verticalità degli eventi delle voci inferiori in rapporto alla più acuta, viene indicata dalle linee di tratteggio verticali che attraversano i quattro pentagrammi. Le voci che accompagnano si muovono in maniera pressoché omoritmica e vocalizzano con la vocale iniziale del capoverso del soprano I. Solamente al termine, la seconda e la terza voce vocalizzano sotto le note del soprano I. Innanzitutto è da sottolineare la politestualità della composizione: un livello superiore con il testo della liturgia celeste dall’Apocalissi di san Giovanni, e un livello più basso con una sorta di recitativo corale su una preghiera di Marcel Schmid. Tutto il brano si gioca su dinamiche esilissime e su un’apparente mancanza di scansione temporale. Nella linea melodica superiore vengono utilizzate due tipi di corone e di respiri come a voler indicare l’intensità di questo elemento che normalmente è gestito dall’esecutore. Nella partitura c’è quasi un tentativo di voler rappresentare graficamente lo scorrere del tempo; ove questo non è possibile il compositore interrompe il pentagramma quasi a voler significare una sospensione temporale. L’infittimento di scrittura nella parte finale del pezzo crea quasi un effetto di prospettiva: più ci si allontana (più si ascende al cielo), più gli oggetti appaiono ravvicinati fino a confondersi ed infine a svanire. Es. 15 Giovanni Bonato, Stetit angelus 22 Giovanni Bonato è docente di composizione presso il conservatorio Cesare Pollini di Padova. 23 Si è voluto analizzare questo lavoro per l’estrema attenzione che Bonato rivolge al segno grafico. Numerose sue partiture edite sono delle copie del manoscritto originale proprio per conservare l’intento estetico-emozionale racchiuso nel segno autografo. 29
Conclusione In questa breve trattazione si è cercato di fare una rapida panoramica di quanto è avvenuto in Europa negli ultimi 50 anni limitatamente al campo corale. Tale indagine è stata preceduta da una serie di considerazioni sul concetto di notazione in generale e di notazione musicale in particolare. Si è sottolineato come il segno sia di per sé istituente: è traccia che assicura la possibilità dell’essere e del conoscere, racchiudendo allo stesso tempo il suo stesso sviluppo temporale. Il segno ha quindi un carattere specificatamente mnestico: è “memoria” e “progetto”, anello di congiunzione tra l’esperienza creativa personale del compositore e la sua rivitalizzazione ad opera del compositore. Inoltre il segno notazionale è l’anello di congiunzione necessario della catena che parte dal compositore per terminare all’ascoltatore. La notazione è non solo il “garante dell’opera”, come era stato osservato in precedenza, ma è anche il garante di un livello di comunicazione, di condivisione di un’esperienza estetica. L’indagine semiografica è partita dai primi anni ’50, osservando come in quegli anni, pur utilizzando sistemi di notazione tradizionali, ci fossero già le premesse per un cambiamento grafico. Successivamente si è messo in evidenza come nei brani scritti negli anni ‘60 sia particolarmente evidente il problema di bisogno di rinnovamento della notazione musicale. Le cause di questo sono molteplici: sono cause puramente musicali (il mutato stato del materiale musicale, le pratiche musicali sorte dopo la serialità, l’improvvisazione, l’happening), e cause di carattere generale in rapporto a tutti gli altri settori della cultura (arti visive, pop art, letteratura e filosofia). Tutto questo sconvolgimento, che in realtà cominciava già a prepararsi fin dalla fine dell’Ottocento, ha prodotto un gran numero di opere e di letteratura specializzata che tuttavia ammutolisce quasi di colpo all’inizio degli anni Ottanta. Le ragioni di questo silenzio ed il conseguente ritorno ad un sistema notazionale tradizionale sono senz’altro specifiche per ogni singolo compositore ma possono essere identificate in un bisogno di comunicazione più diretta tra compositore ed ascoltatore considerando l’esecutore come tramite insostituibile di questa catena. Il linguaggio musicale torna quindi ad una sua forma più essenziale (si confrontino gli autori baltici) e di conseguenza la scrittura tende ad essere il più chiara e dettagliata possibile. L’atto improvvisativo è limitato solamente a particolari esperienze musicali, ed il compositore tende ora a precisare il più possibile ogni manifestazione sonora. La partitura ricomincia ad assumere la caratteristica di “garante dell’opera” precedentemente descritta: deve assicurare la possibilità di 30
ripetibilità di quanto scritto, liberandosi dal fascino dell’evento necessariamente unico ed irripetibile24. Così il dispiegamento semiografico realizzatosi nel ventennio Cinquanta-Sessanta diventa un’esperienza imprescindibile di un certo modo di scrivere e di vivere la musica: è quasi emblema- tico del significato creativo racchiuso nel segno che si trasforma in suono e gesto. Nel mondo corale tale aspetto è particolarmente evidente: la quasi totalità della produzione contemporanea è tornata oggi ad una scrittura di tipo tradizionale sia pur esasperata in certi aspetti agonico-dinamici. La necessità di comunicazione diretta che si instaura tra compositore e corista ha reso questo ritorno quasi indispensabile. Si è sottolineato a questo proposito la caratteristica di “amatorialità” della maggior parte dei fruitori di musica corale, precisando quanto sia necessaria una certa componente di gratificazione per il singolo corista. Rispetto al passato è cambiata tuttavia la coscienza storica: il linguaggio corale di questi ultimi anni nasce come una sorta di purificazione dalle esperienze precedenti, ma oggi, in una consapevolezza più o meno inconscia del postmoderno, possono coesistere scritture tradizionali e non, sulla base di una comune necessità di comunicazione. 24 Non è da sottovalutare anche l’aspetto economico: l’evento unico ha dei costi enormemente superiori all’evento che è possibile riproporre successivamente anche in altri contesti. 31
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