19.09.2020 13.12.2020 Parte del circuito-Collezione Giancarlo e Danna Olgiati
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19.09.2020 – 13.12.2020 Parte del circuito
what’s new? 2020
what’s new? francesco arena 2020 Torre Santa Susanna, Brindisi, 1978 Le opere di Francesco Arena prendono le mosse dalle forme geometriche tipiche della Minimal art e da quelle più archetipiche dell’Arte povera. La sua ricerca si muove spesso lungo due binari – quello della storia collettiva, in particolare nazionale, e quello della storia personale – che formano due linee che si toccano, si sovrappongono, si incrociano. Arena s’impone sempre all’inizio una regola da seguire, un dato che rimane un punto fermo nel processo di produzione dell’opera, come nel caso di “Passo doppio” (2016), qui esposta, costituita da due barre di bronzo lucidato a specchio ognuna di cm 68 × 10 × 10, unite tra di loro a formare un angolo retto. La distanza tra la città di Bodrum in Turchia e il confine austriaco è di 1449 km, quella tra Bodrum e il confine siriano è di 826 km. Sommando queste due distanze si ottiene quella che i profughi siriani percorrono per arrivare in Europa. Bodrum è una sorta di curva sul loro cammino. In prossimità dell’unione delle due barre è inciso: × 2.130.691 e × 1.215.720. Moltiplicando le cifre incise sulla barra per la lunghezza della barra, corrispondente a un passo dell’artista, si ottiene la distanza che separa Bodrum dal confine austriaco e un’altra volta la distanza che separa Bodrum dal confine siriano. Artista di fama internazionale, Arena ha preso parte a mostre collettive presso diverse istituzioni pubbliche e private come il Magasin a Grenoble (2010), la Triennale di Milano (2015), il Museo MADRE di Napoli (2017) e il Kunstmuseum di San Gallo (2018). Francesco Arena’s works are inspired by the typical geometric forms of Minimal Art and the more archetypal ones of Arte Povera. His experimentation often follows dual paths – that of collective, and francesco arena particularly national, history and that of personal history – which form passo doppio, 2016 two lines that touch, overlap and intersect. Arena always starts by setting bronzo himself a rule to follow, which remains a cornerstone in the process of the bronze 10 × 68 × 68 cm work’s production. This can be seen in the work on display here, “Passo doppio” (2016), constituted by two mirror-polished bronze bars, each measuring 68 × 10 × 10 cm, joined to form a right angle. The distance between the city of Bodrum in Turkey and the Austrian border is 1,449 km, while the distance between Bodrum and the Syrian border is 826 km. Adding these two figures together gives the distance that Syrian refugees must cover to reach Europe. Bodrum is a sort of curve on their path. Near the point where the two bars meet, the artist has engraved the figures x 2,130,691 and × 1,215,720. Multiplying them by the length of the bar itself, which corresponds to the length of the artist’s step, gives the distance from Bodrum to the Austrian border and the distance from Bodrum to the Syrian border respectively. Arena is an internationally renowned artist, who has participated in collective exhibitions at various public and private institutions, such as Le Magasin in Grenoble (2010), the Milan Triennale (2015), the Museo MADRE in Naples (2017) and the Kunstmuseum in St Gallen (2018). 10 11
what’s new? stefano arienti 2020 Asola, Mantova, 1961 Stefano Arienti vive e lavora a Milano, dove si è laureato in Scienze Agrarie. Intraprende la sua formazione artistica al Politecnico sotto la guida di Corrado Levi, per poi proseguire il proprio percorso in modo autonomo. L’inizio della sua carriera artistica si colloca intorno alla metà degli anni Ottanta. I suoi lavori hanno spesso come punto di partenza oggetti provenienti dalla cultura di massa, che l’artista modifica attraverso semplici gesti; trasforma una pagina di una rivista in un’onda del mare, un elenco del telefono in un vaso, una diapositiva in un dipinto. Così come per gli oggetti di uso comune, allo stesso modo Arienti attinge ad immagini tratte dalla storia dell’arte, sulle quali interviene con svariate tecniche stefano arienti macchia verde, 2019 quali la punzonatura, l’incisione, il cucito o la pirografia. Nell’opera qui stampa digitale su microciniglia esposta, “Macchia verde” (2019), l’immagine scattata da Arienti stesso digital print on microchinilla riproduce il particolare di un tronco stampato su micro ciniglia; l’artista 210 × 154cm rielabora con intima eleganza il soggetto naturalistico rappresentato, dotandolo di una nuova aura. Stefano Arienti ha esposto in importanti istituzioni nazionali e internazionali, tra cui il Museo MAXXI di Roma (2004, 2011), il Museum of Contemporary Art di Chicago (2009), il Musée d’Art Moderne di Parigi (2013), il MOCA di Cleveland (2016), la Collezione Gori di Pistoia (2016), il Museo Nazionale del Bargello a Firenze (2017) e i Chiostri di Sant’Eustorgio a Milano (2019). Ha partecipato alla sezione “Aperto” della Biennale di Venezia (1990 e 1993) e alla Biennale di Istanbul (1992), mentre nel 1996 è stato vincitore del primo premio alla Quadriennale di Roma. Stefano Arienti lives and works in Milan, where he obtained a degree in Agricultural Science. He started his training as an artist at the Polytechnic University of Milan, studying under Corrado Levi and subsequently continuing alone, before embarking his artistic career in the mid-1980s. His works are often inspired by everyday objects, which he modifies with simple actions, transforming a page of a magazine into an ocean wave, a telephone directory into a vase, or a photographic slide into a painting. Arienti also draws on images from the history of art and elaborates them using various techniques, such as punching, engraving, sewing and poker- work. In the work on display here, “Macchia verde” (2019), a photograph depicting the detail of a tree trunk taken by the artist is printed on micro- chenille. He has elegantly re-elaborated the naturalistic subject, giving it a completely new air. Arienti has exhibited his work at important national and international venues, including the Museo MAXXI in Roma (2004, 2011), the Museum of Contemporary Art in Chicago (2009), the Musée d’Art Moderne in Paris (2013), the MOCA in Cleveland (2016), the Gori Collection in Pistoia (2016), the Museo Nazionale del Bargello in Florence (2017) and the Chiostri di Sant’Eustorgio in Milan (2019).. He has participated in the “Open” section at the Venice Biennale (1990 and 1993) and the 1992 Istanbul Biennial, and won first prize at the 1996 Rome Quadriennale. 12 13
what’s new? gabriele basilico 2020 Milano, 1944 – 2013 È stato uno dei maggiori fotografi italiani, divenuto celebre a livello internazionale per le sue ricerche sul paesaggio urbano. Dopo la laurea in Architettura al Politecnico di Milano nel 1973, Basilico si dedica alla fotografia con continuità. Temi fondanti della sua pratica sono le trasformazioni del paesaggio contemporaneo, la conformazione e l’identità delle città, indagati attraverso una rigorosa ricerca documentaristica. Basilico ha fotografato numerose città europee e nel mondo, raccontando la complessità degli scenari urbani nei quali vive l’uomo contemporaneo unitamente al fenomeno delle continue mutazioni in atto nelle metropoli del pianeta. Il primo incarico internazionale risale al 1984, quando viene invitato a partecipare, come unico italiano, alla Mission Photographique de la DATAR, la più rilevante campagna fotografica realizzata in Europa nel XX secolo, organizzata dal governo francese. Nel 1991 intraprende un importante progetto sulla città di Beirut, devastata da una guerra civile iniziata quindici anni prima (13 aprile 1975); con il ciclo di fotografie scattate a Beirut, di cui un significativo esempio in mostra, si impone definitivamente sulla scena internazionale. Espone alla Biennale di Architettura di Venezia nel 1996, dove riceve il premio “Osella d’oro per la fotografia di architettura contemporanea”, e nel 2012. Le sue fotografie fanno parte di numerose collezioni pubbliche e private internazionali e il suo lavoro è stato esposto presso i principali musei italiani ed europei. gabriele basilico beirut, 1991 stampa ai sali d’argento Gabriele Basilico was one of the greatest Italian photographers, who gelatin silver print became internationally famous for his urban landscapes. After graduating 90 × 120 cm from the Polytechnic University of Milan with a degree in Architecture in 1973, Basilico dedicated himself to photography. The underlying themes of his work are the transformation of the contemporary landscape and the structure and identity of cities, which he explored with rigorous documentary research. Basilico photographed many cities in Europe and throughout the world, recounting the complexity of the urban scenarios inhabited by contemporary humans, along with the phenomenon of the constant changes underway in the planet’s metropolises. His first international commission dates from 1984, when he was the only Italian to be invited to participate in the DATAR Photographic Mission, organized by the French government, the most important photographic campaign conducted in Europe in the 20th century. In 1991, he took part in an important project on the city of Beirut, devastated by a civil war that had commenced 15 years earlier (13 April 1975). His cycle of photographs taken in Beirut, one of which is on display here, made him a household name on the international stage. He exhibited his work at the Venice Architecture Biennale in 1996, when he won the “Special Osella for Best Architecture Photographer” award, and 2012. His photographs are featured in numerous public and private collections all over the world and his work has been displayed at the leading Italian and European museums. 14 15
what’s new? huma bhabha 2020 Karachi, Pakistan, 1962 Nota per le sue statue ieratiche realizzate con materiali di scarto uniti a elementi naturali come il legno o l’argilla, Huma Bhabha assume come universo di riferimento civiltà antiche, unitamente a personaggi fantastici provenienti da un ombroso futuro, dando vita a esseri antropomorfi. Come per Gauguin e Picasso, anche per l’artista pakistana il fascino delle culture primitive è fonte inesauribile di ispirazione, così come lo sono il mondo dei fumetti e la fantascienza, le sculture di Giacometti e l’antichità preclassica dei Kouroi greci. Spesso tendenti al grottesco, le opere di Huma Bhabha trasformano la figura umana in totem dalle sembianze inquietanti e divertenti al tempo stesso, sopravvissuti a eventi catastrofici causati huma bhabha kilroy, 2007 sia dall’uomo che dalla natura per raccontarne la memoria, come si può tecnica mista evincere dalla scultura esposta in mostra dal titolo “Kilroy” (2007). Huma mixed technique Bhabha ha preso parte nel 2010 alla Whitney Biennial di New York, nel 142 × 32 × 32 cm 2012 a La Triennale di Parigi, nel 2015 la Biennale di Venezia e nel 2018 al Carnegie International di Pittsburgh. Tra le più recenti mostre istituzionali si annoverano quelle presso l’Aspen Art Museum (2012), il MoMA PS1 di New York (2012), il Metropolitan Museum of Art di New York (2018), The Contemporary Austin (2018) e l’Institute of Contemporary Art di Boston (2019). Known for her hieratic statuettes which she creates from cast-off materials and natural substances such as wood or clay, Huma Bhabha’s reference universe is that of ancient civilizations, but also fantasy characters from a shadowy future that appear as anthropomorphic beings. Like Gauguin and Picasso, Bhabha’s fascination with archaic cultures provides her with an inexhaustible source of inspiration, but so do comic books and science fiction, the sculptures of Giacometti and the pre-classic antiquity of the Greek Kouroi. Often tending towards the grotesque, Bhabha’s works transform the human figure into totems that appear simultaneously disturbing and amusing, having survived catastrophic events caused by both man and nature to recount their memory, as can be inferred from the sculpture entitled “Kilroy” (2017) on display here. Bhabha took part in the 2010 Whitney Biennial in New York, the 2012 Paris Triennial, the 2015 Venice Biennale and the 2018 Carnegie International in Pittsburgh. Her most recent institutional exhibitions include those at the Aspen Art Museum (2012), the MoMA PS1 in New York (2012), the Metropolitan Museum of Art in New York (2018), The Contemporary Austin (2018) and the Institute of Contemporary Art in Boston (2019). 16 17
what’s new? irma blank 2020 Celle, Germania, 1934 L’arte di Irma Blank è arte della scrittura, dove l’uso della Ur-form, la forma primaria, conferisce sostanziale autonomia alla scrittura medesima. Tematica centrale nella ricerca dell’artista tedesca è il segno nelle sue differenti accezioni: da grezzo gesto scritturale a testo letterario compiuto, in una tensione ascendente che conduce dal passato al presente, in una continuità atemporale. La parola scritta è considerata strumento di comunicazione tramite cui si costruisce il rapporto fra l’io e gli altri; le distanze si annullano grazie al valore comunitario del linguaggio. Con il ciclo degli Eigenschriften, della fine degli anni Sessanta, inizia la maturità artistica di Irma Blank: l’autrice registra su carta tracciati variabili e imperfetti, privi di ogni senso linguistico. Seguono le Trascrizioni, dove la pratica libera lascia il posto ad una lenta copiatura di pagine di libri e giornali. Dai primi anni Ottanta l’artista si dedica ai Radical Writings: il gesto scritturale diviene policromo e viene steso col pennello “tutto d’un fiato”, nel lasso di tempo di un singolo respiro. A questi lavori di “soppressione”, seguono gli Avant-testo, di cui un esempio è esposto in mostra, “Avant-testo, 12-1-99” (1999), nei quali il segno torna caotico. Con un fascio di biro, l’artista traccia spirali che si chiudono in se stesse: il tratto diviene autorappresentazione libera e, parallelamente, torna alla sua forma primordiale. Ha esposto in musei e rassegne internazionali come Documenta Kassel (1977), la Biennale di Venezia (1978, 2017 e 2019), Centre Pompidou di Parigi (2010), Kunsthaus Hamburg (2016) e Museion di Bolzano (2017). The art of Irma Blank is the art of writing, where the use of the Ur-form, the primary form, bestows substantial autonomy on the writing itself. The German artist’s main theme is the sign in its various expressions: from the rough scriptural gesture to the finished literary text, in an ascendant tension that leads from the past to the present, in timeless continuity. The written work is envisioned as an instrument of communication through which to build the relationship between the Self and others; any distances are eliminated thanks to the communitarian value of the language. The Eigenschriften cycle, from the late 1960s, marked the start of Irma irma blank Blank’s artistic maturity: the author recorded on paper variable and ur-schrift ovvero avant-testo, 12-1-99, 1999 imperfect traces, deprived of any linguistic meaning. This was followed by biro su tela Trascrizioni, where free practice made way for the slow copying of pages ball-point pen on canvas 173 × 63 cm of books and newspapers. From the early 1980s, the artist devoted herself to Radical Writings: the scriptural gesture becomes polychrome and is spread by the paintbrush “all in one go”, the time required to take a single breath. These works of “suppression” were followed by the Avant-testo, one of which is on display here, “Avant-testo, 12-1-99” (1999), in which the sign is again chaotic. The artist used a group of ball-point pens to trace spirals that ended within themselves: the line becomes free self- representation and, in parallel, it goes back to its primordial form. Blank has displayed her work at museums and international exhibitions, such as Documenta Kassel (1977), the Venice Biennale (1978, 2017 and 2019), Centre Pompidou in Paris (2010), Kunsthaus Hamburg (2016) and Museion in Bolzano (2017). 18 19
what’s new? piero dorazio 2020 Roma, 1927 – Perugia, 2005 Il pittore italiano Piero Dorazio espone giovanissimo con il gruppo romano Arte Sociale interessandosi contemporaneamente al Futurismo. Insieme a Consagra e a Turcato firma nel 1947 il Manifesto della pittura astratta italiana (Gruppo Forma 1) contribuendo così alla sua affermazione nel panorama artistico italiano. Durante un suo soggiorno negli Stati Uniti nei primi anni Cinquanta, entra in contatto con personalità come de Kooning, Motherwell, Newman, Pollock, Rothko ed il critico d’arte Clement Greenberg. Nel 1960, fonda il dipartimento di belle arti presso la School of Fine Arts della Pennsylvania University di Filadelfia. Sperimentatore instancabile, si dedica ad una ricerca coerente sulle interferenze e le tessiture cromatiche, piero dorazio baked in silence, 1960-61 con opere in cui sottili segni di colore si incrociano, si allargano in bande olio su tela o si enucleano in macchie creando “tessuti o meglio membrane di pittura oil on canvas uniforme quasi monocroma e pure intrecciata di fili diversi di colore, di raggi 197 × 97 cm di colore” (Giuseppe Ungaretti, Un intenso splendore, 1966). In mostra “Baked in Silence” (1960-61), un esempio particolarmente significativo. Nel 1966 instaura un sodalizio artistico con Giuseppe Ungaretti: il poeta infatti, scrisse un saggio sulla sua pittura per il catalogo di una mostra dell’artista, mentre nel 1967 sarà Dorazio a realizzare una serie di grafiche per accompagnare la raccolta di poesie di Ungaretti intitolata La luce. Ha partecipato con una sala personale alla Biennale di Venezia nel 1960, 1966 e 1988. Ha tenuto personali al Musée d’art moderne de la ville de Paris (1973) e alla Galleria Nazionale d’arte Moderna di Roma (1983). Le sue opere sono presenti nei principali musei internazionali, tra cui la Tate Gallery di Londra e il MoMA di New York. The Italian painter Piero Dorazio first exhibited his work when he was very young with the Roman group Arte Sociale. During that same period, he was also interested in Futurism. In 1947, together with Consagra and Turcato, he signed the Manifesto della pittura astratta italiana (Gruppo Forma 1), which contributed to his affirmation on the Italian artistic scene. While he was in the United States he came into contact with such artists as de Kooning, Rothko, Pollock, Newman, Motherwell, and with the art critic Clement Greenberg. In 1960, he founded the Fine Arts Department in the School of Fine Arts of the University of Pennsylvania, Philadelphia. A tireless experimenter, Dorazio dedicated himself to a coherent research into chromatic interferences and interweavings, with works in which subtle signs of colour cross, expand into bands, or develop into patches, thus creating “textures or rather membranes of uniform, almost monochrome paint, also interwoven with threads of different colours, rays of colour” (Giuseppe Ungaretti, Un intenso splendore, 1966). On display “Baked in Silence” (1960-61), a particularly significant example. In 1966 the artist created an artistic partnership with Giuseppe Ungaretti: the poet wrote an essay on Dorazio’s painting for a catalog accompanying one of his exhibitions, while in 1967 Dorazio created a series of prints for Ungaretti’s collection of poetry La luce. He participated with a solo exhibition at the Venice Biennale in 1960, 1966 and 1988. He has had personal exhibitions at the Musée d’art moderne de la ville de Paris (1973) and at the Galleria Nazionale d’arte Moderna in Rome (1983). Dorazio’s works are present in the permanent collections of major international museums, including the Tate Gallery in London and the MoMA in New York. 20 21
what’s new? jimmie durham 2020 Washington, 1940 Appartenente ad una comunità di indiani d’America Cherokee, Jimmie Durham si occupa di diverse discipline, dalla scultura alla saggistica, dalla poesia al teatro. Dopo i primi anni di produzione artistica legata al movimento per i diritti civili americani negli anni Sessanta, si trasferisce a Ginevra e studia presso l’École de Beaux-Arts, dove rimarrà fino al 1973. Tornato in America per prendere parte all’American Indian Movement, inizia a creare sculture utilizzando pietra lavica, metallo industriale e soprattutto legno, sfruttando la potenza del materiale per indagare la materia stessa. Molto spesso, come nel caso dell’opera “The Forest Prime“ (2012) esposta in mostra, il processo d’assemblaggio non viene escluso dalla riflessione teorica né mascherato nella presentazione stessa. Diretto è il riferimento allo scultore rumeno Brancusi, a una stilizzazione che tende a individuare forme primordiali, connaturate all’elemento stesso e preesistenti all’atto dell’artista, la cui configurazione definitiva e finale risulta da una sistematica e conscia operazione sulla materia. Esemplare la scultura “Aazaard” (2018), un assemblage di ossa, plastica e componenti di automobili, dove la combinazione di oggetti quotidiani e materiali organici innesca una riflessione tesa a scardinare i simboli fondanti del sistema di vita occidentale. È stato vincitore del Leone d’Oro alla carriera alla Biennale di Venezia del 2019, dove ha esposto nel 1999, 2001, 2003, 2005 e 2013. Nel 2017 gli è stata dedicata un’importante retrospettiva all’Hammer Museum di Los Angeles, al Walker Art Center di Minneapolis, al Whitney Museum of American Art di New York e al Remai Modern di Saskatoon. A member of the Cherokee Indian community, Jimmie Durham is active in a variety of disciplines from sculpture, to essay writing, from poetry to jimmie durham aazaard, 2018 theatre. His early art was connected to the civil rights movement in the ossa animali, vernice acrilica, parti di automobile United States during the 1960s after which Durham moved to Geneva animal bones, acrylic paint, car parts to study at the École des Beaux-Arts where he stayed until 1973. Back dimensioni variabili variable dimensions in America to take part in the American Indian Movement, he began creating sculptures from volcanic rock, industrial metal and above all wood, exploiting the material’s power in order to investigate the nature of matter itself. Very often, as in the case of the work on display here, “The Forest Prime” (2012), the process of assembling is not excluded from one of theoretical reflection, nor is it intentionally hidden within the work itself. There is a direct reference to Romanian sculptor Brancusi, to a stylization that tends to identify primordial forms, coeval with the element itself and pre-existing the artistic act, whose final and ultimate configuration is a systematic and conscious operation on matter. The sculpture entitled “Aazaard” (2018) is a good example: an assemblage of bones, plastic and car parts, where the combination of everyday objects and organic materials prompts reflection directed at undermining the fundamental symbols of the Western way of life. He was awarded the Golden Lion for Lifetime Achievement at the 2019 Venice Biennale, where he exhibited his work in 1999, 2001, 2003, 2005 and 2013. In 2017, an important retrospective was dedicated to him at the Hammer Museum in Los Angeles, the Walker Art Center in Minneapolis, the Whitney Museum of American Art in New York and the Remai Modern in Saskatoon. 22 23
what’s new? natalija gončarova 2020 Tula, Russia, 1881 – Parigi, 1962 Tra le pioniere della scena artistica russa durante il decennio che precede la Rivoluzione, Natalija Gončarova esordisce come pittrice a fianco di Michail Larionov, suo compagno, con il quale lavorerà per il resto della sua carriera artistica. Nelle sue opere richiama le tradizioni della sua terra natia e le rinvigorisce utilizzando il linguaggio dell’Avanguardia. La sua pittura di accentuata espressività dinamica e coloristica combina i tipici motivi floreali dei costumi e delle icone popolari russe, dando vita a una sorta di simbolismo pagano e ancestrale. Nel 1913 assieme a Larionov elabora il Manifesto del Raggismo, primo movimento d’avanguardia non figurativo in Russia, presentato come una “sintesi di Cubismo, di Futurismo, di Orfismo”. La commistione tra valori tradizionali e un rinnovato linguaggio artistico si incarna in un’inedita interpretazione della natalia gončarova spiritualità attraverso il messaggio dell’arte, come avviene nel ciclo datato la guerra. immagini mistiche della guerra: quattordici litografie, 1914 1914 dal titolo “La Guerra. Immagini mistiche della guerra”, presente in cartella di quattordici litografie con copertina stampata in rilievo mostra, recentemente esposto al MoMA di New York. Lo stesso anno portfolio of fourteen lithographs with letterpress cover lascia la Russia per recarsi a Parigi, dove lavora alla realizzazione delle scene e i costumi per i Ballets Russes di Sergeij Djaghilev, affermandosi come scenografa in ambito europeo. In quegli anni espone le sue opere in diverse gallerie parigine, ma è solo dopo la sua scomparsa che gli viene dedicata una grande retrospettiva, prima assieme al marito presso l’Arts Council a Londra (1962) e recentemente presso la Tate Modern e Palazzo Strozzi a Firenze (2019). Among the pioneers of Russian art during the decade preceding the Revolution, Natalia Goncharova made her debut as a painter alongside her partner Mikhail Larionov, with whom she worked for the rest of her artistic career. Her works evoke the traditions of her homeland and revitalize them using the language of the avant-garde. The accentuated dynamic and colouristic expressiveness of her painting is achieved by combining the typical floral motifs of Russian folk icons to create a sort of ancestral pagan symbolism. In 1913, she and Larionov published the Rayonist Manifesto, the first non-figurative avant-garde movement in Russia, presented as a “synthesis of Cubism, Futurism, and Orphism”. The combination of traditional values and a new artistic language was embodied in a unique interpretation of spirituality conveyed through art, as can be seen in the cycle dated 1914 “La Guerra. Mystical Images of War”, on display here, recently exhibited at the MoMA in New York. The same year she left Russia for Paris, where she worked on the scenery and costumes for Sergei Diaghilev’s Ballets Russes, making a name for herself in Europe as a set designer. During the same period, she exhibited her work at several galleries in Paris, but it was only after her death that a great retrospective was dedicated to her, first in conjunction with her husband at the Arts Council in London (1962), and recently at the Tate Modern and Palazzo Strozzi in Florence (2019). 24 25
what’s new? wade guyton 2020 Hammond, Indiana, 1972 Fra gli artisti sensibili all’evolversi della tecnologia, sia in termini di contenuti che di produzioni, si annovera anche Wade Guyton. Selezionate alcune immagini, Guyton le stampa su tela con enormi plotter mescolando icone di memoria modernista – dal Suprematismo al Bauhaus – a pagine di riviste di moda passando per immagini di fiamme. Non è immediato comprendere quanto gli artisti che si riappropriano di effigi esistenti – come già aveva fatto Andy Warhol – cerchino di replicare le tecniche dei mass-media diventando loro stessi delle macchine, o se invece ci invitino a riflettere sul modo in cui questi producono modelli con cui ci identifichiamo. “Non ho mai pensato al mio lavoro come a cercare di replicare uno dei due sistemi. Ma forse sto facendo entrambe le cose” wade guyton riflette Guyton. L’imponente dipinto “Untitled” (2009), qui esposto, è untitled, 2009 un’opera iconica che raffigura la lettera “X”, motivo digitale distintivo nella stampa ink-jet epson ultrachrome su lino epson ultrachrome inkjet print on linen produzione dell’artista. Guyton ha partecipato alla Biennale di Venezia 213,4 × 175,3 cm (2009 e 2013) e ha tenuto personali al Whitney Museum of American Art di New York (2012), alla Kunsthalle di Zurigo (2013), all’Art Institute di Chicago (2014), al Musée d’art moderne et contemporain di Ginevra (2016), al MADRE di Napoli (2017) e al Ludwig Museum di Colonia (2019). Insieme a Kelley Walker, suo compagno nella realizzazione di installazioni firmate da entrambi, ha esposto al Kunsthaus di Bregenz nel 2013. One artist who is not indifferent to technology both in terms of theme and technique is Wade Guyton. Guyton first selects images, then prints them on canvas with enormous plotters. His work is a mix of modernist icons—from Suprematism to Bauhaus—and pages from fashion magazines or even “flame paintings”. It is never clear to what extent the artists who appropriate contemporary icons—the way Andy Warhol did in his early days—are replicating the techniques of the mass media by turning themselves into machines, or just inviting us to reflect on how the media generate the models we identify with. Guyton reflects: “I’ve never thought of my work as an attempt to replicate one of the two systems. But maybe I’m doing both”. “Untitled” (2009), on view here, is an iconic work that depicts the letter “X”, a distinctive digital motif in the artist’s production. He has exhibited at the Venice Biennale (2009 and 2013) and he has also held solo shows at the Whitney Museum of American Art in New York (2012), Kunsthalle in Zurich (2013), Art Institute of Chicago (2014), Musée d’art moderne et contemporain in Geneva (2016), MADRE in Naples (2017) and Ludwig Museum in Cologne (2019). Guyton and his artistic collaborator on installations Kelley Walker exhibited in the Bregenz Kunsthaus in 2013. 26 27
what’s new? mona hatoum 2020 Beirut, Libano 1952 Nata a Beirut da famiglia palestinese, Mona Hatoum vive e lavora a Londra dal 1975, dove, giunta in visita, è stata costretta a risiedere a causa dello scoppio della guerra civile in Libano. Ha operato principalmente con il video e la performance, orientando in seguito la sua ricerca verso installazioni di larga scala, che mirano a coinvolgere lo spettatore in contrastanti emozioni di desiderio e repulsione, fascino e timore. L’artista ha sviluppato un linguaggio nel quale oggetti domestici di uso comune come sedie, letti, culle e utensili da cucina sono trasformati in entità sconosciute, minacciose e a volte pericolose. Spesso il suo sguardo è rivolto mona hatoum alla società medio-orientale e in particolare alla condizione della donna, a bigger splash, 2009 vetro di murano oppressa e marginalizzata. L’artista esplora la propria vicenda personale murano glass di esiliata per offrire una profonda indagine su tematiche quali la violenza dimensioni variabili e la fragilità umana, come accade nella scultura qui esposta, “A bigger variable dimensions splash” (2009), un raffinato insieme di oggetti realizzati artigianalmente in vetro colorato di murano che richiamano la forma delle gocce di sangue. Dal 1983 espone regolarmente in tutto il mondo, in particolare si ricordano le recenti personali alla Tate Britain di Londra (2000), al Museum of Contemporary Art di Sydney (2005) e al Beirut Art Center (2010). Ha inoltre partecipato alla Biennale di Venezia (1995, 2005) e alla Biennale di Sidney (2006). Nel 2009, in concomitanza con la Biennale di Venezia, ha realizzato per la Fondazione Querini Stampalia diverse opere, tra cui quella qui esposta. Mona Hatoum was born to a Palestinian family in Beirut in 1952 and has been living in London since 1975 where she settled when the civil war broke out in Lebanon. She has expressed herself mainly with video and performance art, subsequently directing her attention towards large- scale installations that involve the viewer by stirring conflicting emotions of desire and repulsion, fascination and fear. Hatoum has developed an artistic language in which household objects of everyday use such as chairs, beds, cribs and kitchen utensils morph into unfamiliar, threatening objects that are sometimes even dangerous. She often directs her gaze at Middle Eastern society and especially at the condition of women who are oppressed and marginalized. The artist explores her own personal story as an exile to offer an in-depth investigation of themes such as violence and human fragility, as illustrated by the sculpture on display here: A bigger splash (2009), consisting of a sophisticated group of handcrafted Murano glass objects that recall the form of drops of blood. Since 1983 she has been showing regularly all over the world. Of particular note were her one woman shows at the Tate Britain in London (2000), the Museum of Contemporary Art in Sydney (2005) and the Beirut Art Centre (2010). She has also participated in the Venice Biennale (1995, 2005) and the Sydney Biennial (2006). In 2009, on the occasion of the Venice Bienniale, she produced several works for the Fondazione Querini Stampalia, one of which is on display here. 28 29
what’s new? luisa lambri 2020 Como, 1969 Luisa Lambri vive e lavora tra Milano e Los Angeles. Le sue fotografie occupano una posizione unica tra astrazione fotografica e indagine architettonica. Rivolgendo la sua attenzione principalmente all’architettura residenziale modernista (Alvar Aalto, Mies van der Rohe, Oscar Niemeyer, Frank Lloyd Wright, Giuseppe Terragni), costruisce immagini silenziose e rarefatte, dove l’archittettura diviene solo un pretesto per esprimere un punto di vista prettamente soggettivo. Come l’artista stessa ha dichiarato: “Per me l’architettura è autobiografia e i luoghi fotografati sono autoritratti”. Focalizzandosi sugli spazi di transizione, come porte, finestre, passaggi, indaga la relazione tra lo luisa lambri spazio e la luce, proponendo letture personali e intime degli ambienti untlited (centro galego de arte contemporanea, #18), 2008 che fotografa, come si può evincere dalle due fotografie in mostra, stampa laserchrome “Untitled (Centro Galego de Arte Contemporanea, #07 e #18)” del 2008, laserchrome print 74,9 × 63,5 cm scattate entrambe al Museo Reina Sofía di Madrid. Ha partecipato alla Biennnale di Venezia nel 1999, dove ha vinto il Leone d’Oro, e nel 2003. Ha inoltre esposto alla Biennale di Architettura di Venezia (2004 e 2010), alla Liverpool Biennial (2010) e alla Chicago Architecture Biennial (2018). Ha tenuto mostre personali in alcuni dei musei più importanti del mondo, come The Menil Collection di Houston (2004), il Carnegie Museum of Art di Pittsburgh (2006), il Baltimore Museum of Art (2007), l’Hammer Museum di Los Angeles (2010) e il Met Breuer di New York (2017). Luisa Lambri lives and works in Milan and Los Angeles. Her work occupies a unique place somewhere between abstract photography and architectural enquiry. Focusing chiefly on modernist residential architecture (Alvar Aalto, Mies van der Rohe, Oscar Niemeyer, Frank Lloyd Wright, Giuseppe Terragni), she creates silent, rarefied images, where architecture becomes merely a pretext for expressing a purely subjective point of view. As the artist herself declared, “For me architecture is autobiography and the places photographed are self-portraits”. She explores the relationship between space and light, concentrating on transitional spaces, such as doors, windows and passageways, offering personal and intimate interpretations of the places she photographs, as can be seen from the two photographs on display here, “Untitled (Centro Galego de Arte Contemporanea, #07 and #18)” both taken at the Museo Reina Sofía in Madrid in 2008. She took part in the Venice Biennale in 1993, when she won a Golden Lion, and 2003. She has also exhibited her work at the Venice Architecture Biennale (2004 and 2010), the Liverpool Biennial (2010) and the Chicago Architecture Biennial (2018). Lambri has had solo exhibitions in some of the most important museums in the world, including The Menil Collection in Houston (2004), the Carnegie Museum of Art in Pittsburgh (2006), the Baltimore Museum of Art (2007), the Hammer Museum in Los Angeles (2010) and the Met Breuer in New York (2017). 30 31
what’s new? francesco lo savio 2020 Roma, 1935 – 1963 Attivo sulla scena artistica romana tra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta, Francesco Lo Savio è considerato tra le personalità più controverse dell’avanguardia postinformale italiana. Dopo gli studi al liceo artistico di Roma, per un breve periodo frequenta la Facoltà di Architettura, operando fin dagli esordi come pittore oltre che designer. Nell’arco della sua breve ma intensa carriera, ha nutrito un particolare interesse per l’architettura modernista europea. Luce, forma e spazio, temi architettonici per eccellenza, sono centrali nella sua riflessione, non priva di risvolti sociali e ideologici. “L’idea d’impegnare uno spazio tridimensionale per realizzare un’esperienza biunivoca, interna come problema dell’espressione formale, esterna come problema del rapporto sociale, condiziona lo sviluppo del mio lavoro sotto un aspetto di discontinuità visiva, sia nella scelta dei mezzi che nel risultato di forma”, ha affermato l’artista. L’opera in mostra, “Metallo nero opaco uniforme” (1960), appartiene alla serie dei Metalli (1960-61), strutture nere e opache costituite dalla sovrapposizione di piani, dove la luce assume un ruolo fondamentale potenziando la relazione attivata con lo spazio espositivo. Il suo lavoro ha ottenuto numerosi riconoscimenti solo dopo la sua scomparsa. Da ricordare la prima retrospettiva al Palazzo delle Esposizioni di Roma (1965), la partecipazione a Documenta Kassel (1968) e alla Biennale di Venezia (1972), le personali al Padiglione di Arte contemporanea di Milano (1979), al Museo Pecci di Prato (2004) e al Mart di Rovereto (2018). francesco lo savio metallo nero opaco uniforme, 1960 Active in Rome between the late 1950s and early 1960s, Francesco Lo metallo nero Savio is considered one of the most controversial figures of the Italian black metal post-informal avant-garde. After attending art college in Rome, he briefly 20 × 50 × 9,5 cm frequented the Faculty of Architecture, working as a painter as well as a designer from the very outset. During his brief but intense career, he showed particular interest in European modernist architecture. The quintessential architectural themes of light, form and space are central to his work, which also has social and ideological implications. “The idea of using a three-dimensional space to produce a biunivocal experience, internally as a problem of formal expression, externally as a problem of social relation, conditions the development of my work in terms of its visual discontinuity, both in the choice of media and in the resulting form,” the artist stated. The work on display here, “Metallo nero opaco uniforme” (1960), belongs to the Metalli series (1960–61), consisting of opaque black structures formed by overlapping planes, where light plays a fundamental role, reinforcing the relationship initiated with the display space. It was not until after his death that his work was widely acclaimed. Memorable exhibitions include his first retrospective at the Palazzo delle Esposizioni in Rome (1965), his works displayed at the 1968 Documenta Kassel and the 1972 Venice Biennale, and the solo exhibitions at the Padiglione di Arte Contemporanea in Milan (1979), Museo Pecci in Prato (2004) and the Mart in Rovereto (2018). 32 33
what’s new? filippo tommaso marinetti 2020 Alessandria d’Egitto, 1876 – Bellagio, Como, 1944 Fondatore del movimento futurista, Filippo Tommaso Marinetti pubblica il 20 febbraio 1909 sul giornale parigino “Le Figaro” il Manifesto del Futurismo, con cui intende opporsi al “passatismo” della cultura accademica simbolista su cui si era formato negli anni precedenti a Parigi. Il Futurismo grida a gran voce la necessità di diffondere a tutti i campi dell’arte i caratteri tecnologici e innovativi della società industriale. Forza e violenza d’azione sono ostentati come valori fondanti di una nuova società basata sul progresso, sulla potenza della macchina e sull’energia “eroica” del mondo moderno. Tra i futuristi, Marinetti si afferma internazionalmente come letterato e innovatore del linguaggio con la teoria del “paroliberismo”, definita e perfezionata in tre successivi manifesti: il Manifesto tecnico della letteratura futurista (1912), Distruzione della sintassi - Immaginazione senza fili - Parole in libertà (1913) e Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica (1914). La distruzione della struttura linguistica delle “parole in libertà” assume una dimensione figurativa nelle “tavole parolibere”, poesie grafiche di cui in mostra un significativo esempio dal titolo “Irredentismo” (1914). Marinetti mette in opera, nella sua scrittura di guerra, i nuovi stilemi futuristi attraverso i quali veicola il celebre slogan “guerra sola igiene del mondo”. filippo tommaso marinetti irredentismo, 1914 Filippo Tommaso Marinetti, the founder of the Futurist movement, inchiostro, pastello e collage su carta ink, pastel and collage on paper published the Manifesto of Futurism in the French newspaper Le Figaro 21,8 × 27,8 cm on 20 February 1909. Its intention was to oppose the “pastism” of the Symbolist academic culture in which Marinetti had received his artistic training in Paris during the preceding years. Futurism screamed the need to extend the technological and innovative features of industrial society to all fields of art. Power and violence were flaunted as the core values of a new society based on progress, the power of machines, and the “heroic” energy of the modern world. Marinetti achieved international renown among the Futurists as a literary figure and innovator of language for his “words in freedom” theory, which he defined and perfected in three subsequent manifestos: the Technical Manifesto of Futurist Literature (1912), Destruction of Syntax – Imagination without strings – Words- in-Freedom (1913), and Geometric and Mechanical Splendour and the Numerical Sensibility (1914). The destruction of the linguistic structure of “words in freedom” assumes a figurative dimension in the “words-in- freedom tables”, graphical poems like “Irredentismo” (1914) on display here. In his war writing, Marinetti used the new Futurist stylistic elements to convey the famous slogan “war, the world’s only hygiene”. 34 35
what’s new? fausto melotti 2020 Rovereto 1901 – Milano 1986 Fausto Melotti è fra i massimi esponenti della cultura artistica italiana del XX secolo. Dopo aver conseguito la laurea in ingegneria elettrotecnica presso il Politecnico di Milano, Melotti decide di dedicare la sua vita alla scultura. Formatosi nell’ambiente milanese vivacizzato dall’attività della Galleria del Milione e dal gruppo degli astrattisti lombardi, è interprete di una scultura antinaturalistica pervasa da toni evocativi, lirici e musicali. La sua opera si sviluppa in due momenti: a una prima fase, ascrivibile all’astrattismo geometrico, fa seguito, dopo una pausa espositiva di numerosi anni, un secondo periodo dove l’artista, attraverso un personale codice simbolico, realizza opere dotate di una potente dimensione poetica. Interessato ad una costruzione equilibrata dello spazio, concilia il rigore ritmico e compositivo della forma con un’armonica musicalità. La scultura “Lager” (1972), qui esposta, è in questo senso opera rappresentativa: fausto melotti costituita da una struttura metallica filiforme in ottone, appare svuotata lager, 1972 di ogni peso materico per assumere una connotazione spirituale, pur ottone brass trattando un argomento doloroso come le atrocità dello sterminio nazista. 71 × 37 × 31 cm Ha esposto in numerose edizioni della Triennale di Milano (1933, 1936, 1940, 1947, 1951, 1954 e 1957) e della Biennale di Venezia (1948, 1950, 1952 e 1966), che gli hanno conferito rispettivamente il Gran Premio della Triennale nel 1951 e il Leone d’Oro alla memoria nel 1986, anno della sua scomparsa. Sue opere sono presenti nelle principali collezioni permanenti dei musei di tutto il mondo. Fausto Melotti is one of the seminal figures in twentieth-century Italian artistic culture. After having obtained a degree in electronic engineering from the Polytechnic University of Milan, Melotti decided to devote his life to sculpture. Following his artistic training in Milanese circles stimulated by the activities of the Galleria del Milione and the group of Lombard abstractionists, Melotti developed an anti-naturalist kind of sculpture that is pervaded by evocative, lyrical and musical tones. His work developed over two phases: the first phase was influenced by geometric abstractionism; then after many years without exhibiting, came a second phase in which he created intensely poetic works in his own very personal symbolic code. Interested in a balanced construction of space Melotti combines a rhythmic and compositional rigour of form with harmony and musicality. The sculpture entitled “Lager” (1972) on display here is a good example of this. Constituted by a thread-like brass structure, it appears emptied of all material weight and takes on a spiritual connotation, despite representing such a distressing subject as the atrocities of the Nazi extermination camps. He exhibited in numerous editions of the Milan Triennial (1933, 1936, 1940, 1947, 1951, 1954, 1957) and Venice Bienniale (1948, 1950, 1952, 1966) the former awarding him the Gran Premio della Triennale in 1951 and the latter the Leone d’Oro to his memory in 1986, the year of his death. Melotti’s works are present in leading permanent collections in museums throughout the world. 36 37
what’s new? ana mendieta 2020 L’Avana, Cuba, 1948 – New York, 1985 Pioniera della performance e del video, della body art, della fotografia e della scultura, Ana Mendieta è tra le più celebri artiste cubane. Nata a L’Avana, viene portata negli Stati Uniti all’età di tredici anni: lo sradicamento forzato e il continuo pellegrinaggio da un campo di rifugiati ad un orfanotrofio o presso famiglie adottive fa crescere in lei un forte senso di non-appartenenza che si ritrova all’interno di tutta la sua produzione. L’artista individua nel proprio corpo il mezzo di espressione privilegiato per ristabilire il legame fisico oltre che spirituale con la natura e i quattro elementi. In mostra un esemplare dei suoi “Silueta Works” (1976-78), sui quali ha iniziato a lavorare nel 1973 durante un viaggio a ana mendieta Oaxaca, in Messico. Mendieta ricopre il suo corpo con una vasta gamma silueta works in lowa, 1976-78 stampa c-print su foglio agfa di materiali, tra cui rocce, sangue, bastoncini e stoffa, per poi scattare una chromogenic print, on agfa paper fotografia del suo stesso corpo sepolto o dell’impronta che ha lasciato 50,8 × 40,6 cm dietro di sè, suggerendo la fragilità dell’essere umano in relazione alle forze della natura. Nel 1987 il Museum of Contemporary Art di New York ha ospitato la prima mostra sull’artista, nel 2004 l’Hirshhorn Museum and Sculpture Garden di Washington DC ha organizzato un’importante retrospettiva itinerante. Nel 2009 le è stato assegnato il Lifetime Achievement Award dalla Cintas Foundation. Le sue opere sono presenti in importanti istituzioni pubbliche e private in tutto il mondo, tra queste il Guggenheim Museum di New York, l’Art Institute di Chicago e il Centre Pompidou di Parigi. A pioneer of performance and video art, body art, photography and sculpture, Ana Mendieta is among the most renowned Cuban artists. She was born in Havana but was taken to the United States at the age of 13. This forced uprooting and the subsequent string of refugee camps, orphanages and foster families that she was moved between caused her to develop a strong sense of not belonging, which can be found in all her work. The artist chose her body as her preferred medium of expression to re-establish the physical and spiritual connection with nature and the four elements. On display here is one of her “Silueta Works” (1976–78), on which she worked during a trip to Oaxaca, in Mexico, in 1973. Mendieta covered herself with a wide range of materials, including rocks, blood, sticks and fabric, and subsequently photographed her buried body or the print that it left, evoking the fragility of human beings in relation to the forces of nature. In 1987, the first exhibition of her work was held at the Museum of Contemporary Art in New York, and in 2004 the Hirshhorn Museum and Sculpture Garden in Washington DC staged an important touring retrospective. In 2009, she was posthumously assigned the Cintas Foundation Lifetime Achievement Award. Her works are present in important public and private collections worldwide, including those of the Guggenheim Museum in New York, the Art Institute of Chicago and the Pompidou Centre in Paris. 38 39
what’s new? zoran mušič 2020 Gorizia, Slovenia, 1909 – Venezia, 2005 Il pittore e artista grafico Zoran Mušič compie i suoi studi all’Accademia di Belle Arti di Zagabria, intraprendendo numerosi viaggi per l’Europa, prima di stabilirsi definitivamente a Venezia nel 1944. Quello stesso anno viene arrestato dalla Gestapo e deportato nel campo di concentramento di Dachau. Lo strazio e gli orrori della prigionia, registrati in una tragica serie di disegni e schizzi elaborati in segreto, rimarranno per sempre impressi nella sua memoria. Liberato dalle truppe americane nel 1945, al ritorno nel capoluogo veneto si riavvicina alla pittura, focalizzando la sua attenzione sul paesaggio veneziano. Nei primi annni Settanta, con il ciclo Noi non siamo gli ultimi, tramite il quale ottiene un sempre maggior zoran mušič autoportrait, 1970 successo in ambito internazionale, riaffiorano le sofferte immagini dei olio su tela disegni di Dachau. Questi nuovi dipinti, che testimoniano le dolorose oil on canvas atrocità dello sterminio nazista, sono abitati da inquietanti presenze 37,5 × 28,5 cm umane alienate e disorientate, che si trasformano con il passare degli anni in ritratti e autoritratti, di cui un esempio è qui esposto, “Autoportrait” (1970). Ha partecipato a numerose edizioni della Biennale di Venezia (1948, 1950, 1956, 1960, 1976, 1982 e 1984). Tra le maggiori occasioni espositive, ricordiamo le personali al Musée d’art moderne de la ville de Paris (1972), al Museo Correr di Venezia (1985), al Centre Pompidou di Parigi (1988), all’Accademia di Francia a Roma (1992) e al Grand Palais di Parigi (1995). Zoran Mušič was a painter and graphic artist who studied at the Academy of Fine Arts in Zagreb. He travelled widely in Europe, before settling in Venice in 1944. The same year, he was arrested by the Gestapo and deported to the Dachau concentration camp. The anguish and horrors of his imprisonment, recorded in a tragic series of secretly made drawings and sketches, would always remain impressed on his memory. Following his liberation by American troops in 1945, he returned to Venice and resumed painting, focusing on the city’s landscape. In the early 1970s, the painful images of the Dachau drawings surfaced in the cycle entitled We Are Not the Last, which earned him growing international renown. These new paintings bearing witness to the distressing atrocities of the Nazi extermination programme are populated by disturbing alienated and disorientated human presences that, over the years, were transformed into portraits and self-portraits, like “Autoportrait” (1970) displayed here. Mušic took part in many editions of the Venice Biennale (1948, 1950, 1956, 1960, 1976, 1982 and 1984). The most important exhibitions of his work include solo shows at the Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris (1972), the Museo Correr in Venice (1985), the Pompidou Centre in Paris, the French Academy in Rome (1992) and the Grand Palais in Paris (1995). 40 41
what’s new? henrik olesen 2020 Esbjerg, Danimarca, 1967 Protagonista internazionale della ricerca artistica a orientamento sociale, Henrik Olesen esplora le strutture su cui si fondano il potere e i sistemi di informazione, portando alla luce le logiche intrinseche che stanno alla base del controllo politico. Tematiche centrali della sua rigorosa indagine sono l’identità e il peso che le norme familiari, sociali e culturali esercitano nella costruzione dell’identità stessa. Le sue opere mettono spesso in discussione i modelli comportamentali imposti da una comunità ideologicamente eterosessuale, pronta ad adottare misure repressive nei confronti della diversità di genere. L’artista attinge dunque a un vasto repertorio di materiali di riciclo che possiedono una loro intrinseca henrik olesen a.t., 2019 dimensione narrativa come libri, fotografie, manifesti, documenti pubblici stampa inkjet su carta unitamente a oggetti della quotidianità come scatole di legno e tavoli, inkjet print on paper per affrontare argomenti di ambito storico, giuridico, politico, filosofico, 141 × 99,5 cm scientifico. Le due fotografie in mostra intitolate “A.T.” (2019) raccontano la tragica vicenda del matematico inglese Alan Turing (1912-1954), considerato il padre dell’informatica moderna, costretto dalle autorità britanniche a sottoporsi a trattamento con ormoni femminili a causa della sua omosessualità. Il suo lavoro e i suoi progetti sono stati esposti in istituzioni come il Malmö Konsthall (2010), il Kunstmuseum di Basilea (2011), il MoMA di New York (2011) e il Museo Nacional Reina Sofia (2019). Ha partecipato alla Biennale di Istanbul (2011), alla Biennale di Venezia (2013), a Manifesta (2014) e alla Biennale di San Paolo (2016). A leading international figure in artistic research probing social themes, Henrik Olesen explores the structures underlying power and information systems, bringing to light the intrinsic logic on which political control is based. Identity and the influence that family, social and cultural norms exert on the construction of identity itself are central themes of his rigorous investigation. His works often challenge the behavioural models imposed by an ideologically heterosexual community, ready to adopt repressive measures against gender diversity. Olesen tackles historical, juridical, political, philosophical and scientific issues by drawing on a huge array of recycled materials with their own intrinsic narrative dimension, such as books, photographs, posters and public documents, along with everyday objects like wooden boxes and tables. The two photographs on display here entitled “A.T.” (2019) tell the tragic story of English mathematician Alan Turing (1912-1954), considered the father of modern computer science, who was forced by the British authorities to undergo treatment with female hormones for his homosexuality. Olesen’s work and projects have been exhibited at venues including the Malmö Konsthall (2010), the Kunstmuseum Basel (2011), MoMA New York (2011) and the Museo Reina Sofia in Madrid (2019). He has taken part in the Istanbul Biennial (2011), the Venice Biennale (2013), Manifesta (2014) and the São Paulo Biennial (2016). 42 43
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