GUARDARE CINEMA VEDERE STORIA. L'USO DEL CINEMA COME DOCUMENTO STORICO - Giovanni Scolari

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Giovanni Scolari

         GUARDARE CINEMA
          VEDERE STORIA.
         L’USO DEL CINEMA
   COME DOCUMENTO STORICO

DSS PAPERS STO 03-07
Guardare cinema vedere storia

                                        L’oggetto dell’analisi non è l’opera,
                                        ma il problema inventato dall’uomo.
                                                                   J. Aumont

      Il cinema e la storia (intesa come disciplina di studio) vivono un
rapporto difficile, talvolta contrastato. Molto dipende dalla loro stessa
natura che impedisce di trovare punti d’accordo e chiavi interpretative che
abbiano il medesimo significato in entrambe le categorie.
      Nella scuola, poi, questo rapporto diventa addirittura ambiguo perché
i destinatari del materiale proposto hanno dentro di sé già codificato un
messaggio cinematografico spessissimo in contrasto con i mediatori e con
la comunicazione che essi intendono trasmettere. Esiste, quindi, nel
destinatario un codice preesistente che tende a deformare la conoscenza
degli avvenimenti storici, in contrasto con le distorsioni recepite, talvolta,
anche dallo stesso docente.
      Se si cerca, infatti, di spiegare agli studenti di qualsiasi livello la
condizione della donna dal medioevo ad oggi, essi tenderanno a ragionarla
nei termini che gli sono stati restituiti dalle esperienze quotidiane e dal
valore che alla donna è dato dalla società contemporanea. Ancora più
importante sarà l’influsso delle fiction viste anche se propongono modelli
in contrasto con la realtà effettiva del periodo.
      Infine, per esigenze drammaturgiche il cinema tende a semplificare
gli avvenimenti saltando intere fasi storiche, eliminando o inserendo
personaggi che servono per rafforzare il climax narrativo.
      I documenti storici, quindi, subiscono l’onta della cancellazione nella
memoria collettiva che di epoca in epoca, di generazione in generazione si
trasforma deformando inevitabilmente quanto si sta studiando e spiegando.
      Certo, questo presupposto non aiuta ad affrontare le tipiche domande
che si pone un insegnante che decide di utilizzare il materiale filmico per
restituire una parvenza di verosimiglianza al racconto storico. Anzi, per
certi aspetti complica la vita, induce a ritornare sul più confortevole libro
che spiega la storia secondo criteri a lui noti e tranquillizzanti per la
classica lezione frontale. Tuttavia, la conoscenza di questi problemi è il
punto di partenza per iniziare un percorso di approfondimento che fornisca
la chiave di volta per giungere al disvelamento della fiction nella storia.
      È necessario ricominciare, ove possibile sgombrando la mente dai
pregiudizi e dal proprio gusto personale, a “conoscere” il cinema non più e
non solo come forma d’intrattenimento, ma anche come mezzo tecnico e di
informazione. Bisogna spogliarsi delle sovrastrutture ideologiche per avere
uno sguardo il più obiettivo possibile nell’analisi della fiction e di tutti gli

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aspetti ad essa connessa. Il cinema, infatti, non si esaurisce solamente
nell’atto della visione, limitata al contesto socio-culturale del momento,
influenzata dall’emotività degli avvenimenti.
      Detto questo, come si fa a rendere comprensibile la storia? Con quali
modalità ci si deve avvicinare al film per spiegare la realtà a cui esso si
riferisce? Con quali mezzi si integra il documento storico con la visione
della fiction?
      Sono quesiti giusti che tengono conto non solo della complessità del
materiale che si propone, ma anche della platea eterogenea che spesso
cerca (in quanto abituata a farlo) solo film di intrattenimento in cui tutto è
spiegato, senza lasciare libertà di interpretazione allo spettatore.
      Si deve, perciò, andare per gradi, crearsi una preparazione tecnica di
base credibile partendo dalla conoscenza del mezzo cinematografico per
poi passare ad un modello di studio capace di ridurre l’analisi del film
all’interno dell’unità di approfondimento che si intende sviluppare. Come
dice Pierre Sorlin “Il primo scopo è abituare gli uditori a guardare quello
che si vede sullo schermo”.

       LA PRODUZIONE
       Cominciamo dalla realizzazione del film dividendolo in diversi
momenti e tenendo conto che non tutte le nazioni hanno lo stesso
procedimento produttivo. Ci serviremo, quindi, dei modelli ricorrenti in
Italia e negli Stati Uniti, utilizzando l’Italia come esempio per la
produzione europea.
       In Italia il progetto del film è quasi sempre concepito dal regista;
infatti la cifra stilistica del cinema europeo è quella autoriale. Il regista è
l’artista, intorno al quale ruota tutto il film. L’eccezione è data dall’attore
così affermato da determinare le regole del gioco. Nel primo caso rientrano
i grandi autori della storia del cinema italiano e quelli ancora in attività.
Nel secondo, invece, si affermano le maschere comiche che talvolta
possono giocare il doppio ruolo di attore-regista, in altre circostanze si
costruiscono un gruppo di tecnici fedeli e affezionati da cui si sentono
valorizzati.
       Gli autori e gli attori si legano, in generale, ai pochi produttori che
l’Italia offre per realizzare le loro opere. Fuori da questo circolo virtuoso
c’è un anonimato che vive di enormi difficoltà distributive. La difficoltà
più grande per un cineasta non è, infatti, trovare i soldi per realizzare un
film, ma avere canali che lo facciano conoscere e apprezzare dal pubblico.
       Diverso è, invece, il discorso che riguarda gli Usa. Hollywood è una
vera e propria industria in cui dominano le case produttrici che, disponendo
di enormi risorse economiche, impongono regole e tempi. In questo caso è

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il produttore che sceglie la storia, il regista e gli interpreti; dopo di che
affida il tutto ai suoi potenti apparati comunicativi che cercano di
trasformare il film in un evento mediatico, capace di attirare pubblico. Se
per l’Italia, perciò, la quasi totalità dei finanziamenti vanno nella sola
produzione, Hollywood investe molta parte del budget anche nel
pubblicizzare la pellicola.
      Questa introduzione può sembrare fuorviante, rispetto al tema
proposto, ma non è così. Ogni film non è un luogo a sè, ma è figlio
dell’apparato produttivo che l’ha generato. Non è la stessa cosa sapere se
un’opera è stata realizzata durante un particolare periodo politico, sapere se
un film è stato concepito su finanziamenti statali, piuttosto che da una
singola parte politica. Non è la stessa cosa sapere se la censura ha giocato
un ruolo determinante nella stesura della sceneggiatura.
      Esistono, poi, altri aspetti quali quelli della distribuzione. Infatti, le
pellicole non vengono fornite direttamente alla sale cinematografiche dalla
casa di produzione, ma devono passare attraverso i distributori che hanno il
contatto con gli esercenti sparsi per il territorio. Il distributore diventa una
figura indispensabile quando il film proviene da una nazione diversa; in tal
caso la casa produttrice si affida a lui per garantire incassi che completano
la prima parte degli introiti di una fatica cinematografica. È determinante
quando influenza, ad esempio, il doppiaggio, oppure censura o varia il
manifesto od i trailer che pubblicizzano il film. È accaduto varie volte in
passato, infatti, che il distributore facesse modificare dialoghi per motivi
politici. Nella versione originale di Casablanca (1942) Bogart aveva
partecipato nel ’36 alla resistenza antifascista in Etiopia; nella copia
italiana tale riferimento fu eliminato. In quell’occasione non si volle
turbare il popolo italiano che, uscito sconfitto dalla guerra, voleva mettersi
rapidamente alle spalle il ventennio fascista.

      LA SCENEGGIATURA
      Il film è anche testo scritto: la sceneggiatura. Per alcuni autori il testo
scritto era difficilmente modificabile in quanto in fase di stesura tutto era
stato previsto minuziosamente; per altri come Fellini la sceneggiatura era
un canovaccio totalmente manipolabile in sede di ripresa.
      Per arrivare alla sceneggiatura ci sono alcuni passaggi. Nella prima
fase si elabora un soggetto, cioè un racconto breve che comprende la
trama, i personaggi, lo spazio e il tempo della narrazione. Dopo si passa ad
un trattamento, ovvero l’elaborazione più accurata dell’opera
cinematografica in cui viene predisposta una scaletta comprendente le

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sequenze in cui è diviso il film. Nel trattamento i caratteri dei protagonisti
sono delineati compiutamente.
      Lo stadio successivo è, infine, la sceneggiatura detta anche copione.
La sceneggiatura è divisa normalmente in due parti: nella prima sono
dettagliati i movimenti della macchina da presa, annotazioni sul clima,
ambiente e paesaggio, i gesti e le azioni degli attori; nella seconda sono
riportati i dialoghi ed i rumori, talvolta anche la musica quando essa è parte
integrante della scena.

       IL LINGUAGGIO DELLE IMMAGINI
       Se il testo scritto rappresenta un punto di partenza importante, diverso
è il linguaggio delle immagini che richiede una conoscenza meno legata ai
significati più evidenti. Come in un componimento letterario lo scrittore
utilizza un particolare stile narrativo, anche il regista può optare per
differenti inquadrature. Le immagini, infatti, parlano una loro particolare
lingua che risponde a regole meno note, ma indispensabili per
comprendere appieno il cinema e le sue forme.

      L’ immagine
      È composta da alcuni aspetti quali l’inquadratura, la composizione
figurativa, i campi e i piani, l’angolazione.
      L’inquadratura è il campo visivo inquadrato dalla macchina da presa
in cui deve essere evidenziato lo spazio scenografico ed umano
rappresentato nella pellicola.La composizione figurativa è la disposizione
dei volumi all’interno della inquadratura stessa. I campi e i piani sono
determinanti per la comprensione di ogni singola scena.
      I campi considerano la descrizione degli ambienti. I piani riguardano
le tecniche di ripresa degli attori. L’ambiente lascia il posto ai risvolti
psicologici e drammaturgici dell’azione. Servono a sottolineare
l’espressione, il dialogo, il sentimento.
      Anche l’angolo di ripresa è importante. Alla ripresa frontale, classica
e rassicurante, si possono e si devono alternare altri tipi di ripresa (laterale,
diagonale, dal basso o dall’alto) a seconda delle esigenze narrative e del
messaggio che si vuole insinuare nello spettatore

     Il montaggio
     Come si giunge alla forma finale del film? Dove si fanno le scelte su
quale tra i ciak girati va inserito nella copia finale, oppure in quale ordine
vanno disposte le riprese effettuate da diverse angolazioni? Ed infine come
dare unità al significato complessivo dell’opera cinematografica?

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      Tutto questo avviene con il montaggio, il lavoro di assemblaggio
delle migliaia di metri di pellicola girata. I computer hanno velocizzato le
procedure ma il lavoro del montatore non è, per questo, meno delicato e
significativo: dalle sue mani esce il prodotto finale che viene mandato alla
stampa, il risultato complessivo dell’opera di decine, centinaia, di persone.
      Il montaggio, per fare un parallelo con la grammatica, trova riscontro
con la sintassi del discorso e come tale va considerato. Con il montaggio si
può proporre anche un significato narrativo al film, conseguendo effetti
rimarchevoli ai fini della chiarezza del racconto.
      Il montaggio non si esaurisce in se stesso, ma crea correlazioni più
importanti poiché dà vita dando origine ad una realtà inesistente, attraverso
un ritmo psicologico e narrativo.
      Quando si riuniscono due scene attraverso il montaggio si induce il
pubblico a fare dei collegamenti che non esistono in natura, spingendolo
anzi a dare un’interpretazione soggettiva a quanto visto. Se mostriamo in
successione l’immagine di un uomo che spara verso destra e subito dopo
un altro che risponde al fuoco da sinistra, lo spettatore trarrà
immediatamente la conclusione che i due stanno cercando di colpirsi da
grande distanza. Sarà, quindi, spinto a dare un significato all’accostamento
senza aver visto materialmente ciò che sta accadendo. Non esiste, infatti, in
nessuna delle inquadrature l’atto in sé; inoltre, le due scene potrebbero
essere state girate in momenti assolutamente distinti senza che esista alcun
rapporto effettivo. L’esempio citato è tratto da Una pallottola spuntata,
film demenziale in cui una terza immagine mostra i due che si sparano da
pochi centimetri, mancandosi sempre, in modo da creare un effetto comico
irresistibile
      Il montaggio è, quindi, di per sé ingannevole.
      Inoltre, il cinema dà vita a realtà inesistenti. Il tempo cinematografico
non è mai reale poiché si dilata, a seconda delle esigenze narrative. Quante
volte abbiamo visto sullo schermo un eroe che cerca di impedire
un’esplosione interrompendo il timer a poco più di un secondo dalla fine?
E quante volte abbiamo osservato che il conto alla rovescia durava ben di
più dei secondi mostrati?
      In altri casi il tempo si abbrevia. Un uomo compie un tragitto a piedi:
nel film la camminata dura pochi secondi, mentre in realtà il tempo
impiegato sarebbe molto superiore.
      Anche lo spazio cinematografico è una pura finzione. Infatti, nella
raffigurazione dello spazio la cosiddetta “quarta parete” (dove è posta la
cinepresa) è solo immaginata dallo spettatore mentre i personaggi si
muovono su tre soli lati. Lasciamo stare, poi, la realtà virtuale costruita dai
computer. Se lo sfondo naturale di opere come Il signore degli anelli, è

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spesso reale, lo stesso non si può dire degli innumerevoli dettagli aggiunti
dai tecnici degli effetti speciali.
      Infine, lo spazio diventa entità fittizia quando ci mostra, ad esempio,
un’autovettura che parte e subito dopo giunge in un luogo. Il montaggio ci
suggerisce un percorso che concretamente non è mai stato compiuto.
      In ultima analisi il montaggio crea uno specifico ritmo del film
variando i fenomeni di moto, colore e composizione delle immagini,
secondo misure quali la diversa lunghezza delle inquadrature.

      Ancora sull’immagine: bianco e nero e colore
      Il Bianco e nero ha possibilità che permettono valori espressivi
particolari. In Schindler’s List: il colore avrebbe spento l’angoscia della
realtà dei campi di concentramento, distogliendo l’attenzione dello
spettatore dai dettagli che Spielberg voleva invece evidenziare. Le ombre
che tagliano violentemente lo schermo, i volti e i corpi fatti risaltare nei
loro tratti principali contrastano con l’unica macchia di colore (la bambina
ebrea) che scuote le nostre coscienze come quella di Schindler. In questa
circostanza si può dire che il bianco e nero si è “fatto colore”.
      Anche il colore, tuttavia, possiede delle importanti peculiarità visive.
Normalmente ha una funzione descrittiva poiché riproduce esattamente la
realtà. Se, però, esaminiamo opere come Million dollar baby
comprendiamo che il colore viene spento per rendere meglio l’atmosfera
dolente che sovrasta tutti i personaggi. In questo caso il colore assume una
funzione narrativa, esprimendo cromaticamente le tematiche presenti nella
pellicola. Un’ultima categoria si può riscontrare nel registro più
propriamente espressivo, quando il colore dà all’immagine un significato
particolare che in se stessa non riuscirebbe a manifestare. La fabbrica di
cioccolato di Tim Burton è un prodotto esemplare per l’uso che il regista fa
del colore e delle sue possibili variazioni.

     LA PSICOLOGIA NEL CINEMA

      Lo spettatore vive di fenomeni psicologici che sono stati analizzati da
molti studiosi. Questi studi hanno evidenziato alcuni aspetti dell’esperienza
vissuta dal pubblico durante la proiezione.
      La percezione e lo stato onirico
      La luce proveniente dallo schermo non è costante, tuttavia lo
spettatore non si accorge della sua frammentarietà in quanto vive in uno
stato di passività inerziale. Appena seduto nella poltrona si rilassa,

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Guardare cinema vedere storia

disponendosi alla visione. Pur essendo consapevole del carattere illusorio
delle immagini, tende a considerare quanto visto come una forma di realtà.
A questa dicotomia corrisponde una “distanza psicologica” che consente di
entrare o uscire dal film.
      La visione cinematografica si distingue dalla visione televisiva perchè
vissuta in uno stato di torpore che ha molti punti di contatto con il sogno,
una sorta di effetto ipnoide che avviene senza che il soggetto se ne avveda.
      La comprensione e la memorizzazione
      In questi due fattori gioca un ruolo essenziale non il linguaggio
espresso dal film, ma la difficoltà dei soggetti di ricostruire l’azione
raccontata. Anzi, studi psicologici hanno mostrato come la problematica
più grande riguardi la ricostruzione dell’ambiente.
      Nella memorizzazione, poi, si è notata una tendenza a “ristrutturare”
a posteriori quanto visto secondo una logica personale ed affettiva con una
conseguente notevole perdita di informazioni.
      La partecipazione e l’identificazione
      È il rapporto “empatico” che si stabilisce tra chi guarda e l’oggetto
che scorre sullo schermo. Chi assiste può restare indifferente, ma può
anche arrivare a riprendere, mimare le azioni del film in una “fusione”
realizzata su basi emozionali ed affettive. Grazie ad esperimenti effettuati,
si sono verificati nello spettatore non solo dei processi cognitivi comuni ai
personaggi, ma l’accelerazione della frequenza cardiaca e respiratoria,
nonché della tensione muscolare in corrispondenza di quanto avveniva sul
grande schermo.
      In sostanza, il film genera una situazione percettiva che crea nel
pubblico la sensazione di vivere eventi reali, sensazione rafforzata dalla
ricchezza di stimolazioni del flusso delle immagini. Dopo di che si attua,
attraverso una serie di mappe cognitive che ognuno ha dentro di sé, un
processo di riconoscimento che vive della capacità dello spettatore di
ipotizzare e verificare ciò che accade nella narrazione.

     CINEMA E TELEVISIONE

      La televisione per Sorlin non ha non possiede la distanza critica della
fonte storica poichè si nutre di una visione permanente dell’avvenimento,
diversamente dal cinema. Inoltre, ha modificato in modo profondo il modo
di scrivere e percepire la storia grazie all’introduzione del testimone,
l’individuo comune che ha partecipato personalmente agli avvenimenti.

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      Nella storiografia tradizionale, la testimonianza viene riassunta,
talvolta sintetizzata, vagliata nei suoi aspetti meno accertabili. In
televisione, al contrario, il testimone diventa protagonista assoluto grazie
alla gestualità, alla mimica facciale che lo pone al centro dell’attenzione,
portando lo spettatore ad un forte processo di identificazione e
comprensione; il quel momento lui è la Storia.
      La televisione, poi, mette in crisi la classica narrazione storica - che
vive di argomentazioni complesse, di tesi analizzate con metodicità e
pazienza – prediligendo la sinteticità a discapito della profondità. Infine,
pur in presenza di televisori sempre più tecnologicamente avanzati, la
forma dell’immagine su grande schermo ed i colori perdono in profondità e
lucentezza nel passaggio dalla pellicola al piccolo schermo.
      Tutte queste critiche hanno più di un fondamento, ma sono limitanti.
La diffusione di altre forme di media e l’avvento del satellite con i suoi
innumerevoli canali, ha consentito alla televisione di liberarsi della zavorra
politico ideologica per rivolgersi anche a prodotti di nicchia. Non è,
insomma, solo varietà, telegiornali e sport.
      Certamente, questi aspetti prevalgono e l’immensità dei programmi
televisivi rendono difficile un lavoro completo. Tuttavia, come non notare
la maturità raggiunta da molte fiction statunitensi che trattano argomenti
scabrosi, in modo diverso e approfondito? E come non accorgersi
dell’abisso che le separa dagli omologhi italiani sovrapponibili per
interpretazioni, scrittura e tecnica di ripresa? Questa differenza può essere
oggetto di studio oppure è una semplice casualità?
      E come si fa a scartare il linguaggio pubblicitario e dei videoclip che
ha formato molte delle nuove leve dei cineasti nostrani e stranieri dal
discorso sul cinema in particolare e sulla storia in generale?
      Rimangono, quindi, alcune perplessità sul ragionamento di Sorlin.
Condivisibile è, invece, la considerazione che solo i film di finzione sono
in grado di costruire una storia totale, poiché “tutto è reinventato”. Sorlin
evidenzia che le limitazioni del cinema sono legate principalmente ad
aspetti politici (censura, ideologie) piuttosto che alle imposizioni dettate
dal mercato. Resta il documentario, ma Sorlin lo considera, a ragione,
fonte di elaborazione parziale. Quando, invece, si sofferma sulla fiction
televisiva ne ravvisa l’utilità come fonte storica in quanto ripropone gli
abiti, le abitazioni, i consumi degli italiani di quegli anni; tuttavia, non la
ritiene sufficientemente interessante poiché non esprime un punto di vista
generale. Manca, insomma, quella che lui definisce “lo spessore della
storia”.

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Guardare cinema vedere storia

    Sorlin dimostra che non esiste un’unica via allo studio del cinema
come fonte storica, ma diverse strade che possono portare a risultati
comuni e altrettanto importanti.

     IL MODELLO STORICO

      “Ogni immagine è bella perché è lo splendore del vero” diceva Jean
Luc Godard (1959) a proposito di India di Roberto Rossellini. Lo
splendore del vero richiama il concetto di realtà, intesa come il
prolungamento dell’esperienza che noi abbiamo del mondo nell’immagine,
insomma la verità delle cose. Il cinema diviene, così, storia.
      In questo senso, può venire interpretato in diversi modi. È oggetto di
una propria storia, ma anche strumento didattico, fonte ed agente storico.
Per questo motivo, in primo luogo, bisogna operare una distinzione tra film
storico e fonte storica.
      Quando una pellicola parla di un periodo ormai passato si usa
definirla film storico in quanto tenta di ricostruire l’evento utilizzando fonti
documentali (libri, atti, manifesti, diari ecc.) ed iconiche (quadri, stampe).
Se, invece, si analizzano film coevi al periodo esaminato, gli elementi
riportati alla luce funzionano da vera e propria fonte storica.
      L’utilità di tale ripartizione è superficiale alla luce del modello che
andremo ad elaborare successivamente, ma serve per prendere coscienza
della diversità delle fonti. Insomma, un film quale Soldato Blu non serve
solo come film storico, ma soprattutto come fonte per comprendere come
la guerra del Vietnam influenzasse la società statunitense.
      Queste categorie di pensiero devono però essere affrontate tenendo
conto che negli ultimi trenta anni la televisione e i computer hanno
profondamente cambiato l’impatto che il cinema ha sulla popolazione. Ora,
infatti, il cinema ha perso il predominio sulla diffusione degli stereotipi
storici, passato decisamente nelle mani della televisione. Al cinema, però, è
rimasta una grande forza in grado di intervenire sui processi sociali grazie
alla capacità di svelare verità nascoste o proporre interpretazioni coltivate
da minoranze, oppure di fornire modelli a cui aspirare. Inoltre, il cinema è
capace ancora di aggregare individui con medesimi gusti ed opinioni, di
alimentare mode, di creare gruppi professionali compatti Questa capacità si
potenzia massicciamente in virtù dei passaggi televisivi che moltiplicano il
messaggio contenuto nell’opera.
      L’avvento del videoregistratore e, più recentemente del Dvd, ha dato
all’analista, in quanto spettatore e studioso, la possibilità di vedere la stessa
immagine e la stessa scena per centinaia di volte; inoltre ha reso accessibile

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un patrimonio sterminato di lungometraggi che vanno dall’origine del
cinema ad oggi. A differenza di quanto si fa nella critica cinematografica
in cui si da un giudizio estetico partendo da una reazione emozionale e da
una visione globale del cinema, l’analisi storica consiste nell’attenzione al
dettaglio nella consapevolezza che tutto diventa ugualmente importante in
un film. Questa è la prima regola quando si studia un film.
      Come dice Jacques Aumont si deve partire da un “non sapere”, da
un’insoddisfazione dovuta ad un “non so”. Bisogna, insomma, visionare il
materiale predisponendosi ad una “messa a distanza” dal film, una messa a
distanza non solo dalle reazioni emozionali, ma anche dal sapere pre-
formato che ci ha guidato nella visione da semplice spettatore. Certo, non è
facile dimenticare quello che si è letto sui giornali, piuttosto che nei
manuali di storia del cinema, ma è necessario per afferrare la somma dei
particolari che fanno di ogni opera artistica una fonte per la ricostruzione
storica.
      Mi preme, però, sottolineare come le regole che stiamo per declinare
devono essere intese come un modello di riferimento che non deve
ingabbiare la fantasia dell’analista, libero di inseguire nuove domande,
ipotesi e soluzioni. L’ideale è, però, che il lavoro compiuto sia verificabile
in senso scientifico anche se non vi sono procedure assolute di
verificabilità in questo campo.
      Una volta individuato il periodo storico che si intende analizzare, si
inizia con un faticoso lavoro di documentazione. Prima di procedere in tal
senso, bisogna selezionare quali film possono essere utili al nostro scopo.
In questa fase aiuta molto, naturalmente, essere esperti il più possibile di
cinema per fare una prima scrematura. Come detto, l’analisi storica
prescinde da valutazioni di carattere estetico e, quindi, in questa ottica tutte
le pellicole sono degne di attenzione e studio; tuttavia, non potendo
visionare ogni produzione collegata all’argomento, si devono vagliare le
opere che hanno un senso per il lavoro che si intende compiere. In pratica,
se si parla della guerra del Vietnam, è utile parlare di Platoon in quanto,
pur essendo del 1986, è opera di un regista, Oliver Stone, che ha
partecipato in prima persona alla guerra oggetto della ricerca. Diventa,
invece, meno interessante una pellicola come Hamburger Hill (1987),
poiché è evidente la ripetizione di concetti espressi da Stone. Tuttavia, lo
stesso film può interessare nel momento in cui si vuol approfondire in
modo comparativo cosa era rimasto della guerra del Vietnam negli Stati
Uniti della fine degli anni ’80, limitando cioè lo studio ad un preciso lasso
di tempo.
      Da evitare in questa primo stadio, perciò, lunghe liste che
semplicemente selezionano tutte le opere sulla fase storica interessata. Si

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Guardare cinema vedere storia

rischia così di fare solo un’analisi comparativa mescolando in modo
inconsulto prodotti fatti in epoche diverse (ricordate la distinzione tra fonti
storiche e film storico?) e senza nessun collegamento effettivo e tanto
meno valore scientifico.
       Dopo aver individuato le produzioni che hanno attinenza con
l’argomento che si intende indagare, si passa all’approfondimento
documentario. Bisogna rintracciare il più possibile gli articoli e le
interviste che riguardano la preparazione del film, le critiche che ha
raccolto, i dati di afflusso nelle sale e, infine, cosa di queste opere è stato
poi segnalato all’interno di libri riguardanti la storia del cinema. Tale
lavoro deve andare in parallelo con gli approfondimenti storici.
       Tutto il lavoro tracciato in precedenza è significativo e determinante
per la ricerca che si realizzerà. Tuttavia, prima di passare alla visione del
film, bisogna fare di tutto per rimuoverlo, per dimenticarlo al fine di
recepire ogni singola informazione senza avere pregiudiziali di qualsiasi
sorta. Il compito è di difficile realizzazione, ma lo sforzo deve essere
compiuto. In questo tipo di analisi tutto è ugualmente importante, da
particolari apparentemente insignificanti si possono trarre delle chiavi
interpretative di parte della storia di quegli anni.
       Primo compito, perciò, è riuscire a non proiettare sul film una parte di
noi, ma prenderlo per se stesso in ogni minimo dettaglio allo scopo di farlo
diventare, come dice Aumont: “ciò che si vede e si sente, e per nulla ciò
che si sapeva già”
       Dalla proiezione devono discendere una mappa, dei percorsi, delle
ipotesi che dovranno essere viste e sviscerate utilizzando il materiale già
accumulato che ora ritorna estremamente d’attualità
       Tali ipotesi devono anche tenere conto delle capacità inventive dei
diversi autori. Non bisogna mai dimenticare che il cinema ha enormi
potenzialità ed è in grado di porre quesiti di diversa natura. Il cinema può
narrare la storia in molti modi, ma è in grado di diventare anche “agente”
di storia. Un’opera, infatti, può essere alla radice di invenzioni profonde
sul piano antropologico, acquistando un particolare valore alla luce
dell’immagine diversa dell’uomo che ha fornito. Roma città aperta di
Rossellini (1945) ha un tale successo che sulla rivista Life viene scritto:
“La maggior parte degli spettatori ha ritrovato parte di quella nobiltà che
l’Italia aveva perduto sotto Mussolini”. È facile capire, alla luce di quanto
letto, che gli eroi di Rossellini hanno riabilitato gli italiani presso
l’opinione pubblica americana e mondiale (fino a quel momento diffidente
verso il popolo che aveva tollerato e appoggiato oltre vent’anni di regime
fascista) ben più di quanto abbiano fatto i governi alla guida della nostra
nazione subito dopo il conflitto bellico.

                                                                             13
Giovanni Scolari

      A questo punto dal taccuino di qualsiasi analista emergeranno una
serie di ipotesi che dovranno poi essere corroborate dal confronto con il
materiale raccolto in precedenza. A volte questa documentazione aiuterà a
tracciare meglio la mappa dei problemi emersi dalla visione, ma non sarà
sufficiente in quanto servono altri dati per supportare le teorie, le ipotesi
fornite dai film. La qualità e la quantità dei dati raccolti sarà direttamente
proporzionale alla validità scientifica della ricerca.
      Diverse sono le possibili direzioni dello studio effettuato. Tra le
direttrici principali vi sono, senza dubbio, la storia politica (film di
propaganda e ideologici), la business history (la macchina economico-
industriale, i modi di sfruttamento), la storia sociale (comportamenti,
orientamenti, inquietudini e mode di una comunità).
      In primo luogo bisogna trovare raffronti con la vita quotidiana così
come ci è stata trasmessa dalle fonti documentali e vedere come la vita è
influenzata dagli accadimenti. Il film deve essere visionato con
un’attenzione assoluta, individuando ogni elemento, anche il meno
importante. Si ricostruisce la genesi del film, il contesto storico e sociale in
cui la lavorazione è andata avanti.
      Successivamente, si dovrebbe cercare di individuare i diversi
elementi storici del film e collegarli tra loro. Le informazioni ricavate dalla
visione - singola o comparata con altre opere – deve essere sottoposta ad
un ulteriore approfondimento confortato da dati documentali.
      In ultima istanza vedere come il film ha interagito con la società
circostante diventando di volta in volta fenomeno di costume, momento di
aggregazione, intrattenimento, propaganda di regime o ideologica ecc. Tale
lavoro viene svolto utilizzando le critiche, gli incassi, la discussione
giornalistica e politica, l’influenza sulle mode e sull’immaginario che la
pellicola ha creato.
      Tutto ciò va fatto in costante raffronto con la ricostruzione
cronologica degli avvenimenti. Ogni informazione raccolta deve trovare
conferma in altre fonti storiche cartacee ed essere legato agli avvenimenti
narrati o rappresentati. Il rischio è di cadere nell’interpretazione arbitraria
dello spirito del film ed elaborando teorie basate su giochi di parole e
slittamenti di significati.

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Guardare cinema vedere storia

                L’ITALIA DEL MIRACOLO ECONOMICO

                       VISTA DA FELLINI: 1950-1960

                                    “L'unico e vero realista è l'artista
                                   visionario e creativo che meglio riesce a
                                   mostrare se stesso attraverso la propria
                                   arte”                          F. Fellini

       Federico Fellini nasce a Rimini nel 1920. Trasferitosi a Roma
giovanissimo, inizia a collaborare con alcune riviste umoristiche. Il suo
successo gli permette di fare una veloce carriera nel mondo dello
spettacolo, collaborando a spettacoli teatrali e scrivendo per la radio.
Infine, il balzo nel cinema come sceneggiatore e poi, a partire dal 1950,
come regista. Durante la sua carriera ha ottenuto numerosissimi premi in
tutti i principali festival che lo hanno incoronato come uno dei più grandi
registi della storia del cinema. La sua scomparsa risale al 1993, pochi mesi
dopo aver ricevuto l’Oscar alla carriera, il quinto della sua vita.
       Dopo questi brevi tratti biografici proviamo a spiegare il motivo della
scelta, anche se dalle parole in calce all’inizio del capitolo, vi è già
contenuta una chiara traccia. Per chi è a digiuno di cinema gli anni ’50
sono stati certamente il periodo più fecondo della nostra produzione che
annoverava registi considerati tra i maestri della settima arte. Questi autori,
in particolare Rossellini e De Sica, parrebbero avere le carte in regola per
rappresentare meglio la realtà di quegli anni. Eppure Fellini, che ha scelto
un registro via via più surreale ed onirico, è un perfetto esempio di come il
cinema diventa strumento storico nelle mani di un autore capace di
rappresentare non solo il visibile, ma anche il non detto di una società e
cioè gli umori, le inquietudini, i cambiamenti sotterranei dell’Italia che
passa da una società rurale prebellica ad una cultura industriale sempre più
edonistica e consumistica. Infine Fellini si differenzia dagli altri autori per
la sua atipicità in quanto egli, pur in mezzo a cambiamenti epocali, non
sposa mai completamente una posizione. E non lo fa perché ignori quanto
accade o per ignavia, ma perché libero da retaggi ideologici o filosofici che
l’avrebbero fatto scivolare nel contingente invece di essere un geniale
inventore di immagini e di sentimenti. Infatti, il suo cinema mostrato tutto
quello che è presente nella società senza porsi in posizione critica verso
qualcosa o qualcuno ma limitandosi ad indugiare sugli uomini e sulle idee
e lasciando che essi evidenzino con il loro pratico operare pregi e difetti

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Giovanni Scolari

delle loro convinzioni. Tutto ciò permette allo spettatore e allo studioso un
quadro generale che va ben al di là della semplice visione, consentendogli
di agire liberamente all’interno di un complesso quadro storico.
      La sua autonomia assoluta lo mette inevitabilmente al centro delle
posizioni critiche emerse nel periodo. Lo studio delle recensioni,
provenienti dai due lati dello schieramento politico, è infatti utile al fine di
tracciare un esauriente quadro della cultura nel quindicennio analizzato. Lo
è ancora di più esaminando le critiche mosse al regista romagnolo che, non
essendo definibile per nessuno, diventa attaccabile a seconda dei problemi
che i suoi films sollevano o della visuale da cui ha osservato il fenomeno al
centro della sua indagine. Così Fellini viene definito, nel giro di pochi
anni, nostalgico, cattolico, comunista, realista, barocco, letterario ecc. Da
una parte gli viene rimproverato di invitare al male gli spettatori, dall'altra
non gli si perdona di non aver aderito al neorealismo. Insomma tutto e il
contrario di tutto.
      L’apprendistato cinematografico di Fellini si svolge nel caotico
dopoguerra italiano, attraverso la collaborazione con molti registi italiani,
ma in particolare grazie al sodalizio con Roberto Rossellini con cui
collaborerà alla stesura della sceneggiatura di diversi film, tra cui Roma
città aperta e Paisà. L’esigenza di passare dietro la macchina da presa
emerge però rapidamente portandolo all’esordio nel film Luci del varietà,
firmato a quattro mani con Alberto Lattuada.

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Guardare cinema vedere storia

                          LUCI DEL VARIETÀ 1950

     La compagnia di avanspettacolo "Polvere di stelle" è in treno dopo
un insuccesso rimediato. Liliana Antonelli, una giovane scappata di casa,
si presenta al capocomico Checco Dalmonte che cerca subito di
approfittare di lei, ricevendone in cambio solo uno schiaffo. Liliana riesce
comunque ad entrare nella compagnia. Durante uno spettacolo le cade la
gonna suscitando l'entusiasmo del pubblico. Il clamoroso successo la
promuove al rango di soubrette.
     Checco si innamora perdutamente di lei al punto da lasciare la sua
compagna, la trasformista Melina Amour. Liliana, però, lo usa per
accalappiare un impresario della capitale che la farà entrare in un
importante spettacolo. Checco, distrutto,, viene cacciato dalla pensione in
cui vive e, senza soldi, ritorna nella vecchia compagnia e da Melina
ancora innamorata di lui. Sul treno che li riporta negli scalcinati teatri
del Lazio, nota una bella ragazza e inizia a farle la corte.

       L’esordio di Fellini come regista è relativamente tale. L'iniziativa
parte da Lattuada che non dirige più film per l'opposizione dei produttori ai
suoi progetti. Lattuada intraprende così la strada della produzione, forte
della presenza di sua moglie Carla Del Poggio - a quei tempi attrice
ricercata - e di Peppino De Filippo. In questa operazione coinvolge Fellini
convincendolo al salto nella regia.
       La scelta del soggetto cade sull'avanspettacolo, una decisione
influenzata da Fellini e dal suo cosceneggiatore Pinelli. In quel mondo
l'autore romagnolo era entrato nel 1939 quando, per la rivista
Cinemagazzino, aveva realizzato una serie di interviste. Tra gli intervistati
figurava Aldo Fabrizi che lo assunse poco dopo per scrivergli i testi di
alcuni sketch. Fellini era già famoso per le rubriche che teneva al
Marc'Aurelio, un noto settimanale satirico, determinante per la nascita di
una scuola di sceneggiatori importante per il cinema italiano. L'amicizia
con Fabrizi gli apre le porte dell'avanspettacolo permettendogli di
conoscere personaggi e luoghi riproposti in Luci del varietà.
       Il realismo delle situazioni narrate viene riconosciuto dalle recensioni
della stampa specializzata. Nella critica di Bianco e nero, rivista del Centro
Sperimentale di Cinematografia, si dice: "Luci del varietà riesce ad
ottenere ciò che Lattuada non ottenne mai finora: l'interpretazione
veritiera e sensibile di un piccolo mondo". Su Cinema, dove è forte
l'influenza di Guido Aristarco e della critica di sinistra, si attribuisce gran
merito del realismo dei personaggi a Fellini. Anche Aldo Palazzeschi pone
l'accento sulla verosimiglianza della ricostruzione del mondo del varietà,

                                                                             17
Giovanni Scolari

affermando che "il regista (considera Fellini un coadiuvatore) prende a
braccio lo spettatore e gli mostra quel mondo non preoccupandosi di
farglielo vedere né meglio né peggio di quello che è."
      Nonostante questo, il film non ha successo. La lobbie dei produttori
esercita pressioni affinché il comitato tecnico per la cinematografia (ente
previsto dalla legge sul cinema del 1949) neghi ai due registi il premio
dell'8% riservato alle imprese di particolare valore artistico. Ponti mette
subito in cantiere un film sullo stesso argomento. Vita da cani esce alcuni
mesi prima di Luci del varietà influenzandone, in modo negativo,
l'andamento commerciale già gravato da grosse difficoltà distributive. Luci
del varietà è, negli incassi stagionali, solo 65esimo con 118 milioni,
lasciando dietro di sé solo debiti.
      L'ingloriosa conclusione economica di questo film non deve far
dimenticare la sua importanza che sta, come sottolineato dalle recensioni,
nella ricostruzione di un universo scomparso, importante sia per
l'immaginario collettivo del "maschio italiano" sia per i gusti del pubblico
del dopoguerra.
      La compagnia Polvere di stelle è lo specchio fedele della realtà delle
piccole compagnie che sopravvivevano con stentate tournée in provincia o
esibendosi nei peggiori locali delle città. Se per le grandi stelle della
rivista, infatti, il successo era garantito, le compagnie minori dovevano
adattarsi. Nelle località più popolose facevano 30/45 minuti di
avanspettacolo che si trasformava in uno stiracchiato show di 1 ora e
mezza negli abitati più piccoli. Il cast di queste compagnie era sempre
alquanto raffazzonato, messo insieme casualmente. La "Polvere di stelle"
può essere considerata come archetipo dell'organizzazione di quegli
spettacoli. Ogni artista faceva più di una cosa. Le bellissime girls,
annunciate in cartellone, erano per lo più reclutate tra giovani disoccupate,
quando non erano le sorelle o le amiche di qualcuno della compagnia o
ragazze che, come la Liliana del film, avevano solo l’aspetto fisico come
talento.
      Occorre poi dire che la considerazione popolare le poneva allo stesso
livello delle prostitute, poiché molte di loro integravano i magri guadagni
col fare la entreneuse. Queste ragazze, poi, erano tutt'altro che attraenti.
Fellini e Rinaldo Geleng, suo amico, le chiamavano le "strappone" in
quanto "si perdevano i grassi da tanto che erano ciccione". Lo
sceneggiatore Bernardino Zapponi le rammentava perché non erano capaci
di ballare, ma "in compenso" cantavano molto male.
      Tuttavia, in una società che aveva patito il soffocante moralismo del
regime fascista, l'apparizione di una gamba nuda costituiva un evento
straordinario. Il che spiega la reazione del pubblico all'improvviso

18
Guardare cinema vedere storia

incidente che fa cadere la gonna a Liliana. L'universo maschile entra in
fibrillazione e decreta il successo dello spettacolo fino a quel momento
oggetto di fischi e insulti. Le cose non miglioravano molto nelle
compagnie di medio livello. Nella rivista che si esibisce a Rimini,
all'interno de I Vitelloni, i boys della soubrette sono ben lontani dagli
aitanti e muscolosi atleti che si esibiscono oggi. I due si distinguono perché
uno è calvo mentre l'altro è terribilmente strabico.
       Se le ballerine stimolavano la fantasia erotica dello spettatore che non
badava troppo alle scarse doti artistiche delle ragazze, gli altri numeri
erano spesso oggetto di insulti da parte della platea, che non perdeva mai
occasione per far sentire la propria voce. Nel film sono mostrate esibizioni
paradossali come quella del finto fachiro indiano e ventriloquo Edison
Will. Oppure quella della trasformista Melina che, dopo essere stata
sbeffeggiata durante tutto il suo numero, induce alla commozione gli
spettatori quando imita Garibaldi con tanto di inno italiano. Il personaggio
principale della rivista era, però, il comico, in questo caso Checco, modello
assemblato sulle caratteristiche di diversi protagonisti del varietà di quegli
anni, come confessa Geleng.
       Resta ancora da tracciare il ritratto della protagonista femminile:
Liliana. Questa donna, una vera e propria arrampicatrice sociale, appare
per la prima volta durante un’esibizione della "Polvere di stelle". In mano
tiene Bolero, uno dei fotoromanzi più venduti. Del suo passato si sa poco
ed il suo unico credito è aver vinto una maratona di ballo. I suoi desideri
accomunano a questa figura la vicenda delle molte ragazze sbandate
protagoniste di numerose pellicole nel dopoguerra. Liliana è, infatti, più
fortunata del personaggio da lei stessa interpretato in Senza pietà 1947, di
Lattuada. Anche lei è uscita dalla guerra segnata, desiderosa di coronare i
propri sogni, ma incapace di comprendere la realtà. Liliana, però, non si fa
travolgere nel tentativo di dimenticare il proprio passato. Usa la bellezza
per raggiungere il proprio scopo: il successo e la ricchezza. Tuttavia
l'ultima sua apparizione è speculare al suo ingresso nel film quanto a
"cultura". Mentre si sta recando a Milano, dove parteciperà ad
un’importante rivista, porta con sé ancora dei fotoromanzi, dimostrazione
evidente dell’incapacità di uscire dal suo ristretto orizzonte.
       Questi personaggi vengono inghiottiti dalla crisi dell'avanspettacolo.
Pochi di loro sapranno adeguarsi e sopravvivere alla "civiltà" che avanza.
Gli uomini come Checco scompaiono tristi e miserabili, abbandonano il
palcoscenico e i sogni per tornare alla vita comune di tutti i giorni.

    La scomparsa di questa forma di spettacolo può sembrare in sé poco
importante. Tuttavia l'esame al microscopio di questo mondo ci permette di

                                                                             19
Giovanni Scolari

comprendere parte dell'evoluzione dell'identità culturale dell'Italia del
dopoguerra. Per arrivare a questa definizione è però necessario tracciare un
quadro della situazione economica della nostra penisola al momento della
realizzazione del film (1950), aiutati in questo dalle vicende narrate in Luci
del varietà.
      La situazione è ancora difficile. I passi compiuti da De Gasperi per
avvicinare l'Italia alle potenze occidentali creano una lacerante
contrapposizione nella società civile, aggravata dall'intervento statunitense
in Corea del Sud. Nei primi mesi del 1950 l'atmosfera si fa sempre più tesa.
Il 9 gennaio la polizia apre il fuoco a Modena durante una manifestazione
operaia causando sei vittime. La reazione dell'opinione pubblica
contribuisce alla decisione di De Gasperi di dare il via alla riforma agraria
e ad alcune misure compensative per il Mezzogiorno, attardato sul piano
economico, allo scopo di alleggerire le forti tensioni sociali. Tali fatti,
naturalmente, non traspaiono all'interno della pellicola. Ad una superficiale
osservazione questi guitti sembrano non accorgersi di quello che accade al
di fuori del loro mondo. È piuttosto il loro modo di vivere, la loro
mentalità, i mezzucci usati per sopravvivere che fanno cogliere il "clima"
economico-sociale che fa da contorno alle loro vicende personali. In
qualche modo si potrebbe dire che essi "esistono" come personaggi proprio
in quanto lo sfondo li "legittima" ad essere tali. Dunque, al contrario di
quanto appare, essi "sono" nel mondo e ne sono un aspetto tutt'altro che
irrilevante. E quando scompaiono dai film è perché in effetti il mondo ha
virato, ha intrapreso un'altra strada nella quale essi non hanno più non solo
una legittimazione ad esistere, ma neppure vengono "tollerati" come
fantasia o immaginazione. In una parola entrano nell'inerte passato.
      All'inizio del film viene mostrato il cartellone dello spettacolo dove si
può leggere il costo del biglietto. Nel paesino laziale una serata con
avanspettacolo e film western costa 110 lire per una poltrona e 75 per un
posto tra i distinti. Nel ‘50 il prezzo d'ingresso medio in Italia per uno
spettacolo di rivista era di 529 lire, per uno di varietà 148, di un film 346.
Un altro dato si riferisce alla sola Italia centrale dove teatro e rivista
costavano rispettivamente 297 e 142 lire.
      Appare dunque evidente che le zone battute dalla compagnia teatrale
erano particolarmente depresse. La povertà risulta maggiormente visibile
quando a Sutri, centro in provincia di Viterbo di circa duemila abitanti, i
guitti vengono ospitati da un avvocato che si intuisce esser parte della
"ricca borghesia" del paese, o almeno di quella che sembrerebbe essere
tale. L'avvocato, infatti, segue la rivista da un palco in compagnia di un
dottore e di un presunto duca. Ma più che all'arte, i tre sembrano interessati
solo alle "stelle" della serata, per cui snobbano le ballerine di fila che se ne

20
Guardare cinema vedere storia

vanno con i giovanotti del paese. La casa del leguleio è significativa del
livello economico di questa borghesia di paese e di un certo tessuto
economico locale che poi riflette gran parte della provincia italiana
d'allora. Essa è posta in "alto", su di una collina, anche se poi per arrivarci
non esiste una strada asfaltata. Lo stesso avvocato deve recarvisi a piedi
poiché, probabilmente, non dispone di propria autovettura. L'interno della
casa è spoglio, disadorno. La cucina è una grande stanza con spesse mura e
grandi credenze nere; dal soffitto pendono pomodori, salami in modo del
tutto somigliante alle case contadine mostrate ne Il Bidone. La dovizia di
cibo presente nella cucina dell'avvocato esercita sui guitti un richiamo
irresistibile: che contrasto con i magri pasti consumati sui treni o nelle
osterie! Un piatto di pasta e un gustoso vino sono i mezzi di cui si serve il
legale per tacitare le coscienze dei commedianti mentre cerca di concupire
Liliana.
      La fame non era d'altro canto fatta solo dagli artisti. Nel 1950 il
consumo annuo pro capite degli italiani è di 165,5 Kg di frumento contro i
180 del decennio 1921-31; 6,9 Kg di carne bovina, l'ammontare più basso
mai registrato tra il 1916 e il 1939; 79,8 litri di vino, una quantità risibile
rispetto al passato. A ciò bisogna aggiungere che 4,5 milioni di famiglie
non mangiavano mai carne e tre milioni la consumavano una volta alla
settimana. Esaminando le condizioni abitative si scoprirà che: il 24% delle
case è sprovvisto di cucina; il 48% di acqua corrente; il 73% del bagno; il
93% di telefono. Non sono dati che debbono sorprendere in quanto nel
1951 ancora il 3% delle famiglie, circa 870.000, viveva in abitazioni
improprie (cantine, soffitte, baracche, grotte), mentre il 21% abitava in
appartamenti sovraffollati (più di due persone per stanza).
      Nonostante questo l'Italia, o meglio una parte di essa, si stava
avviando verso il risanamento. Nel 1950 la bilancia commerciale presenta,
per la prima volta dopo la guerra, un saldo positivo. L’economia è
influenzata dall'agricoltura che nel ‘51 contribuisce per il 20% al prodotto
interno lordo e con il 44% all’occupazione. Le regioni più industrializzate
sono Piemonte, Lombardia e Liguria. Le altre vengono considerate
scarsamente industrializzate; in Puglia, Campania, Basilicata, Abruzzo e
Molise, Calabria e Sicilia, gli occupati nell'industria scendevano al di sotto
del 5%!
      Proprio le regioni settentrionali beneficiano della politica di sviluppo
infrastrutturale, intrapresa dal governo, che porterà poi all’intensa
emigrazione dei decenni successivi. Infine, Roma riafferma la sua presa
sull'immaginario collettivo grazie all’azione del Papa che con l'anno santo
del 1950 ridà slancio alla sua immagine nel mondo. Anche il cinema e
Cinecittà riprendono vigore, incoraggiando sogni proibiti e speranze di

                                                                             21
Giovanni Scolari

successo illusorie che trovano sfogo nell’enorme diffusione dei
fotoromanzi. Le vicende cinematografiche di Fellini si intersecano ancora
con i miti degli italiani in una nuova pellicola, la prima diretta da solo, Lo
sceicco bianco.
       Il risultato di quanto detto è che l'avanspettacolo beneficia, come tutta
la società italiana, di un'improvvisa e inaspettata libertà che si trasforma
rapidamente in una stagione eccezionale di licenziosità e di turpiloquio.
Maestro delle cerimonie è l'inventore dell'Uomo Qualunque Guglielmo
Giannini che dai giornali chiama "ederasti" i repubblicani e "Andreottino
Culicide" il sottosegretario alla Presidenza del consiglio. Dopo il 1948 si
assiste alla controffensiva dei cattolici grazie alla ritrovata efficienza della
censura. Non a caso il Centro Cattolico Cinematografico boccia Luci del
varietà sconsigliandone la visione a tutti.
       È da notare come il C.C.C. ponga molto l'accento sul concubinaggio
di Checco. Era uscito proprio nel 1950 il libro di Luigi Renato Sansone
Fuorilegge del matrimonio, una raccolta di lettere che aveva aperto una
discussione sul divorzio. Questo e altri avvenimenti inaspriscono la
sessuofobia del clero che inizia una martellante campagna moralizzatrice
che porta ad un’autocensura da parte di produttori e registi, incalzati dalla
strisciante azione dei sottosegretari che si succedevano alla delega per il
cinema (Ermini, Scalfaro, Brusasca, Resta) fedeli alla linea di condotta
tracciata da Andreotti.
       Le preoccupazioni della vita quotidiana si aggiungevano ad altri
fattori, come la belligeranza tra le due Coree e la guerra fredda, che
spingevano il pubblico ad esorcizzare la paura di un nuovo conflitto
rivolgendosi verso fotoromanzi e film di minore impegno. Queste due
tendenze venivano riassunte dai film di Raffaello Matarazzo con Amedeo
Nazzari e Yvonne Sanson. È in quel periodo che i due raggiungono il
massimo successo, Catene trionfa ai botteghini insieme a Totò. A fare da
doloroso contrappunto è il fallimento di due tra le opere più importanti del
dopoguerra: Miracolo a e Bellissima di Visconti.
       Ritorniamo all'avanspettacolo e cerchiamo di comprendere i motivi
che hanno portato alla sua scomparsa nel giro di pochi anni. Dagli annuari
SIAE risulta che il cinema è passato dai 661.549 biglietti del 1950 ai
744.781 del 1960; nello stesso periodo le attività teatrali s’abbassano da
20.979.311 a 10.574.581. Il calo delle presenze è del 50%, ma nel caso
della rivista la perdita è del 70%. L'avanspettacolo era spesso anche
l'introduzione al film; è difficile quindi sapere quanti spettatori avesse. È
però un dato che funge da segnale della crisi. Certamente questo tipo di
manifestazione ha risentito della nuova cappa moralista e dall'avvento della
televisione, ma anche dei mutamenti di gusto degli italiani, usciti

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Guardare cinema vedere storia

dall'isolamento culturale grazie al cinema americano e ai nuovi mezzi di
comunicazione. L'ideale femminile non era più la ballerina di fila, ma
Silvana Mangano o la diva di Hollywood, un mondo che si stava
trasferendo sul Tevere.

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Giovanni Scolari

                        LO SCEICCO BIANCO 1952

      Ivan Cavalli e Wanda giungono a Roma in viaggio di nozze. Devono
partecipare all'udienza papale con uno zio di Ivan, dirigente al Vaticano,
che dovrebbe aiutarlo ad ottenere il posto di segretario comunale. Wanda,
lettrice di fotoromanzi, vuole invece conoscere l'eroe dei suoi sogni: lo
Sceicco Bianco, protagonista della rivista Incanto Blu. Appena il marito si
appisola, Wanda si reca alla redazione del periodico dove viene invitata a
Fregene per seguire la lavorazione del fotoromanzo. Lì conosce lo
Sceicco che in realtà si chiama Fernando Rivoli. Nel frattempo Ivan ha
scoperto la scomparsa della donna e la sta cercando.
      Wanda, dopo aver partecipato ad alcune scene come attrice, viene
portata al largo da Nando. Lo Sceicco cerca di approfittare di lei
raggirandola ma un colpo di vento muove la vela che colpisce al capo
Fernando, stordendolo. Al ritorno i due sono attesi dal regista,
imbestialito, e dalla moglie di Fernando, un'orribile megera. Wanda fugge
per non essere picchiata dalla donna, ma viene abbandonata dalla troupe.
      Ancora vestita del costume di scena, riesce a rientrare a Roma.
Disperata tenta di suicidarsi buttandosi nel Tevere, ma viene salvata dalla
polizia. Ivan, dopo essersi barcamenato per scusare l'assenza della moglie,
si è gettato alla sua ricerca infruttuosamente. Sconsolato pensa di
rivolgersi alla Polizia, ma la paura dello scandalo lo fa desistere. A questo
punto si eclissa con una prostituta. La mattina successiva, Ivan decide di
confessare tutto allo zio. Un attimo prima di questo giunge una telefonata
che lo avverte del ricovero di Wanda a seguito del tentativo di suicidio.
Dopo aver eluso ancora le domande dei parenti, recupera la moglie e la
porta in fretta e furia all’udienza papale dove la famiglia dello zio li
attende. In piazza San Pietro, Wanda riesce a giustificarsi e gli sposi si
incamminano verso la Basilica.

      L'insuccesso della prima regia non ha scoraggiato Fellini che
percepisce di aver trovato la strada per realizzarsi. L'occasione gli giunge
da un soggetto che Michelangelo Antonioni aveva scritto nel ‘49 dopo aver
girato il documentario L'amorosa menzogna, analisi dell’enorme successo
dei fotoromanzi.
      Interessato dal fenomeno che assomigliava, sotto molti aspetti, ai suoi
amati fumetti, Fellini comincia a lavorare con Pinelli alla sceneggiatura a
cui collaborerà anche Ennio Flaiano. Il sodalizio con Flaiano rappresenta
l’anello di congiunzione con gli intellettuali di via Veneto dove lo scrittore
era venerato come un maestro e sarà di enorme importanza per i film
successivi.

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