UNA STORIA AL GIORNO - GIULIA PISELLI ANNO ACCADEMICO 2019/2020 TECNICHE DI ILLUSTRAZIONE ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI BOLOGNA - Accademia Belle ...
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UNA STORIA AL GIORNO GIULIA PISELLI ANNO ACCADEMICO 2019/2020 TECNICHE DI ILLUSTRAZIONE ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI BOLOGNA
HO FAME ANCH’IO.. DA DOVE ARRIVA TUTTA QUESTA FRETTA? SARÀ LA FAME CHE CHIAMA... GUARDATE CHE LA SERA ARRIVA PRESTO, NEMMENO TE NE ACCORGI ED È GIÀ ORA DI CENA! pant FFF PANT
SOLO UN PO’ STANCANTE, IN OGNI CASO NON E’ MIA LA PASSARE PER IL COLPA,L’IDEA DI PASSARE PARCO.. PER IL PARCO L’HA AVUTA AGATA. CR CHE NON HA DETTO NEMMENO UNA PAROLA.. AGATA, TUTTO BENE? A! O. C E. CRA! C R SE DE A NE TEN ! P AT A L DE OLO R O S C LI NA EGOG M S SI... SI... BI TUTTO BENE... TONF TONF
Sognai una grande prato, con molti alberi. Un uomo correva. Sembrava cercare qualcosa, disperatamente. Anche da lontano, si poteva Nessuno poteva saperlo, forse soltanto io. sentire la sua domanda insistente. Quell’uomo stava cercando la donna di cui era innamorato. Ogni giorno, si recava in quel bosco, a contemplarla finché il sole non scompariva del tutto, dietro la collina.
Ogni giorno, trovava la sua radura, la sua Sulla sua panchina, nella sua radura, l’uomo panchina, la sua donna, che lo attendevano attese. Attese finché il sole non scomparve del sognanti. tutto, dietro la collina. Ed anche oltre. Ogni giorno, fino al giorno in cui scomparve. Fino a che non scomparvero i sogni, e rimasero solo le domande.
Entrando nel museo si ha la sensazione che sia deser- to. Non si riesce a vedere nessuno, dai pannelli di vetro della porta d’ingresso. Appena dopo l’entrata, sulla destra, la portineria è vuota. Solo dopo qualche istante, con più attenzione, si iniziano a sentire delle voci provenire da quello che sembra un ufficio, sul retro. Su una bacheca, insieme agli orari di apertura e ad altri avvisi vari, quasi lampeggiano due divieti scarlatti: l’ovvio divieto di fumo, e la scritta: “Vietato l’accesso ai cani”. Sulla porta c’è Irene, quella bam- bina che si era soffermata all’ingresso; ha quasi un sussulto non appena legge il cartello, ma poi acce- lera e varca la soglia. Purtroppo il suo, di cane, è già entrato, ed ora le tocca un imprevisto tour del Museo di Storia Naturale per ritrovarlo e sbrigarsi a tornare a casa. Cercando di non dare troppo nell’occhio.
È proprio vero, in questo tipo di ambienti sem- bra sempre non ci sia nessuno. Poi, magari, a ben guardare, ci si accorge di una qualche gran- de aula piena di gente che, in silenzio, studia. È quasi sera, dalle finestre impolverate entra po- chissima luce. In molte zone, tra gli scaffali e le teche, già domina il buio. La ragazzina, procede nella penombra. Sulla sua testa, in alto, si stagliano decine e decine di teste sinuose, di ungulati appartenenti a varie specie, con corna aguzze e nere, in fila come i denti di un pettine. Come eleganti capitelli, stanno aggrappati alle pareti ed ai pilastri. Con il naso all’insù, Irene inizia a seguire gli arieti, le capre, i caprioli, fino ad arrivare al piano di sopra. Un’improvvisa vertigine capovolge per un momento il panorama. Il gigantesco pesce luna osserva ogni cosa, con l’espressione scon- certata di chi proprio non si aspettava di fare quella fine.
Attraversa lunghi corridoi, popolati da bran- chie, pinne, denti, occhi vitrei, carapaci ed ossa sparse. È come passeggiare tra le vetrine di una strana città. Si è fatto piuttosto tardi, e la bambina inizia a camminare più in fretta, supe- rando fila di nuovi occhi, nuovi artigli e nuove fauci, pelli e pellicce finemente ricucite, chissà quanti anni fa, da qualche mano esperta. Final- mente, una svolta: sotto l’ombra affusolata di un grosso squalo, qualcosa che brilla, il riflesso bianco di un nastrino di seta. Si tratta proprio di quell’odioso fiocchetto che indossava il bo- tolo, quindi non deve essere lontano. Prose- gue per i corridoi, seguendo le ombre lunghe della sera
Superati gli scaffali, raggiunge un luogo quasi luminoso, con molte finestre. Rico- nosce chiare le sagome di scheletri vari e di alcuni rettili molto grandi. Accanto ad una vetrina contenente corna e parti di cor- pi umani, il grande scheletro di un cervo si erge in piedi, illuminato da due lampade. Nel silenzio della sala si sente improvvisa- mente un frettoloso scalpiccio, ben quat- tro zampe motrici che picchiettano sul pa- vimento di marmo. Un piccolo volpino di Pomerania nano, dagli occhietti zampillanti di malevolenza e acume, bianco e soffice ma senza fiocco. La ricerca sembra, per il momento, finita.
Al centro del giardino c’è una sedia nera. Ed un pino. Regna un silenzio fresco, sereno. Ogni tanto, un lampo blu, bianco e nero.
È una gazza (una gazza ladra), che passa volando sopra la mia testa. Alzo lo sguardo, la vedo tuffarsi nella chioma fitta, sparire tra gli aghi.
Penso che nessuno dovrebbe vivere in gabbia, tutti farebbero meglio a scappar via. Eppure anch’io, continuando a scappare, son tornata qui, in quesi posti sempre deserti. C’è un’aria fresca, marina.
Oltre il giardino, c’è la casa. Un camino, di cui mi prendo cura, e due cani. Condivido lo spazio soltanto con loro, che sono i miei coinquilini e compagni. In giardino ci sono due rose. Proprio quest’anno, sono nate ingabbiate. Due rose color corallo, una grande grata arrugginita le minaccia col suo peso e la sua ombra.
Diana è il cane bianco. Le piace il fuoco, resta a guardarlo per ore. Anche se non dovrebbe stare in casa. L’ultima volta che l’ho tenuta fuori è entrata dalla finestra. È uno di quei cani invadenti, esplosivi. Io la lascio fare, perché stare davanti al camino con lei era una delle cose che mi mancavano, a Bologna.
Mio fratello, le mie nonne, tutti mi sembrano fragili.
Esco. Il vento soffia forte mentre faccio la fila al supermercato. Ho messo i guanti (graditi) e la mascherina (sgradita). Sembro un alieno, mi sento sott’acqua. Passata dalla tranquilla prigionia in sottomarino alla tuta del palombaro.
La mascherina mi va sugli occhi, basta un gesto minimo. Il vento mi ha scombinato i capelli. Provo a sistemarli ma è peggio, si elettrizzano per colpa dei guanti che garantiscono una buona presa sulle cose, ma sono di lattice. Fanno attrito, danno fastidio. Penso che forse sarà soltanto questione di abitudine. Ma questa cosa mi abbatte totalmente. Non voglio pensare di dover indossare questa trappola ancora per molto. Almeno non è estate.
Alla fine l’ho fatto. Sono salita in macchina e sono partita. Sulla strada, cambia l’orizzonte. Le vecchie, sassose colline sono inondate di verde. L’ultima volta che le ho viste, alle porte dell’autunno, era tutto diverso. Sulla strada, una macchina bianca, in fiamme. Guido in silnzio, dallo specchietto vedo la colonna di fumo nero. Mi viene in mente che, dall’alba dei tempi, gli esseri umani amano sedere in compagnia ad osservare il fuoco.
Lo facevano in Grecia, quando lasciavano bruciare i loro morti in colonne di fumo alte come un grattacielo, sulle rive del mare. Lo facevano nell’antica Roma, quando durante i Lemuria, a maggio, bruciavano doni e fave fresche sulle tombe degli antenati, per sanare la loro rabbia. Forse sentiamo ancora oggi necessario, in qualche modo, celebrare il fuoco. Anzi, celebrare col fuoco. Guido, in silenzio.
Nessuno ha veramente il potere di fermare il tempo. Non importa quanto a lungo puoi restare nella tua stanza, non importa quante siano le voci a parlare, non importa quanto siano lunghi i silenzi. Non importa quanto siano pesanti le catene che hai deciso di importi.
Sulla strada c’è una gatta selvatica, dagli occhi ardenti. Nella sua vita ha imparato a cacciare ogni tipo di preda, senza sbagliare mai. Salta tra i fili d’erba, sale sui rami. Riesce a sentire ogni fruscio, a vedere ogni ombra. Si tuffa nel prato, e ne riemerge col suo premio: tiene una piccola creatura sotto i denti affilati. In un lampo, è scomparsa col bottino.
Le cose della natura non si fidano dell’uomo. Persino io sono una minaccia, per loro.
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