SETTEMBRE/DICEMBRE 2019 - Il Critico Maccheronico Cibo e Cinema. La ...
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18 settembre 2019 ore 20:30 IL DISPREZZO (LE MÉPRIS) regia : Jean-Luc Godard Francia 1963, colore, v.o. sott.ita.,103 minuti Il disprezzo offre a Godard, per la prima volta, la possibilità di parlare direttamente del mondo del cinema, delle relazioni ambigue intrattenute fra un produttore, un cineasta, uno sceneggiatore e una diva […]. Come ha confidato lo stesso Moravia a Enzo Siciliano, il suo romanzo è ispirato a una disavventura accaduta nella vita dello scrittore Vitaliano Brancati, che il romanziere ha incrociato durante un’esperienza comune, perché ha assistito da vicino alla preparazione di Ulisse, girato da Mario Camerini nel 1953 con Kirk Douglas e Silvana Mangano. Brancati, che lavorava per il cinema in modo esclusivamente mercenario, allo scopo di poter offrire una casa a sua moglie, si è visto lasciare da questa proprio il giorno stesso in cui è riuscito ad acquistarla. Ecco un secondo aspetto del romanzo che interessa Godard: l’anatomia del fallimento di una coppia. Come, bruscamente, ciò che era amore si trasforma in indifferenza, e peggio ancora, in ‘disprezzo’ per l’altro... Quali sono i meccanismi improvvisi ma irrimediabili del disamore? Per Godard cineasta […] da lungo tempo affascinato dai legami fra il denaro e l’arte, come per Godard marito di Anna Karina, quest’uomo che sente la moglie sfuggirgli, Il disprezzo rappresenta allora un doppio soggetto di interesse, quasi autobiografico. […] (Antoine de Baecque, Godard. Biographie, Grasset, Paris 2010)
18 settembre 2019 ore 22:30 PAPARAZZI regia: Jacques Rozier Francia 1963, b&n, v.o. sott.ita., 18 minuti Jacques Rozier gira Paparazzi nel 1963, a Capri, a margine della lavorazione del film di Jean-Luc Godard Il disprezzo. Godard aveva conosciuto Rozier scoprendo nel 1958 il suo Blue Jeans. Nel frattempo Rozier ha realizzato Adieu Philippine (Desideri nel sole, 1962), e l’amicizia tra i due, nonché il loro comune coinvolgimento nella nouvelle vague, incoraggiano Rozier a proporsi a Godard come autore del making del suo film. Il disprezzoè un film particolarmente atteso: vi s’incontrano due figure opposte del cinema, la star incontestata del cinema francese del momento e il giovane cineasta della nouvelle vague. Rozier scopre la quantità di fotografi che inseguono la star, e che, da quando Fellini li ha battezzati così, si chiamano paparazzi, termine sconosciuto in Francia.Sulla base di una ricostruzione documentaria (il film comincia con l’incontro a Capri tra Brigitte Bardot e Jean-Luc Godard), Rozier propone senza indugi, in modo originale e calcolato insieme, grazie a un gioco di campi e controcampi, un dialogo tra B.B. e tre paparazzi. Con una regia e un montaggio particolarmente dinamico, che danno al film un carattere di modernità sempre attuale. E una colonna sonora che fa vivacemente la sua parte: rumori e parole che si accavallano in piena libertà. Mentre la musica dà ritmo e cadenza alle inquadrature. Il ritmo sostenuto del film accompagna la tensione tra paparazzi e troupe. Rozier è divertito da questo clima nervoso, al quale dà un’impronta estrosa e burlesca, una tonalità che ritroveremo nella maggioranza dei suoi film.Come Renoir e Vigo, Rozier è un cineasta libero. Osserva costantemente con sguardo distaccato e divertito il mondo che va scoprendo, e che traduce in immagini con la sua poesia e con la complicità di personaggi carismatici o pittoreschi. Hervé Pichard
9 ottobre 2019 ore 20:30 LA CALDA AMANTE (LA PEAU DOUCE) regia: François Truffaut Francia 1964, b&n, v.o. sott.ita., 119 minuti Sebbene oggi sia ritenuta dai critici cinematografici una delle pellicole più intense di François Truffaut, “La calda amante” si rivelò in realtà un vero e proprio fiasco al momento della sua presentazione al Festival di Cannes del 1964. Dopo l’eclatante successo di “Jules et Jim”, pubblico e critica si aspettavano da Truffaut un’altra pellicola che in qualche modo ne ricalcasse le tematiche; il regista invece, sorprendendo e soprattutto deludendo tutti quanti, si presentò con “La calda amante”: un film in cui la narrazione dell’amore perde i toni spensierati tipici della giovinezza per caricarsi di quelli cupi e decisamente più complessi di una storia di adulterio. La pellicola tratta infatti di un sofferto triangolo amoroso destinato a finire in tragedia e, nonostante sia stata girata quasi mezzo secolo fa, oggi ci appare tutt’altro che datata per la raffinata narrazione dei profili psicologici dei soggetti coinvolti nella vicenda. In una sceneggiatura che non brilla per originalità per quasi l’intera durata della pellicola, il modo in cui viene sviluppato il personaggio della moglie riesce a spiazzarci e, contemporaneamente, a far virare inaspettatamente il genere del film dal melodramma al noir. Sebbene Franca ci venga presentata come l’elegante e premurosa moglie di un imprenditore di successo, rivestendo una funzione quasi decorativa, è però nel momento in cui prende coscienza dell’infedeltà del marito che assume immediatamente un diverso spessore, al punto che la vediamo meditare lentamente e attuare con freddezza l’omicidio di Pierre. Girato in poco più di due mesi tra Parigi, Orly, Reims e Lisbona, “La calda amante” uscì in Italia in una versione tagliata di circa venti minuti rispetto a quella francese e, soprattutto, con un titolo che non aveva nulla a che vedere con il messaggio che desiderava lanciare quello originale, la cui traduzione recita “La pelle morbida”.
6 novembre 2019 ore 20:30 AGENTE LEMMY CAUTION: MISSIONE ALPHAVILLE (ALPHAVILLE, UNE ÉTRANGE AVENTURE DE LEMMY CAUTION) regia : Jean-Luc Godard Francia 1965, b&n, v.o. sott.ita.,95 minuti Personale e orwelliana rilettura della fantascienza orchestrata da Godard a partire dalle suggestioni poetiche de La capitale de la douleur di Paul Eluard, Agente Lemmy Caution: Missione Alphaville è un’opera che non assomiglia a nulla, forse neanche nella filmografia del regista svizzero. Il pregio principale dei veri rivoluzionari del linguaggio, della sintassi e della logica non può essere ristretto “solo” alla capacità di stravolgere la prassi rinnovandola dalle fondamenta: la vera rivoluzione, al contrario, nasce proprio dalla volontà intrinseca di creare il nuovo utilizzando, rimasticando e a volte criticando il già esistente. È partendo da questa riflessione che si può forse comprendere meglio, senza fermarsi alla mera superficie delle cose, il ruolo svolto all’interno della storia del cinema francese, europeo e mondiale da Jean-Luc Godard. Troppo facilmente ridotto a materia da museo in quanto (co) creatore di quel micro/macro-cosmo che fu la nouvelle vague, Godard ha in realtà attraversato gli ultimi cinquant’anni di storia del cinema schierandosi sempre e comunque dal lato meno “sicuro” della barricata; un’indole che deflagra in maniera incontrovertibile in Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution (1965) conosciuto dalle nostre parti con il titolo Agente Lemmy Caution: missione Alphaville In Agente Lemmy Caution: Missione Alphaville, personale e orwelliana rilettura della
Missione Alphaville, personale e orwelliana rilettura della fantascienza orchestrata da Godard a partire dalle suggestioni poetiche de La capitale de la douleur di Paul Eluard, tutto è rinnovato senza che nulla possa essere considerato lontanamente nuovo: Lemmy Caution, il protagonista, all’epoca è un personaggio noto a tutti gli amanti della letteratura gialla, e in Francia ha già avuto diverse trasposizioni sullo schermo, tra l’altro sempre interpretato da Eddie Constantine; il professor Von Braun non solo rimanda a Wernher von Braun, ma quando Lemmy Caution lo chiama per nome si riferisce a lui come Nosferatu; il pastiche visivo architettato da Godard è perfettamente in linea con le sperimentazioni già affrontate – anche con maggior rigore – a partire da Fino all’ultimo respiro; la stessa città di Alphaville, entità apparentemente extraterrestre, non è altro che Parigi. Godard scardina dunque le resistenze del genere per dare corpo a un viaggio altro, realmente alieno e forse destinato a consumarsi “al termine della notte”, come suggerisce il protagonista in una delle battute più celebri citando Louis-Ferdinand Céline: chi in questo bailamme visivo e archetipico ha voluto vedere la prova definitiva dell’incompatibilità tra il cineasta francese e la fantascienza, dimostra davvero di non essere in grado di spingere il proprio sguardo al di là dello steccato. Se il ritmo e la messa in scena dell’azione di Agente Lemmy Caution: Missione Alphaville risultano perfino rozzi nella propria plasticità espressiva, è perché solo nella ripetizione scarna e basica del già visto Godard può rifondare gli stilemi di un cinema troppo abituato alla propria medietà per riuscire a comprendere la salvifica iniezione di alterità che viene proposta. Elogio dell’amore e descrizione crudele, dissacrante e intellettuale della morte dell’utopia.
6 novembre 2019 ore 20:30 LA SPOSA IN NERO (LA MARIÉE ÉTAIT EN NOIR) regia: François Truffaut Francia 1967, colore, v.o. sott.ita., 103 minuti Julie vede l’amato Davide morire sulle scale della chiesa subito dopo averlo sposato. Responsabili dell’involontario omicidio sono quattro uomini ai quali la donna risalirà per vendicare il marito assassinato. «La suspense è in sé spettacolo. È l’arte di mettere il pubblico nell’azione, facendolo partecipare al film.» La magia tutta de La Sposa in Nero risiede nelle parole del suo regista, rarissimo caso di cineasta capace di coinvolgere chi guarda nonostante le carte del gioco siano scoperte già in partenza. Nell’adattare per il grande schermo il primo tassello della serie nera data alle stampe da Cornell Woolrich, Francois Truffautapporta ai meccanismi del testo d’origine una sola ma significativa modifica: lì dove il romanziere occultava, tenendo nascoste fino all’ultimo capitolo identità e motivazioni della protagonista, Truffaut rivela; mettendo progressivamente al corrente del perché, la magnetica Julie, è spinta dal desiderio di vendetta nei confronti dei cinque scapestrati che nell’originale si facevano chiamare i “diavoli del venerdì sera”. Un rischio che, da calcolato, si trasforma ben presto in fragoroso punto di forza. Truffaut, passando dalle parole ai fatti, riscrive letteralmente le regole di un genere all’interno del quale lo spettatore diventa elemento essenziale, perché coinvolto in prima persona nella narrazione attraverso
il crescente sentimento di patteggiamento nei confronti dell’innamorata vendicatrice. Nonostante dei vari Bliss, Coral, Morane, Holmes e Fergus si conosca poco o nulla, risulta impossibile provare per loro la benché minima pietà. Noi siamo Julie, camaleontica macchina di morte al servizio del personale sentimento di vendetta, e come lei desideriamo una sola cosa: vedere le loro vite spegnersi nell’illusione che altrettanto faccia il nostro dolore. Truffaut, pur accennando alle qualità da minus habens dei cinque in questione (un donnaiolo, un nullatenente, un padre assente, un malvivente, un pittore che utilizza il suo charme per sedurre le giovani e inesperte modelle), non calca mai la mano sui lati negativi della combriccola, e addirittura quasi nasconde alla vista del pubblico la vittima maggiormente colpevole dal punto di vista sociale (Holmes, uomo di malaffare che di fatto uccide, pur involontariamente, Davide); procedendo invece per sottrazione: messa in scena scarna (eccezion fatta per l’episodio di Diana cacciatrice), pochi dialoghi, un solo motivo d’accompagnamento (lo stesso utilizzato da Bernard Herman ne La Donna che Visse Due Volte di Alfred Hitchcock). Quasi la macchina da presa fosse protesi filmica della mente di Julie, ossessionata dal desiderio di regolamento dei conti. La Mariee etait en Noir rappresenta il miglior adattamento “woolrichiano” di sempre, non tanto per il blasonato nome del suo autore (che lesse The Bride Wore Black di nascosto, all’età di 13 anni), quanto per la sensibilità empatica prima che cinematografica, nel catturare il Woolrich pensiero. Scrittore di un amore unico e irripetibile, nato nell’infanzia e ripromesso nell’età matura. Un sentimento che, se sottratto, finisce per uccidere la parte migliore di chi ha osservato, impotente, la sua scomparsa.
27 settembre 2019 ore 19 e ore 21 24 FRAMES regia: Abbas Kiarostami Iran, Francia 2016 , colori , v.o. sott.ita., 114 minuti “Mi sono sempre chiesto a quale grado l’artista punti per rappresentare la realtà di una scena. I pittori catturano solo un frame della realtà e nulla prima o dopo di esso. Per questo film ho deciso di usare foto che ho scattato nel corso degli anni. Ci ho aggiunto 4 minuti e 30 secondi di ciò che immaginavo avrebbe potuto essere accaduto o accadere prima o dopo l’immagine che avevo catturato”. Si potrebbe definirlo un testamento ma è di fatto qualcosa di diverso e di più significativo. Il cinefilo, perché non è certo al pubblico tout court a cui Kiarostrami si rivolge, viene invitato a lasciarsi accompagnare in 24 stazioni di un percorso che fonde le origini del cinema con il suo futuro. Perché quasi tutte le 24 inquadrature sono fisse come quelle del cinema dei Lumière ma l’intervento che viene operato su di esse è spesso supportato dalle tecnologie attuali più avanzate. L’apertura è dedicata a un capolavoro della pittura, quel “Cacciatori nella neve” di Pieter Bruegel il Vecchio che consente anche un omaggio (non si sa se esplicito o inconscio) ad Andrej Tarkovskij e al suo Lo specchio in cui si riproduceva il quadro con personaggi reali. Qui un camino inizia a fumare, i corvi si librano nel cielo gracchiando, un cane si aggira intorno mentre inizia a nevicare. I corti si susseguono, scanditi dalla numerazione e in essi prevale la presenza della Natura sia sotto forma animale che come manifestazione degli elementi. Lo sguardo ritrova il tempo per percorrere le inquadrature accompagnato da suoni e rumori e, talvolta, da musiche in frames in cui un efficace bianco e nero prevale. http://www.cineforum.it/focus/Cannes-70/24-Frames-di-Abbas-Kiarostami https://www.mymovies.it/film/2016/24-frames/
16 ottobre 2019 ore 19 e ore 21 WAR PHOTOGRAPHER regia: Christian Frei USA 2001, b&w, v.o. sott.ita., 96 minuti E’ stato distribuito e presentato a vari festival nel 2001 “War Photographer” di Christian Frei, che ha seguito James Nachtwey, il più famoso fotografo di guerre al mondo, per un paio di anni. Particolare l’utilizzo per la prima volta proprio in questo reportage di una telecamera montata sulla fotocamera di Nachtwey per simulare la stretta visione possibile al fotografo inquadrando le concitate scene di guerra. Anche questo fattore, oltre che alle qualità del lavoro del fotografo in questione, e alla pericolosità dei momenti delle riprese durante la guerriglia palestinese, ha contribuito a rendere famoso questo documentario che per altri versi appare un po’ demagogico e filmograficamente perfettibile.
27 novembre 2019 ore 19 e ore 21 KOUDELKA, SHOOTING HOLY LAND regia: Gilad Baram Repubblica Ceca 2015 , colori , v.o. sott.ita., 76 minuti Uno sguardo intimo nel processo creativo di Josef Koudelka, uno dei più grandi maestri viventi della fotografia. Il regista israeliano Gilad Baram ha seguito Koudelka nel suo viaggio fotografico attraverso Israele e Palestina, alla ricerca del momento più sincero in cui far emergere la verità di uno scatto. Quarant’anni dopo aver catturato le immagini iconiche dell’invasione sovietica di Praga nel 1968, il leggendario fotografo ceco della Magnum arriva in Israele e in Palestina. Vedendo per la prima volta il muro alto nove metri costruito da Israele nella West Bank, lo sgomento lo assale, fino a spingerlo ad intraprendere un progetto quadriennale nella regione che lo metterà difronte alla dura realtà della violenza e del conflitto. Il regista Gilad Baram, all’epoca assistente di Koudelka, lo segue nel suo viaggio attraverso la Terra Santa da una posizione enigmatica e al tempo stesso spettacolare. Ogni luogo nasconde nuovi scatti e nuove potenziali scene, emerge così un affascinante dialogo tra la cinematografia di Baram e le fotografie di Koudelka, immagini austere e mai violente di un paesaggio scolpito da muri di cemento e filo spinato, un ritratto intenso di una regione profondamente scossa dalle tensioni religiose e razziali.
18 dicembre 2019 ore 19 e ore 21 MASTERS OF PHOTOGRAPHY - DIANE ARBUS regia: John Musilli USA 1972, colori e b&w, v.o. sott.ita., 29 minuti Il lavoro della fotografa Diane Arbus è raccontato da sua figlia, dagli amici, dalla critica e dalle sue stesse parole scritte nei suoi diari prima di morire, un anno prima della produzione del documentario. Il documentario è illustrato con molte sue fotografie e descrive il suo peculiare modo di lavorare “senza l’aiuto di nessuno”, sempre attratta dallo strano, persone emarginate dalla società, gay e lesbiche, estremisti, persone con stili di gusto incerti in posa o in situazioni che ispirano ironia, in definitiva scene in cui la maggior parte delle persone preferisce guardare dall’altra parte. Questo documentario di mezz’ora è stato realizzato nello stesso anno. Esplora il suo lavoro e le sue idee, spesso con le sue stesse parole pronunciate da un caro amico. Include le riflessioni di alcune delle persone che la conoscevano meglio; la figlia Doon, l’insegnante Lisette Model, la collega Marvin Israel e John Szarkowski, a quel tempo direttore del dipartimento di fotografia del Museum of Modern Art. A SEGUIRE
18 dicembre 2019 ore 19 e ore 21 NOBODY’S HERE BUT ME regia: Mark Stokes USA 1994 , colori , v.o. sott.ita., 55 minuti L’artista di New York, Cindy Sherman, è famosa per le sue fotografie di donne in cui non è solo la fotografa, ma anche il soggetto. Ha contribuito con le sue riprese a questo programma registrando il suo studio e se stessa al lavoro con una videocamera Hi-8. Rivela una serie di ispirazioni inaspettate per il suo lavoro dall’orrore viscerale ai cataloghi medici e ai film di sfruttamento, ed esplora i suoi reali interessi ed entusiasmi. Mostra un approccio intuitivo e spesso divertente alle sue immagini e riflette sui temi del suo lavoro dalla fine degli anni ‘70. Parla della sua serie chiave Sex Pictures in cui affronta il tema della sessualità alla luce dell’AIDS e del dibattito sulla censura delle arti negli Stati Uniti tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta.
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