Sette giorni in Tibet - RAVENNA FESTIVAL 2012 - Nel cuore della città 5-11 luglio
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Sette giorni in Tibet 5 luglio, ore 21.30 | Giardini di San Vitale..................................................................15 Ani Choying Drolma I lama tibetani del Monastero Drepung Loseling 6 luglio, ore 18 | Biblioteca Classense......................................................................... 17 Cerimonia di inizio del mandala I lama tibetani del Monastero Drepung Loseling intervento della Sig.ra Jetsun Pema 8 luglio, ore 21 | Basilica di San Vitale........................................................................ 25 Stephan Micus 9 luglio, ore 21 | Teatro Alighieri......................................................................................31 Sacre danze e musiche dal Tibet I lama tibetani del Monastero Drepung Loseling 10 luglio, ore 21.30 | Giardini di San Vitale.............................................................. 37 Tibetan Monks Inside Electronics con la partecipazione di I lama tibetani del Monastero Drepung Loseling Markus Stockhausen e Fabio Mina Coro gregoriano Mediæ Ætatis Sodalicium diretto da Nino Albarosa live electronics Luigi Ceccarelli 11 luglio, ore 18 | Biblioteca Classense. ......................................................................51 Cerimonia solenne di dissoluzione del mandala I lama tibetani del Monastero Drepung Loseling 11 luglio, ore 23 | Giardini di San Vitale...................................................................... 52 Raga Verde Un incontro tra il canto dhrupad e il canto gregoriano Amelia Cuni canto dhrupad Maria Jonas canto gregoriano Werner Durand live electronics Tutti gli spettacoli/concerti sono in esclusiva per l’Italia in collaborazione con Coccinella Bio
Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica Italiana con il patrocinio di Senato della Repubblica Camera dei Deputati Presidenza del Consiglio dei Ministri Ministero per i Beni e le Attività Culturali Comune di Ravenna con il contributo di Yoko Nagae Ceschina Koichi Suzuki Hormoz Vasfi partner
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Presidente Fernando Maria e Maria Cristina Gian Giacomo Faverio Pelliccioni, Rimini Giuseppe e Paola Poggiali, Ravenna Vicepresidenti Carlo e Silvana Poverini, Ravenna Paolo Fignagnani, Gerardo Veronesi Paolo e Aldo Rametta, Ravenna Stelio e Grazia Ronchi, Ravenna Comitato Direttivo Stefano e Luisa Rosetti, Milano Gioia Marchi Angelo Rovati, Bologna Pietro Marini Giovanni e Graziella Salami, Lavezzola Maria Cristina Mazzavillani Muti Guido e Francesca Sansoni, Ravenna Giuseppe Poggiali Francesco e Sonia Saviotti, Milano Eraldo Scarano Sandro e Laura Scaioli, Ravenna Leonardo Spadoni Eraldo e Clelia Scarano, Ravenna Leonardo e Angela Spadoni, Ravenna Segretario Gabriele e Luisella Spizuoco, Ravenna Pino Ronchi Paolino e Nadia Spizuoco, Ravenna Ferdinando e Delia Turicchia, Ravenna Maria Luisa Vaccari, Ferrara Antonio e Gian Luca Bandini, Ravenna Roberto e Piera Valducci, Francesca e Silvana Bedei, Ravenna Savignano sul Rubicone Roberto e Maria Rita Bertazzoni, Parma Gerardo Veronesi, Bologna Maurizio e Irene Berti, Bagnacavallo Luca e Riccardo Vitiello, Ravenna Mario e Giorgia Boccaccini, Ravenna Lady Netta Weinstock, Londra Paolo e Maria Livia Brusi, Ravenna Margherita Cassis Faraone, Udine Glauco e Egle Cavassini, Ravenna Roberto e Augusta Cimatti, Ravenna Ludovica D’Albertis Spalletti, Ravenna Marisa Dalla Valle, Milano Letizia De Rubertis e Giuseppe Scarano, Ravenna Stelvio e Natalia De Stefani, Ravenna Ada Elmi e Marta Bulgarelli, Bologna Dario e Roberta Fabbri, Ravenna Gian Giacomo e Liliana Faverio, Milano Paolo e Franca Fignagnani, Bologna Domenico Francesconi e figli, Ravenna Giovanni Frezzotti, Jesi Idina Gardini, Ravenna Aziende Stefano e Silvana Golinelli, Bologna sostenitrici Dieter e Ingrid Häussermann, ACMAR, Ravenna Bietigheim‑Bissingen Alma Petroli, Ravenna Silvia Malagola e Paola Montanari, Carnevali & Stern, Ravenna Milano CMC, Ravenna Franca Manetti, Ravenna Consorzio Cooperative Costruzioni, Carlo e Gioia Marchi, Firenze Bologna Gabriella Mariani Ottobelli, Milano Credito Cooperativo Ravennate e Pietro e Gabriella Marini, Ravenna Imolese Luigi Mazzavillani e Alceste Errani, FBS, Milano Ravenna FINAGRO - I.Pi.Ci. Group, Milano Maura e Alessandra Naponiello, Milano Ghetti Concessionaria Audi, Ravenna Peppino e Giovanna Naponiello, Milano ITER, Ravenna Giorgio e Riccarda Palazzi Rossi, Kremslehner Alberghi e Ristoranti, Ravenna Vienna Vincenzo e Annalisa Palmieri, Lugo L.N.T., Ravenna Gianna Pasini, Ravenna Rosetti Marino, Ravenna Gian Paolo e Graziella Pasini, Ravenna SVA Concessionaria Fiat, Ravenna Desideria Antonietta Pasolini Dall’Onda, Terme di Punta Marina, Ravenna Ravenna TRE - Tozzi Renewable Energy, Ravenna
RAVENNA FESTIVAL Direzione artistica Cristina Mazzavillani Muti Franco Masotti Angelo Nicastro Fondazione Ravenna Manifestazioni Soci Comune di Ravenna Regione Emilia Romagna Provincia di Ravenna Camera di Commercio di Ravenna Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna Confindustria Ravenna Confcommercio Ravenna Confesercenti Ravenna CNA Ravenna Confartigianato Ravenna Archidiocesi di Ravenna-Cervia Fondazione Arturo Toscanini Consiglio di Amministrazione Presidente Fabrizio Matteucci Vicepresidente Vicario Mario Salvagiani Vicepresidente Lanfranco Gualtieri Sovrintendente Antonio De Rosa Consiglieri Ouidad Bakkali Gianfranco Bessi Antonio Carile Alberto Cassani Valter Fabbri Natalino Gigante Roberto Manzoni Maurizio Marangolo Pietro Minghetti Gian Paolo Pasini Roberto Petri Lorenzo Tarroni Segretario generale Marcello Natali Responsabile amministrativo Roberto Cimatti Revisori dei conti Giovanni Nonni Mario Bacigalupo Angelo Lo Rizzo
Se brami vedere, ascolta di Franco Masotti Così penserete di questo mondo evanescente una stella all’alba, una bolla in un torrente; il bagliore di un fulmine in una nuvola estiva, un lume tremolante, un fantasma, un sogno. (Dal Sutra del diamante) Atisha e Romualdo. Storia di due monaci Il Lama Atisha, originario dell’India (nacque come principe nel Bengala, risiedendo poi nella città monastica di Vikramashila) e che contribuì a guidare un rinascimento buddhista in Tibet dopo il “periodo del caos”, e il monaco Romualdo da Ravenna furono praticamente contemporanei, le loro vite si consumarono a cavallo dell’Anno Mille. Così mentre Atisha riformò il Buddhismo portando con i suoi insegnamenti – che comprendevano la pratica del vinaya, ovvero la raccolta scritturale delle norme di condotte, vere e proprie regole analoghe a quelle seguite dai monaci occidentali – alla costituzione dell’ordine Kadam prima e del Gelug poi (l’ordine a cui appartiene lo stesso Dalai Lama), Romualdo peregrinava di eremo in eremo fino a fondare, in una radura denominata Campus Maldoli posta tra i faggi secolari delle foreste casentinesi, l’eremo di Camaldoli. Paesaggio con uomini che pregano Se brami vedere, ascolta, sentire è un passo verso la visione. (Bernard de Clairvaux) Si canta la salmodia con quella voce uniforme, calda e dolce che in Tibet hanno tutti i lama, tutti gli uomini che pregano. Dopo ogni pagina del loro salterio uno dei maestri suona sul clarinetto [...] un motivo ondulante e lungamente lamentoso [...] i tibetani suonano splendidamente il clarinetto,* senza fare interruzioni, respirando con il naso senza che la bocca smetta di soffiare. (Jacques Bacot, Le Tibet révolté, Paris, 1912) Questa strana musica di ottoni e timpani, che non assomiglia a nulla 9
di conosciuto e nella quale trascorrono i sogni di una nazione bizzarra, perduta tra le montagne [...] musica talvolta terribile [...] così austera, così lenta, e che mescolata alle aspre folate del vento urlante intorno alla mia tenda mi fa fremere la notte. La musica tibetana, per monotona che sia, e forse proprio a causa della sua monotonia, della ripetitività dei temi principali, è in sommo grado emozionante. (Alessandra Davin-Néel) L’incontro con l’universo tibetano è fonte sia di sconcerto, per il suo essere così dissimile da quanto è da noi conosciuto, che di estrema fascinazione, quando non di vero e proprio rapimento. Ma questo può diventare un Tibet immaginato, sognato, fantôme, pericolosamente contiguo all’ubiquo quanto vacuo bric-à-brac New Age. Il tutto poi assume una ineluttabile tragicità causata dal sistematico tentativo di annientamento della cultura tibetana da parte di un’odiosa oppressione. Il Buddhismo tibetano, al di là della nostra appartenenza culturale e religiosa, è un patrimonio dell’umanità tutta e questi “Sette giorni in Tibet” intendono essere un modesto ma speriamo significativo contributo alla sua conoscenza, ci auguriamo non superficiale, o comunque una invitation au voyage che preluda a successivi approfondimenti. “In effetti – come scrive Piero Verni – le manifestazioni del Buddhismo tibetano spesso sono viste nella loro veste più appariscente. In realtà canti, danze, i mandàla su tessuti o nella sabbia non sono altro che sofisticati strumenti di meditazione: per il monaco protagonista della scena come per il fedele che osserva.” “Le voci, i mantra ripetuti all’infinito, i ghirigori di disegni apparentemente fini a se stessi sono in realtà ‘mappe’ che conducono all’incontro con quelle figure essenziali che con un linguaggio occidentale possiamo definire archetipi, simboli arcaici del nostro inconscio.” Le molteplici divinità del pantheon tibetano possono a prima vista dare un’impressione di un “paganesimo orientale”. “La giungla tibetana dei Budda, dei Bodhisattva, delle loro manifestazioni serene o terrificanti, isolate o unite con le loro gnostiche energie femminili (shakti) in coiti mistici, con tutto il sottobosco di protettori, di numi locali e guardiani dei punti cardinali, di santi e maestri, non sembrava avere né fine, né misure, né bussola” (Fosco Maraini). Ma le molteplici forme visive e sonore che il misticismo tibetano assume non fanno altro che incarnare, rendere percepibili e dare forma a quegli archetipi mentali attraverso i quali colui che medita introietta le proprietà positive possedute da ogni singola raffigurazione. Abbandonare la mente al canto apparentemente monocorde (ma così ricco di risonanze armoniche) di un lama può trasportarci in un mondo dove la sofferenza è sospesa, in attesa dell’illuminazione, della chiave per interrompere il ciclo delle reincarnazioni e finalmente accedere al Nirvana. 10
Il grande esorcismo spirituale del gesto Ma lo splendore rimasto intatto nel tempo, a dispetto dei disastri della Storia, dei riti sacri tibetani ci fa riflettere sul significato della liturgia, sul suo, come lo definisce Cristina Campo, “splendore gratuito”, qualcosa che il rito cattolico ha voluto in gran parte abbandonare “introducendoci sempre più ciecamente cunei di vita profana”. L’uomo impegnato in gesti così significativi – quelli liturgici – adempie all’opus Dei non soltanto in senso sacro ma anche in senso naturale, affidando il respiro al ritmo infallibile del canto (che, con le lunghezze armoniosamente diseguali dei versetti, dilata e varia il giuoco del soffio nei polmoni) e lasciando che tutto il corpo ritrovi, in quella stretta e trascendentale disciplina, le sue leggi e i suoi numeri segreti. Liturgia è celebrazione dei divini misteri. [...] È desiderio di glorificare la divinità ricomponendo sulla terra, come stampate da un’ombra, le meraviglie del cielo: il giro degli astri, il succedersi delle stagioni, il mistero del tempo, l’itinerario della mente a Dio. [...] Liturgia – come poesia – è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile. (Cristina Campo) Vertigini sonore Ecco allora l’incontro con altre vertigini sonore: quelle concepite da Ildegarda di Bingen (la “Sibilla del Reno”, che nasce solo pochi decenni dopo la morte di Atisha e Romualdo e che crede fortemente nel potere risanatore della musica e nella sintesi armonica tra il macrocosmo dell’universo e il microcosmo dell’uomo) nella sua “musica inaudita”, della quale ella avrebbe avuto conoscenza per ispirazione divina, e quella del Canto Gregoriano che può essere compreso solo “dal di dentro”, come preghiera e sonora celebrazione dei misteri liturgici e come il momento più forte ed espressivo della fede di una comunità davanti al suo Dio. Come scrive Marius Schneider “Il canto gregoriano è una forma di orazione [...]. Il suo carattere più specifico è la capacità di arginare le forze della devozione, come in una chiusa, per incanalarle modellandole dopo averle sollevate di livello e poi averle messe in movimento. [...] Il canto gregoriano è un cammino, un mezzo di trasporto. Il simbolismo pre-cristiano lo avrebbe chiamato un carro, una nave o un fiume sul quale avrebbero camminato le luminose sillabe sonore”. Ecco allora che pur nelle evidenti differenze, essendo le concezioni armoniche, melodiche, ritmiche e temporali dei canti – apparentemente così statici e monotoni (qualità queste però perseguite coerentemente dalla influente scuola del cosiddetto “minimalismo” musicale, che non a caso affonda le sue radici nel composito universo sonoro orientale) dei monaci 11
tibetani lontane dalla cultura musicale occidentale, comune è la concezione del canto come veicolo per ascendere, per elevarsi. Così il canto sacro tibetano è definibile, secondo Luigi Ceccarelli, come un’armonia dell’Ascendente, inteso sia come “anelito all’ascensione” o “elevazione del canto e dello spirito al di sopra delle cose terrene”, ma nel contempo anche come “unione tra tutte le cose, alte e basse”, come nella visione di Ildegarda. Altre affinità, come quella tra il Gregoriano e il canto classico indostano dhrupad, sono evidenziate nel Raga Verde di Amelia Cuni, Maria Jonas e Werner Durand, dialogo tra le tradizioni sacre dell’India e quelle dell’Europa medievale. Ma il monastero non è solo o soprattutto luogo di conservazione, quasi un’isola sottratta allo spazio-tempo per come noi lo viviamo. Come scriveva il grande teologo e scienziato – anch’egli monaco – Pavel Florenskij “A me il Monastero appare come una specie di stazione sperimentale” dove si pratica la sinestesia, la sintesi delle arti. Così non ci è sembrato troppo ardito l’incontro tra ritualità millenarie che scolpiscono – per usare un’espressione di Tarkovskij – il tempo e l’elaborazione elettronica e digitale del suono. Non si tratta di una violenza ma dell’amplificazione, del potenziamento di ciò che già in nuce vi era contenuto (e pensiamo a quanto del pensiero e dell’estetica‑estatica orientale la musica elettronica sia debitrice fin dagli esordi, soprattutto grazie alla scienza e alla poetica musicale di Karlheinz Stockhausen). E in fondo anche la tecnologia, sia pure in forme povere, non è avulsa dal mondo spirituale tibetano, come viene esemplificato dal cosiddetto “mulino da preghiera”. Il suo nome in tibetano – chokor – significa “ruotare la dottrina”: e simboleggia il primo sermone del Buddha con il quale è stato dato l’avvio alla dottrina buddhista. Il suo interno custodisce dei mantra o testi sacri scritti su carta o pergamena. Il mulino deve essere fatto ruotare nel senso della rotazione solare (senso orario) e ogni giro equivale a una lettura delle preghiere che contiene. Messo in movimento, emette spesso un leggero scricchiolio che sta a testimoniare l’alzarsi in volo delle preghiere e il loro disperdersi ai quattro venti. Ne esistono tradizionalmente anche versioni ad acqua e recentemente ne sono state sviluppate versioni elettriche, elettroniche e poi anche digitali o operanti nel web (o addirittura come apps). In sostanza si tratterebbe di una sorta di “digitalizzazione” della preghiera, allo scopo di renderla più efficiente ed efficace. Il bellissimo racconto I nove miliardi di nomi di Dio del grande scrittore americano di fantascienza Arthur C. Clarke, che abbiamo voluto riportare integralmente in questo libretto (leggetelo magari mentre attendete che il concerto inizi), coglie perfettamente questo particolarissimo aspetto (non il solo certo) dell’approccio tibetano alla preghiera, aspetto che abbiamo voluto declinare ulteriormente con il concerto “Tibetan Monks Inside Electronics” (un omaggio al leggendario gruppo 12
“Composers Inside Electronics”, creato da David Tudor, nel quale militava, tra gli altri, un giovanissimo Bill Viola), vero e proprio “laboratorio monastico” il cui risultato del tutto imprevedibile potrà essere unicamente esperito sul posto. Soundscapes Abbiamo voluto così favorire l’incontro irrituale tra veri e propri universi sonori molto diversi, universi che esprimono altrettante concezioni del suono nell’ambito di una dimensione assolutamente rituale. Ma se esiste un individuo in cui coesistono molteplici universi sonori, questi è sicuramente Stephan Micus, grande viaggiatore in perenne ricerca di suoni nuovi (ma molto spesso di antichissima origine) che insegue fin dalla loro sorgente. Un suono molto spesso incorpora in sé il genius loci, lo spirito del luogo, e la musica che ne fuoriesce contiene ed esprime così caratteristiche del paesaggio originario, di quel particolare spazio. Micus tratteggia soundscapes, paesaggi sonori, e anche imaginary landscapes (un riferimento all’omonima e sognante composizione scritta nel 1939 da John Cage). E fu proprio un particolare paesaggio attraversato nel corso di un viaggio in Nepal a trasmettergli come una sorta di illuminazione il concetto dialettico di “musica perfetta”. Ma la musica di Micus, con quel suo ascetismo sonoro che esige un’arte dell’ascolto raffinata e diremmo quasi devota, si è spesso rivolta alle espressioni più spirituali delle musiche del mondo, avvicinandosi alle sacre musiche sia dei monaci zen (ed al loro strumento prediletto, lo shakuhachi), che dei monaci greco‑ortodossi del Monte Athos ed al loro canto, fino all’arpa del Re Davide, la bagana degli etiopi‑ortodossi. Micus poté ascoltare per la prima volta la bagana assistendo a un concerto di Alemu Aga, per la prima volta uscito dal suo paese, l’Etiopia, su invito del Ravenna Festival. Altri viaggi, altri ascolti ci attendono lungo gli itinerari dell’orecchio inquieto. * Si tratta del rkang-gling, l’oboe tibetano a 7 fori anteriori e uno posteriore, suonato nei monasteri con la tecnica della respirazione circolare. [n.d.a.] 13
5 luglio giovedì Giardini di San Vitale ore 21.30 Ani Choying Drolma Preghiera in sette versi a Guru Rinpoche Om muni muni Avalokeshwor Dharani Tara Mantra Canto di festa (Tsoklu) Om amarani jivan (combinazione di vari mantra) I lama tibetani del Monastero Drepung Loseling
6 luglio venerdì Biblioteca Classense ore 18 Cerimonia di inizio del mandala I lama tibetani del Monastero Drepung Loseling intervento della Sig.ra Jetsun Pema Sarà possibile assistere al processo di realizzazione del mandala dal 7 all’11 luglio (domenica compresa) dalle ore 9 alle 12 e dalle 13 alle 18. Durante la cerimonia del mandala nelle giornate di sabato 7 (dalle 9 alle 10), lunedì 9, martedì 10 e mercoledì 11 (dalle 9.30 alle 10.30) sarà possibile effettuare visite guidate alla Biblioteca Classense previa prenotazione. Tel. 0544-482116 - informazioni@classense.ra.it - segreteriaclas@classense.ra.it 17
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Le cerimonie del mandala Cerimonia di apertura: i monaci iniziano consacrando il luogo in cui verrà realizzato il mandala di sabbia con circa 30 minuti di canti, musica e recitazione di mantra. Disegno delle linee: subito dopo la cerimonia di apertura, i monaci iniziano a tracciare le linee costruttive del mandala. Si tratta di un lavoro molto impegnativo che richiede circa tre ore. Costruzione del mandala: i monaci dispongono sul tracciato milioni di granelli di sabbia colorata, versati da tradizionali imbuti metallici detti chakpur. Il mandala finito ha un diametro di circa 1,5 metri, e richiede in genere 3-5 giorni di lavoro. Completamento del mandala: i monaci concludono la creazione del mandala con una cerimonia di consacrazione. Distruzione del mandala: durante la cerimonia di chiusura, i monaci distruggono il mandala spazzando via la sabbia colorata per simboleggiare l’impermanenza di tutto ciò che esiste. Se richiesto, metà della sabbia viene distribuita al pubblico in segno di benedizione e buon auspicio per la salute e la guarigione. Dispersione della sabbia: la sabbia che resta viene portata in processione dai monaci, seguiti dagli ospiti, fino a un corso d’acqua corrente, dove viene versata per disperdere nel mondo le energie benefiche del mandala. Come tutte le tradizioni buddhiste, anche il mandala trae radici dal patrimonio del Buddhismo tantrico indiano, risalente a più di 20.000 anni fa, prima della migrazione delle popolazioni che poi costituirono i Nativi Americani dall’Asia centrale. Questo spiega le somiglianze tra le arti buddhiste e la tradizionale pittura con la sabbia dei Nativi del sud-ovest americano, come Hopi e Navajo. La tradizione tibetana prevede centinaia di tipi diversi di mandala, per esempio il Bhaishjya Guru (il Buddha della Medicina), l’Amitayus (il Buddha della Vita infinita), il Yamantaka (l’Avversario della Morte) e l’Avalokiteshvara (il Buddha della Compassione). I mandala vengono creati per far fluire armonia e 19
benessere tra i viventi e nell’ambiente. I lama sono convinti che la nostra epoca ne abbia particolare bisogno e per questo motivo accolgono molte richieste provenienti da tutto il mondo. Ogni sistema tantrico ha un suo mandala, simbolo di un particolare approccio esistenziale e spirituale. Per esempio, il mandala del bodhisattva Avalokiteshvara rappresenta la pietà come fulcro dell’esperienza spirituale, quello di Manjushri mette al centro la saggezza e quello di Vajrapani sottolinea la necessità di avere coraggio e forza nella ricerca della sacra conoscenza. Quando, dopo la tragedia dell’11 settembre, ai monaci di Drepung Loseling è stato chiesto di creare mandala di sabbia a New York e Washington, essi hanno cercato la benedizione e i consigli del Dalai Lama, che ha indicato il mandala di Yamantaka (l’Avversario della Morte) per New York e il mandala del Buddha Akshobya (l’Incrollabile Vincitore) per Washington: due mandala utilizzati in momenti di forte tensione e pericolo. 20
Il mandala di sabbie colorate di Piero Verni Il mormorio ininterrotto delle preghiere rompe a tratti il silenzio di un’alba fredda. Le prime luci del giorno stentano a filtrare da dietro il profilo delle montagne. Come ogni mattina, i fedeli fanno girare i cilindri di ottone disposti in lunghe file sulle pareti esterne del monastero e i cigolii del metallo si sommano alla nenia ipnotica delle salmodie. All’interno della Sala delle Assemblee del monastero Namgyal di Dharamsala, ancora avvolta nell’oscurità, una decina di monaci sono raccolti intorno a una grande tavola di legno a forma circolare posta di fronte all’altare principale. All’incerta luce di una lampadina elettrica stanno tracciando, con polveri colorate e gesso, un cerchio diviso al suo interno in differenti settori. Questo abbozzo occupa solo una minima parte della superficie della tavola, ma entro alcune ore si amplierà in un disegno estremamente elaborato e di notevoli proporzioni. Assisto, grazie ad uno speciale permesso accordatomi dallo stesso Dalai Lama, alle prime fasi di un lavoro lungo e difficile che a poco a poco vedrà emergere dal nulla simboli, allegorie, figure umane e divine. I monaci stanno creando un mandala. Mandala è un termine sanscrito (letteralmente vuol dire “cerchio” o “sfera”) che in questi ultimi anni è entrato a far parte anche delle lingue occidentali in seguito all’irruzione sempre più massiccia delle religioni orientali nelle società europee e nord-americane. Ma ben pochi sanno cosa sia effettivamente un mandala e per quali motivi i monaci si affatichino in un’opera che, senza esagerazione, può essere definita titanica. Spesso questi disegni sono stati considerati dei semplici motivi ornamentali o, peggio ancora, li si è voluti leggere come una sorta di “diagrammi magici” dotati di non si sa bene quali poteri occulti. La realtà è invece ben diversa. Dei tanti esempi fatti per spiegare a un pubblico non orientale lo scopo e il senso dei mandala, forse il più semplice e chiaro è quello della carta geografica. Pensiamo per un attimo a una mappa con le sue indicazioni, i suoi segni convenzionali, i suoi colori, i suoi nomi. Se vogliamo viaggiare in territori sconosciuti dobbiamo consultare la nostra mappa; per poterlo fare però, dobbiamo essere in grado di interpretarne il linguaggio: riconoscere nelle linee larghe le autostrade, negli spazi colorati in marrone le dorsali montuose, in quelli blu i laghi o il mare e così via. Banalizzando al massimo, potremmo affermare che un mandala assolve al medesimo compito di una mappa, solo che è una carta geografica del viaggio interiore, di quel percorso meditativo che conduce, o 21
almeno dovrebbe, all’autentica realizzazione di sé. Una mappa di cui si devono conoscere e interpretare correttamente i differenti simboli e il codice complessivo. Tutto questo parlando con una certa libertà di linguaggio. Da un punto di vista più formale si deve dire che il mandala (kyilkhor in tibetano) è un diagramma con al centro un cerchio e all’esterno quattro aperture o “porte” situate nelle direzioni cardinali. All’interno di questo schema generale si trovano solitamente rappresentati una divinità principale, alla quale il mandala è dedicato, e una serie di personaggi minori e di elementi simbolici collegati a quella particolare figura del pantheon buddhista. Esistono dunque innumerevoli mandala. Ognuno esprime la personale energia della divinità principale che, sarà bene ricordarlo, non è un dio nel senso politeista del termine, ma una rappresentazione concreta e visibile di una determinata attitudine della mente; un archetipo primordiale presente da tempo immemorabile nella psiche individuale e collettiva dell’intera umanità. Quindi, riprendendo il nostro paragone, il mandala è la mappa a disposizione di colui che intraprende la via della ricerca interiore per potersi orientare durante il suo non facile viaggio. Il praticante viene iniziato dal suo maestro a “entrare” in un determinato mandala, a identificarsi con la divinità che siede al centro del diagramma e, tramite delle opportune visualizzazioni, a “lavorare” con tutti gli oggetti e le figure simboliche che si trovano collocate nei vari punti del mandala stesso. “Lavorare” significa venire in contatto con quelle energie psichiche espresse, tramite la forza del simbolismo, delle figure e degli oggetti presenti nel mandala. Una volta stabilito questo contatto, sarà possibile far proprie quelle energie e usarle come una sorta di carburante per avanzare lungo la strada. Questo tipo di procedimento è, a grandi linee, il medesimo per tutti i tipi di mandala, che possono essere dipinti o fatti con sabbie colorate, pietre e chicchi di riso. I mandala che non vengono dipinti sono creati per apposite cerimonie e poi distrutti con un gesto il cui significato più evidente rimanda a uno dei cardini della filosofia buddhista: l’impermanenza di ogni fenomeno. I monaci del Namgyal stanno dando forma a un mandala di sabbie colorate che sarà utilizzato in un ciclo di cerimonie della durata di una settimana. Il lavoro ferve ormai da alcune ore. La luce del sole entra a fiotti da una apertura quadrata del tetto e non c’è più alcun bisogno della luce elettrica. I monaci lavorano in silenzio e l’unico rumore è quello prodotto dai piccoli imbuti di metallo, vuoti all’interno e seghettati all’esterno, che sfregati l’uno contro l’altro fanno cadere il sottile filo di polvere (contenuta nelle loro parti cave) che lentamente compone figure e linee. Sembra un’opera di magia estetica. Sotto i miei occhi prendono vita sempre nuovi elementi del diagramma. Una divinità, una ruota colorata, un chortén stilizzato, la maschera di una divinità irata, il volto ieratico di un Buddha... come per incanto tutti emergono dal magma di colori per comunicare con 22
il nostro inconscio. E il cerchio policromatico si allarga sempre di più e sempre più numerose sono le “immagini profonde” che lo compongono. Mi parlano con una tale irruenza simbolica che mi è a volte difficile mantenere quel minimo distacco indispensabile per poter filmare e comprendere quanto sta avvenendo. Era ovvio che un tale ribollire di archetipi, segni, cifrari subliminali, finisse con l’attirare l’attenzione di quell’appassionato cartografo ed esploratore dei mondi interiori che fu Carl Gustav Jung. Il grande psicologo svizzero studiò a lungo i mandala tibetani e nel complesso riuscì a capire le loro funzioni e i signignificati generali. Secondo la teoria di Jung i mandala, nelle loro strutture collettive, sono immagini antichissime, patrimonio di tutto il genere umano fin dalle epoche preistoriche. Forme mandaliche si trovano nelle pitture più arcaiche, nei sogni di ogni essere umano, nel simbolismo delle culture tradizionali d’Occidente come d’Oriente. Le sue ricerche portarono il padre della psicologia analitica a concludere che il mandala è un archetipo dell’ordine interiore, dell’integrazione psichica e dell’unità del Sé che appare spontaneamente, come naturale compensazione, nei casi di disturbi della personalità e di frammentazione dell’Io. Il Buddhismo tibetano, anche se attraverso altri codici culturali, esprime concetti analoghi quando, tramite i differenti simboli e personaggi dei mandala, conduce il praticante all’incontro con le principali energie che giacciono nel profondo della psiche. Entrando mentalmente nel mandala, il viaggiatore spirituale esplora tutti i livelli dell’esperienza psichica. Può così ripercorrere il cammino che conduce dalla personalità ordinaria, scissa e frammentata da mille emozioni contrapposte, alla reintegrazione nella pura consapevolezza della primordiale unità interiore. È ormai pomeriggio inoltrato. Il sole filtra obliquo dalle finestre bordate di giallo del monastero Namgyal creando coni di luce oro e porpora. La grande opera volge al termine. Un enorme cerchio con decine di colori e centinaia di figure ricopre per intero la superficie del tavolo. Aiutandosi con i testi canonici i monaci danno gli ultimi ritocchi al loro lavoro. Limano qua e là qualche figura, qualche dettaglio, qualche ornamento. Dopo un ultimo accurato esame compiuto dall’abate, il mandala è ormai pronto per la cerimonia. Il frutto di tanta fatica viene finalmente rinchiuso in una teca di vetro per proteggerlo da correnti d’aria e colpi di vento. Una tenda lo nasconde alla vista di occhi indiscreti consentendogli così di riposare sino all’indomani quando, nel corso della cerimonia, il mandala potrà adempiere al compito per cui è stato creato. Quindi, al termine della settimana di rituali, verrà distrutto e le sue polveri sparse nelle acque di un fiume. Il mandala di sabbie colorate non è e non può essere permanente. Ieri è nato, oggi muore e domani altre dita amorose lo faranno rinascere. Anche il mandala, come ogni altro aspetto dell’esistente, non può sfuggire alle inesorabili leggi della nascita, della morte e della rinascita. 23
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8 luglio domenica Basilica di San Vitale ore 21 Stephan Micus “Anni fa, durante un viaggio in autobus in Nepal, mi divenne improvvisamente chiaro il concetto di musica perfetta. Fu un’esperienza molto forte. Attraversavamo una valle a bassa quota, forse quattro o cinquecento metri. In quella zona il paesaggio era molto fertile. C’erano risaie, bufali d’acqua, bambini, alberi, pappagalli e villaggi coloratissimi e pieni di vita. Sullo sfondo si stagliavano cime di sette-ottomila metri d’altezza sulle quali era impossibile vivere. Quelle montagne mi sembrarono un simbolo di eternità e anche di purezza, con le loro vette scintillanti di neve. Quei due panorami affiancati, la vita piena di colore e la purezza eterna e irraggiungibile delle cime, in dialogo l’una con l’altra in un alternarsi continuo a dominare la scena, mi colpirono come l’immagine della musica perfetta. I due opposti erano complementari: i campi avrebbero perso ogni interesse senza quelle montagne, e quei massicci sarebbero sembrati gelidi e privi di vita senza i campi sottostanti. A me preme mantenere sempre presenti quei due elementi nella mia musica: l’amore per le forti emozioni della vita e la dimensione dell’eterno e dell’irraggiungibile. Una musica che enfatizzasse soltanto uno di questi aspetti sarebbe o troppo sdolcinata o troppo fredda. Ho capito così che il perfetto equilibrio di questi fattori, invece, avrebbe dato all’ascoltatore la sensazione di essere Altrove.” (Da un’intervista pubblicata sulla rivista austriaca «Die Bühne») 25
Note sugli strumenti impiegati in concerto e nelle registrazioni discografiche a cura di Stephan Micus Shakuhachi Flauto giapponese a imboccatura libera (nel quale il soffio del suonatore si infrange contro una smussatura sul bordo della parete), ricavato da una canna di bambù, con quattro fori anteriori e uno posteriore. È usato nella musica legata alla filosofia zen. Chitarra a 10 e 14 corde Chitarra, ideata dallo stesso Micus, che può essere accordata in vari modi: a 10 corde singole, a 7 corde doppie, o con corde di risonanza come un sitar. Dilruba Strumento ad arco originario dell’India, con 4 corde di metallo che vengono sfregate dall’arco e 24 corde che vibrano per risonanza. Il ponticello è montato su un piano armonico in pelle di capra teso su una piccola cassa quadrangolare. Il manico è cavo e munito di tasti metallici. Zither, o cetra tirolese Cetra originaria della Baviera, con alcune corde libere e altre tese su una tastiera. Viene suonata mediante un plettro. Sho Organo a bocca giapponese costituito da 17 canne di bambù, recanti ciascuna un’ancia libera di metallo nell’estremità inserita nel serbatoio d’aria. I vari accordi si producono otturando i fori presenti sulle canne. Il suono si ottiene sia per inspirazione che per espirazione e tale alternanza consente di ottenere un’emissione continua del suono. Hammered dulcimer Versione americana di una cetra utilizzata in varie parti del mondo, come Asia centrale, Cina, Balcani e i paesi dell’arco alpino: ha 62 corde di metallo, tese su una cassa di risonanza, da percuotersi con due martelletti di legno duro. Ney Flauto realizzato da un fusto di canna zucchero, a imboccatura libera e tenuto obliquamente, diffuso nella musica araba, persiana e turca e documentato sin dell’antico Egitto. Satar Liuto ad arco a manico lungo usato dagli Uiguri, popolo turcomanno della Cina occidentale. Ha una sola corda melodica di metallo, che viene sfregata dall’arco, e dieci corde di risonanza. 26
Simbing e Bolombato Arpe-liuto originarie dell’Africa occidentale, con quattro o cinque corde (in budello o cotone) passanti su un ponticello dentato che poggia su un piano armonico, a sua volta costituito da una pelle di capra tesa sopra una zucca che funge da cassa di risonanza. Talvolta alla vibrazione delle corde è associata quella di un sonaglio. Doussn’ Gouni Altra arpa-liuto dell’Africa occidentale. Rabab Liuto afghano a manico corto, ricavato da un unico pezzo di legno (spesso riccamente decorato con intarsi di madreperla o di osso), con piano armonico di pelle di capra. È munito di tre corde di budello pizzicate dal plettro, alcune corde di bordone e 13 corde metalliche che vibrano per risonanza. Sitar Liuto a manico lungo indiano, con cassa ricavata da una zucca essiccata e manico di legno cavo, lungo il quale sono tese sei o sette corde metalliche che vengono pizzicate mediante un plettro e 13 corde che vibrano per simpatia. Il manico è provvisto di tastature metalliche. Kortholt Strumento ad ancia doppia di epoca rinascimentale, usato in area tedesca e francese (sia come strumento autonomo, sia applicato a strumenti ad otre), costituito da un cilindro di legno entro il quale si sviluppa un canneggio più volte ripiegato su se stesso, in modo da ottenere suoni gravi, sfruttando un ingombro minimo. Tisch Harfe Cetra da tavolola le cui corde corde possono essere suonate sia a pizzico sia ad arco. Sarangi Liuto ad arco monossile originario dell’India, con 3 corde di budello che vengono sfregate mediante l’arco e 35 corde di risonanza. Tambura Liuto a manico lungo indiano, impiegato con funzione di bordone. Gender, Djegok Metallofoni utilizzati nelle orchestre gamelan di Bali. Steel drums Strumenti a percussione realizzati con vecchi bidoni di benzina. Stone Chimes, o Pietre sonore Strumenti costituiti da lamine di pietra percosse mediante mazzuoli, documentati in Cina a partire dal 2300 a.C.. Micus ne suona alcuni creati dallo scultore tedesco Elmar Daucher. 27
Angklung Strumento, originario di Giava e Sumatra, costituito da una serie di canne di bambù inserite all’interno di un telaio, che producono suono per scuotimento. Gong Provenienti da Birmania, Bali, Cina, Corea. Campane e sonagliere Idiofoni metallici intonati e non, provenienti da Birmania e Tibet. Bodhran Tamburo a cornice irlandese del diametro di 50 centimetri. Percosso con un martelletto, produce varie sonorità a seconda della pressione sulla pelle tesa effettuata dalle dita della mano che sorregge lo strumento. Vasi Serie di 30 comuni vasi da fiori accordati regolando il livello dell’acqua contenuta in essi e suonati con le mani o con martelletti. Suling Flauto diritto di canna, a fessura esterna, impiegato nella musica indonesiana e anche nelle orchestre gamelan. Ki un Ki Strumento a fiato, privo di fori digitali, formato da una canna che raggiunge i due metri di lunghezza, utilizzato dalla tribù siberiana degli Udege. Ballast-strings Asta in bronzo lunga un metro, appesa a un tamburo tramite corde di metallo. Colpendo l’asta, le tre componenti dello strumento vibrano simultaneamente producendo un suono estremamente lungo, simile a quello di un gong. Tamburo a fessura Strumento costituito da una cassa cava di legno, su un parete della quale quale sono ricavate due o più linguette di varie dimensioni che vengono percosse con martelletti o con le mani. Mudbedsh Strumento ad ancia semplice, di canna, iracheno. Bagana Lira etiope con dieci corde di budello. La cassa armonica è costituita da una scatola di legno su cui è tesa una pelle di capra o di vacca. È di uso prevalentemente religioso. Dondon Tamburo parlante del Ghana. Le membrane, alle due estremità della cassa a forma di clessidra, sono collegate da stringhe di pelle: premendo e rilasciando le corde con il braccio, si varia l’intonazione delle membrane. Hnè Strumento a fiato, originario della Birmania, suonato mediante ancia doppia costruita con foglie di palma. Per i suoni 28
intensi e acuti che produce, viene di solito suonato all’aperto. Hang Strumento a percussione di metallo, ispirato agli steeldrums caraibici. Ideato dagli svizzeri Felix Rohner e Sabina Schärer. Mandobahar Strumento ad arco originario dell’India. Ha tasti mobili e un ponticello che poggia su una tavola armonica in pelle di capra. Tin Whistle Flauto a becco di metallo della tradizione britannica e irlandese. Kalimba Idiofono originario della Tanzania. Varie lamine di metallo (raggi di bicicletta o stecche di ombrello appiattite) sono fissate a una piccola scatola di legno che funge da cassa di risonanza. Di ciascuna, un’estremità è fissata a un ponticello, l’altra è libera e viene pizzicata con i pollici. Nelle lamelle sono infilati piccoli anelli che producono un’ulteriore vibrazione quando le lamine sono pizzicate. Maung Set di quaranta gong intonati, originario della Birmania. Charango Liuto a pizzico delle Ande, nato nel xviii secolo dall’incontro dei coloni spagnoli con gli indios. Simile a una chitarra in miniatura, ha cinque paia di corde di nylon. In passato la cassa di risonanza era costituita da una corazza di armadillo, poi sostituita da un corpo di legno. Duduk Strumento a fiato armeno ad ancia doppia, costruito in legno di albicocco. Seppur limitato come estensione, è capace di grandi raffinatezze timbriche. Raj Nplaim Strumento a fiato ad ancia libera inserita su una canna di di bambù, tenuta traversa, utilizzato dalla popolazione Hmong del Laos. Bass Zither Grande cetra in legno d’acero proveniente dalle Alpi europee. La lunghezza vibrante delle corde in acciaio è di circa 1,70 m. Chord Zither Cetra di nuova generazione, inventata dallo stesso Micus e dotata di 68 corde intonabili in vari modi. Nohkan Flauto traverso corto di bambù laccato, usato nel teatro No e Kabuki giapponese. La sua caratteristica è la canna corta e strozzata all’interno, che stravolge i normali parametri acustici estendendo la gamma tonale dello strumento oltre le due ottave. 29
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9 luglio lunedì Teatro Alighieri ore 21 Sacre danze e musiche dal Tibet I lama tibetani del Monastero Drepung Loseling 31
Musica e danze sacre per la guarigione del mondo a cura dei lama tibetani del Monastero Drepung Loseling Tutte le antiche comunità del mondo credevano che, tramite l’esecuzione rituale di musica e danze sacre in momenti propizi, fosse possibile mettersi in comunicazione con le più alte forze del bene per trarne beneficio a livello ambientale, sociale e personale. In Tibet, ogni volta che un monastero celebrava una festa spirituale, le tribù nomadi e gli abitanti dei villaggi limitrofi si riunivano nel cortile del monastero per alcuni giorni di musica e danze sacre. La cerimonia dei lama di Drepung Loseling è concepita sulla scia di questa tradizione e ottimizzata in modo da conservare integralmente la finalità di ogni singola fase del rito. I monaci di Drepung Loseling sono noti per il canto armonico detto zokkay (accordo completo), in cui i cantori intonano tre note simultaneamente, creando ognuno un accordo. Il noto studioso Huston Smith ha documentato questa pratica tibetana nel film The Mystic Journey: Requiem for a Faith, affermando che il canto armonico “eleva lo spirito umano portandolo al livello degli dei”. La cerimonia di musica e danze sacre dei monaci di Drepung Loseling si struttura in nove parti intese a generare energie benefiche per la guarigione del mondo. Abbigliati in sontuosi costumi, i monaci di Loseling eseguono sugli strumenti tradizionali tibetani le antiche musiche del tempio e le danze propiziatorie per la guarigione del mondo. Parte i Nyensen: Invocazione delle forze del Bene. In un intreccio di suoni strumentali e vocali, i monaci invocano per se stessi e per il pubblico la consapevolezza creativa. In tal modo intensificano nell’ambiente la presenza dello spirito del Bene come preludio all’esecuzione di musica e danze sacre. Tentru Yultru: Purificazione dell’ambiente e dei suoi abitanti. Intonando canti multifonici, i monaci reggono uno specchio su cui tracciano l’immagine del mondo e degli esseri viventi, che poi purificano grazie al canto e alla meditazione. Questo atto è simboleggiato nel gesto di versare sullo specchio l’acqua del vaso della sacra saggezza. Tradizionalmente questo rito era eseguito ogni volta ci fosse bisogno di un gesto di guarigione ambientale, sociale o individuale. Shanak Garcham: Danza dei cappelli neri. 32
Si tratta di un’antica danza che ha lo scopo di eliminare gli ostacoli e le energie negative. Lo stile è detto drakpo, o stile “irato”. Gli oggetti impugnati dai danzatori simboleggiano la trascendenza dagli ego fasulli identificati a livello esterno (ambientale), interno (emotivo), e segreto (corpo-mente). I movimenti dei danzatori simboleggiano la gioia e la libertà nel vedere la realtà nella sua nuda essenza. Taksal: Intensi incontri di terzo grado. Presentazione stilizzata di un dibattito filosofico tra monaci: un misto tra danza, duello mentale e verbale e teatro d’avanguardia. Senggey Garcham: Danza del Leone delle Nevi. Si ritiene che i sacri riti degli umani creino un ambiente sano e armonioso in cui tutti gli esseri, inclusi gli animali, possano gioire. La danza del Leone delle Nevi rappresenta questa idea. Parte ii Durdak Garcham: Danza degli scheletri. Questa danza intende rammentare al mondo come la natura di tutte le cose sia effimera e come la consapevolezza di questa realtà abbia un impatto liberatorio ed equilibratore. Due monaci rappresentano le forze del bene assumendo le sembianze dei Signori dei Cimiteri o Dharmapalas, i Protettori della verità, il cui messaggio ricorda di volgere la mente all’essere autentico. Dakzin Tsarchod: Melodia per liberarsi dalla sindrome dell’ego. La tradizione della musica meditativa deriva direttamente da Padampa Sanggay e da una mistica dell’xi secolo, Machik Labdon. Considerata una delle musiche più belle ed indimenticabili della Terra delle Nevi, ha lo scopo di liberare la mente dalle tendenze egocentriche. Khadro Tenshug Garcham: Danza dei Viaggiatori Celesti. Cinque danzatori, simbolo dei cinque elementi e cinque saggezze, e tre musicisti evocano i suoni e i movimenti dei Viaggiatori Celesti, creature angeliche la cui benedizione rinvigorisce le forze della vita e della luce. Queste creature vengono in visita nel nostro mondo nei momenti di forte tensione e pericolo, portando con sé l’energia creativa che infonde pace e armonia. Sangso Shjjo: Canto di buon auspicio per la guarigione del mondo. I monaci spandono incenso che il vento trasporta nelle dieci direzioni: il fumo è una forza subliminale che invoca pace, armonia e modalità di vita creativa. 33
Le musiche rituali del Tibet di Mireille Helfer Malgrado la presenza di scuole religiose differenziate (Rnying- ma-pa, Sa-skya-pa, Bka’-brgyud-pa, Dge-lugs-pa) e il gran numero di monasteri, l’esecuzione dei rituali buddhisti (e anche quelli bonpo) presenta caratteri musicali comuni. Il primo di questi caratteri è la predominanza della musica vocale; il coro dei monaci è diretto da un maestro di canto (dbu-mjad), la voce si muove in un registro molto grave; in alcuni monasteri, e particolarmente nei collegi tantrici di Rgyud-stod e di Rgyud-smad, si ricorre a una tecnica di emissione simultanea di due suoni. La salmodia buddhista I giovanissimi futuri monaci imparano a memoria i testi dei rituali cui partecipano e apprendono per tradizione orale le diverse modalità del canto praticato nel loro monastero: enunciazione dei mantra, canto sillabico su un certo numero di formule melodiche corrispondente all’enunciazione di uno o due versi di sette o nove sillabe, canto melismatico su un unico suono variamente modulato. Quest’ultimo tipo, detto dbyangs, è caratterizzato dal fatto che il testo è farcito di sillabe o di vocali aggiunte, che servono di supporto alla vocalizzazione: in qualche modo, questo artificio ricorda la pratica degli stobha della tradizione vedica. Allo scopo di conservare la tradizione dei dbyangs composti da venerati maestri, diverse scuole del Buddhismo tibetano hanno elaborato sistemi di notazione neumatica, detti dbyangs-yig, di cui non è però possibile determinare l’origine storica. I dbyangs-yig che allo stato attuale presentano i segni di una maggiore evoluzione sono quelli della scuola di Bka’-brgyud-pa, essi hanno una terminologia propria per designare le curve e le ondulazioni che esprimono graficamente gli effetti vocali e i procedimenti d’ornamentazione. 34
Gli strumenti musicali Generalmente, i diversi tipi di salmodia sono accompagnati dal suono del grande tamburo a due membrane, detto rnga; esistono due forme di rnga: 1) la cassa del tamburo è dotata di un manico (che si tiene nella mano sinistra) e la membrana viene percossa mediante una bacchetta ricurva (con la mano destra), 2) il tamburo è fissato a un telaio di legno e viene percosso con due bacchette rettilinee. In certi monasteri, particolarmente presso i seguaci della scuola riformata Dge-lugs-pa, il compito di accompagnare la salmodia è svolto da grossi gong (sbug-chal), soli o insieme con il tamburo rnga. I sil-snyan, gong grandi e piani, sono invece d’uso più raro, e intervengono di preferenza nei rituali dedicati alle divinità benefiche. Oltre agli strumenti a percussione, nei rituali, nel corso di sequenze strumentali di lunghezza variabile, intervengono numerose specie di strumenti a fiato, e cioè: le trombe dung-dkar (consistenti in conchiglie dotate di imboccatura terminale), il cui “padiglione” è spesso prolungato da un’“ala” di bronzo; le trombe corte, in osso o in metallo, indicate con il termine rkang‑gling (“flauto-femore”); le trombe lunghe, in metallo, composte di un certo numero di tubi conici, inseriti l’uno nell’altro, che possono misurare alcuni metri di lunghezza (dung-chen); gli oboi conici rgya-gling, in legno, dotati di sette fori equidistanti sulla parte anteriore e uno su quella posteriore, e forniti di un padiglione metallico (rame, argento o anche oro). Questi oboi sono suonati con la tecnica detta della “respirazione circolare”. A questi strumenti si aggiunge la caratteristica coppia formata da due strumenti di valore altamente simbolico: il piccolo tamburo a clessidra con palline sferzanti (damaru), che si tiene nella mano destra, e la campanella drilbu; entrambi originari dell’India, appaiono assai frequentemente nelle raffigurazioni delle deità tibetane. Questi stessi strumenti, con una predominanza dei piatti e dei tamburi, accompagnano le danze rituali in maschera dette ’cham, eseguite dai monaci in occasione delle feste solenni dell’anno nuovo, dell’anniversario di Padmasambhava (cui viene attribuita l’introduzione del Buddhismo in Tibet), ecc. Esistono differenti sistemi di notazione per il suono del tamburo e delle trombe, ma sino a questo momento non è stato rinvenuto alcun tipo di notazione per gli oboi. (Tratto da Dizionario enciclopedico universale della musica e dei musicisti, diretto da Alberto Basso, Torino, Utet, 1984.) 35
10 luglio martedì Giardini di San Vitale ore 21.30 Tibetan Monks Inside Electronics con la partecipazione di I lama tibetani del Monastero Drepung Loseling Markus Stockhausen e Fabio Mina Coro gregoriano Mediæ Ætatis Sodalicium diretto da Nino Albarosa live electronics Luigi Ceccarelli 37
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Da pacem di Nino Albarosa Il titolo del presente intervento viene cavato dal primo dei brani proposti dal Coro Gregoriano Mediae Aetatis Sodalicium, l’Introito Da pacem: la pace, elemento ricchissimo di sostanza biblica. Il brano costituisce una supplica perché il Signore conceda appunto la pace a coloro che lo amano e perché i profeti, coloro cioè che possono parlare in suo nome, rimangano fedeli. Il Graduale Laetatus sum, la cui struttura, quella dei graduali, appartiene alla composizione ampia e forte, esprime la gioia degli Israeliti perché si recheranno nella città santa Gerusalemme, mentre il versetto ribadisce l’aspirazione alla pace. L’Alleluia Deus iudex iustus, aggiunge al titolo gli appellativi di forte e paziente, grandi riconoscimenti del fedele ebreo verso la maestà di Dio; accenna inoltre alla possibilità dell’ira dello stesso Dio, della quale il Vecchio Testamento è spessissimo testimone. Poi l’Introito Gaudete in Domino, su testo di Paolo, che esalta la prossima venuta del Signore, perciò a non preoccuparsi di quanto è terreno e di pregare intensamente. Bellissimo il senso del Graduale Iacta cogitatum, che esorta l’uomo a gettare tutti i pensieri nel Signore, che sostiene e che esaudisce la voce dei fedeli. L’Offertorio Super flumina Babylonis, che conclude l’intervento del coro, esprime la grande nostalgia degli Israeliti che vivono l’esilio babilonese verso la amatissima patria Gerusalemme. È bene ribadire che i temi del canto gregoriano appartengono allo spirito abissalmente profondo della Bibbia e in particolare dei Salmi, costituenti soprattutto il grande mantello che fa appunto del canto gregoriano, nell’ambito della grande creatività musicale dell’Occidente, un unicum di profondità e bellezza. Introitus Da pacem Graduale Laetatus sum Alleluia Deus iudex iustus Introitus Gaudete in Domino Graduale Iacta cogitatum Offertorium Super flumina Babylonis, cum versu 39
Da pacem Desiderio di armonia dell’uomo con Dio, con il suo prossimo e con la Terra Introitus Da pacem Da pacem, Domine, sustinentibus te, ut prophetae tui fideles inveniantur; exaudi preces servi tui, et plebis tuae Israel. V. Laetatus sum in his quae dicta sunt mihi: in domum Domini ibimus. Graduale Laetatus sum Laetatus sum in his quae dicta sunt mihi: in domum Domini ibimus. V. Fiat pax in virtute tua, et abundantia in turribus tuis. Alleluia Deus iudex iustus Alleluia. V. Deus iudex iustus, fortis et patiens: numquid irascetur per singulos dies? Introitus Gaudete in Domino Gaudete in Domino semper: iterum dico, gaudete. Modestia vestra nota sit omnibus hominibus: Dominus prope est. Nihil solliciti sitis: sed in omni oratione petitiones vestrae innotescant apud Deum. V. Benedixisti Domine terram tuam: avertisti captivitatem Jacob. Graduale Iacta cogitatum tuum Iacta cogitatum tuum in Domino, et ipse te enutriet. V. Dum clamarem ad Dominum, exaudivit vocem meam ab his qui appropinquant mihi. Offertorium Super flumina Babylonis Super flumina Babylonis illic sedimus et flevimus, dum recordaremur tui Sion. V. In salicibus in medio eius suspendimus organa nostra. Quoniam illic interrogaverunt nos, qui captivos duxerunt nos, verba canticorum et, qui abduxerunt nos: Hymnum cantate nobis de canticis Sion. Quomodo cantabimus canticum Domini in terra aliena? 40
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