RIVISTA DI CULTURA CLASSICA E MEDIOEVALE - Uniurb it
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RIVISTA DI CULTURA CLASSICA E MEDIOEVALE
Pubblicazione semestrale fondata da E T TORE PARATORE · CIRO GI AN N E LL I · GU STAVO VINAY Diretta da Liana Lomiento (Università di Urbino Carlo Bo) Redazione Luigi Bravi (Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara) Maria Colantonio (Università di Urbino Carlo Bo) · Giovanna Pace (Università di Salerno) Comitato scientifico Simona Antolini (Università di Macerata) · Federica Bessone (Università di Torino) · Frank Bez- ner (University of Berkeley) · Umberto Bultrighini (Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara) · Emanuela Colombi (Università di Udine) · Roberto M. Danese (Università di Urbino Carlo Bo) · Fulvio Delle Donne (Università della Basilicata) · Tommaso di Carpegna Falconieri (Università di Urbino Carlo Bo) · Paolo Garbini (Università di Roma “La Sapienza”) · Massimo Gioseffi (Università di Milano) · Benoît Grévin (Centre National de la Recherche Scientifique - cnrs, Laboratoire de Médiévistique Occidental de Paris) · Mark Humphries (Swansea University) · Marek Thue Kretschmer (Department of Historical Studies, ntnu, Trondheim - Norway) · Jürgen Leonhardt (Universität Tübingen) · Pauline Le Ven (University of Yale) · Roberto Mercuri (Università di Roma “La Sapienza”) · Gernot Michael Müller (Katholische Universität Eichstätt-Ingolstadt) · Bruna M. Palumbo (Università di Roma “La Sapienza”) · Helmut Seng (Universität Konstanz) · Christine Walde (Johannes Gutenberg Universität Mainz) · Clemens Weidmann (Universität Salzburg - csel) * «Rivista di cultura classica e medioevale» is an International Double-Blind Peer-Reviewed Journal. The eContent is Archived with Clockss and Portico. The Journal is Indexed and Abstracted in Scopus (Elsevier) and by erih Plus (European Science Foundation). anvur: a. Direzione: rccm@libraweb.net
RIVISTA DI CULTURA CLASSICA E MEDIOEVALE anno l x i · nu me ro 2 · lu g l i o- di c e m b r e 2 01 9 pisa · roma fab riz io se rr a editore mmxix
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SOMMARIO letteratura greca Luigi De Cristofaro, Reading the Raids: The Sacred Value of the Spoils. Part 2: The Anatolian and Biblical Records 319 Loredana Di Virgilio, La colometria antica di Ar., Av., 1372-1377 e il ruolo dell’epiploce 349 Federico Favi, Ricostruzione scenica di Ar., Ec., 500-513 363 Andrea Marcucci, Un possibile iperdorismo comico: Cratin., Onniveggenti, fr. 161 K.-A. 375 Gianfranco Mosconi, L’Atlantide di Platone nell’Epitafio attribuito a Demo- stene, i Machimoi di Teopompo, il Trikaranos e Filippo II 389 Adriano Toti, Valori di οἶνος ed ἔνθεν nella letteratura greca antica ed una congettura ad Od., 4, 220 415 letteratura e civiltà latina Stella Alekou, Cultural Conflicts in Medea’s Letter: Hellenism Revised in Ovid’s Heroides 12 441 Giuseppe Giliberti, L’origine del commercio nel pensiero giuridico romano 455 retorica greca Jesús Muñoz Morcillo, Aproximación a los cánones de la écfrasis, entre tra- dición literaria e influencia escolar 475 memorie e riusi del medioevo Jaume Torró Torrent, Il Curial e Guelfa nel contesto culturale dell’Europa del xv secolo 499 schede e recensioni La Vaticana nel Seicento (1590-1700): una Biblioteca di biblioteche, a cura di Clau- dia Montuschi (Isabella Valeri) 521 Paola Gagliardi, Commento alla decima ecloga di Virgilio (Arturo R. Álvarez Hernández) 527 Tacito, Agricola, Saggio introduttivo, nuova traduzione e note a cura di Ser- gio Audano (Giancarlo Reggi) 534
316 sommario Francesco Berardi, La retorica degli esercizi preparatori. Glossario ragionato dei Progymnásmata (Lorenzo Miletti) 542 The Codex Fori Mussolini: a Latin text of Italian fascism, a cura di Han Lamers, Bettina Reitz (Guido Milanese) 545 Massimo Raffa, Theophrastus of Eresus: Commentary Volume 9.1, Sources on Music (Texts 714-726C) (Spencer Klavan) 550 Laura Swift, Greek Tragedy: Themes and Contexts (Loredana Di Virgilio) 553 Robert W. Wallace, Reconstructing Damon: Music, Wisdom Teaching, and Politics in Perikles’ Athens (Gianfranco Mosconi) 558 Sommario dell’annata 2019 569 Norme redazionali 571
L’ O R I GI N E D E L C OM M E RC I O NEL P EN S I E RO G I U R I D I C O RO M A N O Gi usep pe Gi l i b e rt i Abstract · The Origin of Trade in Roman Juridical Thought · In a fragment of his Iuris Epit- ome, Hermogenian states that the origin of trade is due to ius gentium. It was one of the aspects of the transition from the state of nature to civil society, together with war, private property and the law of obligations. This reconstruction is not linked to the cynical-stoic conception of the law of nature. It rather corresponds to the Aristotelean theory of the essential diversity between ‘natural’ exchange and commerce. Keywords: Ius gentium, Institutiones, Krematistics, Commerce. 1. I l giurista Ermogeniano, all’inizio delle Iuris Epitomae,1 spiega come il commer- cio sia nato dall’ius gentium, insieme con la guerra, la separazione tra i popoli, la costituzione dei regni, la proprietà privata, l’edilizia, la compravendita, la locazio- ne e i contratti in genere, tranne alcuni introdotti dall’ius civile. Dig., 1, 1, 5 (Hermogen., iuris epit., 1): Ex hoc iure gentium introducta bella, discretae gentes, regna condita, dominia distincta, agris termini positi, aedificia collocata, commercium, emptiones Giuseppe Giliberti, giuseppe.gilberti@uniurb.it, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo. 1 Poco si sa di questo giureconsulto, cui sono attribuiti complessivamente 104 frammenti del Digesto giustinianeo. Probabilmente l’autore dei sei libri delle Epitomae è da identificarsi con un Aurelio o Euge- nio Ermogeniano, dell’età di Diocleziano e Massimiano, magister libellorum e praefectus praetorio, autore anche del Codex Hermogenianus. Cfr. Aldo Cenderelli, Ricerche sul «Codex Hermogenianus», Milano, Giuffrè, 1965, p. 2 sgg.; Detlef Liebs, Hermogenians iuris epitome, Göttingen, Vandenhoeck and Ru- precht, 1964, p. 43 sgg.; Tony Honoré, Emperors and Lawyers, Oxford, Oxford University Press, 19942, p. 168 sgg.; Elio Dovere, Studi sul titolo i delle Epitomi di Ermogeniano, Torino, Giappichelli, 2001, p. 9 sgg. Le Epitomi sono un’opera isagogica (verosimilmente funzionale alla pratica amministrativa e giudizia- ria) che rielabora il pensiero dei maggiori giuristi tardo-classici. Cfr. in generale Elio Dovere, De iure. L’esordio delle Epitomi di Ermogeniano, Napoli, Jovene, 2005. Dal Carmen Paschale di Celio Sedulio (Sedul., Carm. Pasch., 172, 8-13) sappiamo che il giurista Ermogeniano avrebbe elaborato tre edizioni dello stesso testo: nam si saeculares litteras adsecuti aut divinis videbuntur libris instructi, debent exempla veterum recensire nec similia lacerare conentur iniuste, cognoscant Hermogenianum, doctissimum iurislatorem, tres editiones sui operis confecisse, cognoscant peritissimum divinae legis Origenem, tribus nihilominus editionibus prope cuncta quae disseruit optavisset. Simon Corcoran, The Empire of the Tetrarchs: Imperial Pronouncements and Go- vernment AD 284-324, Oxford, Clarendon Press, 1996, p. 89 sg., immagina che Sedulio si riferisca a varie edizioni del Codex, pubblicate tra gli ultimi anni del iii s. e il 320. Ma è altrettanto verosimile che si trat- tasse, invece, proprio delle Epitomae. Infatti Ermogeniano è lodato da Sedulio come dottissimo giurista, imprescindibile per chi si voglia dedicare allo studio delle leggi umane, proprio come Origene (anch’egli autore di trattati e di parafrasi della propria stessa opera), è un modello per i teologi. Entrambi, dice Se- dulio, hanno fatto tre diverse edizioni del proprio lavoro, precisando che, nel caso di Origene, si tratta di una riedizione quasi integrale. Cfr. Elio Dovere, De iure, cit., p. 11 sgg. https://doi.org/10.19272/201906502008 · «rccm», lxi, 2, 2019
456 giuseppe giliberti venditiones, locationes conductiones, obligationes institutae: exceptis quibusdam quae iure civili introductae sunt. Il primo libro delle Institutiones di Giustiniano, che riprende questo stesso brano (nel titolo ii, De iure naturali et gentium et civili), amplia la lista delle obligationes iuris gentium, aggiungendo la società, il deposito, il mutuo e ‘innumerevoli altre’. Inol- tre spiega che i fenomeni riferiti da Ermogeniano sono il prodotto di consuetudi- ni ed esigenze comuni a tutte le genti umane.1 I manuali di scienza giuridica dell’età imperiale davano poche indicazioni su che ruolo giocasse l’ius gentium nel passaggio dallo stato di natura alla civiltà e su quale fosse lo stato del mondo prima di questa sorta di big bang. Nella tipica introduzione ai concetti generali del diritto2 (de iure), convenivano sul fatto che gli uomini fossero sottoposti ad un ordine naturale – in qualche misura condiviso con gli altri esseri animati – che non ammetteva divisioni sociali, proprietà privata ed istituzioni politiche. Ma, come vedremo, non era ben chiaro quale fosse il rapporto tra la naturalis ratio e l’ius gentium effettivamente condiviso dai Romani e dalle comunità straniere. L’ius gentium veniva generalmente inteso dalle fonti giuridiche e letterarie in quattro diverse accezioni, cioè come: 1) uno dei settori del diritto privato roma- no; 2) una sorta di diritto internazionale pubblico; 3) l’insieme dei principi di una giustizia transnazionale basata sulla natura; 4) un ordinamento interposto tra l’ius naturale e quello della civitas. Nel primo senso, che non postula alcun fondamen- to metafisico, l’ius gentium è chiaramente identificato con una branca del diritto interno romano, derivante essenzialmente dalla giurisdizione del praetor peregri- nus. Questa magistratura era stata istituita nel 242 a.C., allo scopo di venire in- contro alle esigenze di una società sempre più complessa ed aperta alle influenze dei mercanti del Mediterraneo.3 La iuris dictio del pretore aveva soprattutto rece- pito una spontanea lex mercatoria,4 nata dalla contaminazione di sistemi giuridici diversi, diffusa all’interno degli emporia del Mediterraneo. Di conseguenza, gli isti- tuti applicabili sia ai Romani che ai peregrini erano generalmente considerati iuris 1 Inst., 1, 2, 2: ius autem gentium omni humano generi commune est. nam usu exigente et humanis necessita- tibus gentes humanae quaedam sibi constituerunt: bella etenim orta sunt et captivitates secutae et servitutes, quae sunt iuri naturali contrariae. iure enim naturale ab initio omnes homines liberi nascebantur. ex hoc iure gentium et omnes paene contractus introducti sunt, ut emptio venditio, locatio conductio, societas, depositum, mutuum et alii innumerabiles. Al novero degli istituti derivanti dall’ius gentium, secondo le Institutiones di Ulpiano, po- trebbe poi essere ascritto ancora il precarium: Dig., 43, 26, 1 (Ulp., inst., 1). 2 Dig., 1, 1, 3 (Flor., inst., 1); Dig., 1, 1, 1, 3; 4; 6 (Ulp., inst., 1). Cfr. Inst. 1, 2, 2. Cfr. Yan Thomas, Imago naturae. Note sur l’institutionnalité de la nature à Rome, in Théologie et droit sans la science politiche de l’État moderne. Actes de la table ronde de Rome (12-14 novembre 1987), Roma, «éfr», 1991, pp. 201 sgg. 3 La reciproca influenza tra culture giuridiche diverse, che si manifestava fin dalle origini di Roma, era effetto di migrazioni e traffici commerciali. Cfr. Felice Mercogliano, Commercium, conubium, migratio. Immigrazione e diritti nell’antica Roma, «Cultura giuridica e diritto vivente», ii, 2015, http://ojs. uniurb.it/index.php/cgdv/article/view/484/467. 4 Cfr. Coleman Phillipson, The International Law and Custom of Ancient Greece and Rome, i, London, MacMillan and Co., 1911, p. 91.
l ’ origine del commercio nel pensiero giuridico romano 457 gentium: ad esempio, la promessa formale (stipulatio)1 o la compravendita ad effetti obbligatori (emptio venditio). La tutela di simili rapporti, estranei all’originario ius Quiritium, ma dimostratisi utili sia ai peregrini che agli stessi Romani, era coeren- te con il principio dell’aequitas, una forma di giustizia del caso concreto, impron- tata ad equilibrio e correttezza.2 Nel secondo senso, l’ius gentium poteva essere considerato come un ordina- mento internazionale,3 basato in parte sulla lex humana (cioè sulla consuetudine e i patti), ed in parte sulla lex divina, cioè sulle prescrizioni e i riti dell’arcaico ius fetiale.4 L’ius gentium inteso in questo modo regolava le relazioni con le altre co- munità politiche, in questioni come la guerra (definendo, ad esempio, i requisiti del bellum iustum), le formalità dei trattati, l’immunità diplomatica.5 Essendo un sistema di regole sul quale vigilava Giove, divinità universale, esso si applicava sia ai Romani che a tutti gli altri popoli.6 In una terza accezione, poteva essere inteso come un insieme di norme di diritto privato comuni a tutti i popoli.7 Indipendentemente dalla loro giustifica- zione metafisica e dall’effettiva diffusione tra le gentes, si trattava di un insieme di regole e principi ‘pre-positivi’8 ricavati da osservazioni naturalistiche o antropo- 1 Gai., Inst., 3, 93: Sed haec quidem verborum obligatio dari spondes? Spondeo propria civium romanorum est; ceterae vero iuris gentium sunt, itaque inter omnes homines, sive Romanos sive peregrinos, valent. 2 Cic., part., 37,129. La giustizia conforme al bonum et aequum era analoga all’epieikeia greca (in parti- colare, aristotelica). Si veda Ter., Haut., 787-798; Arist., EN, 5, 14, 1137 b; Rhet. Her., 2, 19-20; Dig., 1, 1, 7, 1 (Pap., def., 2). Cfr. Filippo Gallo, Bona fides e ius gentium, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell’espe- rienza giuridica storica e contemporanea, a cura di Luigi Garofalo, ii, Padova, cedam, 2003, p. 118 sg. 3 Cfr. Giuseppe Giliberti, L’ius gentium romano come ordinamento transnazionale, «Cultura giuridica e diritto vivente», ii, 2015, http://ojs.uniurb.it/index.php/cgdv/article/view/485. 4 Fra i tanti possibili esempi: X., Cyr., 7, 5; Herod., 7, 36; Liv., 4, 19, 3; Tac., ann., 1, 42; Dig., 50, 7, 18 (Pomp., ad Quint. Muc., 37). Cfr. Francesco Paolo Casavola, «Bellum pax quaesita videatur»: la guerra come procedimento giuridico, in Renato Uglione, Atti del Convegno nazionale di studi su la pace nel mondo an- tico Torino 9-10-11 Aprile 1990, Torino 1991, p. 147 sgg.; Max Kaser, Ius gentium, Köln, Böhlau, 1993, pp. 3 sgg.; Carlo Focarelli, Lezioni di storia del diritto internazionale, Perugia, Morlacchi, 2002, p. 19 sgg.; Francesco Sini, Religione e poteri del popolo in Roma repubblicana, «Diritto @ Storia», vi, 2007, http:// www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Sini-Religione-poteri-Popolo-Roma-repubblicana.htm; Pierangelo Catalano, Linee del sistema soprannazionale romano, i, Torino, Giappichelli, 1965. Cic., S. Rosc., 49, 143, propone che l’ius gentium debba applicarsi anche ai conflitti civili. Cfr. Gabrio Lombardi, Sul concetto di ius gentium, Roma, Istituto di Diritto Romano, 1947, p. 86 nota 1. 5 Era un campo della conoscenza nel quale eccelleva Pompeo, a detta di Cic., Balb., 15: Equidem con- tra existimo, iudices, cum in omni genere ac varietate artium, etiam illarum quae sine summo otio non facile di- scuntur, Cn. Pompeius excellat, singularem quandam laudem et praestabilem esse scientiam in foederibus, pactionibus, condicionibus populorum, regum, exterarum nationum, in universo denique belli iure ac pacis. Cfr. Filippo Cancelli, La giustizia tra i popoli nell’opera e nel pensiero di Cicerone, in Atti del Convegno La giu- stizia tra i popoli nell’opera e nel pensiero di Cicerone, Roma, Aracne, 1993, p. 25 sgg. 6 Cic., Rab. Post., 15, 42. Cfr. in generale Pierangelo Catalano, Cic. ‘de off.’ 3.108 e il così detto diritto internazionale antico, «Synteleia V. Arangio-Ruiz», i, Napoli, Jovene, 1964, p. 373 sgg.; Fabrizio Fabbrini, L’Impero di Augusto come ordinamento sovrannazionale, Milano, Giuffrè, 1974, p. 116 sgg.; Francesco Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del ‘diritto internazionale antico’, Sassari, Libreria Dessì Editrice, 1991; David J. Bederman, International Law in Antiquity, Cambridge, Cambridge University Press, 2001. 7 Cfr. Giuseppe Falcone, Obligatio est iuris vinculum, Torino, Giappichelli, 2003, p. 144 sgg. 8 Arist., Rh., 1, 12, 1373b. Cfr. Wolfgang Waldstein, Saggi sul diritto non scritto, Padova, cedam, 2002, p. 9 sgg. In realtà, il diritto naturale non è tutto immutabile, perché anche la natura può avere un carat- tere in parte contingente: Arist., EN, 5, 9, 1134b.
458 giuseppe giliberti logiche, convincimenti etici e valutazioni comunemente accettate sulla ‘natura della cosa’.1 Teorie sulla giustizia naturale circolavano ovunque nelle classi colte della tarda Repubblica e dell’Impero, diffuse dalle varie scuole post-socratiche: la platonica,2 l’aristotelica,3 e soprattutto la stoica.4 Nel De legibus, il «grande testo del giusna- turalismo romano»,5 Cicerone proponeva l’idea di una natura intrinsecamente ra- zionale, e quindi giusta.6 L’ius gentium – che i maiores usavano contrapporre a quel- lo civile – non era altro che l’ius naturae del quale parlavano gli Stoici.7 Il principio ordinatore cosmico8 si rifletteva anche nella natura specificamente umana.9 Que- st’ordine morale obiettivo era conoscibile, tramite una spontanea filosofia, alla portata di ogni persona benpensante.10 Perciò, Crisippo sosteneva che uno stolto non avrebbe potuto essere né osservante della legge (nomimos) né suo interprete (nomikos),11 poiché era la prudenza che consentiva di operare secondo giustizia. Coerentemente, Cicerone faceva dire a Scipione che il governante doveva essere summi iuris peritissimus.12 Sulla base di queste teorie, nell’età degli Antonini, il giu- rista Gaio distingueva il diritto proprio della città (ius civile) da quello comune a tutte le genti, manifestazione di un implicito ordine naturale (naturalis ratio).13 1 Ad esempio, Dig. 39, 3, 2, 6 (Paul., ad ed., 49), su cui cfr. in generale Francesco Sitzia, Aqua pluvia e natura agri. Dalle xii tavole al pensiero di Labeone, Cagliari, Edizioni av, 1999. 2 Per Pl., Lg., 10, 896a-898c, il cosmo è animato e regolato da un principio spirituale. Di conseguenza, gli atei, che non riconoscono le sue leggi, non possono essere giusti. 3 Per Aristotele, EN, 5, 9, 1134b, il diritto della comunità politica si distingue in naturale (physikòn) e legale (nómimon). Il primo è valido ovunque, indipendentemente dal fatto di essere riconosciuto uffi- cialmente. 4 Cic., har. resp.,14, 32; Quint., inst., 7, 1, 46; Dig. 47, 4, 1 pr. (Ulp. 38 ad ed.). Nel commentario al Timeo, Calcidio parla di equità naturale, distinguendola da quella positiva; e di giustizia naturale, contrapposta a quella positiva: Calcid., Comment., 6, 59 sg. Cfr. Ada Neschke-Hentsckhe, Il diritto naturale nell’anti- ca Grecia. Platone e gli stoici, in Testi e problemi del giusnaturalismo romano, a cura di Dario Mantovani, Al- do Schiavone, Pavia, iuss Press, 2007, pp. 11-57. 5 Cfr. Aldo Schiavone, Per una storia del giusnaturalismo romano, in Testi e problemi, a cura di Dario Mantovani, Aldo Schiavone, cit., p. 5. 6 Sulla naturalis ratio, ovvero recta ratio imperandi atque prohibendi, si vedano Cic., leg., 1, 42; e Dig. 1, 3, 2 (Marcian. inst., 1), che adotta esplicitamente la definizione stoica di legge naturale. 7 Cic., off., 3,17,69. Cfr. Okko Behrends, Che cos’era l’«ius gentium» antico?, in Tradizione romanistica e costituzione, a cura di Luigi Labruna, i, 2, Napoli, esi, 2006, p. 481 sgg. 8 Cic., nat., 2, 81-82; leg., 1, 17: ratio summa insita in natura; 2, 10: a rerum natura profecta; inv., 2, 161: Naturae ius est, quod non opinio genuit, sed quaedam in natura vis insevit, ut religionem, pietatem, gratiam, vindicationem, observantiam, veritatem. Che una naturalis ratio emergesse in qualche modo dal disordine dei fenomeni, era ammesso anche dagli Epicurei, che l’intendevano come ‘legge di natura’ in senso materialistico: Lucr., 6, 760-671; 5, 1436 sgg. 9 Cic., off., 3, 17; 3, 71. 10 Cic., leg., 1, 17. 11 svf, iii, p. 613. 12 Cic., rep., 5, 5. 13 svf, i, p. 262 (Zenone); Cic., inv., 2, 22, 65-67; off., 3, 17, 69; har. resp., 14, 32, ecc. Cfr. Gai., Inst., 1, 1: Omnes populi, qui legibus et moribus reguntur, partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utun- tur: nam quod quisque populus ipse sibi ius constituit, id ipsius proprium est vocaturque ius civile, quasi ius pro- prium civitatis; quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes populos peraeque custo- ditur vocaturque ius gentium, quasi quo iure omnes gentes utuntur. Populus itaque Romanus partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utitur. La civilis ratio non poteva contraddire quella naturale, che non poteva essere modificata nemmeno da un provvedimento del Senato: Gai., Inst., 1, 158; Dig. 4, 5, 8
l ’ origine del commercio nel pensiero giuridico romano 459 Non si trattava di un ideale ‘diritto come dovrebbe essere’, ma di un ordina- mento reale, che era insieme legge di natura, regola morale e norma giuridica. La sua oggettiva esistenza poneva il classico problema di tutti i giusnaturalismi: cosa fare di fronte al palese ed inevitabile contrasto tra il diritto positivo e quello natu- rale. Prevedibilmente, i filosofi, a differenza degli uomini ordinari – sia contem- poranei che maiores – consideravano quello naturale come il solo vero diritto.1 Ma che la morale naturale dovesse valere come fonte di diritto, senza la mediazione dei giuristi o del legislatore, era un principio estraneo alla cultura giuridica ro- mana. I giuristi ammettevano che per principi incontrovertibili2 come il divieto di rubare,3 o l’obbligo di saldare i debiti4 o la legittima difesa,5 si poteva dire che ius natura comparatur. Ma una teoria giusnaturalista in senso forte sarebbe stata in- compatibile con il pragmatismo ed il conservatorismo politico-sociale dei giure- consulti. Era impensabile che il richiamo a una legge non prodotta dai Romani – o perché naturale o semplicemente perché transnazionale – potesse essere preso alla lettera, al punto tale da rovesciare l’ordine sociale vigente ed una tradizione giuridica risalente agli antenati. Richiami al commune ius gentium e all’equità naturale6 vennero certo utilizzati occasionalmente, come argomentazioni giuridiche mutuate dalla filosofia e dalla retorica, dai giuristi della Repubblica e dell’inizio dell’Impero.7 Ma solo i giuristi del ii-iii secolo si posero il problema di integrare la dialettica tra l’ius gentium (ba- sato sulla naturalis ratio) e l’ius civile in una coerente teoria generale del diritto.8 L’affermazione di Crisippo che il mondo era un solo Stato, con una costituzione e una legge, e che gli ordinamenti positivi erano semplici ‘aggiunte’ alla legge na- turale,9 era ciò che i giuristi di un Impero cosmopolitico – ma sempre più centra- lizzato – volevano sentirsi dire. Questa visione del diritto, di carattere universali- (Gai., ad ed. prov., 4); Dig. 7, 5, 2, 1 (Gai., ad ed. prov., 7). In età giustinianea, il problema dell’effettivo ri- conoscimento transnazionale di questa ‘legge’ avrebbe infine perso di interesse. Cfr. Lorena Atzeri, Natura e ius naturale fra tradizione interna ed esterna al Corpus Iuris giustinianeo, in Testi e problemi, a cura di Dario Mantovani, Aldo Schiavone, cit., pp. 739-758. 1 Cic., off., 3, 17, 68-69; 3, 23. 2 Dig., 50, 17, 188, 1 (Cels., dig., 17): Quae rerum natura prohibentur, nulla lege confirmata sunt. 3 Cic., leg., 1, 16, 3. 4 Sen., benef., 3,14.3: aequissima vox est et ius gentium prae se ferens: «redde, quod debes». 5 Dig., 43, 16, 1, 27 (Ulp., ad ed., 89). 6 Cic., top., 90 distingue l’equità naturale da quella derivante da institutio. 7 Cfr. Antonio Mantello, Natura e diritto da Servio a Labeone, in Testi e problemi, a cura di Dario Man- tovani, Aldo Schiavone, cit., p. 239 sgg. Norberto Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico (1965), Milano, Edizioni di Comunità, 19722, p. 129 sgg., distingue tre forme di giusnaturalismo, secondo cosa s’intenda per diritto naturale: i principi etici generali, cui il legislatore si deve ispirare (g. scolastico); i det- tami della recta ratio umana, cui il legislatore deve offrire un’adeguata sanzione (g. razionalistico mo- derno); il comando generale di obbedire ai superiori, o di mantenere le promesse, che legittima qua- lunque ordinamento positivo (g. ‘hobbesiano’). 8 Dig., 41, 1, 1 pr. (Gai., r. cott., 2): Quarundam rerum dominium nanciscimur iure gentium, quod ratione naturali inter omnes homines peraeque servatur, quarundam iure civili, id est proprio iure civitatis nostrae. 9 svf, iii, p. 323. Si veda anche Dig. 1, 1, 6 pr. (Ulp., inst., 1): il diritto civile non coincide con il diritto naturale o quello delle genti, ma ha qualche elemento in più o in meno.
460 giuseppe giliberti stico ed umanitario,1 era in grado di favorire il rapporto con gli altri popoli del- l’Impero, tanto diversi per cultura ed istituzioni giuridiche.2 Consentiva, ad esem- pio, di rilevare che la patria potestas romana era quasi un unicum tra i popoli co- nosciuti. Questo lasciava immaginare la possibilità di un regime della famiglia più naturale e meno oppressivo di quello della tradizione romana, improponibile ai nuovi cittadini dell’Impero.3 Nell’età dei Severi, l’ius gentium venne, infine, esplicitamente inteso come un ordinamento distinto sia dal diritto naturale, che da quello civile. Quindi, alla di- cotomia introdotta da Cicerone e tramandata da Gaio venne sostituita una ripar- tizione più precisa: l’ius gentium si interponeva tra l’ius naturale (ciò che semper bo- num et aequum est)4 e il diritto proprio di ciascuna comunità politica.5 Proprio come l’ius civile, l’ius gentium era posto dall’uomo e, di conseguenza, spesso non corrispondeva affatto ai dettami della natura. Ulpiano caratterizzò ulteriormente il diritto naturale in senso neo-pitagorico, presentandolo come un complesso di norme riguardanti bisogni primari, comuni addirittura a tutti gli esseri animati.6 Le Institutiones giustinianee seguirono l’impostazione schiettamente giusnatura- listica di Ulpiano,7 sostituendo solo il Logos degli Stoici con la divina providentia dei Cristiani.8 Nello stesso tempo, mantennero anche la più sfumata identificazione 1 Al riguardo, Gell., 13, 17, 1 distingue tra un’accezione ‘volgare’ di humanitas – intesa come philan- thropìa, cioè benevolentia erga omnes – ed una umanistica, corrispondente alla greca paideia, che implica la condivisione di un certo modello di formazione culturale. Cfr. Antonio Palma, Humanior interpretatio. ‘Humanitas’ nell’interpretazione e nella normazione da Adriano ai Severi, Torino, Giappichelli, 1992, p. 20 sgg. 2 Cfr. Mario Talamanca, «Ius gentium» da Adriano ai Severi, in La codificazione del diritto dall’antico al moderno. Incontri di studio Napoli 1996, a cura di Elio Dovere, Napoli, esi, 1998, p. 212 sgg. 3 Gai., Inst., 1.55: Quod ius proprium civium Romanorum est: fere enim nulli alii sunt homines qui talem in filios suos habent potestatem qualem nos habemus. Cfr. Francesco Paolo Casavola, Giuristi adrianei, Napoli, Jovene, 1980, p. 54 sgg. 4 Dig., 1, 1, 11 (Paul., ad Sab., 14). 5 Dig., 1, 1, 4 (Ulp., inst., 1); Fr. Dosith., 1 (= Paul Frédérique Girard, Félix Senn, Textes de droit romain, i, Paris, Dalloz, 19677, pp. 464-468, n. 23): Omne enim iustum [cum iure] aut ciuile appellatur aut naturale dicitur [uel nationis] aut gentile iustum. Ab eo enim nominatur et omnes nationes similiter eo sunt usae; quod enim bonum et iustum est, omnium utilitati conuenit. Cfr. Guglielmo Nocera, Ius naturale nella espe- rienza giuridica romana, Milano, Giuffrè, 1962; Antonio Guarino, L’ordinamento giuridico romano. Intro- duzione allo studio del diritto romano5, Napoli, Jovene, 1990, p. 438 sgg. 6 Secondo Pietro Paolo Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico ro- mano, Torino, Giappichelli, 2002, pp. 95 sgg., l’inclusione di tutti gli esseri animati in un sistema di norme comuni di origine naturale era un convincimento diffuso in tutta la giurisprudenza classica. Cfr. altresì Cic., off., 1, 54. 7 Inst., 2, 1, 11; 2, 1, 41. 8 Inst., 1, 2, 11. In ambito cristiano, un altro canale di diffusione delle dottrine ciceroniane sulla legge universale fu la rilettura del iii libro del De Republica, fatta da Lattanzio: Lact., Div. Inst., 6, 8. Si vedano anche Ambr., epist., 73, 2; ed August., Contra Faustum, 19, 2. Furono principalmente le fonti patristiche a perpetuare il giusnaturalismo antico. Ciò avvenne attraverso il Decretum di Graziano e le dottrine canonistiche influenzate dal ‘neo-stoicismo medievale’. Si veda Gratian., Decretum, D. 1 c. 7, Quid sit ius naturale: «Ius naturale est commune omnium nationum, eo quod ubique instinctu nature, non constitutione aliqua habetur, ut viri et femine conjunctio, liberorum successio et educatio, communis omnium possessio et omnium una libertas, acquisitio eorum, quae coelo, terra marique capiuntur; item depositae rei vel commendatae pecuniae restitutio, violentiae per vim repulsio. Nam hoc, aut si quid huic simile est, nunquam injustum, sed naturale equum- que habetur». Quindi, non solo l’universalismo imperiale, ma anche quello religioso si giovarono di questa visione ideologica giusnaturalistica. Cfr. Giuseppe Giliberti, “Omnium una libertas”. Alle origini dell’idea
l ’ origine del commercio nel pensiero giuridico romano 461 gaiana tra diritto naturale e ius gentium. In realtà, la contraddizione era solo ap- parente: la terza e la quarta accezione di ius gentium non si escludevano tra loro in modo drastico. Infatti si poteva sostenere, con Cicerone,1 che se una consuetudi- ne era osservata sia dai Romani che dagli altri popoli, era ragionevole supporre che questo fosse il riflesso della sottostante lex naturae.2 Ma questo tentativo di conciliazione doveva scontrarsi con l’esistenza di istituti fondamentali nel mondo antico, diffusi tra tutti i popoli conosciuti e tuttavia drammaticamente contrari al- le leggi di natura descritte dalla tradizione cinico-stoica (la schiavitù e la proprie- tà privata), o da quella aristotelica (il commercio). 2. Le teorie ciniche e quelle del primo Stoicismo erano di un primitivismo molto ra- dicale, apparentemente inconciliabile con l’esistenza stessa della civiltà. Esse, in- fatti, consideravano la proprietà, il commercio, la moneta come mali in sé, pro- dotti dalla deprecabile rottura dell’originaria comunità naturale. Nelle Lettere di Anacarsi – notissimo epistolario apocrifo del ii secolo d.C. – si immaginava che il mitico viaggiatore del vi secolo a.C. spiegasse a Creso come la proprietà e il com- mercio fossero frutto di inganno e di violenza.3 Solo gli Sciti erano rimasti esenti da queste colpe originarie, rimanendo estranei al mondo civile e fedeli alla vita co- munitaria prescritta dalla natura. Il popolo di Anacarsi, archetipo di ogni ‘buon selvaggio’ antico e moderno, faceva felicemente a meno non solo di proprietà, guerra e politica, ma anche di commercio, tecniche e moneta, tutti considerati co- me mali tipici dei civilizzati.4 In realtà, la politica del diritto della Seconda Stoa e dello Stoicismo romano non postulava davvero l’abolizione della proprietà, del denaro, del commercio e della schiavitù. Nessuno teneva particolarmente a ritornare al comunismo primitivo della mitica Scizia. Il saggio perfetto, capace di una vita ascetica e autarchica di di diritti umani, in Tradizione romanistica e costituzione, ii, a cura di Luigi Labruna, Napoli, esi, 2006, pp. 1881 sgg.; Salvatore Puliatti, Ius gentium e disciplina dei rapporti internazionali in Isidoro di Siviglia, in Ravenna capitale. Uno sguardo ad Occidente. Romani e Goti - Isidoro di Siviglia, a cura di Gisella Bassanelli Sommariva, Simona Tarozzi, S. Arcangelo di Romagna, Maggioli, 2012, p. 27 sgg.; Hans Welzel, Di- ritto naturale e giustizia materiale (1961), Milano, Giuffrè, tr. it. 1965, p. 71 sgg. 1 Cic., Tusc., 1, 30. 2 Ad esempio, che gli impuberi dovessero essere sottoposti a tutela era un principio accettato dal diritto positivo di quasi tutti i popoli, perciò corrispondeva alla naturalis ratio: Gai., Inst., 1, 189. Cfr. Roberto Fiori, La nozione di ius gentium nelle fonti di età repubblicana, in Scritti per Alessandro Corbino, a cura di Isabella Piro, Tricase, Libellula, 2016, p. 115 sgg. 3 Le dieci Lettere greche, in circolazione a Roma almeno dall’epoca di Cicerone, erano probabilmen- te un apocrifo del iii secolo a.C. Cfr. Franz Heinrich Reuters, De Anacharsidis Epistulis (diss. 1957), Berlin, Akademie Verlag, 1963, p. 10 sgg.; Introduzione ad Anacarsi Scita, Lettere, a cura di Giovanni Cremonini, Sellerio, Palermo 1991, p. 30 sg. 4 Anach., 9. Chiaramente, si era molto lontani dal contrattualismo empirista del xvii-xviii secolo, che tendeva a vedere gli scambi commerciali come un progresso dell’umanità, e la proprietà come un diritto umano: si veda il secondo capitolo di John Locke, Il secondo trattato sul governo (1690), Milano, bur, tr. it., 1998.
462 giuseppe giliberti modello cinico, avrebbe potuto vivere facendo a meno del denaro. Nella Politeia di Zenone era, infatti, proibito coniare moneta, per impedire che essa fosse uti- lizzata allo scopo di commerciare e viaggiare all’estero.1 Ma si diceva anche che lo stesso Zenone avesse esercitato il prestito marittimo.2 In verità, il modello di saggio delle classi dirigenti dell’Impero non era il perfetto asceta cinico, ma più modestamente il vir bonus secundae notae di Seneca (ep., 5, 42), capace di coniuga- re il realismo con la critica dei rapporti sociali esistenti e della morale corrente. Una persona del genere rinunciava a priori a chiudersi, con il vero saggio cinico- stoico, nelle mura della mitica città perfetta. La sua doppia morale lo portava, in- vece, a rassegnarsi all’irreversibile uscita dallo stato di natura, sforzandosi semmai di mitigarne le conseguenze, mediante un prudente bilanciamento tra l’utile e l’honestum.3 Tutti riconoscevano che il saggio dei Cinici, modello anche per gli Stoici, era rarissimo come la Fenice. Anzi, questo santo laico era probabilmente solo un punto di riferimento astratto, buono per costruire degli esercizi filosofici: «Cosa possiede il vero saggio?» (tutto); oppure «Nella città ideale esiste il com- mercio?» (no, perché il filosofo ha già tutto quello che gli serve). Ovviamente, un gentiluomo come Seneca non aveva la benché minima intenzione di vivere ‘come un cane’, né sosteneva che l’Impero Romano dovesse tornare allo stato di natura. Però, invitava a considerare gli schiavi come mercennarii a vita, manifestava un mo- derato dissenso nei confronti dei giochi gladiatorii, accettava limiti pubblicistici al- l’esercizio della proprietà privata, sosteneva la necessità di contenere le usurae. Nonostante il formale ossequio reso ai principi filosofici, e le frasi retoriche sul- la sacralità del diritto,4 i giuristi si rendevano conto che la naturalis ratio veniva ine- vitabilmente e sistematicamente contraddetta dalle norme positive. In teoria, non avevano difficoltà a convenire con Cicerone sul principio che la legge morale uni- versale fosse la ‘vera’ legge, mentre quella positiva ne era solo un pallido riflesso. Ma erano restii a radicalizzare la critica del diritto vigente, fino al punto di consi- derare inapplicabile la legge positiva in contrasto con la naturalis ratio. Non avreb- bero mai potuto giustificare la ribellione di Antigone contro le leggi della città ed i suoi interpreti.5 1 SVF, i, p. 62, fragm. 268. Sulla città ideale e i suoi abitanti (o il suo abitante), cfr. Giuseppe Gili- berti, La Politeia di Zenone, in Le corti e la città ideale / Courts and the Ideal City, Atti del convegno 15-16-17 novembre 2002, a cura di Gabriella Morisco, Alessandra Calanchi, Schena, Fasano, 2004, pp. 83 sgg. 2 D. L., 7, 14. 3 Cfr. Giuseppe Giliberti, Cosmopolis. Politics and Law in the Cynical-Stoic Tradition, Pesaro, ES@, 2006, p. 63 sgg. 4 Marciano, citando Demostene, considerava il diritto un’invenzione e un dono degli Dei, un’elabo- razione dei sapienti, un mezzo per reprimere le cattive azioni ed un patto di cittadinanza: Dig., 1, 3, 2 (Marcian., inst., 1). Ulpiano considerava giuristi dei sacerdoti del diritto e la giurisprudenza vera filoso- fia: Dig., 1, 1, 1, 1 (Ulp., inst., 1). Cfr. Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto, i, Bologna, il Mulino, 1966, p. 143 sgg. 5 Tutti capiscono – afferma Aristotele nella Retorica (1, 10, 1368 b; 13, 1373 b) – che quel diritto cui fa appello l’Antigone di Sofocle, è il ‘giusto per natura’. È vero che il diritto naturale poteva legittimare l’ordinamento vigente, presupponendo che esso fosse sostanzialmente giusto: si veda Cic., off., 3, 5, 21-3, 6, 32; 3,14, 60-3,15, 61. Ma avrebbe potuto anche servire per una critica radicale delle istituzioni e del diritto
l ’ origine del commercio nel pensiero giuridico romano 463 Il realismo delle élites romane poteva essere confortato dalla distinzione di Ari- stotele tra giusto assoluto e giusto nella società (politikòn dìkaion):1 «Giusto per natura è ciò che rimane costante nella maggior parte dei casi».2 Perciò, non solo il giusto per legge (dikaion nomikòn), ma anche il dikaion physikòn è soggetto a mu- tamenti’. In questo contesto, ‘naturale’ significa, quindi, ‘conforme alla natura umana’, più che ad un astratto ordine metafisico.3 Anche la visione etica della Me- dia Stoa, diffusa a Roma dallo stesso Cicerone,4 confermava l’orientamento prag- matico aristotelico. Il mito del diritto naturale poteva rimanere sullo sfondo, co- me un paradossale ideale regolativo, che serviva a riaffermare l’esigenza che le norme fossero razionali e socialmente utili. Tutt’al più, l’aperta inosservanza de- gli iura naturae5 poteva provocare degli interventi correttivi, per riportare la so- cietà ad un maggiore rispetto (religio) dei dettami della ragione naturale.6 D’altra parte, anche i principi dell’ius Quiritium erano considerati sacrosanti, pur essendo sistematicamente derogati, integrati e corretti dai pretori, dai giuristi, dal Princi- pe e dal popolo stesso. La tricotomia dei giuristi severiani rendeva ancora più drammatica la contrad- dizione tra il diritto naturale e quello positivo, perché a questo punto nemmeno l’ius gentium corrispondeva di fatto alla naturalis ratio. Uno dei casi più evidenti di tale contrasto era costituito dalla schiavitù, che contraddiceva il principio del- l’originaria libertà degli esseri umani.7 Già alla metà del ii secolo a.C., i maggiori giuristi dell’epoca avevano discusso se lo schiavo fosse del tutto paragonabile ad un animale. Era prevalsa la sententia Bruti che, per sua natura, il figlio dell’ancilla non fosse un fructus.8 Come si poteva giustificare l’universale diffusione della positivo, alla maniera di Antigone. Cfr. Giuseppe Cambiano, La Retorica di Aristotele e il diritto naturale, in Testi e problemi, a cura di Dario Mantovani, Aldo Schiavone, cit., p. 71 sgg. 1 Arist., EN, 5, 2, 1129 b. 2 Arist., MM, 1, 33, 1195 a. 3 Cfr. Guido Fassò, op. cit., p. 98 sg.: «La “natura” di Aristotele non è astratta ragione, come era quel- la di alcuni Sofisti e dei Cinici … i quali appaiono sí prossimi al modo di pensare nostro, ma erano al loro tempo fuori della storia; la natura aristotelica è la concreta, attuale, struttura della società in cui egli ed i suoi contemporanei vivono, quella cioè della polis: struttura alterandosi la quale verrebbe meno la polis stessa, vale a dire la società come in quel tempo non poteva non essere». 4 Cfr. Aldo Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino, Einaudi, 2005, p. 252 sgg. 5 Si veda la praefatio dell’Edictum de pretiis, in Siegfried Lauffer, Diokletians Preisedikt, Berlin, de Gruyter, 1971, p. 92. 6 Cod. Theod., 2, 19, 2 (Constantin., a. 321). Viceversa, in Cod. Iust., 5, 30, 5, 1 (a. 529), Giustiniano af- ferma che il fatto che gli stessi tutori possano essere sottoposti a tutela non contraddice il naturalis ordo. Cfr. Wolfganf Waldstein, Saggi, cit., p. 293 sgg. 7 Quintil., decl. mai., 13, 8: taceo de servis, quos bellorum iniquitas in praedam victoribus dedit, isdem legibus, eadem forma, eadem necessitate natos; ex eodem caelo spiritum trahunt, nec natura illis sed fortuna dominum de- dit. Cfr. Dig. 50, 17, 32 (Ulp., ad Sab., 43). Con la schiavitù, venne introdotta anche la manumissio Dig., 1, 1, 1, 4 (Ulp. 1 inst.): Manumissiones quoque iuris gentium sunt. Cfr. Serena Querzoli, Il sapere di Florentino. Etica, natura e logica nelle «Institutiones», Napoli, Loffredo, 1996, pp. 113 sgg.; Dario Mantovani, I giuri- sti, il retore e le api. Ius controversum e natura nella Declamatio major xiii, in Testi e problemi, a cura di Dario Mantovani, Aldo Schiavone, cit., p. 359 sgg. 8 Cfr. in generale Ferdinando Zuccotti, Partus ancillae in fructu non est, in id., Antecessori Oblata. Cinque studi dedicati ad Aldo Dell’Oro (con, in appendice, un inedito di Arnaldo Biscardi), Padova, cedam, 2001, p. 185 sgg.
464 giuseppe giliberti schiavitù, visto che i Romani non la consideravano fondata in termini di razzismo biologico, come prevalentemente i Greci?1 Si argomentava che essa fosse stata in- trodotta dall’ius gentium, come rimedio alla crudeltà della guerra, ed accettata dal- l’ius civile romano.2 Perciò si poteva tollerarla e tutt’al più temperarla, in sede di interpretazione del diritto, mediante il favor libertatis; oppure adottando provve- dimenti per umanizzare l’usus servorum e limitare la dominica potestas.3 Lo stesso poteva dirsi della proprietà, del prestito a interesse e del commercio. Le principali correnti filosofiche del mondo antico esibivano disprezzo nei con- fronti del commercio, soprattutto di quello al dettaglio (tenuis mercatura),4 ma nemmeno il più dogmatico degli stoici avrebbe chiesto di metter fuori legge que- sta pratica inevitabile, utile e non del tutto riprovevole. Perciò, anche quando veniva sistematicamente violato, l’ordinamento univer- sale restava intatto, come perenne modello di giustizia: solo in questo senso poteva essere inderogabile. In fondo, era una funzione tutt’altro che marginale, se si considera che il diritto – per i giuristi, come per i legislatori, e ancor più per i giudici – aveva il compito di realizzare una giustizia necessariamente imperfet- ta, proprio perché destinata all’uomo comune.5 3. Nel brano da cui siamo partiti, il commercio appare chiaramente una creazione umana, frutto di un diritto delle genti che è precedente alla creazione delle città, ma che non sembra coincidere con il diritto naturale. Se si considera il fatto che non viene espressamente citato il diritto naturale, potrebbe sembrare che Ermo- geniano si adegui alla dicotomia gaiana.6 Soprattutto, il ragionamento del giuri- sta non segue l’orientamento della tradizione cinico-stoica. Nel frammento che stiamo esaminando, non c’è alcun riferimento alla naturalis ratio, non si lamenta la fine dell’età dell’oro, né si depreca la decadenza dei civilizzati. Viene assegnato al diritto delle genti una funzione ordinatrice, perfino nel suo riferimento all’in- troduzione del bellum. Secondo Dovere, Ermogeniano non descrive qui la rottura di un ordinamento giuridico naturale, violato prima dall’ius gentium e poi da quello civile.7 A suo avviso, l’ius gentium avrebbe definito, per la prima volta, sia le forme giuridiche dell’appartenenza dei beni, che i modi per farli circolare. In- somma, il giurista immagina l’emersione del diritto dal caos primigenio di un 1 Arist., Pol., 1254 a. 2 Dig. 1, 5, 4, 1, 2 (Florent., inst., 9); 1,1, 4 (Ulp., inst., 1). 3 Cfr. Giuseppe Giliberti, “Beneficium” e “iniuria” nei confronti del servo. Etica e prassi giuridica in Seneca, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, a cura di Vincenzo Giuffrè, iv, Napoli, Jovene, 1984, p. 1843 sgg. 4 Cic., off., 1, 42, 151. 5 Il diritto è la disciplina teorico-pratica che serve a realizzare la giustizia (ius est ars boni et aequi): Dig.,1, 1, 1 pr. (Ulp., inst., 1). Ma non tutto ciò che è legale è anche moralmente corretto: Dig., 50, 7, 144 pr. (Paul., ad ed., 62). 6 Cfr. Elio Dovere, De iure, cit., p. 83 sgg. 7 Cfr. Elio Dovere, Studi, cit., p. 81 sgg. Invece Philippe Didier, Les diverses conceptions du droit naturel à l’oeuvre dans la jurisprudence romaine des iie et iiie siècles, «sdhi», xlvii, 1981, p. 248 sg., accosta la teoria di Ermogeniano al contrattualismo di Rousseau.
l ’ origine del commercio nel pensiero giuridico romano 465 mondo del tutto anarchico. Chiaramente, la teoria di Ermogeniano si distacca net- tamente dagli schemi cinico-stoici, anche se sono possibili interpretazioni diverse da quella neoplatonica, adombrata da Dovere. In un altro passaggio delle Epitomae, Ermogeniano arriva ad affermare secca- mente che tutto il diritto è stato introdotto per regolare gli interessi umani: Cum igitur hominum causa omne ius constitutum sit …1 Per usare una terminologia gene- ricamente post-socratica (o, secondo Elio Dovere, specificamente neoplatonica),2 la causa finale del diritto è l’utilità degli uomini. Questo non fa necessariamente di lui un giuspositivista, magari un contrattualista epicureo alla maniera di Lu- crezio.3 Ermogeniano crede nel diritto naturale (ea quae scripta non sunt) e lo di- stingue dalla consuetudine, che è una tacita civium conventio.4 Vero è che, tra i suoi vari significati, constituere si riferisce a norme positive, generalmente a base legi- slativa.5 Ma anche per Cicerone il diritto naturale era stato ‘inventato’ (descrip- tum), esattamente come quello civile.6 Inventato da chi? Non dagli uomini, bensì dal Deus legislatore degli Stoici.7 Persino Gesù (Marc., 2.27), affermando che «il sa- bato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato», ricorre allo stesso topos di Ermogeniano. Sembra di capire che nel brano di Ermogeniano il diritto delle genti abbia ri- definito istituti ed attività – come il commercio o la stessa guerra8 – che non po- tevano non essere presenti, sia pure in forma embrionale, nello stato di natura. La sua tesi potrebbe corrispondere alla versione aristotelica della nascita del com- mercio, più realistica ed articolata di quella cinico-stoica. Aristotele sembrava ritenere che lo scambio, sempre indispensabile alla so- pravvivenza della comunità, non fosse necessariamente commercio.9 La forma naturale di circolazione dei beni era, infatti, lo scambio tra equivalenti, volto a mantenere l’autarchia ed a realizzare la giustizia regolativa. La crematistica (cioè il settore dell’oikonomia riguardante il procacciamento dei beni) non si era però 1 Dig., 1, 5, 2 (Hermog., iuris epit., 1). 2 Elio Dovere, Studi, cit., p. 69; 83 sgg., collega l’affermazione dell’ius gentium con la funzione or- dinatrice delle ‘virtù civili’, presente in Plotin., 1, 8, 7, 5. 3 Epicur., Sent., 31: il ‘giusto secondo natura’ è l’attuazione dell’utile (synphéron), Lucr., 925-1027: ben- ché nello stato di natura non ci fossero leggi, i patti venivano generalmente rispettati; 1448-1454: le leggi non sono prodotto della natura, ma frutto di un accordo, artificiali come l’agricoltura, la poesia o l’arte. 4 Dig., 1, 3, 35 (Herm., iuris epit., 1). 5 Ad esempio, in Cic., rep., 1, 26, 41: … Omnis ergo populus, qui est talis coetus multitudinis qualem expo- sui, omnis civitas, quae est constitutio populi, omnis res publica, quae ut dixi populi res est, consilio quodam re- genda est, ut diuturna sit. Id autem consilium primum semper ad eam causam referendum est quae causa genuit civitatem. Deinde aut uni tribuendum est, aut delectis quibusdam, aut suscipiendum est multitudini atque omni- bus. Oppure in Dig., 1, 2, 2, 11-12 (Pomp. l. s. enchir.), sulle viae iuris constituendi. Cfr. Giuseppe Giliber- ti, Constitutio e Costituzione, «Cultura giuridica e diritto vivente», i, 2014, http://ojs.uniurb.it/index.php/ cgdv/article/view/369/361, p. 1 sg. 6 Cic., Sest., 42, 91. 7 Cic., rep., 3, 33: ille legis huius inventor, disceptator, lator. 8 Sulla guerra come rottura del naturale stato di pace, cfr. in generale Francesco Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, Sassari, Libreria Dessì Editrice,1991. 9 Cfr. Ernest Barker, The Political Thought of Plato and Aristotle2 (1906), New York, Putnam, 1959, p. 379 sgg.
466 giuseppe giliberti mantenuta a lungo in questi limiti.1 Lo scambio naturale era stato travolto da un uso distorto della moneta (nomisma), che era nata per rendere il baratto (allaghē) più agevole. Platone riconosceva l’utilità della moneta e del commercio interno, esercitato dai kapeloi, riconducendo entrambi alla divisione del lavoro.2 Anche per Aristote- le, il fondamento della città era lo scambio delle prestazioni e, per questo non era un male utilizzare una misura del valore delle cose da scambiare, ovviamente in un regime di gold exchange standard. Persino la moneta coniata, benché introdot- ta dalla legge positiva (e proprio per questo denominata nómisma) non violava di per sé la natura, almeno finché rimaneva soltanto una misura del valore.3 Il de- naro era nato come mezzo di misura del valore, e solo successivamente si era tra- sformato in un mezzo di scambio commerciale. Se fosse servito solo per essere speso, o come mezzo per realizzare uno scambio tra equivalenti (alla fine, una spe- cie di baratto), non ci sarebbe stato nulla di male. Ma l’adozione di questo stru- mento aveva facilitato enormemente la diffusione della cattiva crematistica, cioè di una forma di scambio che comportava un profitto (kerdos) per gli intermediari ed era volta all’accumulo del denaro. Il commercio, che per definizione era un’at- tività di scambio tra beni non equivalenti, aveva determinato l’affermazione della figura professionale del commerciante. Al suo interno, era particolarmente inna- turale il ruolo dell’emporos, che cercava il profitto anche all’estero.4 Quindi, per Aristotele, esisteva una crematistica conforme alla natura, che si avvaleva degli scambi e persino della moneta, senza per questo essere commer- cio. L’attività commerciale vera e propria si era affermata dopo la creazione della città e delle sue leggi, non prima, il che è esattamente ciò che sostiene Ermoge- niano. In particolare, il commercio dell’epoca post-omerica non aveva più nulla a che vedere col contraccambio di doni, non era funzionale al riequilibrio tra i be- ni scarsi e quelli abbondanti, non era più embedded nelle istituzioni e nei rapporti sociali, per usare la terminologia di Polanyi.5 Si era pienamente autonomizzato, 1 Arist., Pol., 1253b, 11-14; Cic., off., 1, 42, 151. 2 Pl., Rep., ii, 371b-d. Sulla divisione sociale del lavoro nei poemi omerici, cfr. in generale Fausto Codino, Introduzione a Omero3, Torino, Einaudi, 1974. 3 Arist., EN, 5, 5, 1133a. Sulla moneta come misura del valore e come mezzo di scambio, cfr. Glauco Tozzi, Economisti greci e romani. Le singolari intuizioni di una scienza moderna nel mondo classico, Milano, Feltrinelli, 1961, p. 397 sgg.; Joseph Moreau, Aristote et la monnaie, «reg», lxxxii, 1969, pp. 349-364.; Ni- cola Narise, La nascita della moneta. Segni premonetari e forme arcaiche dello scambio, Roma, Donzelli, 2000; Peter Temin, A Market Economy in the Early Roman Empire, «jrs», xci, 2001, pp. 169-181; Valerio Marotta, Origine e natura della moneta in un testo di Paolo D. 18,1,1 (33 ad edictum), in Dogmengeschichte und historische Individualität der römischen Juristen / Storia dei dogmi e individualità storica dei giuristi romani, Atti del Seminario internazionale (Montepulciano 14-17 giugno 2011), a cura di Christian Baldus, Massimo Miglietta, Gianni Santucci, Emanuele Stolfi, «Università degli Studi di Trento, Dipartimento di Scienze Giuridiche, Quaderni del Dipartimento», cvii, 2012, p. 173 sgg. 4 Arist., Pol., 1256b-57b; EN, 5, 5, 1133b. Cfr. Alberto Maffi, Circolazione monetaria e modelli di scambio da Esiodo ad Aristotele, «Annali dell’Istituto Italiano di Numismatica», xxvi, 1979, p. 161 sgg. 5 Sul concetto di embeddedness in Polanyi, cfr. Fred Block, Introduction, in The Great Transformation. The Political and Economic Origins of Our Time (1949), a cura di Karl Polanyi, Boston, Beacon Press, 2001, p. xxii sgg.
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