Reddito minimo garantito - AulaWeb 2019

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Reddito minimo garantito
di Giuseppe Bronzini - Diritto on line (2014)

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Reddito minimo garantito

Abstract

Viene esaminata la genealogia del diritto al reddito minimo garantito che si è andato
costituzionalizzando, sopratutto in Europa, nella seconda metà del ‘900. Vengono poi
commentate le fonti normative e le policies dell’Unione europea e ricostruiti i tentativi di
istituire anche in Italia una misura di garanzia dei «minimi vitali».

1. DEFINIZIONI
Una premessa definitoria appare imprescindibile in una materia in cui la
confusione terminologica, sebbene in parte giustificabile in relazione alla
storia dell’idea stessa di una tutela dei “minimi vitali” ed alla sua
progressiva declinazione giuridica, ha indebolito, sopratutto in Italia, le
ragioni dell’introduzione di una misura del genere. Chiamiamo, in coerenza
con le fonti europee e con le tendenze giuridiche planetarie, «reddito
minimo garantito» (o espressioni ad esso riconducibili come «reddito
minimo di inserimento», «bolsa social» etc.) l’attribuzione a tutti coloro che
non dispongono di risorse sufficienti di una prestazione in denaro per
garantire loro un’esistenza libera e dignitosa.

Per «reddito di cittadinanza» (o anche «reddito minimo di base», «basic
income», etc.) va, invece, inteso un reddito erogato da una comunità politica
a tutti i suoi membri su base individuale, senza controllo ed esigenza di
contropartite (Bronzini, G., Il reddito minimo garantito nell’Unione europea: dalla
Carta di Nizza alle politiche di attuazione, in Dir. lav. e rel. ind., 2011, 225 ss.).

Pertanto per definizione quest’ultima misura è incondizionata ed universale
perché prescinde dalle condizioni economiche e sociali del destinatario
(anche se è rivolta ai soli cittadini), mentre la prima non ha queste
caratteristiche in quanto è attribuita solo a chi concretamente ne ha
bisogno e viene, in genere, condizionata in vario modo (dall’obbligo di
accettare proposte lavorative, sino a quello di seguire corsi di formazione o
di mandare i figli alla scuola primaria, etc.).

Nelle parole del Tribunale costituzionale tedesco (sent. del 9.2.2010):
«garantisce ad ogni persona bisognosa le condizioni materiali che sono
indispensabili alla sua esistenza ed ad un minimo di partecipazione alla vita
sociale, culturale e politica». Termini, invece come ius vitae o ius
existentiae hanno una capacità evocativa ed una tonalità emotiva più ampia e
meno precisa e coprono sia la prima che la seconda area concettuale,
soprattutto se si considerano le esperienze di reddito minimo, sottoposte al
cosiddetto means text, ma non schiacciate sulla «rieducazione al lavoro».

Si può sinteticamente affermare che la proposta di un «reddito di
cittadinanza» in senso stretto configura un «programma politico-radicale
mirato ad implementare la giustizia sociale» o anche «un’utopia concreta» (Van
Parijs, P.-Vanderborght, Y., Il reddito minimo universale, Milano, 2006; Bin-
Italia, a cura di, Reddito per tutti. Un’utopia concreta, Roma, 2009), in linea
astratta realizzabile, ma che implica profonde trasformazioni dell’intero
assetto istituzionale contemporaneo (solo nello Stato USA dell’Alaska i
cittadini godono di un modesto basic income attraverso i proventi petroliferi
statali; nel 2015 gli svizzeri voteranno un referendum propositivo per
l’introduzione di un vero basic income in quel paese). Il reddito minimo
garantito (d’ora in poi RMG) invece è già una potente realtà istituzionale,
non solo nell’UE (salvo Italia e Grecia) ma a livello mondiale (ad es. India,
Brasile, Sudafrica, Namidia, etc.). L’Unicef appoggia ufficialmente molte
esperienze di RMG nei paesi in via di sviluppo.

2. IL DIBATTITO TEORICO E COSTITUZIONALE
La ragione della confusione terminologica risiede nel fatto che i due
concetti condividono una certa «area di famiglia», cioè una tradizione di
pensiero ed anche di esperienze sociali concrete accumunate dall’idea di
una partecipazione democratica effettiva e, quindi, di una cittadinanza
inclusiva e promozionale delle capacità individuali e collettive da «giocarsi»
nella sfera pubblica latamente intesa. Intendiamo dire che anche un RMG
«all’europea», su cui torneremo, va correttamente pensato come una
prestazione per la «cittadinanza democratica», pur svolgendo importanti
funzioni di tutela del «lavoro» e di strumento di contrasto della povertà e
dell’emarginazione sociale.

L’idea di un ius existentiae non è di certo nuova. Fu già avanzata da Bertrand
Russel, dai Fabiani, dai Fourieristi, da Thomas Paine ed argomenti a suo
sostegno possiamo trovarli persino nella filosofia classica tedesca. Si può,
anzi, osservare che questo nesso tra comunità politica e soddisfazione dei
bisogni primari è, sin dal sorgere della civiltà occidentale, attestato dall’uso
dei pranzi in comune nelle antiche Sparta o Atene. Riscontri importanti di
questa tensione verso la tutela dei «minimi vitali» emergono nella
Costituzione giacobina del 1793 al suo art. 21: «i soccorsi pubblici sono un
debito sacro. La società deve la sussistenza ai cittadini disgraziati, sia
procurando loro del lavoro, sia assicurando i mezzi di esistenza a quelli che
non sono in età di poter lavorare», o all’art. 151 della Costituzione di
Weimar secondo cui «l’ordinamento della vita economica deve garantire a
tutti un’esistenza degna». Ma la vera fortuna di questo concetto si è avuta
nella seconda metà del ventesimo secolo, investendo in modo penetrante
non solo il dibattito teorico, ma la realtà profonda delle istituzioni sociali.
La premessa di questa esplosione del tema risiede nella vittoria sulle forze
nazifasciste. Con essa il tema della dignità dell’uomo ha trovato una nuova
energia costituzionale; ne sono conferma sul piano nazionale la
Costituzione di Bonn che poggia su questo valore (art. 1) e su quello
internazionale la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che
menziona la dignità sia nel preambolo «Considerato che il riconoscimento
della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti,
uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e
della pace nel mondo» che all’art. 1. Sul piano sociale gli artt. 22 e 25 della
Dichiarazione richiamano la necessità della garanzia di risorse sufficienti
per condurre una vita decorosa, così come il Patto ONU del 1966 (art. 11)
sui diritti socio-economici (mai accettato però da USA e Gran Bretagna).

Sintetizzando un ampio e sofisticato dibattito possiamo distinguere tre
principali linee di giustificazione dello ius existentiae.

La prima, già richiamata, proviene dal dispiegamento progressivo del meta-
principio costituzionale della dignità della persona con l’attenuarsi
dell’originaria impostazione neo-giusnaturalista che valorizzava la nozione
soprattutto nei rapporti tra le libertà individuali e l’autorità pubblica. Si
tratta di una dilatazione dell’originaria nozione che Stefano Rodotà ha
riassunto nel processo di «costituzionalizzazione della persona» nei suoi
bisogni ed aspetti cruciali e quindi anche con riferimento alla relazioni
sociali e comunicative in cui il singolo è «gettato» o ha scelto di aderire
(Rodotà, S., Il diritto di avere dei diritti, Bari, 2012).

La seconda linea argomentativa ha il suo fulcro nel tentativo promosso da
John Rawls nella sua seminale opera, Una teoria della giustizia (Milano 1982),
di definire le condizioni istituzionali di sfondo di una società giusta, tra le
quali il «minimo sociale». Sebbene il filosofo di Harvard abbia poi criticato
l’idea di un basic income incondizionato ed universale con la famosa
immagine del «surfista di Malibù» che si sottrae agli obblighi di un’equa
cooperazione sociale, in realtà il neo-contrattualismo di stampo rawlsiano
ha offerto uno schema generale di ragionamento «contro fattuale» per
verificare i presupposti di una comunità politica che assicuri quantomeno
eguaglianza di opportunità per tutti. Questo schema sarà così utilizzato da
diverse teorie costituzionali e di filosofia politica, dall’approccio dialogico
di Bruce Ackerman a quello repubblicano di Philip Pettit, o – più
recentemente – da Luigi Ferrajoli (Ferrajoli, L., Principia Juris, Bari, 2007),
per arrivare alla conclusione dell’inaccettabilità di sistemi che negano ai
cittadini i bisogni elementari. La terza ondata proviene dalla sociologia
contemporanea e dagli studiosi di welfare che cercano di comporre a sistema
la ratio di «de mercificazione» dei bisogni primari delle esperienze del Nord-
Europa e di arricchire la nozione pionierista di Thomas H. Marshall di
cittadinanza sociale (Marshall, T.H., La cittadinanza sociale, Milano, 1970). Il
fondersi tra loro di questi temi (nella saldatura tra dignità della persona e
cittadinanza sociale) e la contaminazione con le emergenze derivate dalla
crisi della società dell’«impiego», dal cosiddetto passaggio alla società post-
fordista, e dall’esplosione del fenomeno della disoccupazione di massa ha
condotto in Europa e, tendenzialmente, a livello planetario ad una
costituzionalizzazione dello ius existentiae.

Pertanto già sulla base dell’affermazione nelle varie costituzioni nazionali
del principio della dignità della persona sono stati avviati in vari paesi
europei (nel Nord scandinavo, come in Svizzera, in Austria, etc.) esperienze
di RMG che guardano al solo aspetto di una cittadinanza inclusiva.
Tuttavia, con il Trattato di Amsterdam, il varo di una politica
occupazionale dell’Unione e la costruzione del capitolo sociale
comunitario, il RMG si carica di funzioni ulteriori e più incisive,
diventando una prerogativa tipica del «cittadino laborioso», una tutela
essenziale di questi nel mercato che si accompagna e salda con quella di cui
gode «nel contratto». È sulla base, in realtà, di questa fusione di orizzonti
che è avvenuta la definitiva costituzionalizzazione del diritto ad un RMG
come pretesa di matrice «sovra-nazionale». Va da ultimo ricordato che la
Corte interamericana dei diritti dell’uomo ha ritenuto in alcune decisioni
che nel «diritto alla vita» sia compresa la tutela dei «minimi vitali», opzione
interpretativa non ancora seguita dalla Corte di Strasburgo (le due
Convenzioni, alla base delle rispettive Corti, sono molto simili).

3. IL DIRITTO AD UN REDDITO MINIMO GARANTITO COME
DIRITTO FONDAMENTALE DELL’UNIONE
Il RMG è divenuto un fundamental right dotato della stessa «forza» (legal
value) delle norme sui Trattati, nella nuova formulazione dell’art. 6 TUE
con l’entrata in vigore il 1.12.2009 del Trattato di Lisbona, in quanto
solennemente sancito all’art. 34, co. 3 della Carta dei diritti UE (più nota
come Carta di Nizza). Ciò premesso va riconosciuto che la formulazione
prescelta «al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà l’Unione
rispetta e riconosce il diritto all’assistenza sociale ed abitativa volte a
garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di
risorse sufficienti» non è felice da punto di vista espressivo. Sembra in
effetti che si sia voluto mascherare con termini tecnico-giuridici, come può
essere quello di «assistenza sociale», il riconoscimento di una prerogativa
che ben potrebbe rappresentare il simbolo di una cittadinanza sociale
europea, sancendo proprio un dovere di integrazione sociale, politica e
culturale di tutti nella «società europea». In ogni caso il significato della
norma non è certo oscuro; alla luce dei chiarimenti offerti sul punto da
Raccomandazioni del Consiglio e della Commissione e da Risoluzioni del
Parlamento europeo, è facile determinarne il suo «contenuto essenziale», il
limite – secondo la prevalente Dottrina – oltre il quale non può spingersi la
discrezionalità del legislatore sovranazionale e di quello interno, fatta salva
nell’ultimissima parte della disposizione «secondo le modalità stabilite dal
diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali». La norma si
compone di tre segmenti che vanno letti unitariamente: il primo è l’accesso
alle prestazioni di assistenza sociale, il secondo il concetto di esistenza
dignitosa ed il terzo la mancanza di risorse sufficienti e cioè una situazione
concreta e verificabile di bisogno. Non vi è dubbio che la garanzia di
condizioni di vita «dignitose» implichi in primo luogo la disponibilità di un
reddito idoneo a soddisfare le necessità primarie, da non intendersi in
senso solo materiale. Gli obblighi derivanti dall’art. 34, co. 3, non
sembrano comunque esaurirsi nel sostegno reddituale non solo perché si
richiama espressamente anche l’assistenza abitativa, ma in quanto è
evidente che il rischio di esclusione sociale si combatte anche sul terreno
dei servizi sociali e di tutti gli strumenti che l’esperienza più avanzata
europea ha elaborato nel promuovere un ruolo attivo del «cittadino
laborioso» (diritti previsti anche da norme della Carta, come il diritto alla
formazione permanente e continua all’art. 14 o il diritto di accesso a servizi
di collocamento gratuito all’art. 29). Il titolare del diritto non è indicato e
quindi, secondo un metodo generale di codificazione per cui ogni volta che
si è voluto ascrivere una certa prerogativa al cittadino europeo, lo si è detto
esplicitamente (cfr. il capo sulla cittadinanza) si deve intendere anche il
residente «stabile» nell’Unione. Trattandosi di prestazioni di natura
assistenziale e collegate ad un bisogno effettivo del soggetto ogni
restrizione irragionevole e non giustificata appare illegittima, anche se la
norma va ovviamente coordinata con le disposizioni sulla libertà di
circolazione e di stabilimento, soprattutto a fini lavorativi. Si tratta di una
previsione contenuta nel titolo dei diritti della «solidarietà», come altre
tipiche pretese del lavoro e della sicurezza sociale, ma il collegamento così
stretto con il concetto di dignità della persona conferisce alla stessa un più
ampio spettro di rilevanza. Va anche osservato che il titolare della
prestazione è il singolo soggetto che non «dispone di risorse sufficienti»: la
dimensione cui guardare è quella strettamente individuale e non anche le
complessive condizioni reddituali e patrimoniali della famiglia cui
appartiene il soggetto, dovendo la norma tutelare, attraverso l’intervento
pubblico, la dignità di un soggetto in quanto tale, senza abbandonarlo alla
carità familiare.

Le spiegazioni alla Carta indicano come prima fonte della pretesa l’art. 10
della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali del 1989 «le persone
escluse dal mercato del lavoro o perché non hanno potuto accedervi o
perché non hanno potuto reinserirvi e che sono prive di mezzi di
sostentamento devono poter beneficiare di prestazioni e di risorse
sufficienti adeguate alla loro situazione personale». Nella Carta dei diritti Ue
è stata rimossa l’implicazione tra il diritto previsto e la condizione di
«lavoratore», anche sotto il profilo dei presupposti per le prestazioni
richieste. Dalla norma della Carta si evince solo la necessità di un means
text cioè di un accertamento di una condizione di rischio di esclusione
sociale o di povertà (che l’Unione combatte attraverso il diritto in
questione), nella Carta del 1989 invece il presupposto sembra poter
consistere nella dimostrazione di essere disoccupati involontari o soggetti
che non riescono a trovare un’attività lavorativa. La norma della Carta di
Nizza si allontana di molto dallo scenario strettamente lavoristico del Testo
del 1989, attraverso la connessione alla dignità «di base» dell’individuo in
quanto tale, in una logica universalistica più ampia ed inclusiva. L’altra
fonte è l’art. 30 della Carta sociale revisionata che così recita: «Diritto alla
protezione contro la povertà e l’emarginazione sociale. Per assicurare
l’effettivo esercizio del diritto alla protezione contro la povertà e
l’emarginazione sociale le Parti si impegnano: a) prendere misure
nell’ambio di un approccio globale e coordinato per promuovere l’effettivo
accesso al lavoro, all’abitazione alla formazione professionale,
all’insegnamento, alla cultura, all’assistenza sociale e medica delle persone
che si trovano o rischiano di trovarsi in situazione di emergenza sociale o di
povertà e delle loro famiglie. A riesaminare queste misure in vista del loro
adattamento se del caso». La mancanza di un punto di appoggio al concetto
di «esistenza dignitosa», che vanta un’elaborazione giurisprudenziale
piuttosto ampia soprattutto ad opera del Tribunale costituzionale tedesco
che rifluisce nelle nozioni europee, rende la formulazione piuttosto vaga e
la confina in un ambito di tutela «minimalistica» ed emergenziale che invece
sembra estranea al diritto come riconosciuto nel Testo varato a Nizza nel
2000.

Nell’assenza di una disciplina di attuazione dell’Unione (che secondo
l’opinione prevalente avrebbe come base giuridica l’art. 153, lett. h)
sull’integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro) la
giurisprudenza della Corte di giustizia ha già trattato del RMG in numerose
decisioni e richiamato in particolare l’art. 34, co. 4 della Carta nella
sentenza Kamberay (C. giust., 14.4.2012, C-571/10, Kamberaj c. Ipes Bolzano)
ma solo per stabilire la legittimità nelle condizioni di accesso al RMG
stabilite dagli Stati, precisando – ad esempio – quando si può affermare che
un lavoratore comunitario migrante in altro Stato perda il diritto a godere
del beneficio o se sia legittimo stabilire requisiti di anzianità di residenza
troppo severi che potrebbero discriminare lavoratori che hanno esercitato
il loro diritto alla libertà di circolazione. Pertanto il controllo della Corte di
giustizia è limitato, allo stato, al profilo della non discriminazione da parte
di uno Stato di soggetti che legittimamente lavorano sul loro territorio.

4. LE POLICIES EUROPEE
L’Unione ha da tempo individuato il RMG come una policy da connettersi
strettamente alle altre politiche occupazionali e di crescita che i Trattati
contemplano da decenni ma, molto più chiaramente, da quanto il Trattato
di Amsterdam ha introdotto un capitolo sociale ad hoc. Gli strumenti
adottati per implementare queste politiche sono, però, in genere quelli
propri del metodo di coordinamento aperto e cioè atti di indirizzo,
raccomandazioni, scambio di informazioni e promozione di best practises per
raggiungere gli obiettivi comunemente stabiliti. Ora, poco prima dell’inizio
dei negoziati che portarono all’approvazione del Trattato di Maastricht,
l’allora Presidente della Commissione europea Jacques Delors tentò di far
approvare una Direttiva che obbligasse tutti gli Stati ad adottare schemi di
RMG, ma senza riuscirvi. L’idea era quella di coniugare l’intensificazione
dei legami economici tra i paesi membri con l’approntamento
di standards minimi di trattamento di natura sociale, si da impedire il
pericolo di un social dumping tra paesi membri, cioè una concorrenza sleale
nell’abbassare le tutele sociali onde attirare gli investimenti. Si riuscì,
tuttavia, ad emanare una storica raccomandazione, la n. 441/92 che ancora
rappresenta un punto di riferimento essenziale in materia. La
Raccomandazione (reiterata nel 2008 in piena crisi economica) in primo
luogo invita tutti gli Stati ad introdurre questo istituto ed offre precisi
paradigmi di ordine quantitativo e qualitativo per determinarne i contorni
precisi. Sintetizzando le indicazioni delle due Raccomandazioni, delle due
Risoluzioni del Parlamento europeo di cui parleremo più avanti ed i
risultati complessivamente raggiunti in sede di metodo aperto di
coordinamento: il RMG non può essere inferiore al 60% del reddito
mediano da lavoro dipendente valutato per ciascuno Stato; oltre
all’erogazione monetaria il beneficiario deve essere eventualmente
sostenuto nelle spese per l’affitto ed aiutato con forme di tariffazione
agevolata nell’accesso ai servizi pubblici essenziali (luce, gas etc.); infine
anche per le spese impreviste ed eccezionali serve un aiuto pubblico in
quanto il soggetto povero o a rischio di esclusione sociale si troverebbe
nell’impossibilità di coprirle. Servizi sociali e servizi per l’impiego devono
accompagnare le persone assistite in un percorso di reinserimento.

Due Risoluzioni del Parlamento europeo del 6.5.2009 e del 21.10.2010,
relative proprio al tema dell’RMG, hanno ulteriormente chiarito i contenuti
del diritto, con un richiamo stringente alle disposizioni della Carta UE. La
prima delle Risoluzioni insiste in particolare sul rapporto tra reddito
minimo e lotta all’esclusione sociale, sottolineando la possibile non
coerenza tra l’individuazione da parte di organi pubblici di un percorso di
reinserimento lavorativo e situazioni di acuto disagio sociale da trattare
prioritariamente attraverso i servizi sociali e non a mezzo degli uffici di
collocamento. La seconda, approvata quasi all’unanimità, ricorda che «la
dignità è un principio fondante dell’Unione europea», e che si tratta di
garantire ad ogni cittadino la «possibilità di partecipare pienamente alla vita
sociale, culturale e politica». Conseguentemente le misure concesse degli
Stati devono essere «adeguate» e giustificate secondo indicatori «affidabili e
pertinenti»; le politiche in corso di aggiustamento dei conti pubblici non
possono pregiudicare il diritto in questione. Di qui l’invito alla
Commissione e agli Stati membri «a esaminare in che modo i diversi
modelli non condizionali e preclusivi della povertà per tutti, possano
contribuire all’inclusione sociale, culturale e politica, tenuto conto in
particolare del loro carattere non stigmatizzante». La Risoluzione insiste
sulle fonti internazionali e su quelle dell’Unione che configurano l’RMG
come un diritto sociale fondamentale: sembra così evidente che, alla luce
della Risoluzione, sarebbero illegittime tutte le forme di erogazione del
reddito che finiscano con il mortificare quella dignità essenziale della
persona che con l’istituto si vuole invece salvaguardare come il
condizionamento dell’aiuto previsto all’accettazione di lavori che non siano
coerenti con il bagaglio professionale ed il curriculum di studio della persona
o l’imposizione di controlli umilianti. Ma a spingere verso efficienti forme
di RMG è stata anche l’esperienza del cosidetto «metodo aperto di
coordinamento, MAC », il dialogo tra stati ed Unione attraverso la
definizione di obiettivi comuni a lungo termine e lo scambio delle best
practises in materia sociale. Nelle procedure del MAC sono state privilegiate
le esperienze, soprattutto scandinave (ma non solo), che hanno compiuto il
salto in un sistema di flexicurity nel quale la garanzia di un reddito minimo
garantito (nella duplice forma della assicurazione per tutti dei mezzi
necessari a un’esistenza libera e dignitosa e di sostegno al reddito tra un
impiego e un altro) è uno dei pilastri del rinnovamento e
dell’universalizzazione degli apparati del welfare state, accanto al diritto alla
formazione permanente e continua e all’acceso a gratuiti ed efficaci servizi
di collocamento. Nel dicembre 2007 si è poi avuta l’approvazione di alcuni
principi comuni di flexicurity che contemplano il diritto a un reddito minimo
sia nelle fasi di transizione da un'occupazione a un’altra sia per assicurare ai
più bisognosi un'esistenza dignitosa. Da quella data le politiche
dell’occupazione dei singoli Stati (che vengono coordinate a livello
europeo) devono indicare in che modo rispettano i principi comuni e quali
sono i percorsi che stanno seguendo per valorizzarli. I principi
di flexicurity devono anche guidare l’Unione e i Paesi membri nel perseguire
gli obiettivi della «Strategia 2020» che ha sostituito nel Giugno 2010 la
vecchia Lisbon Agenda. Nella nuova strategia, ai vecchi targets, si è aggiunto
un obiettivo inedito e concernente direttamente il tema in discorso della
riduzione di almeno di 20 milioni a rischio di povertà o di esclusione
sociale. Per raggiungere quest’ultimo obiettivo il RMG diventa strumento
essenziale essendo l’unica misura in grado di incidere direttamente ed in
tempi brevi sul livelli di povertà e sul rischio di esclusione sociale.
Certamente questi anni di crisi hanno condotto molti Stati ad accentuare i
meccanismi di condizionamento della misura, ma nel complesso si deve
sottolineare che la Commissione non ha mai richiesto ad alcun paese di
rendere meno generose le prestazioni di RMG (anzi ha invitato
costantemente Grecia ed Italia ad introdurre una misura del genere) e che
neppure gli Stati in default come il Portogallo e l’Irlanda lo hanno fatto (anzi
le hanno leggermente incrementate), il che testimonia il fortissimo
radicamento nelle politiche sociali europee del principio di una tutela dei
«minimi vitali».

5. L’ITALIA ED IL RMG
Nessuna norma della nostra Costituzione prevede direttamente o
indirettamente un RMG, posto che l’art. 38 al suo primo comma prevede
«il diritto al mantenimento e all’assistenza sociale» per i soli inabili al lavoro
ed il comma successivo assegna ai soli «lavoratori» «mezzi adeguati di vita
in caso di …disoccupazione involontaria». Tuttavia, il riferimento in
numerosi articoli della Carta al concetto di dignità della persona e di
esistenza libera e dignitosa (come all’art. 36) ha condotto i commentatori a
ritenere che una prestazione del genere sia non solo compatibile con
l’impianto costituzionale, ma anche costituzionalmente necessaria,
soprattutto in relazione alla condizioni occupazionali italiane (Tripolina,
C., Il diritto a un’esistenza libera e dignitosa., Torino, 2013). Già Costantino
Mortati negli anni ‘50 vedeva nella garanzia dei «mezzi vitali» una forma di
risarcimento per la mancata attuazione del diritto al lavoro di cui parla l’art.
4.

Dopo le conclusioni del Rapporto della Commissione Onofri voluta dal
primo governo Prodi nel 1998, che aveva individuato un vistoso ritardo nel
nostra paese nella lotta all’esclusione sociale ed una mancanza di
universalità degli istituti del nostro welfare, si ebbe il primo tentativo di
istituzione in Italia di una sorta di RMG (realizzato con il d.lgs. n.
18.6.1998, n. 237). In via sperimentale in alcune zone particolarmente
disagiate della penisola fu avviato il nuovo istituto del reddito minimo di
inserimento, prestazione di 390.000 lire per soggetti a rischio di esclusione
sociale, misura poi accantonata dopo il cambio di maggioranza nel 2001.
Una nuova misura, cupamente definita «reddito di ultima istanza», è stata
poi annullata, prima ancora di decollare sul piano operativo, dalla sentenza
della Corte costituzionale, 29.12.2004, n. 423.

Il cammino verso gli standard europei deve però salvaguardare la
ripartizione di competenze tra Stato e Regioni conseguente alla riforma in
senso federalista del nostro ordinamento costituzionale, che, attribuendo
alle seconde la materia assistenziale, sembrerebbe lasciare allo Stato il
compito di determinare «i livelli essenziali delle prestazioni» e, forse, anche
i presupposti di ordine generale per la loro erogazione e per la loro revoca,
riservando alle Regioni uno spazio importante per una più puntuale
regolamentazione della materia e per il coordinamento con altre misure di
promozione dell’inclusione sociale. La giurisprudenza della Corte
costituzionale non offre, allo stato, indicazioni univoche anche se la
sentenza, 11.1.2010, n. 10 sembra convalidare la tesi che lo Stato non può
abdicare al compito di fissare il livello dei «minimi vitali». In tale decisione
la Corte, sulla cd. social card, ha precisato che la stessa è mirata a «assicurare
effettivamente la tutela di soggetti i quali, versando in condizioni di
estremo bisogno, vantino un diritto fondamentale che, in quanto
strettamente inerente alla tutela del nucleo irrinunciabile della dignità della
persona umana … deve poter essere garantito su tutto il territorio
nazionale in modo uniforme, appropriato e tempestivo».

In questi ultimi anni solo alcune Regioni hanno, in realtà, tentato di
fronteggiare l’anomalia italiana cercando di offrirsi come terminale delle
inascoltate guidelines dell’Unione europea, nel quadro quindi di una
sussidiarietà verticale anche in materia sociale.

Dopo i tentativi – oggi revocati – della Campania e poi del Friuli Venezia
Giulia (e una parziale sperimentazione della Lucania) è stata la Regione
Lazio ad adottare la legge n. 4/ 2009 di «Istituzione di un reddito minimo
garantito». Tale provvedimento (non abrogato ma non rifinanziato per il
2011) ha cercato di coniugare un sostegno monetario con forme di
tariffazione sociale (seguendo le indicazioni della Carta di Nizza, richiamata
nelle premesse della legge).

Il fulcro della legge della Regione Lazio risiede negli artt. 3 e 4 che
prevedono a favore di disoccupati, inoccupati, lavoratori precari con un
reddito personale imponibile non superiore a 8 mila euro nell’anno
precedente la presentazione dell’istanza, l’erogazione di somme non
superiori ai 7 mila euro annui (per i lavoratori precari in una misura che
adegui quanto percepito sino alla soglia prima indicata). L’art. 6 indica, poi,
alcune forme di sostegno come un contributo all’acquisto di libri scolastici
o per l’affitto, la circolazione gratuita sui mezzi pubblici. Ai sensi dell’art. 6
si perde il diritto alla prestazione ove si rifiuti una proposta di impiego
coerente con il salario precedentemente percepito, la professionalità
acquisita, la formazione ricevuta e il riconoscimento delle competenze
formali e informali in possesso del soggetto. Anche la provincia di Trento
ha adottato una forma locale di RMG, ancora operante. Attualmente, sono
pendenti in Parlamento numerose proposte di legge che si ispirano alla
Carta di Nizza ed alle indicazioni sovranazionali che abbiamo prima
sintetizzato.

FONTI NORMATIVE
Art. 34, co. 3, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; art. 10
Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori; art. 30
Carta sociale europea.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
AA.VV, La democrazia del reddito universale, Roma, 1997; Bin- Italia, a cura
di, Reddito minimo garantito. Un progetto necessario e possibile, Torino, 2012; Bin-
Italia, a cura di, Reddito per tutti. Un’utopia concreta per l’età globale, Roma, 2009;
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