Peter Behrens educatore e Gestalter del XX secolo - la rivista di engramma aprile 2019

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la rivista di engramma
                                 aprile 2019
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                   Peter Behrens
                   educatore e Gestalter
                   del XX secolo

edizioniengramma
Peter Behrens
educatore
e Gestalter
del XX secolo
a cura di Giacomo Calandra di Roccolino
e Christian Toson

edizioniengramma
direttore
monica centanni

redazione
sara agnoletto, mariaclara alemanni,
maddalena bassani, elisa bastianello,
maria bergamo, emily verla bovino,
giacomo calandra di roccolino, olivia sara carli,
silvia de laude, francesca romana dell’aglio,
simona dolari, emma filipponi,
francesca filisetti, anna fressola,
anna ghiraldini, laura leuzzi, michela maguolo,
matias julian nativo, nicola noro,
marco paronuzzi, alessandra pedersoli,
marina pellanda, daniele pisani, alessia prati,
stefania rimini, daniela sacco, cesare sartori,
antonella sbrilli, elizabeth enrica thomson,
christian toson

comitato scientifico
lorenzo braccesi, maria grazia ciani,
victoria cirlot, georges didi-huberman,
alberto ferlenga, kurt w. forster, hartmut frank,
maurizio ghelardi, fabrizio lollini,
paolo morachiello, oliver taplin, mario torelli

La Rivista di Engramma
a peer-reviewed journal
164 aprile 2019
www.engramma.it

sede legale
Engramma
Castello 6634 | 30122 Venezia
edizioni@engramma.it

redazione
Centro studi classicA Iuav
San Polo 2468 | 30125 Venezia
+39 041 257 14 61

© 2019
edizioniengramma

ISBN   carta 978-88-94840-88-9
ISBN   digitale 978-88-94840-59-9

L’editore dichiara di avere posto in essere le
dovute attività di ricerca delle titolarità dei diritti
sui contenuti qui pubblicati e di aver impegnato
ogni ragionevole sforzo per tale finalità, come
richiesto dalla prassi e dalle normative di settore.
Sommario

  7   Peter Behrens educatore e Gestalter del XX secolo. Editoriale
      Giacomo Calandra di Roccolino e Christian Toson
 11   Behrens als Erzieher
      Hartmut Frank
35    Sull’attualità di Peter Behrens
      Pierre-Alain Croset
43    On the Continued Relevance of Peter Behrens
      Pierre-Alain Croset
53    Theater des Lebens
      Marco De Michelis
67    Collaboratori, allievi ed epigoni di Peter Behrens
      Giacomo Calandra di Roccolino
89    Un incontro incisivo
      Monika Isler Binz
103   Peter Behrens alla V Triennale di Milano, 1933
      Silvia Malcovati
131   Der „Geist des Archimedes“
      Herman van Bergeijk
Sull’attualità di Peter Behrens
Pierre-Alain Croset

Non da specialista di Behrens, ma da architetto interessato a riflettere sulla
sua attualità mi chiedo: perché ancora oggi, a 150 anni dalla sua
nascita, ci interessiamo alla sua figura di artista e di intellettuale, e non
solo alle sue opere? Cosa possiamo imparare da Behrens, oggi?

Come docente di progettazione architettonica insisto molto sui modi con i
quali noi architetti impariamo dalle idee architettoniche espresse da altri
architetti, nei loro progetti ed edifici. Ho iniziato a riflettere
sistematicamente su questo metodo di apprendimento negli anni in cui

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insegnavo alla TU Graz (1997-2002), ed ero responsabile, come Professor
     für Baukunst, dell’insegnamento sia di storia dell’architettura, sia
     di progettazione. Il piano degli studi mi obbligava a tenere nel primo anno
     lezioni dedicate sia alla storia antica dagli Egizi ai Greci e ai Romani, sia
     alla storia moderna e contemporanea – da Brunelleschi a Le Corbusier.
     Come selezionare gli argomenti? Per fortuna, insegnava a Graz negli stessi
     anni Karin Wilhelm, un’eccellente storica dell’arte, esperta delle
     avanguardie e della Bauhaus, che dedicava il suo corso alla storia dei
     contesti culturali generali nei quali si erano sviluppate le principali correnti
     della modernità architettonica. Il mio insegnamento poteva quindi essere
     complementare del suo, e decisi di associare nelle mie lezioni la lettura
     storiografica di una serie di ‘grandi edifici’ (i cosiddetti ‘capolavori’) della
     storia alle interpretazioni elaborate dagli architetti contemporanei. In
     questo modo, intendevo trasmettere agli studenti la passione per lo studio
     della storia, illustrando per esempio come Le Corbusier avesse studiato le
     domus di Pompei per fondare le proprie teorie dello spazio moderno
     esplicitate in Vers une architecture, oppure come Louis Kahn fosse stato
     ispirato dall’osservazione della cattedrale di Albi, trascritta in memorabili
     schizzi.

     In questo contesto, la figura di Peter Behrens compariva solo una volta,
     con l’AEG Turbinenfabrik (1909), che analizzavo secondo l’interpretazione
     canonica di un moderno ‘Tempio dell’industria’. Alla domanda del perché
     egli avesse voluto connotare la fabbrica con l’immagine sacrale di un
     tempio, la mia collega Karin Wilhelm poteva aiutare gli studenti a
     rispondere con le sue lezioni sul contesto culturale-politico di Berlino e sui
     dibattiti interni al Deutscher Werkbund. La mia lezione era invece
     focalizzata sul come Behrens fosse riuscito a ottenere una nuova, diversa e
     originale, forma architettonica, capace di evocare un tempio senza
     rinunciare alle necessità di funzionalità e razionalità costruttiva proprie di
     un moderno edificio industriale. La mia priorità era di far prendere
     coscienza agli studenti di quale fosse la strategia progettuale di Behrens:
     con quali procedimenti compositivi riusciva a creare nell’osservatore una
     sensazione di massa, di possente corporeità in un edificio in acciaio e
     ferro? È ben noto come Behrens attribuisse un ruolo decisivo al
     pesante angolo reclinato in muratura, che non ha funzione portante ed è

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quindi un falso in termini di razionalità costruttiva: un falso, ma del tutto
necessario per poter ottenere la caratteristica immagine di forza per la
quale l’edificio è diventato famoso.

Nel suo eccellente studio critico Peter Behrens and a New Architecture for
the 20th Century, pubblicato nel 2000, Stanford Anderson discute la
ricezione critica della AEG Turbinenfabrik. Partendo dall’opinione corrente
che questo famoso edificio sia “opera paradigmatica”, Anderson si chiede
in cosa consista questa paradigmaticità, evidenziando quanto
contraddittorie risultino le diverse opinioni. Mentre Nikolaus Pevsner, nel
1936, afferma che “il risultato è un’opera di pura architettura”, Henry-
Russell Hitchcock nel 1960 interpreta l’edificio come “un capolavoro di
schietta architettura industriale”. James Maude Richards nel 1953
considera la fabbrica come il primo esempio di architettura
autenticamente moderna, perché “offre una soluzione razionale al
problema tipico dell’industria moderna e fa un uso appropriato di materiali
come acciaio e vetro”. Sigfried Giedion nel 1949 si pone sulla stessa
linea di Pevsner, ma aggiunge un’osservazione sul ruolo sociale della
fabbrica: “Behrens consapevolmente trasformò lo stabilimento in una
dignitosa sede dell’attività umana”. All’opposto, in seguito alla crisi della
modernità emersa con la seconda Guerra Mondiale, il critico svizzero Peter
Meyer, direttore della rivista “Das Werk”, attaccò violentemente nel 1940
l’espressione artistica della Turbinenfabrik:

   Die Turbinenhalle der AEG in Berlin-Moabit wurde zu ihrer Zeit als
   epochemachend empfunden, man sah in ihr den Inbegriff einer modernen
   Zweckarchitektur des Maschinenzeitalters. Gebrannte Kinder, sind wir heute
   hellhöriger für Schlagwörter geworden, und wir fühlen das falsche Pathos der
   ägyptisch-wuchtigen Stilisierung selbst noch in der scheinbaren
   «Schlichtheit» dieser Maschinenhalle. Oder genauer gesagt: es ist echtes
   Pathos am falschen Ort, sakrale Verherrlichung der Maschine – also
   Götzendienst.

   Ai suoi tempi, la fabbrica di turbine della AEG era considerata un’opera
   epocale: in essa si vedeva l’epitome di un’architettura funzionale moderna
   dell’età della macchina. Oggi, con le dita bruciate, abbiamo orecchie più
   affilate per gli slogan; percepiamo il falso pathos della ponderosa

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stilizzazione egiziana anche nell’apparente ‘semplicità’ di questa officina
        meccanica. O, più precisamente: è pathos genuino nel posto sbagliato, sacra
        glorificazione della macchina; cioè, idolatria (Meyer 1940, 163).

     La conclusione di Anderson è che Behrens si preoccupò certamente più di
     “glorificazione della macchina” che di “franca architettura industriale”:

        La sua preoccupazione era piuttosto quella di elevare una forza sociale così
        dominante come la fabbrica al livello di standard culturali stabiliti. Ciò che
        rende il suo lavoro interessante e importante, indipendentemente dalla
        qualità della realizzazione effettiva, è che ha compreso che gli standard
        culturali stabiliti devono essere trasformati nel processo di assimilazione
        dell’industria moderna (Anderson 2002, 32).

     Riflettere sull’attualità del pensiero di Behrens significa in primo luogo
     riflettere sulla sua modernità, che non è quella di un pioniere radicale. Ci
     sono molti edifici, realizzati negli stessi anni, che appaiono più
     radicalmente moderni di quelli famosi realizzati da Behrens sotto diversi
     aspetti: nell’uso di nuovi materiali come il calcestruzzo e il vetro,
     nell’affermazione di un nuovo linguaggio astratto, nell’innovazione
     tipologica e distributiva, nella sperimentazione di nuove metodologie
     progettuali. Per esempio, le officine Fagus di Walter Gropius e Adolf Meyer
     (1911), in confronto alla Turbinenfabrik di Behrens, affermano valori di
     elegante leggerezza, grazie all’angolo svuotato, interamente vetrato. Altro
     esempio, l’edificio amministrativo Mannesmann a Düsseldorf (1910-12),
     interessante per la rigorosa e razionale organizzazione degli uffici,
     secondo una stretta logica modulare, appare tradizionalista se paragonato
     con gli innovativi spazi lavorativi open space del Larkin Building di Frank
     Lloyd Wright (1903-1905). Oppure la casa ad appartamenti nella
     Weissenhofsiedlung di Stoccarda (1927), poco innovativa tipologicamente
     se comparata con le rivoluzionarie soluzioni di pianta flessibile proposte
     da Le Corbusier e da Mies van der Rohe nello stesso contesto.

     La modernità di Behrens che più ci interessa oggi pone al centro della
     nostra attenzione le questioni della Forma e dello Spazio: A questi due
     aspetti sono dedicati alcuni studi critici recenti, in particolare quelli
     raccolti nel libro Peter Behrens maestro di maestri, pubblicato nel 2011.
     Nel saggio intitolato La giusta forma, Silvia Malcovati propone

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un’interessante lettura incrociata di alcuni testi teorici di Behrens e di
alcuni principi formali usati nella sua opera architettonica. L’attenzione di
Behrens per la questione della Forma sembra riferirsi agli studi
contemporanei di Erwin Panofsky, Henri Focillon o George Kubler, mentre
in realtà, come ben precisa Silvia Malcovati, “Behrens non conosceva
[questi studi] in termini scientifici […] ma di fatto [li] praticava
apertamente” (Malcovati 2011, 77). È possibile riconoscere una chiara
evoluzione della ricerca di Behrens sulla Forma, che la studiosa interpreta
come

   […] passaggio dalla geometria piana a quella tridimensionale, dal problema
   del rivestimento a quello della costruzione dello spazio architettonico, dalla
   questione dell’edificio a quella della sua relazione con lo spazio urbano”
   (Malcovati 2011, 81).

Questa interessante interpretazione è sviluppata ulteriormente da Hartmut
Frank nel saggio intitolato Dal piano allo spazio, che apre con una
citazione di Fritz Hoeber: “L’architettura è la ritmica incarnazione dello
spirito del tempo. L’architettura è la filosofia sensoriale dello spazio”
(Hoeber 1913, in Frank 2011, 131). Queste due frasi furono inserite da
Hoeber come motto in apertura della monografia dedicata nel 1913 a Peter
Behrens; Hartmut Frank dimostra in modo convincente come questa
monografia abbia segnato in modo decisivo una trasformazione della
posizione di Behrens:

   Da artista visivo, che lavora nelle due dimensioni, ad “artista dello spazio”
   […] ad architetto e creatore di forma, che si è aperto alla terza dimensione e
   progetta in questo senso volumi architettonici e spazi interni, mobili, utensili
   per la casa e prodotti industriali, nonché parchi ed ensemble urbani (Frank
   2011, 132).

Behrens è ricordato come uno dei primi industrial designer, capace di
progettare a tutte le scale, dedito a “dare forma” (gestalten in tedesco) a
oggetti e spazi. In questo concentrarsi sul ruolo di “ideatore di forma”,
Behrens è estraneo a ogni ruolo messianico o rivoluzionario, non si
impegna a favore di nuovi programmi, nuovi contenuti, nuovi stili di vita.

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Offre l’immagine di un artista che volutamente limita il campo della sua
     azione. È ancora una figura attuale quella di architetto che riduce il suo
     ruolo a questioni di Forma e Spazio?

     Anche l’immagine di Behrens come maestro, oggi è letta in termini diversi
     rispetto ai tempi in cui Gropius, Mies e Charles-Edouard Jeanneret (il futuro
     Le Corbusier) erano i suoi diretti collaboratori nello studio di
     Neubabelsberg. Tutti e tre hanno riconosciuto in varie testimonianze
     (citate in Anderson 2011; Cohen 2011; Neumeyer 2011) la loro grande
     ammirazione per Behrens come Maestro, ma anche il fatto che fosse
     odioso come uomo. Il giovane Jeanneret lo chiamava “l’orso Behrens”
     (Cohen 2011), descrivendolo nei seguenti termini in una lettera ai suoi
     genitori dell’11 novembre 1910:

        Un colosso, grande statura. Autocrate terribile, regime di terrorismo.
        Manifestazioni di brutalità. Tutto sommato, un tipo. Che io ammiro, del
        resto. Il mio masochismo si esalta a subire il morso, quando il capo ha
        questa levatura (Cohen 2011, 110).

     In un’altra lettera ai suoi genitori, del 25 novembre 1910, evidenzia la sua
     profonda frustrazione:

        Avevo sperato in un contatto frequente e fecondo con Behrens. Ma questo
        uomo è un orso malato perché scorbutico, collerico senza ragione, ed è così
        dalla mattina alla sera (Cohen 2011, 111).

     Molti anni dopo aver collaborato con lui, Mies van der Rohe riconobbe,
     invece, in un’intervista del 1961 con Peter Carter, di essergli debitore del
     modo di concepire il “senso della forma”:

        Peter Behrens aveva un formidabile senso della forma. Era il suo più
        importante interesse, e da lui ho imparato a conoscere e capire questo senso
        della forma (Neumeyer 2011, 124).

     Già nel suo illuminante saggio del 1960, Vittorio Gregotti si poneva la
     domanda:

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Che cosa ci ripromettiamo dalla nostra ricerca (che insegnamento per l’oggi,
   voglio dire) quando studiamo una figura come quella di Behrens tentando di
   portarne alla luce tutti gli aspetti anche i meno coerenti, anche i più
   contraddittori? (Gregotti 1960, 8).

Interessarsi a “tutti gli aspetti” di Behrens rimane forse oggi una chiave di
lettura fondamentale, se vogliamo tentare di interpretare la sua attualità e
la sua eredità. Behrens come “artista totale” dimostrò un’abilità unica nel
lavorare come pittore, grafico, tipografo, architetto, industrial designer,
ma anche come urbanista e come paesaggista.

Oggi, di fronte alle questioni drammatiche e urgenti legate alla
sopravvivenza del pianeta, per le quali architetti e designer sono chiamati
ad agire in condizioni radicalmente cambiate, ha senso citare Behrens
come un possibile modello? Probabilmente non servono più “artisti totali”,
capaci di esercitare da soli un’attività multiforme, mentre più che mai può
essere utile la lezione di Behrens sulla necessità di un approccio
multidisciplinare e aperto per “dare forma”: non più legato a una figura di
autore individuale, bensì motore di un lavoro di gruppo e di un’azione
necessariamente collettiva.

Bibliografia

Anderson [2000] 2002
S. Anderson, Peter Behrens 1868-1940 [Peter Behrens and a New Architecture for
the 20th Century, Cambridge MA 2000], MIlano 2002.

Anderson 2011
S. Anderson, Riflessioni su Peter Behrens. Interviste con Ludwig Mies van der Rohe e
Walter Gropius, in Malcovati, Moro 2011, 101-108.

Carter 1961
P. Carter, Mies van der Rohe. Auszugsweise Wiedergabe des Interviews, “Bauen und
Wohnen”, 16 (1961), 229-45.

Cohen 2011
J-L. Cohen, Le Corbusier di fronte all’“orso Behrens”, in Malcovati, Moro 2011,
109-116.

Frank 2011
H. Frank, Dal piano allo spazio, in Malcovati, Moro 2011, 131-142.

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Giedion [1949] 1954
     S. Giedion, Spazio tempo architettura. Lo sviluppo di una nuova tradizione [Space,
     Time and Architecture, 2d ed., Cambridge MA 1949], Milano 1954.

     Gregotti 1960
     V. Gregotti, Peter Behrens 1868-1940, “Casabella-continuità” 240 (1960), 5-8.

     Hitchcock 1960
     H-R. Hitchcock, Peter Behrens, in Encyclopedia of World Art, New York 1960, 2: col.
     413.

     Hoeber 1913
     F. Hoeber, Peter Behrens, München 1913.

     Malcovati, Moro 2011
     S. Malcovati, A. Moro (a cura di), Peter Behrens maestro di maestri, Milano 2011,

     Malcovati 2011
     S. Malcovati, La giusta forma, in Malcovati, Moro 2011, 77-84.

     Meyer 1940
     P. Meyer, Architektur als Ausdruck der Gewalt, “Das Werk”, 27 (1940), 160-164.

     Neumeyer 2011
     F. Neumeyer, Peter Behrens, Mies van der Rohe e la “grande forma”, in Malcovati,
     Moro 2011, 117-129.

     Pevsner [1936] 1999
     N. Pevsner, I pionieri dell’architettura moderna [Pioneers of Modern Design (1936),
     Harmondsworth 1960], Milano 1999.

     Richards [1940] 1960
     J.M. Richards, Introduzione all’architettura moderna [An Introduction to Modern
     Architecture, Harmondsworth 1940], Milano, 1960.

     English abstract

     Does it make sense to cite Behrens as a possible model, today? What can we learn
     from him? Through the analysis of past and recent interpretations of his work in all
     its aspects, from Pevsner to Richards, from Giedion and Hitchcock to Meyer, from
     Gregotti to Cohen, Anderson, Frank and Malcovati, this essay aims at focusing on
     Behrens’ relationship with issues like Modernity, Form, Shape and suggests that the
     lesson of a multidisciplinary approach to “giving shape” is the most useful one in an
     age, like ours, of group work and collective action.

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On the Continued Relevance of Peter
Behrens
Pierre-Alain Croset

Though not an expert on Peter Behrens, as an architect, I am interested in
reflecting on his continued relevance and wonder why, even today, 150
years after his birth, we continue to be interested, not only in his works,
but in the model of artist and intellectual his figure poses. What can we
learn from Behrens today?

In my teaching of architectural design, I emphasize the way that architects
learn from each other in their projects and buildings. I began to reflect
systematically on this process of learning during my teaching years at the

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Graz University of Technology (TU Graz, 1997-2002), where I was
     responsible, as Professor für Baukunst (Professor of Architectural History
     and Theory), for both teaching history of architecture and for leading
     design studios. The study plan for students required that, in the first year,
     I gave lectures dedicated to both ancient history, from Egyptian to Greco-
     Roman, and to modern and contemporary history, from Filippo
     Brunelleschi to Le Corbusier. It was, as one can imagine, a challenge to
     select topics. Fortunately Karin Wilhelm, an excellent art historian and
     expert on the historical avant-gardes and the Bauhaus, was teaching in
     Graz at the same time, and had dedicated her teaching to the general
     cultural contexts in which the main currents of architectural modernity had
     developed. My teaching could therefore be complementary to hers and I
     decided to associate my lectures on the historiographical reading of a
     series of “famous buildings” (the so-called “masterpieces”) with the
     interpretations elaborated by contemporary architects. In this way, I
     intended to instill passion for the study of history in Graz students,
     illustrating, for example, how Le Corbusier had studied the domus of
     Pompeii as a reference for his own theories of modern space explained in
     Vers une architecture (Towards an Architecture, 1923), or how Louis Kahn
     was inspired by his observations of the Albi Cathedral, transcribed in
     memorable sketches.

     In this context, the figure of Behrens appeared only once, with the AEG
     Turbine Factory (Berlin, 1909) which I analyzed as a canonical
     interpretation of a modern “temple of industry”. Asked why Behrens would
     have wanted to connote the factory with the sacred image of a temple, my
     colleague Karin Wilhelm helped students respond by teaching them
     Berlin’s cultural-political context and the internal debates within the
     Deutscher Werkbund. My lecture was instead focused on how Behrens
     managed to obtain an original architectural form capable of evoking a
     temple without renouncing the need for functionality and constructive
     rationality in a modern industrial building. My priority was to make
     students aware of Behrens’ design strategy: which compositional
     procedures can create a sensation of mass and powerful corporeality in a
     steel and iron building? It is well known that Behrens attributes a decisive
     role to the ‘heavy’ reclined corner in masonry, one which has no

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supporting function and is therefore a ‘fake’ in terms of constructive
rationality: this ‘forgery’ was nonetheless necessary to obtain the
characteristic image of strength for which the building is known.

In his excellent critical study Peter Behrens and a New Architecture for the
20th Century (2000), Stanford Anderson discusses the critical reception of
the AEG Turbine Factory. Starting from current opinion that this famous
building is a “paradigmatic work,” Anderson asks “paradigm[atic] of what?”
highlighting how contradictory the different opinions on Behrens are
(Anderson 2000, 27). While Nikolaus Pevsner states in 1936 that “the
result [of Behrens’ approach] is a pure work of architecture” (Pevsner
[1936] 1960, 203, as quoted in Anderson 2000, 27), in 1960, Henry-
Russell Hitchcock interprets the building as “a masterpiece of frank
industrial architecture” (Hitchcock 1960, as quoted in Anderson 2000, 27).
In 1953, J.M. Richards considers the factory the first example of
authentically modern architecture, “provid[ing] a rational solution to a
typically modern industrial problem; it makes logical use of modern
materials” (Richards 1953, 76, as quoted in Anderson 2000, 27) while in
1949, Sigfried Giedion had presented the same opinion as Pevsner, adding
insights about the social role of the factory: “Behrens consciously
transformed the factory into a dignified place of work” (Giedion
19492, 410, as quoted in Anderson 2000, 27).

Following the crisis of modernity that emerged with the Second World War,
in 1940 the Swiss critic Peter Meyer, editor of Das Werk magazine,
violently attacked the artistic expression of the Turbine Factory:

   Die Turbinenhalle der AEG in Berlin-Moabit wurde zu ihrer Zeit als
   epochemachend empfunden, man sah in ihr den Inbegriff einer modernen
   Zweckarchitektur des Maschinenzeitalters. Gebrannte Kinder, sind wir heute
   hellhöriger für Schlagwörter geworden, und wir fühlen das falsche Pathos der
   ägyptisch-wuchtigen Stilisierung selbst noch in der scheinbaren
   «Schlichtheit» dieser Maschinenhalle. Oder genauer gesagt: es ist echtes
   Pathos am falschen Ort, sakrale Verherrlichung der Maschine - also
   Götzendienst.

                     La Rivista di Engramma 164 aprile 2019                       45
In its time the Turbine Factory of the AEG was felt to be epoch-making: one
        saw in it the epitome of a modern functional architecture of the Machine
        Age. Today, with our fingers burned, we have sharper ears for slogans; we
        feel the false pathos of the ponderous Egyptian-like stylization even in the
        apparent ‘simplicity’ of this machine shop. Or, more specifically: it is
        genuine pathos in the wrong place, sacred glorification of the machine; that
        is, idolatry (Meyer 1940, 163, as quoted in Anderson 2000, 28).

     Anderson’s conclusion is that Behrens was more concerned with
     “glorification of the machine” than with “frank industrial architecture,” or
     as he writes:

        His concern was rather with elevating so dominant a societal force as the
        factory to the level of established cultural standards. What makes his work
        interesting and important, independent of the quality of the actual
        achievement, is that he understood that the established cultural standards
        must be transformed in the process of assimilating modern
        industry (Anderson 2000, 28).

     Reflecting on the continued relevance of Behrens means reflecting on the
     particular kind of modernity his approach proposed, one that was not that
     of a radical pioneer. There are many buildings, made in the same years as
     Behrens’ projects, that appear more radically modern whether in the use of
     new materials such as concrete and glass, in the affirmation of a new
     abstract language, in typological and distributive innovation, or in
     experimentation with new design methodologies. For example, when
     compared to Behrens’ Turbine Factory, the Fagus Factory (1911) by Walter
     Gropius and Adolf Meyer affirms values of elegant lightness thanks to its
     hollowed-out, fully glazed corner. Behrens’ Mannesmann administrative
     building in Düsseldorf (1910-12) is interesting for the rigorous and
     rational organization of its offices according to a strict modular logic,
     but it appears traditional if compared with the innovative work spaces of
     Frank Lloyd Wright’s Larkin Building (1903-1905). Similarly, Behrens’
     apartment house in the Weissenhofsiedlung (Weissenhof Estate) in
     Stuttgart (1927) pales as a case of typological innovation when compared
     with the revolutionary flexible plans proposed by Le Corbusier and Mies
     van der Rohe.

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Rather than focusing us on radical innovation, the modernity of Behrens
that most interests us today places the issues of form and space at the
center of our attention. Several recent critical studies have been dedicated
to this observation, in particular, a series of essays collected in the book
Peter Behrens, Maestro di Maestri (Peter Behrens: Master of Masters,
2011). In “La giusta forma,” Silvia Malcovati proposes an interesting cross-
reading of some theoretical texts by Behrens with some of the formal
principles used in his architectural work. Behrens’ attention to the
question of form seems to refer to the contemporary studies of Erwin
Panofsky, Henri Focillon or George Kubler, though in reality, as Malcovati
points out: “Behrens non conosceva [questi studi] in termini scientifici […]
ma di fatto [li] praticava apertamente” (Malcovati 2011, 77; “Behrens did
not know [these studies] in scientific terms [...] but as a matter of fact
practiced [them] openly”). It is possible to recognize a clear evolution of
Behrens’ research on form, which Malcovati interprets as:

   [un] passaggio dalla geometria piana a quella tridimensionale, dal problema
   del rivestimento a quello della costruzione dello spazio architettonico, dalla
   questione dell’edificio a quella della sua relazione con lo spazio urbano.

   a transition from plane geometry to a three-dimensional one, from the
   problem of the cladding to the construction of architectural space, from the
   question of the building to that of its relationship with the urban space
   (Malcovati 2011, 81).

This interesting interpretation is further developed by Hartmut Frank in his
essay “Dal piano allo spazio,” which opens with a quote by Fritz Hoeber:
“Architecture is the rhythmic incarnation of the spirit of the time.
Architecture is the sensory philosophy of space” (Hoeber 1913). These two
sentences were used by Hoeber as a motto at the beginning of his study
dedicated to Peter Behrens in 1913. Frank convincingly demonstrates how
Hoeber’s monograph decisively marked a shift in Behrens’ position:

   Da artista visivo, che lavora nelle due dimensioni, ad “artista dello spazio”
   […] ad architetto e creatore di forma, che si è aperto alla terza dimensione e
   progetta in questo senso volumi architettonici e spazi interni, mobili, utensili
   per la casa e prodotti industriali, nonché parchi ed ensemble urbani.

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From a visual artist, who works in two dimensions, to an “artist of space” [...]
        to an architect and creator of form, who opened up to the third dimension
        and in this sense designs architectural volumes and interior spaces,
        furniture, household tools and industrial products, as well as parks and
        urban ensembles (Frank 2011, 132).

     Indeed, Behrens is remembered as one of the first industrial designers,
     able to design on all scales, dedicated to ‘giving shape’ (gestalten, in
     German) to objects and spaces. In this focus on the role of ‘creator of
     form,’ Behrens is far from any messianic or revolutionary role: he does not
     commit to new programs, to new contents, or to new lifestyles. He offers
     the image of an artist who deliberately limits the scope of his action. Is
     such a figure of an architect reducing his role to questions of form and
     space still a relevant one?

     The question of the lesson of Behrens returns presenting itself in terms
     different to when Gropius, Mies and Charles-Edouard Jeanneret (the future
     Le Corbusier) were his direct collaborators in the atelier of Neubabelsberg.
     In various testimonies, all three architects expressed their great
     admiration for Behrens as a master, while also acknowledging he was a
     ‘hateful’ person (quoted in Anderson 2011, Cohen 2011, Neumeyer
     2011). The young Le Corbusier called him “the bear Behrens” (Cohen
     2011), describing him in a letter to his parents as:

        Un colosso, grande statura. Autocrate terribile, regime di terrorismo.
        Manifestazioni di brutalità. Tutto sommato, un tipo. Che io ammiro, del
        resto. Il mio masochismo si esalta a subire il morso, quando il capo ha
        questa levatura.

        A giant, large stature. Terrible autocrat, regime of terrorism. Demonstrations
        of brutality. All in all, a type. Which I admire, moreover. My masochism is
        exalted to undergo the bite, when the boss has this stature (Letter dated
        November 11, 1910, as quoted in Cohen 2011, 110).

     In another letter to his parents dated several weeks later, Le Corbusier
     highlights his profound frustration: “Avevo sperato in un contatto
     frequente e fecondo con Behrens. Ma questo uomo è un orso malato
     perché scorbutico, collerico senza ragione, ed è così dalla mattina alla

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sera”(“I had hoped for frequent and fruitful contact with Behrens. But this
man is a sick bear because he is grumpy, angry with no reason, and he is
like this from morning to night”, letter dated November 25, 1910 as
quoted in Cohen 2011, 111). In a 1961 interview with Peter Carter given
many years after his collaboration with Behrens, Mies van der Rohe
acknowledged that he owed the ‘master’ his way of conceiving “sense of
form”: “Peter Behrens aveva un formidabile senso della forma. Era il suo
più importante interesse, e da lui ho imparato a conoscere e capire questo
senso della forma” (“Peter Behrens had a formidable sense of form. It was
his most important interest, and from him I learned to know and
understand this sense of form”, Carter 1961, 240, as quoted in Neumeyer
2011, 124).

In an insightful essay written in 1960, Vittorio Gregotti already asked
himself the question:

   Che cosa ci ripromettiamo dalla nostra ricerca (che insegnamento per l’oggi,
   voglio dire) quando studiamo una figura come quella di Behrens tentando di
   portarne alla luce tutti gli aspetti anche i meno coerenti, anche i più
   contradditori?

   What do we promise ourselves from our research (which lesson for today, I
   mean) when we study a figure like Behrens trying to bring to light all the
   aspects, even the least coherent, even the most contradictory? (Gregotti
   1960, 8).

Taking an interest in “all the aspects” of Behrens is, in fact, a fundamental
key to understanding his continued relevance and legacy. As a ‘total
artist,’ Behrens demonstrated the unique ability to work as a painter,
graphic designer, typographer, architect, industrial designer, but also as
an urban planner and landscape architect. Faced with the dramatic and
urgent issues concerning the survival of the planet, architects and
designers today are called to act in radically changed conditions: does it
make sense to cite Behrens as a possible model?

It is less the model of the “total artist” capable of practising a multi-faceted
activity in isolation, that is important to contemporary architecture. It is
instead the lesson of a multidisciplinary and open approach to “giving

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shape” that can be useful to us today at a moment when we are no longer
     tied to the figure of the individual author, but are instead focused on the
     creative engine of group work and collective action.

     Bibliography

     Anderson 2000
     S. Anderson, Peter Behrens and a New Architecture for the 20th Century,
     Cambridge MA 2000.

     Anderson 2011
     S. Anderson, Riflessioni su Peter Behrens. Interviste con Ludwig Mies van der Rohe e
     Walter Gropius, in Malcovati, Moro 2011, 101-108.

     Carter 1961
     P. Carter, Mies van der Rohe. Auszugsweise Wiedergabe des Interviews, “Bauen und
     Wohnen”, 16 (1961), 229-45.

     Cohen 2011
     J-L. Cohen, Le Corbusier di fronte all’“orso Behrens”, in Malcovati, Moro 2011,
     109-116.

     Frank 2011
     H. Frank, Dal piano allo spazio, in Malcovati, Moro 2011, 131-142.

     Giedion 19492
     S. Giedion, Space, Time and Architecture, 2nd ed., Cambridge MA 1949.

     Gregotti 1960
     V. Gregotti, Peter Behrens 1868-1940, “Casabella-continuità” 240 (1960), 5-8.

     Hitchcock 1960
     H-R. Hitchcock, Peter Behrens, in Encyclopedia of World Art, New York 1960, 2: col.
     413.

     Hoeber 1913
     F. Hoeber, Peter Behrens, München 1913.

     Malcovati, Moro 2011
     S. Malcovati, A. Moro (eds), P. Behrens maestro di maestri, Milano 2011.

     Malcovati 2011
     S. Malcovati, La giusta forma, in Malcovati, Moro 2011, 77-84.

     Meyer 1940
     P. Meyer, Architektur als Ausdruck der Gewalt, “Das Werk”, 27 (1940), 160-164.

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Neumeyer 2011
F. Neumeyer, Peter Behrens, Mies van der Rohe e la “grande forma”, in Malcovati,
Moro 2011, 117-129.

Pevsner [1936] 1960
N. Pevsner, Pioneers of Modern Design [1936], Harmondsworth 1960.

Richards [1940] 1953
J.M. Richards, An Introduction to Modern Architecture, Harmondsworth 1953.

Abstract

Does it make sense to cite Behrens as a possible model, today? What can we learn
from him? Through the analysis of past and recent interpretations of his work in all
its aspects, from Pevsner to Richards, from Giedion and Hitchcock to Meyer, from
Gregotti to Cohen, Anderson, Frank and Malcovati, this essay aims at focusing on
Behrens' relationship with issues like Modernity, Form, Shape and suggests that the
lesson of a multidisciplinary approach to "giving shape" is the most useful one in an
age, like ours, of group work and collective action.

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la rivista di engramma
aprile 2019
164 • Peter Behrens educatore e Gestalter del XX secolo

Editoriale
Giacomo Calandra di Roccolino, Christian Toson
Behrens als Erzieher.
Einführung zum Colloquium im Warburg-Haus Hamburg am 13. April 2018
Hartmut Frank
Sull’attualità di Peter Behrens | On the Continued Relevance of Peter Behrens
Pierre-Alain Croset
Theater des Lebens
Marco De Michelis
Collaboratori, studenti ed epigoni di Peter Behrens
Giacomo Calandra di Roccolino
Un incontro incisivo.
Karl Schneider nell’atelier di Peter Behrens (1915-1916)
Monika Isler Binz
Peter Behrens alla V Triennale di Milano, 1933
Silvia Malcovati
Der „Geist des Archimedes“.
Die Bedeutung von Peter Behrens für die Holländische Architektur
Herman van Bergeijk

€ 12 i.i.
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