Partiti politici, forma di governo e forma di Stato (di democrazia pluralista)

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Partiti politici, forma di governo
           e forma di Stato (di democrazia pluralista)
                                     di Silvio Gambino

  1. Partiti politici, forma di Stato e forma di governo. Note metodologiche e
sottolineature problematiche per una introduzione al tema
   Per chiunque voglia seguirla nelle stesse declinazioni teorico-costituzionali, fin dai
primi anni ’70 del secolo scorso è disponibile un’approfondita analisi teorica sulla
natura giuridica e sulla trasformazione dei partiti politici, e sui condizionamenti delle
istituzioni rappresentative e di governo conseguiti dagli stessi, in breve sui rapporti
fra rappresentanza politica, democrazia partecipativa e democrazia di partito. Ne
proponiamo qui una breve sintesi prima di procedere nell’analisi delle evoluzioni più
recenti della forma-partito e della relativa crisi.
   La rilevanza dei partiti politici nell’ordinamento costituzionale – cresciuta nel
tempo in ragione dello sviluppo delle relative funzioni – oltre che nell’ambito
associativo – nelle attività a rilevanza pubblicistica degli stessi, nonché della stessa
capacità di incidere sull’intera impalcatura costituzionale dello Stato contemporaneo
– costituisce ormai un dato pienamente condiviso dalla dottrina costituzionale italiana
e, più in generale, da quella europea (a partire dalle analisi del Triepel, negli anni
’20).
   Tale orientamento pone termine a una lunga e contrastata evoluzione in cui si sono
confrontate due opposte correnti di pensiero, una che individuava nel partito politico
la natura di associazione privata (venendo disciplinato sotto il profilo civilistico dagli
artt. 36-39 c.c.) e l’altra che, al contrario, ne coglieva una natura a rilevanza
pubblicistica, di organo o quasi-organo dello Stato.
   Più di recente, anche in ragione dell’instabilità e della difficoltà dei governi a darsi
indirizzi politici stabili e coesi e per il persistere della crisi istituzionale, la questione
si ripropone anche come questione di politica costituzionale, orientata alla ricerca di
soluzioni (più o meno radicali) di riforma.

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   In tale ultimo approccio rilevano sia le questioni inerenti al partito (individuato
come singolo e come sistema), al posto e al ruolo occupati nel sistema costituzionale,
alla questione della sua democraticità interna, sia i relativi rapporti con le istituzioni
costituzionali di governo e gli stessi ripensamenti della dottrina costituzionale in
materia, chiamata a riflettere sullo stesso metodo giuridico-costituzionale utilizzato al
fine di renderlo più adeguato alla comprensione delle complesse fenomenologie delle
forme di stato e di governo contemporanee.
   L’orientamento dottrinario orientato a sottolineare nel sistema dei partiti – oltre
all’elemento del ‘concorso’ nella definizione delle politiche nazionali (art. 49 Cost.) –
un processo (complesso, dialettico e giuridicamente incompiuto) di trasformazione
dell’originario modello della democrazia rappresentativa, si afferma embrionalmente
nei primi anni ’20 e pienamente a partire dagli anni ’40, trovando linee di riflessione
comune alla dottrina costituzionale tradizionale e a quella che potremmo definire ‘più
moderna’.
   È trascorso ormai più di una metà di secolo da quando, in Italia, V.E. Orlando,
costituzionalista di formazione classica, si era cimentato (in particolare in uno dei
suoi ultimi scritti) in un tentativo – rimasto incompiuto – di sistemazione
metodologica dei partiti politici all’interno della scienza costituzionale, riconoscendo
la necessità di avviare uno studio finalizzato ad elaborare una nuova teoria dei partiti
che potesse servire per una più adeguata comprensione del mutamento profondo nella
vita degli Stati contemporanei.
   Nella sua analisi, egli sottolineava con lucidità – registrandone pienamente l’effetto
dirompente rispetto all’organizzazione costituzionale dei poteri esistente – il ruolo
significativo che andava assumendo lo sviluppo dei partiti nella profonda
trasformazione della struttura dei regimi politici e della stessa forma dello Stato
moderno (e contemporaneo).
   Nella stessa direzione, qualche anno più tardi, introducendo un omologo studio sul
‘partito nello ordinamento giuridico’ – destinato a divenire un classico nello studio
dei rapporti fra partiti politici ed ordinamento costituzionale – Pietro Virga osservava
che “sia che i partiti siano assurti ad elementi costitutivi del sistema di governo
(‘Stato di partiti’), sia che un unico partito abbia informato ai suoi princìpi lo stesso
ordinamento dello Stato divenendone l’elemento motore (‘Stato-partito’), non si può
negare che, parallelamente allo sviluppo ed all’organizzazione dei partiti, si sia
profondamente mutata la realtà costituzionale”.
  Se, da un approccio generale, l’analisi si volge a considerare le carte costituzionali,
per cogliere il grado di istituzionalizzazione e di costituzionalizzazione conseguito in

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S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

esse dai partiti, si può osservare che le ragioni dell’attenzione e del ruolo attribuito ad
essi nelle nuove costituzioni della fase storica che va dalla fine della prima guerra
mondiale all’inizio della seconda deve attribuirsi – unitamente ad altri fattori storico-
politici – ai loro autori, molto spesso uomini di partito, che in questo modo tendevano
a legittimare la loro azione diplomatica e/o rivoluzionaria.
   Ma le ragioni teoriche profonde sono da individuare soprattutto nella ricerca di
meccanismi di ‘razionalizzazione’ del potere, concepiti come ricerca di strumenti per
il bilanciamento fra i poteri dello Stato, che apparivano, nel tempo,
significativamente sfasati a causa dell’ingresso sulla scena politico-istituzionale, in
modo organizzato, del popolo, inteso sia nella sua generalità, sia – e forse soprattutto
– nelle sue articolazioni in gruppi e classi sociali portatori di interessi fra loro
confliggenti.
   A un esame anche sommario, infatti, i testi costituzionali di questo periodo
dimostrano una notevole incertezza nei confronti dei partiti, come, più in generale,
nei confronti dell’associazionismo politico e sindacale. Solo alcune costituzioni si
spingono fino a riconoscere in modo esplicito i partiti e ad attribuire loro ruoli
rilevanti; fra di esse, come è noto, la Legge Fondamentale di Bonn (art. 21) perviene
al processo più spinto di attrazione del partito nell’ambito costituzionale.
  Ispiratore principale, in modo diretto o indiretto, di questo atteggiamento delle
costituzioni europee verso i partiti, e più in generale del modello di democrazia
politica che si va affermando (ispiratore egli stesso della Costituzione austriaca del
1920), è senz’altro il Kelsen degli studi teorico-dogmatici sul diritto e sullo Stato.
   La concezione kelseniana della democrazia – come è noto – ha fondamenti ben
diversi da quelli radicali-giacobini teorizzati dal Rousseau, secondo cui la
individuazione della ‘sovranità’ nella ‘volontà generale’ della collettività implicava
necessariamente indivisibilità e rifiuto della delega. La libertà del singolo, in questo
modello, viene garantita dal suo assoggettamento alla legge. Tuttavia, la produzione
di tale ‘strumento di libertà’, la legge, in una collettività dagli interessi e dai valori
sostanzialmente disomogenei, non potrà essere che l’atto finale di un compromesso
fra maggioranza e minoranza, in cui quest’ultima cercherà di far passare nella
decisione finale la maggior parte possibile delle proprie domande ed aspettative.
   Con Kelsen si ha, così, l’affermazione di una teoria della sovranità del popolo che
si contrappone alla teoria della ‘sovranità nazionale’: una teoria che nega
l’attribuzione della sovranità a una entità astratta, come la nazione, per ripartirla –
restando sempre integra – fra la totalità dei soggetti che compongono lo Stato-società.
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   Le conseguenze di una simile teorizzazione sono ovvie; con il principio della
rappresentanza del corpo elettorale, ogni deputato rappresenterà una parte della
collettività. In questo modello, la rappresentanza suppone l’esistenza e
l’organizzazione dei partiti politici, soprattutto per presiedere alle fasi costitutive
delle liste elettorali ed alla sorveglianza delle operazioni elettorali. Nella concezione
kelseniana, così, è il partito, in base al consenso numerico di cui dispone, a dover
selezionare i propri deputati da mandare in Parlamento.
   Se ne può concludere che se nelle costituzioni del primo dopoguerra non sono state
trasfuse tutte le intuizioni del Kelsen, la maggior parte di esse sono senz’altro
presenti nel definire il quadro giuridico delle associazioni-partiti, che costituiscono, al
contempo, le premesse teoriche per l’evoluzione ulteriore che il rapporto Stato-partiti
registrerà nelle costituzioni del secondo dopo-guerra.
   Ma il processo di avvicinamento dei partiti allo Stato – e con esso la ridefinizione
fattuale del suo funzionamento – non è certo un processo lineare, unidirezionale e
senza contraddizioni.
   Nella fase di transizione dallo Stato liberale (monoclasse, secondo l’appropriata
definizione-descrizione del Giannini) allo Stato ‘sociale’ contemporaneo (pluriclasse)
si introduce, così, uno degli elementi fondamentali nella definizione dei sistemi
politico-istituzionali contemporanei. Esso è dato, in via generale, da un insieme di
attività dello Stato che concretizzano un principio definibile di auto-tutela, che si
esplica in modo precipuo attraverso l’espunsione dal sistema politico-istituzionale del
partito o dei partiti ritenuti anti-istituzionali, cioè dei partiti la cui ‘lealtà’ sostanziale
ai principi liberal-democratici posti a base degli ordinamenti costituzionali, alle
regole di fondo della democrazia liberale non appaia garantita.
   Questo modello, che si è riprodotto, nella sua forma più abnorme, nei regimi
fascista, nazista, franchista, salazarista, consiste nella reazione violenta dello Stato
contro i partiti nella loro pluralità per lasciare spazio, nella teoria e nella pratica
politica, al partito-unico che diviene espressione e sintesi dell’unità della nazione –
concepita essa stessa con forti contenuti etico-idealistici – e si fa al contempo organo
dello Stato-persona. Tale evoluzione si rafforza mutando le forme in cui si esprime
con il procedere negli anni verso la grande crisi degli anni ’30 del secolo scorso e con
il processo di delegittimazione sostanziale a cui la crisi economica sottoponeva il
sistema politico nelle più diverse realtà nazionali.
  L’analisi dottrinaria relativa ai rapporti (nel diritto e nella realtà) fra partiti politici
e Stato s’inscrive, soprattutto nel corso degli ultimi decenni, nel contesto di una
chiara tendenza al superamento delle concezioni tradizionali del diritto, che se non

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comportano il superamento del rigido approccio formalistico ai problemi del diritto (e
dello Stato) almeno favoriscono una più attenta riconsiderazione dei complessi
rapporti esistenti tra la realtà sociale ed il complesso delle norme, in un tentativo di
riconoscimento del continuum pregiuridico-giuridico che solo riesce a rendere la
complessità dell’ordinamento giuridico vigente, della c.d. costituzione ‘vivente’,
‘reale’.
   Peraltro, tale tendenza appare ancora più rilevante all’interno della scienza
costituzionale, dove forte è l’insoddisfazione da parte dello studioso per una scienza
meramente esegetica, incapace di identificare i fini e i valori della società e dove viva
è l’esigenza di una più adeguata comprensione degli istituti giuridici e degli stretti
rapporti esistenti tra essi e le norme fondamentali dell’ordinamento costituzionale.
   Nella prospettiva di tale sforzo di rinnovamento metodologico, la novità
fondamentale dello studio dei partiti (e del loro inserirsi fattualmente nella
organizzazione costituzionale dello Stato), considerati sia nel loro aspetto sociologico
(partiti di massa o di quadri, partiti istituzionali o anti-istituzionali, partiti cartello,
ecc.), sia nel loro aspetto di sistema, consiste nel fatto che essi costituiscono ormai un
elemento fondamentale per giungere all’identificazione della forma dello Stato e del
suo modello organizzativo, la forma di governo.
   Sia l’una che l’altra non si definiscono più in termini astrattamente fissi quanto
piuttosto, come sottolinea L. Elia, in funzione dinamica, “come parti del diritto
costituzionale vivente”, non potendosi più trascurare le reciproche influenze e
interferenze che vanno istaurandosi tra le due figure, fino al punto che l’instabilità
dell’assetto governativo opera in termini fortemente negativi sulla stessa vitalità-
sopravvivenza della forma dello Stato. Proprio in questo rinnovamento metodologico,
che ha imposto alla dottrina costituzionale una verifica di forme e di contenuti, trova
ampia giustificazione il tentativo di assumere il sistema dei partiti come un elemento
imprescindibile nello studio dei governi parlamentari di tipo rappresentativo, come un
elemento fondamentale per comprendere il funzionamento del meccanismo
costituzionale complessivo.
   In tal senso, nell’approccio alla living Constitution, diviene obiettivo primario
l’analisi della rilevanza dei partiti politici, nella loro duplice e dialettica
configurazione giuridica, all’interno dei sistemi di governo degli stati contemporanei.
Essi si presentano, infatti, come organi costituzionali sostanziali di indirizzo politico
in posizione di parità giuridica e al contempo come associazioni di tipo privato e
dunque strettamente collegate alla società.

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   La concezione dello Stato contemporaneo come ‘Stato di partiti’, così, costituisce
un apporto rilevante a una moderna teoria dello Stato democratico-rappresentativo.
Come si è ricordato, essa fu in gran parte elaborata, anche sotto il profilo dogmatico,
dalla dottrina tedesca degli anni ’20 del secolo scorso e solo successivamente fatta
propria da quella italiana, passando per un approccio metodologico, quello
mortatiano della ‘costituzione materiale’ che, nella realtà (almeno a livello
tendenziale), risulta per più profili giustificazionistico di prassi di occupazione
indebita di poteri costituzionali. Con essa sembra farsi maggiore chiarezza su tutta
una serie di problematiche che il costituzionalismo classico non riusciva più ormai a
risolvere, fermo com’era a concezioni ancora asettiche e statiche delle forme di Stato
e di governo, in cui non trovavano posto i moderni e complessi problemi imposti
dalla crisi non solo del parlamentarismo ma anche dei partiti.
   Pur costituendo un indubbio passo in avanti nell’elaborazione dottrinaria, lo ‘Stato
dei partiti’, nell’accezione che ne ha offerto la dottrina costituzionale, tuttavia, non
riesce più a cogliere in modo adeguato la complessità della problematica dello Stato
contemporaneo. Ed è qui che la scienza costituzionale avverte maggiormente, nella
fase attuale, la necessità di recuperare la propria socialità e pertanto di ricorrere
all’ausilio di altre scienze, per comprendere a fondo gli stretti rapporti d’interazione
esistenti fra l’insieme delle strutture, comportamenti sociali e ambiti giuridici al fine
precipuo di rispondere alle problematiche poste dall’effettività delle norme giuridico-
costituzionali.
   In questo contesto, assume rilievo e significato l’analisi del ruolo effettivo svolto
da tutte le formazioni sociali e politiche diverse dai partiti che operano sia attraverso
forme dirette di pressione sul potere esecutivo sia attraverso forme di democrazia
semi-diretta come il referendum, l’iniziativa popolare ma anche l’associazionismo e
l’azione sindacale.
   In questa nuova luce appaiono nettamente i limiti della concezione dello Stato
contemporaneo come ‘Stato di partiti’, che sembra attribuire in modo riduttivo ad
alcune strutture soltanto, investite da un processo evidente di istituzionalizzazione, le
funzioni di rappresentanza e di mediazione della realtà sociale all’interno dello Stato-
persona, laddove il sistema prefigurato dalla Costituzione nei suoi primi tre articoli e
nell’art. 49 rifiuta tale interpretazione per accogliere nel diritto di partecipazione
‘permanente’ dei cittadini alla determinazione della politica nazionale tutte le
conseguenze di un simile capovolgimento di prospettiva.
  È quanto costituisce parte rilevante della dottrina costituzionale quando,
sottolineando l’ambiguità di talune categorie costituzionali, affronta la mutata
prospettiva di analisi in termini di ‘Stato di democrazia pluralista’ o ‘Stato di
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democrazia partecipativa’, con tale terminologia sottolineando la necessità di
considerare la realtà sociale nella sua complessa e conflittuale articolazione.
   Come si può osservare, in breve, nel quadro dell’esigenza di rinnovamento della
metodologia scientifica nel campo della scienza giuridica e soprattutto in quello del
diritto costituzionale – diritto che è, per sua natura, ‘di frontiera’ – il problema
fondamentale non è più quello di una mera analisi della ‘costituzionalità’ o meno del
sistema dei partiti nei suoi rapporti con lo Stato, quanto piuttosto di verificare, non
più in termini di modello astratto, la concreta funzionalità delle forme di governo
dello Stato contemporaneo, caratterizzate e ridefinite dalla presenza dei grandi partiti
di massa.
   Tale impostazione, che comincia a farsi strada anche nella dottrina più tradizionale,
finisce però con il concentrare l’attenzione sulle relazioni tra i partiti e le istituzioni
tipiche del sistema di governo parlamentare (sostanzialmente sul binomio partiti-
Parlamento e partiti-Governo) mettendo in secondo piano elementi fondamentali
della fenomenologia dei rapporti politici che pure avevano dato corpo alla crisi del
sistema stesso.
   I partiti politici, come si può cogliere dalle considerazioni finora svolte, non si
limitano soltanto ad incidere sulla forma di governo per organizzare il proprio
concorso partecipativo, ideologicamente caratterizzato; essi incidono sulla stessa
forma dello Stato, costituendone la cosiddetta ‘costituzione materiale’, il ‘regime
politico’.
  In tale ottica, risulta ormai del tutto superata la tradizionale querelle teorico-
politica che, con il termine ‘partitocrazia’, assumeva ogni tipo di critica sulla scarsa
capacità rappresentativa dei partiti e sulla relativa invadenza negli ambiti propri dei
soggetti titolari di sovranità.
  Il sistema dei partiti, dunque, sia nella sua funzione di impulso che in quella di
condizionamento delle istituzioni costituzionali costituisce un dato sempre più
accettato, almeno dalla dottrina prevalente.
  Risultano inaccettabili sotto tale profilo quegli orientamenti dottrinari i quali
assumono che “solo attraverso la partecipazione alla vita di un partito il cittadino può
aspirare ad esercitare pienamente i suoi diritti sovrani o, che fa lo stesso, che la
sovranità popolare si realizza solo attraverso i partiti politici”.
   Così, se rientra indubbiamente nell’aggiornamento del modello costituzionale il
riconoscimento ai partiti politici della funzione di organizzare il popolo secondo una

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data ideologia, dando voce agli interessi e alle esigenze dei paese reale, nella sua
concreta articolazione di ceti, formazioni sociali e gruppi contrastanti, ciò che risulta
meno convincente in tale modello esplicativo è piuttosto la concezione secondo cui la
sovranità del popolo si esaurirebbe in modo esclusivo (o quasi) nei partiti, i quali,
così, da strumento di rappresentanza, di mediazione fra corpo sociale e Stato
finiscono per trasformarsi in uno dei poli di tale raccordo.
   L’allusione al partito-Stato, alla Inkorporierung della tipizzazione del Triepel è
sufficientemente evidente per non avvertire l’esigenza di sottolineare i limiti di una
siffatta concezione. Rispetto al problema del singolo partito si può agevolmente
concludere che, se risultano valide le osservazioni finora svolte, siamo in presenza di
una doppia istituzionalità (interna ed esterna) e si è in presenza altresì di una tendenza
che vede il partito (e il sistema dei partiti) perdere quelle funzioni di tramite
permanente, costituendosi spesso come un pericoloso diaframma, uno strumento di
organizzazione – più che di rappresentanza – della società nello Stato, finendo in tal
modo con il restringere più che ampliare gli spazi di libertà della moderna
democrazia.
  Passando nuovamente a riflettere, sia pure brevemente, sulla questione della natura
giuridica del partito politico e degli orientamenti dottrinari affermatisi sul punto nei
tempi più recenti, si può ricordare che, soprattutto nella prima fase della riflessione
dottrinaria, sviluppatasi alla fine degli anni ’50 del secolo scorso con significativi
contributi, l’analisi giuridica dei partiti politici si era concentrata sull’esegesi dell’art.
49 Cost. (in alcuni autori ancora disancorata da una interpretazione sistematica della
norma costituzionale) pervenendo ad una conclusione sulla natura meramente
associazionistica degli stessi, per i quali veniva prevista la mera tutela giuridica
accordata alle associazioni non riconosciute.
   Una parte della dottrina, sia pubblicistica che privatistica, aveva qualificato tale
interpretazione con argomenti che l’avevano portata a sostenere che la natura
privatistica per le associazioni partitiche sarebbe stata maggiormente in grado di dare
efficace tutela ed adeguato rilievo alla libertà di associazione politica di concorrere
alla formazione della volontà statale di quanto non potesse, invece, fare una
concezione del partito intesa come organo o quasi-organo dello Stato. Tuttavia, tale
considerazione rinviava a concezioni di organicismo statuale che era stato senz’altro
volontà dei costituenti superare, dopo il pesante smacco per le libertà civili e politiche
nel regime fascista, con la giuridicizzazione-statalizzazione della realtà sociale che
esso aveva perseguito.
  Benché non aliene da riflessi antistatuali, spesso immanenti in una parte della
cultura delle istituzioni (a cui si ascrivono prevalentemente tali orientamenti
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dottrinari, in gran parte dovuti a giuristi di orientamento cattolico), tali
argomentazioni, che mirano ad accentuare l’insediamento sociale dei partiti e quindi
la loro natura di ‘formazioni sociali’, come si è già osservato, non appaiono adeguate
a spiegare tutta una serie di fenomeni nuovi (prassi e convenzioni), con i relativi
riflessi e condizionamenti che è possibile osservare nel reale funzionamento delle
istituzioni rappresentative, le quali, come è noto, si presentano come ampiamente
discordanti dal modello costituzionale.
   Senza soffermarsi oltre a discutere la validità di un simile approccio metodologico
nell’analisi dottrinaria, che si dà quindi come presupposto, così, si può osservare che,
se si parte da un’interpretazione più ampia dell’art. 49 Cost., mirante a cogliere la
stretta interconnessione della sua previsione normativa nell’ambito più generale del
sistema di democrazia previsto dai costituenti, non si può che trovare angusta ed
inadeguata la natura associazionistica di tipo privato che quest’orientamento
dottrinario ha individuato per il partito politico, benché l’ordinamento positivo
propenda in modo prevalente per tale indirizzo interpretativo.
   Benché, con differenziazioni interne, una parte della dottrina gius-pubblicistica ha
sostanzialmente affrontato l’analisi esegetica dell’art. 49 Cost. riconoscendo, accanto
alla necessaria pluralità dei partiti e all’esigenza del ‘metodo democratico’ nel loro
funzionamento interno, una natura giuridico-costituzionale di libere associazioni di
cittadini “istituzionalmente dirette, in concorso dialettico con altrettali associazioni,
alla determinazione della politica nazionale”.
   Ma, come si è fatto bene osservare, se l’analisi si ferma a questo risultato rischiano
di sfuggire tutta una serie di altri elementi che a buona ragione la fanno apparire, più
che formalistica, scarsamente adeguata a comprendere il reale equilibrio fra gli organi
costituzionali registrato nella realtà e quindi le vere problematiche, i nodi della forma
statuale della democrazia italiana contemporanea. Per tale diverso approccio più
adeguata appare una indagine ispirata alle dottrine istituzionalistiche del diritto più
che a quelle normativistiche.
   Fra i tanti contributi, in tale prospettiva, appare quanto mai opportuno richiamare
in materia una riflessione di C. Esposito circa il ruolo effettivo dei partiti
nell’ordinamento costituzionale reale, per il quale “secondo considerazioni
largamente diffuse solo nelle costituzioni formali o legali degli stati contemporanei
con pluralità di partiti è scritto che le leggi sono fatte da deputati e senatori eletti dai
cittadini e rappresentativi della nazione ... In effetti, invece, all’ombra
dell’impalcatura legalistica della Costituzione, i partiti politici avrebbero nelle mani

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la legislazione, il governo, la giurisdizione e l’amministrazione ... Una costituzione
legale adeguata alla realtà dovrebbe abbandonare le finzioni delle assemblee
legislative composte da liberi deputati, dei governi formati dai capi di Stato ... e
riconoscere che nella comunità statale il potere di direzione politica spetta ai partiti;
dovrebbe inoltre precisare le forme, i presupposti e le conseguenze dell’ascesa dei
partiti al potere, determinare il valore degli accordi tra i partiti (e tra i capo-partiti),
indicare la via per la soluzione dei conflitti insorgenti fra essi”.
   In questo autorevole orientamento, come si può osservare, viene richiamata, a mo’
di premessa metodologica generale all’analisi dei partiti nella Costituzione, una
problematizzazione di grande rilievo che ha ad oggetto la questione della effettività
dell’ordinamento costituzionale rispetto alle discrasie cui è sottoposto per
l’insorgenza di attività partitiche ultronee rispetto alle funzioni costituzionalmente
definite per i partiti politici nell’art. 49 Cost.
   È nell’ambito di un diverso approccio – conosciuto in dottrina, ormai da tempo,
con la mutevole terminologia – ancorché incerta ed ambigua – di ‘costituzione
materiale’, ‘reale’, ‘vivente’ – che va riconosciuto come l’effettivo potere di indirizzo
politico e la formulazione e l’attuazione delle relative modalità concrete si sia
trasferito ai partiti, in grado come sono di “avere nelle mani” la legislazione, il
Governo, l’amministrazione e – per taluni (riattualizzando un approccio di Minghetti
valido per il secolo scorso) – la stessa giurisdizione.
   Si riconosce, così, che non coglie l’effettiva realtà costituzionale chi ritenga ancora
di trovarsi di fronte ad una forma di Stato democratico parlamentare, disconoscendo
ciò che in via di fatto si è andato realizzando: un completo, effettuale, superamento
della democrazia rappresentativa di stampo ottocentesco, fondata sulla centralità
dell’organo parlamentare, nella direzione di una democrazia di massa basata sui
partiti politici, al cui interno, tuttavia, permangono forme, istituti e procedure della
previgente forma democratica, che riappaiono soprattutto in determinate situazioni
limite (voto segreto in contrasto con le indicazioni di partito, ecc.).
   Salvo a ritornare su tale problema, che costituisce una questione centrale
nell’approfondimento della tematica oggetto di analisi, occorre ora accennare, anche
se in modo essenziale, alle principali novità metodologiche registrate nel corso degli
anni ’70 e ai più significativi risultati conseguiti nell’analisi dei partiti (considerati sia
uti singuli sia nella loro pluralità, come ‘sistema pluripartitico polarizzato’, come
‘sistema tendenzialmente bipartitico’ o a ‘bipartitismo esasperato’, a seconda delle
varie ipotesi interpretative) da parte della dottrina.

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   In tal senso, nell’ambito della dottrina che si è occupata della questione, si deve
fare riferimento, in particolare, alle analisi di due autori che più di altri studiosi della
materia possono individuarsi come capofila di una approfondita analisi dottrinaria sui
partiti, incentrata, al contempo, sia sul singolo partito (colto nella sua dinamica
evolutiva, il c.d. partito ‘situé’), sia sul relativo rapporto con le istituzioni di governo;
oltre a L. Elia, ci riferiamo, in tal senso, a G.U. Rescigno, le cui analisi sono
parimenti fondamentali nel fondare la svolta metodologica nello studio dei partiti
politici come espressione e strumento della trasformazione della democrazia
contemporanea.
   Alle loro analisi, in particolare e alle innovazioni nella stessa metodologica seguita
– pur partendo da premesse metodologiche diverse – si possono far risalire le
evoluzioni dottrinarie più significative in materia di partiti politici e lo stesso
riconoscimento dell’esigenza di approfondire l’analisi di tale materia ponendo
nell’obiettivo della ricerca gius-pubblicistica gli stessi aspetti della vita interna dei
partiti e della conseguente dinamica d’interazione con le istituzioni pubbliche.
   Secondo quest’orientamento, che parte da premesse diverse ma raggiunge lo stesso
risultato, i partiti non possono considerarsi alla stregua di mere associazioni di diritto
privato, come ritiene parte della dottrina. Essi costituiscono un elemento
fondamentale (come per altro avevano significativamente riconosciuto ricerche sui
partiti, negli anni ‘40, dovute al Ferri e al Virga, per citare una parte soltanto della
dottrina che se ne è occupato con maggiore organicità) per giungere alla corretta
identificazione della forma di Stato e del suo modello organizzativo, la forma di
governo, rendendo obsolete ed inefficaci, a tale scopo, le stesse classiche
metodologie adottate per lo studio comparato delle forme statuali moderne e
contemporanee e della loro evoluzione nel tempo.
   Tuttavia, se di tipo prevalentemente metodologiche sono le conclusioni sul punto
cui perviene Elia, le argomentazioni del Rescigno sembrano spingere oltre l’indagine,
richiamandosi ad una metodologia e ad una riflessione di vecchia data nell’ambito
della dottrina più critica, che individua per il partito politico la natura di ente
complesso, che integra, al contempo ed in modo necessariamente correlate, la natura
giuridica delle associazioni private e quella degli organi (o quasi organi) dello Stato
soggetto. La carenza di uno dei due elementi, in un quadro in cui essi si assumono,
come si è detto, necessariamente complementari, per le funzioni cui assolvono nello
Stato di democrazia pluralista (rappresentanza e mediazione-integrazione), farebbe
venir meno l’intera funzionalità del sistema di democrazia rappresentativa.

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   All’interno delle forme di governo degli stati contemporanei a struttura liberal-
democratica ed in quelli a preminente caratterizzazione ‘sociale’, come quello
delineato dalla Costituzione italiana del ’47, così, i partiti politici, in ragione delle
funzioni assolte nella rappresentanza politica e nella collaborazione allo svolgimento
di funzioni a rilevanza pubblicistica, costituiscono organi di effettivo rilievo
costituzionale titolari, in via fattuale, della formulazione e della attuazione
dell’indirizzo politico. Ma essi sono, al contempo, associazioni di tipo privato e
quindi strettamente insediati nella società, difficile apparendo così la ricomposizione
strutturale e funzionale in una lineare definizione della loro natura giuridica.
   Questa osservazione, peraltro, giustifica ampiamente il pessimismo sulle capacità
risolutive della crisi in atto ad opera delle riforme istituzionali-costituzionali fin qui
discusse nella prospettiva de jure condendo, le quali, nel loro limitarsi a discutere
proposizioni di riforma più o meno rilevanti dell’attuale forma di governo verso
soluzioni di neo-parlamentarismo razionalizzato o perfino di semipresidenzialismo,
escludono, tuttavia, – in modo discutibile per le ragioni argomentate in precedenza –
di affrontare le ragioni di crisi dovute appunto alle interferenze sugli organi
costituzionali di governo da parte dei partiti politici, i quali, peraltro, non sempre
sono retti da normative statutarie nelle quali sia assicurato il rispetto della democrazia
interna.
   Si può, dunque, osservare come indicazione conclusiva di queste premesse generali
sulla natura giuridica del partito politico e sulle letture che ne ha dato la dottrina
costituzionale che il ritardo registrato da una parte significativa della dottrina nel
considerare il partito sotto il suo aspetto funzionale di “elemento costitutivo del
sistema di governo” costituisce anche una ragione della più generale difficoltà a
comprendere la sua configurazione “a prevalente gravitazione pubblicistica” e
dunque la sua natura di parte integrante fondamentale del modello di democrazia e
della forma di Stato vigente, la quale – come si è ricordato – viene appunto definita
‘Stato dei (di) partiti’ in quanto concretizzata ed incentrata sul funzionamento del
modello previsto dalla carta costituzionale ad opera di un sistema di partiti dai tratti
giuridici dalla natura privatistico-associativo e al contempo organicistica, mentre dai
tratti sociologico-politologici, caratterizzato dall’esistenza di una pluralità di partiti,
ma dei quali alcuni soltanto hanno potuto accedere alle maggioranze di governo
(clausola ed excludendum e inesistenza della regola dell’alternanza fino ai primi anni
‘90 come regola convenzionale che ha guidato la formazione dei governi per mezzo
secolo).

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S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

   2. La democrazia bloccata (da superare) e l’alternanza al Governo (da realizzare)
all’origine di un processo di riforme elettorali (inadeguato e incompiuto), con effetti
sui partiti politici (depoliticizzazione, presidenzializzazione) e sulla stessa forma di
governo (iper-valorizzazione delle funzioni del capo dello Stato).
   La legislazione elettorale, i relativi rapporti con i partiti politici e la forma di
governo accolta nell’ordinamento politico-costituzionale costituisce una questione
risalente al dibattito costituente e caratterizzandosi, in seguito, e soprattutto a partire
dagli anni ’90, come bisognosa di riforma. Sui contenuti di tale riforma diversi e
contrapposti erano gli orientamenti discussi nella dottrina, nel corpo elettorale e nei
movimenti referendari, muovendo da modelli maggioritaristici (‘alla inglese’) e
modelli di proporzionalismo puro.

   Tuttavia, l’idoneità/congruità delle regole elettorali ad assicurare un equilibrio
accettabile fra funzioni di rappresentanza politica e di stabilità governativa – che
costituivano due profili particolarmente dibattuti agli inizi degli anni ’90, in un
contesto segnato dal crollo del Muro di Berlino e dagli eventi politico-istituzionali del
post-1989 – fu messa ben presto in questione a favore di una strategia istituzionale
volta a intervenire direttamente sul livello costituzionale. Nella Gazzetta Ufficiale
269 del 18 novembre 2005, verrà infatti pubblicata la legge costituzionale recante
«Modifiche alla Parte II della Costituzione», testo approvato in seconda votazione a
maggioranza assoluta (170 voti favorevoli, 132 contrari e 3 astenuti), e pertanto
lasciando piena libertà al corpo sociale di richiedere il referendum confermativo.
  Riformulando le stesse modalità di legittimazione dell’Esecutivo e rafforzandone il
ruolo, tale testo di revisione costituzionale (felicemente respinto nel referendum
costituzionale del 25-26 giugno 2006) si ispirava a un modello di premierato forte, in
parte seguendo le formulazioni costituzionali accolte nel cancellierato tedesco (il che
naturalmente non pone problema alcuno di ordine costituzionale né di tipo politico),
ed in parte ispirandosi alle formule previste nella forma di governo israeliana prima
che le sue previsioni fossero riviste dal legislatore israeliano.
   La premessa di questa analisi, dunque, è che, pur non avendo voluto il costituente
italiano assegnare veste costituzionale a leggi elettorali di tipo proporzionale,
l’architettura dei poteri costituzionali della Repubblica se ne ispirava nei contenuti di
fondo.
   Ed è appunto per tale considerazione che una riflessione in questa materia impone
di tenere strettamente connesse le esigenze proprie della forma dello Stato con quella
di governo, connotandosi il modello repubblicano per scelte di legittimazione di tipo
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rappresentativo-parlamentari arricchite ulteriormente da istituti e modalità diffuse di
partecipazione politica, operanti a loro volta nel quadro di un ampio pluralismo
politico e di un esteso sistema di libertà politiche, ispirate alla centralità del principio
personalistico e di quello partecipativo.
  Con ciò si vuole sottolineare, in premessa di questa analisi, che il costituente
repubblicano ha adottato misure fortemente innovative rispetto a quelle accolte nella
Costituzione liberal-democratica (Statuto albertino).
   Accanto alla previsione del voto per la prima volta nella storia costituzionale del
Paese esteso a tutti i cittadini (“uomini e donne che hanno raggiunto la maggiore età”,
come recita l’art. 48, I co., Cost.), tali misure costituzionali riconoscono a tutti i
cittadini il potere di concorrere alla determinazione della politica nazionale mediante
partiti (art. 49 Cost.), libere associazioni che conoscono i soli limiti costituzionali
della ‘democrazia interna’ e della loro necessaria pluralità (la Costituzione parla di
“partiti” al plurale), escludendosi in tal modo ogni ipotesi di partito unico, pur se in
ipotesi pienamente democratico.
  Naturalmente, a tali organizzazioni comunitarie si estendono i più generali limiti
previsti costituzionalmente per l’esercizio della libertà di associazione. Se non
soggiacciono più al vincolo della previa autorizzazione, i cittadini possono così
esercitare il loro diritto di associarsi liberamente, rimanendo esclusa da tale garanzia
costituzionale il solo perseguimento di finalità vietate ai singoli dalla legge penale,
cui si aggiunge il divieto di associazionismo segreto che persegua, anche
indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare (art. 18
Cost. ).
  Tanto brevemente richiamato, pare necessario sottolineare come le soluzioni
accolte in tema di riforme elettorali e quelle che si dovranno in futuro ancora
prevedere in tale materia devono dimostrare, per tabulas, la capacità di assolvere da
parte dei partiti politici – concepiti in Costituzione come centri tipizzati di potere
politico-comunitario – alle funzioni di partecipazione politica per essi
costituzionalmente previste.
   Ed è per questa ragione che, nell’approccio al tema che ne faremo, riteniamo
necessario richiamare, sia pure per grandi linee, le tematiche relative al rapporto fra
riforme elettorali, sistema politico-partitico e partecipazione politica, colte, tuttavia,
secondo un approccio che non si vuole attento prevalentemente alle technicalities,
quanto piuttosto al necessario raccordo fra (funzioni di) rappresentanza politica e
(funzione di) governo o, per dirlo senza molte mediazioni, fra finalità democratiche

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proprie della forma di Stato democratico disegnata dal costituente repubblicano e
forma di governo.
   L’attenzione centrale che riteniamo di dover assegnare alla trattazione del tema,
cioè, riguarda i rapporti fra gli organi attivi della rappresentanza e del governo
nell’ottica – l’uno e l’altro – di garantire la realizzazione delle finalità democratiche
dello Stato.
  La riflessione sulle problematiche politiche e costituzionali poste dalla
‘democrazia dei partiti’ (ParteienStaat) ma anche ‘nei partiti’ ha caratterizzato lo
sviluppo della vita democratica del Paese, dal 1948 ad oggi, all’interno più ampio di
una forma di Stato e di una democrazia partecipativa fondate sul concorso alla
determinazione dei cittadini alla politica nazionale.
   Una forma di democrazia che in modo fortemente innovativo e per la prima volta
venne pensata dai costituenti repubblicani come fondata sui partiti di massa (forgiati
dalle durezze imposte dalla clandestinità in cui la lotta al fascismo li aveva costretti e
superando radicalmente l’originaria natura di partiti borghesi, di élite, come gli stessi
si connotavano nella fase della liberal-democrazia del suffragio ristretto sulla base del
censo) e sulla partecipazione politica (allargata a multiformi altri strumenti di
partecipazione, che vanno dal referendum abrogativo alla iniziativa legislativa
popolare, dalla partecipazione sindacale alla manifestazione del pensiero
(naturalmente anche di quello critico) accolta nell’art. 21 Cost.).
  Una forma di democrazia, dunque, che si edifica nella resistenza al fascismo, nel
compromesso costituzionale fra forze politiche e ideologiche differenziate (cattolici,
marxisti e laico-risorgimentali) e si perfeziona nel dibattito costituente, trovando
approdo nel testo costituzionale del 1947, e attuazione sia pure graduale e incompleta
nei quasi settanta anni che ci separano dalla vigenza della carta costituzionale a
partire dal 1° gennaio 1948.
   Nei primi anni ’90, il dibattito sui rapporti fra democrazia/forma di Stato e forma
di governo si sviluppa in occasione dell’adozione delle nuove leggi elettorali per la
Camera e per il Senato, per le amministrazioni locali (l. 142/90) e per le regioni e più
in generale nello sforzo politico-istituzionale – rimasto in gran parte incompiuto – di
avviare una importante riforma nella direzione della trasparenza amministrativa e di
democratizzazione della amministrazione (l. 241/90), mediante il coinvolgimento
attivo dei destinatari dell’azione amministrativa all’interno dello stesso procedimento
amministrativo, e limitando forme risalenti della gestione amministrativa, spesso
autoreferenziali e autoritarie (nel mentre lo spazio normativo loro consentito era solo
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quello dell’autoritatività, ma su queste questioni anche tecniche non potremo
fermarci, salvo che il dibattito non vorrà positivamente riprenderlo).
   In questo quadro, così, la riflessione è chiamata ad incentrarsi tanto sulla dinamica
(formale e sostanziale) dei rapporti fra sistema dei partiti e istituti costituzionali del
circuito rappresentativo e di governo, quanto sulla questione dell’autoriforma dei
partiti e quindi della democratizzazione della loro vita interna e sulla previsione di
una diversa disciplina dei relativi rapporti con gli organi e i poteri costituzionali dello
Stato (e delle assemblee rappresentative territoriali).
   L’attuazione di una simile dinamica di rapporti richiede una disciplina legislativa
delle più significative attività a rilevanza pubblicistica svolte da parte dei partiti
politici, a partire dalla previsione legislativa di uno statuto tipo per (tutti) i partiti, di
forme di controllo che impediscano il prodursi (e il ripetersi) di fatti penalmente (e
politicamente) rilevanti, come nella vita parlamentare ma soprattutto nella vita
istituzionale di molte regioni è dato osservare, senza differenze di rilievo nella gravità
degli eventi denunciati alla opinione pubblica (ora in via di accertamento delle
relative responsabilità legali) fra regioni del centro, del nord e del sud. Se non si
banalizzasse un problema serio di credibilità democratica e istituzionale, lo
chiameremmo il “modello Batman”, la capacità evocativa dei cui effetti
delegittimanti la credibilità istituzionale di istituzioni territoriali rende superfluo
profondersi in molte altre spiegazioni.
   Tale esigenza trovava la sua giustificazione nella considerazione fattuale secondo
cui i partiti si sono ormai trasformati, prima in modo embrionale e in seguito in modo
sempre più marcato, in macchine organizzative autoreferenziali, chiuse in sé e
scarsamente capaci di sintonizzarsi (per rappresentarle) con le domande della società
e (soprattutto) dei cittadini.
   L’evoluzione più di recente ne sottolinea la relativa evoluzione individuandone la
trasformazione in veri e propri ‘partiti personali’, portando a conclusione in tal modo
una evoluzione già lucidamente anticipata da Robert Michels, che nelle sue analisi
parlava di un modello di ‘partito pigliatutto’ come esito del processo di
trasformazione del partito di massa.
  La letteratura sociologica e politologica sui partiti politici, in tal senso, ha da
tempo sottolineato come i ‘partiti di combattimento’ della prima stagione liberal-
democratica (il partito socialista della fase tardo-ottocentesca di cui ci ha parlato G.U.
Rescigno nelle sue lucide analisi sul punto) – e i ‘partiti di massa’, più di recente,
negli ultimi 66 anni che ci separano dal varo della Costituzione repubblicana del ’47,
sono ormai definitivamente scomparsi, venendo sostituiti da un nuovo modello di

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S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

partito che analisi politologiche approfondite (Richard Katz e Peter Mair, già dal
1995) hanno colto come partito elettorale, come ‘partito cartello’.
   Le connotazioni interne ai partiti (“collusione intra-partitica”) e quelle esterne agli
stessi (compenetrazione fra partito e Stato) danno pienamente ragione di questa
analisi circa il processo di trasformazione profonda registrata dai partiti alla fine del
XX sec. e dei connessi effetti di depoliticizzazione indotta dagli stessi, con
conseguenze inevitabili sullo stesso contenuto e sulla qualità della democrazia
contemporanea1.
  Fatti penalmente rilevanti, disvelati a partire dai primi anni ’90, hanno confermato
come simili ‘macchine’ – prima di configurarsi/trasformarsi in vere e proprie ‘caste’
– avessero perso nel tempo una parte significativa della capacità e della qualità
rappresentativa, per concentrarsi su tecniche di ricerca del consenso secondo modalità
che poco avevano a che fare con le funzioni proprie del partito, che sono quelle della
rappresentanza degli interessi dei cittadini volte ad assicurarne il concorso alla
determinazione della politica nazionale, nel rispetto del dettato costituzionale.
   In evidente asimmetria con una interpretazione diffusa dei risultati elettorali delle
più recenti elezioni politiche e in contrasto con talune tesi pessimistiche (pur)
sostenute da autorevoli studiosi, per i quali la legislazione elettorale dei primi anni
’90 del secolo scorso – di tipo prevalentemente maggioritaria, e quella disegnata
dall’on. Calderoli, nel 2005 (con il consenso di molti e il non dissenso di quasi tutti
gli altri, tranne che dei partiti piccoli, cd partiti cespuglio) – avrebbe definitivamente
distrutto i partiti di massa (così come li abbiamo conosciuto nell’ultima metà del
secolo scorso), e contrariamente ad ogni rappresentazione che ne viene fatta,

1
  “Il partito cartello è un tipo di partito che emerge nelle democrazie avanzate ed è caratterizzato dalla interpenetrazione
del partito e dello Stato e da un modello di collusione intra-partitica. Con lo sviluppo del partito cartello, le finalità della
politica diventano autoreferenziali, professionali e tecnocratiche, e quel poco che resta della competizione tra partiti si
focalizza sulla gestione del sistema di governo. Le campagne elettorali condotte dai partiti cartello sono ad alta intensità
di capitale, professionalizzate e centralizzate, e sono organizzate sulla base di una forte dipendenza dallo stato per
finanziamenti, e altri rimborsi e privilegi. All’interno del partito, la differenza tra iscritti e non iscritti al partito diventa
confusa, in quanto, attraverso primarie, sondaggi elettronici ecc., i partiti invitano tutti i loro sostenitori, iscritti o non
iscritti, a partecipare alle attività di partito e alle decisioni. Soprattutto, con l’emergere dei partiti cartello, la politica
diventa sempre più depoliticizzata”. Con ciò i partiti si staccano nettamente dalla società civile per divenire “alleanze di
professionisti”, “sistemi di franchising, non associazioni di cittadini”. “La politica diventa un lavoro”; così è “quasi
inevitabile che essi [i partiti] inizino ad assomigliarsi sempre di più”, e prendano a sviluppare dei comportamenti
velatamente o scopertamente collusivi, appunto di cartello. Cambia con ciò il contenuto stesso della democrazia: “La
democrazia sta nel tentativo delle élite di accattivarsi il favore del pubblico, piuttosto che nel coinvolgimento del
pubblico nella politica”.

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argomentata con richiami al rifiuto della delega teorizzato da J.J. Rousseau, non
troviamo convincente la prognosi più o meno interessata di chi prospetta i partiti
come ormai definitivamente scomparsi dall’orizzonte degli strumenti della
democrazia partecipativa.
   Nonostante gli eventi dell’attualità politica ed elettorale – con la emersione di
importanti ‘partiti-movimento’ che (pur operando in tutto e per tutto come veri e
propri partiti accentrati e gerarchizzati) vorrebbero essere colti come ‘non partiti’,
espressamente dichiarandosi per questo indisponibili a darsi regole statutarie –
continuiamo a ritenere tutt’altro che conclusa la funzione rappresentativa dei partiti a
favore di modalità rappresentative di tipo esclusivamente personalistico, assicurate
dal ruolo svolto dalle leadership nel quadro di formule di legittimazione politica che
respingono la democrazia rappresentativa a favore di forme di democrazia diretta, e
che troverebbero il loro pendant costituzionale nella prospettiva di nuovi assetti di
“presidenzializzazione della politica” e delle istituzioni di governo del Paese.
   Ciò sia che si pensi alle inadeguate formule di governo semipresidenzialistiche
previste nei lavori della Commissione bicamerale operante nella meta degli anni’90
del secolo scorso, sia che si pensi alle (perfino ancora più) discutibili soluzioni di
parlamentarismo iper-razionalizzato per la forma di governo accolte nel progetto di
riforma costituzionale (approvato il 23 marzo 2005 dalla Camera dei deputati e il 16
novembre 2005 dal Senato), relativamente alle forme di elezione (quasi) diretta del
Presidente del Consiglio/Primo Ministro. Uno studioso di qualità ha parlato per tale
formula di un “premierato assoluto”, volendo sottolineare la carenza di pesi e
contrappesi presenti nella richiamata formula di riforma del governo voluto dalla
maggioranza di centro-destra.
  Rispetto alle diverse proposte di riforma costituzionale prospettate con riferimento
a ipotesi (più o meno radicali) di presidenzialismo e di “personalizzazione della
politica”, esse possono ritenersi del tutto inadeguate quando si rifletta al fatto che una
parte significativa degli stessi studiosi degli Stati Uniti ritiene la forma di governo
presidenziale inadeguata rispetto alle esigenze di ‘governabilità’ del Paese nord-
americano.
   Discorso omologo può farsi anche per il semipresidenzialismo, per ragioni che
sembrano trovare ormai d’accordo la maggioritaria dottrina costituzionale del nostro
Paese, del Paese francese e la dottrina europea, nonostante le declinazioni
evidentemente presidenzialistiche che, da alcuni anni nel Paese, la gestione della
grave crisi finanziaria in corso da almeno un quinquennio, sta facendo assumere alla
forma del governo (parlamentare) e allo stesso Presidente della Repubblica.

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   Sia pure nel quadro di un conclamato scenario di crisi economica e finanziaria del
Paese, in particolare, secondo tale ottica, la nomina del Governo Monti, in Italia, ad
esempio, avrebbe risposto appunto a questa eccezionalità costituita dalla successione
temporale ravvicinata della nomina del prof. Monti a senatore a vita e
immediatamente dopo nel conferimento allo stesso della formazione del governo (di
crisi), aperto ad una (fino ad allora inedita) maggioranza costituita, oltre che dalle
forze politiche (fino a quel momento) maggioritarie in Parlamento, dalla gran parte
delle stesse forze di opposizione.
   La qualificazione che taluno ha dato di questa esperienza di governo come
“governo del Presidente”, tuttavia, risulta incongrua a coglierne i profili strutturali e
istituzionali, quando si consideri che il Governo Monti ha goduto comunque, per tutta
la sua (non lunga) durata, della fiducia del Parlamento, fino a quando la stessa non è
venuta meno a seguito delle dichiarazioni (parlamentari, ancorché non in sede di un
voto formalizzato di sfiducia al Governo, e dunque nella persistenza di forme di crisi
extraparlamentari del Governo) del segretario (pro tempore) del partito di
maggioranza in Parlamento, determinando in tal modo la decisione presidenziale di
scioglimento del Parlamento e di indizione delle nuove elezioni.
   Se, dunque – nonostante la diversa convinzione dell’ex Presidente del Consiglio
Berlusconi, che si era perfino candidato a dirigere la Convenzione costituzionale
chiamata e riscrivere la Seconda Parte della Costituzione – la presente fase politica
non sembra lasciare aperte molte strade a una ingegneria costituzionale fondata
sull’accoglimento di forme di ‘presidenzializzazione’ della politica, con le relative
conseguenze di accentuata ‘personalizzazione’ delle cariche istituzionali (di vertice e
non), si conferma che i partiti politici, così come ridefiniti alla luce delle esigenze
rappresentative imposte dalla legislazione elettorale, (e nonostante la gravità della
crisi nella quale da tempo versano, secondo un giudizio che è molto diffuso)
continuano a costituire strumenti qualificati e insostituibili per assicurare le funzioni
di rappresentanza politica e di mediazione che risultano assolutamente necessarie
rispetto alla eterogenea e conflittuale congerie degli interessi rappresentati in
Parlamento (e nelle altre assemblee elettive territoriali).
   Tale necessità dei partiti al fini di assicurare le esigenze di mediazione/integrazione
sociale e di rappresentanza politica, tuttavia, non consentono ai partiti di poter
rivendicare ruoli di ‘esclusività’ nell’esercizio di tali funzioni, che in passato hanno
politicamente preteso e praticato, ma che attualmente devono apprendere a
condividere con le manifestazioni del pluralismo politico e istituzionale emerse dal
basso della partecipazione politica diffusa presente nel Paese
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