Paolo Sarpi fra Montaigne e Charron - Pasquale Guaragnella MLN, Volume 120, Number 1, January 2005 (Italian Issue), pp. 173-189 (Article) ...

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Paolo Sarpi fra Montaigne e Charron
   Pasquale Guaragnella

   MLN, Volume 120, Number 1, January 2005 (Italian Issue), pp. 173-189 (Article)

   Published by Johns Hopkins University Press
   DOI: https://doi.org/10.1353/mln.2005.0029

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                     Paolo Sarpi fra
                   Montaigne e Charron
                                              ❦

                           Pasquale Guaragnella

Il presente saggio si propone di ripercorrere le forme di scrittura dei
Pensieri medico-morali e dei Pensieri sulla religione del padre servita Paolo
Sarpi: in particolare, ci si soffermerà sull’incidenza delle letture che
Sarpi fece degli Essais di Michel Eyquem de Montaigne (1588) e del
De la sagesse di Pierre Charron (1601). Il riferimento a passaggi
testuali renderà possibile verificare i parallelismi tematici e l’influenza
della cultura francese di fine Cinquecento sui due trattatelli sarpiani.
   Intanto v’è un episodio della biografia di Paolo Sarpi che attesta
della conoscenza degli Essais di Montaigne. Informa Fulgenzio
Micanzio nella Vita del padre Paolo che il servita aveva preso l’abitudine
di ricevere nel monastero del suo ordine, a Venezia, Marco Trevisan,
un giovane patrizio il quale si era già presentato a lui al momento del
debutto nella vita politica come savio agli ordini, per una visita di
cortesia.
   Sembra che Sarpi “non si abbandonasse al gusto della conversazio-
ne neppure con quell’interlocutore, e che restasse assorto in se
stesso, ad ascoltare e a meditare, limitandosi a farlo parlar molto con
‘pochi detti.’”1 E tuttavia Marco Trevisan parlava assai liberamente;
informando il servita della formicolante vita veneziana e arrivando
anche a criticarlo per le sue abitudini di studio che non conoscevano
sosta. “Ha un gran cuore questo Trevisanetto,” soleva dire il frate; e
aggiungeva: “Lodato Iddio che ho pur trovato uno che mi parla e non

  1
    F. Micanzio, “Vita del padre Paolo,” Istoria del concilio tridentino seguita dalla Vita del
padre Paolo (Torino: Einaudi, 1974) 1392.

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in maschera.”2 Per questo, quando Trevisan raccontò a Sarpi di una
sua affettuosa amicizia con un altro patrizio veneziano, Niccolò
Barbarico, il servita, lungi dall’insospettirsi, ordinò al suo fedele
Micanzio di tradurre nell’italiano dalla lingua francese il saggio di
Montaigne sull’amicizia: un testo del quale fece dono ai due patrizi
veneziani.
   Le pagine di Montaigne “sur l’amitié” dovevano aver toccato una
nota particolare: forse il servita, uomo “schivo, così assorbito nei suoi
pensieri e curioso di quelli altrui solo per farne alimento dei propri,”
nutriva “un desiderio inconscio e represso di sentire intorno a sé un
calore analogo a quello che il Montaigne diceva di esserci stato fra La
Boétie e lui.”3 Senonché, la conferma di un vero e proprio rapporto
incrociato tra un desiderio di solitudine e un desiderio di amicizia è
in un altro episodio della biografia di Sarpi. Sempre Micanzio ci
informa che, allorquando il servita ricevé la notizia della morte di
Monsieur de Maisse—già ambasciatore francese a Venezia, e presumi-
bilmente lo stesso che aveva fatto conoscere nella lingua originale il
saggio di Montaigne sull’amicizia—Sarpi “sentì dolore immenso, che
dimostrò al signor Pietro Assellineau col dirgli ‘Noi abbiamo perso il
nostro mensieur de Maisse: questa è ben grave ferita che non ha
rimedio.’”4 E Micanzio commenta: “Et in questa condizione umana,
che tra amici si sia spettatore o spettacolo, sì come il padre amava
sinceramente, così sentiva gran scontento o doglia.”5
   Condizione umana, dice Micanzio: e l’espressione ci riporta a
quella, analoga, di Montaigne. E anche quella immagine dello
spettatore e dello spettacolo, che sottintende quelle complementari
di teatro, amicizia, solitudine, nel mentre fa pensare al saggio di
Montaigne sull’amicizia, rinvia al testo sarpiano sicuramente più
vicino agli Essais: i Pensieri medico-morali. Infatti, trattando della
condizione umana e della solitudine e dell’amicizia, così scrive Sarpi:
   Mai piglia impresa di voler persuadere la tua opinione all’universale, che è
   impossibile: né per leggerezza ti lascia uscir parola contro la comune, ma
   abbi “verba in tua potestate,” al che giova “minimum cum aliis loqui,
   plurimum secum”: e se puoi stare così mascherato con tutti, non curare
   ch’alcuno vegga la tua faccia; e se non puoi contenere il prorito di lasciarla

  2
    Ivi, 1393.
  3
    G. Cozzi, “Una vicenda della Venezia barocca: Marco Trevisan e la sua eroica
amicizia,” Bollettino dell’Istituto di storia della società e dello stato veneziano, II (1960) 92.
  4
    F. Micanzio, “Vita del padre Paolo,” cit., 1355.
  5
    Ibid.
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  vedere, eleggi con giudicio, e con precedente prova pochi o uno dicendo
  con Epicuro: “Satis magnum alter alteri theatrum sumus.”6
   I Pensieri medico-morali sono stati definiti “un vero e proprio
autoritratto, l’unico che Sarpi abbia mai scritto,” insieme a una
lettera a Giacomo Badoer del marzo 1609. Si tratta, tuttavia, di un
autoritratto “scandito da veri e propri calchi, dall’innesto di citazioni
implicite o esplicite di testi e di motivi di autori sia antichi sia
moderni, come in una sorta di ‘giornale di bordo.’” Di qui la
difficoltà dell’analisi e dell’individuazione del “vero volto” di Sarpi in
un’opera siffatta: le figure, i volti cui Sarpi fa riferimento si struttura-
no “in una specie di intarsio” e proiettano indirettamente la persona-
lità sarpiana. Il servita veneziano, insomma, “continua a restare in
maschera anche nel suo testo di più netta e chiara matrice auto-
biografica,” o, viceversa, si confessa soprattutto quando indossa una
maschera, come nella Lettera a Badoer.7 Tuttavia, rileva Michele
Ciliberto, l’universalizzazione di una riflessione scaturita innanzitutto
dall’esperienza personale e dalla conoscenza della propria personali-
tà sembra allontanare alquanto il Sarpi dei Pensieri dal modello di
Montaigne e avvicinarlo alla “scelta critica, che è al tempo stesso, una
decisione etica” compiuta da Charron nella composizione del suo De
la sagesse.8
   Tutta la riflessione autobiografica svolta nei Pensieri è condotta
avendo presenti gli Essais e, in particolare, il “tema” che dall’inizio
alla fine li governa e li struttura: “è una perfezione assoluta, e quasi
divina,” aveva scritto Montaigne, “saper goder lealmente del proprio
essere,” rilevando, in un altro passaggio testuale, “il mio mestiere e la
mia arte è vivere.” Gli fa eco Sarpi, il quale, nei Pensieri medico-morali,
prescrive: “la più illustre delle azioni tue è vivere,” osservando inoltre,
nell’esordio dei Pensieri sulla religione: “il fine dell’uomo […] è vivere.”
Con una simile espressione, Sarpi intendeva spingere all’“indoglianza,”
interpretata galenicamente come il mantenimento dell’equilibrio dei
principi e degli umori, vicino all’ideale epicureo. Tuttavia l’arte di
ben vivere, rileva Vittorio Frajese, “prima di un metodo galenico di

   6
     P. Sarpi, Pensieri, a cura di G. e L. Cozzi (Torino: Einaudi, 1976) 56. Sia permesso
rinviare a P. Guaragnella, “L’arte di leggere gli Antichi nei Pensieri medico-morali di
Paolo Sarpi,” Tra antichi e moderni. Morale e retorica nel Seicento italiano (Lecce: Argo,
2003) 81–116.
   7
     M. Ciliberto, “Paolo Sarpi,” Storia generale della letteratura italiana, a cura di N.
Borsellino e W. Pedullà, vol. VI ( Milano: Federico Motta editore, 2004) 58–59.
   8
     Ivi, 59.
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applicazione dei rimedi, è una cognizione della composizione del-
l’animo” per raggiungere l’indolenza, ma non attraverso l’astinenza
totale—come sostenevano gli ordini monastici e la convinzione
comune—bensì tentando di assecondare i piaceri necessari e contra-
stando solo quelli superflui.9 Scrive Montaigne: “Le vite più belle
sono, secondo me, quelle che si conformano al modello comune e
umano, con ordine, ma senza eccezionalità e senza stravaganza.”
Sarpi ripete: “le vite più belle sono quelle ordinarie sì, ma nella
comune forma e senza miracolo e senza stravaganza.”
   L’arte di ben vivere si dissocia così dall’arte di ben morire. I piaceri
presenti devono essere ricevuti, “poiché il presente è l’unica cosa in
nostro possesso, mentre il futuro non è che immaginazione.” In
questo modo, si sceglie di godere del presente senza considerarlo un
mero prodromo della morte, senza proiettarsi nel passato né nel
futuro: non si deve “perdere il presente per il futuro; e venendo la
morte, la quale pur verrà, le cose desiderate sono inutili.”10
   Riferendosi ai Pensieri medico-morali, il biografo Micanzio osserva
che l’operetta era stata elaborata, “alla maniera de’ piccioli opuscoli
di Plutarco, [come] una medicina dell’animo, […] applicando
[Sarpi] gli aforismi scritti per la sanità del corpo alla cura e sanità
dell’animo.” A tal fine, prosegue il biografo, Sarpi “ordina molti
singolari mezzi per conseguire la tranquillità.”11
   Dunque, per Paolo Sarpi, una lettura assidua di Plutarco si trasfor-
ma in una scrittura e uno stile peculiari, in pensieri ‘rapidi’ e ‘di
scorcio:’ e non per caso Plutarco è pure definito il grande saggista
dell’antichità. Senonché, anche questa circostanza fa venire alla
mente un’osservazione di Montaigne, che qui vorremmo richiamare:
   les livres qui m’y servent, c’est Plutarque, depuis qu’il est Francois, et
   Seneque, Ils ont tous deux cette notable commodité pour mon humeur,
   que la science que j’y cherche y est tractée à pièces décousues, qui ne
   demandent pas l’obligation d’un long travail, dequoy je suis incapable,
   comme sont les Opuscules de Plutarque et les Epîtres de Seneque, qui est la
   plus belle partie de ses ecrits, et la plus profitable. […] Leur instruction est
   de la cresme de la philosophie, et presentée d’un simple facon et
   pertinente.12

  9
    Cfr V. Frajese, Sarpi scettico. Stato e Chiesa a Venezia fra Cinque e Seicento (Bologna: Il
Mulino, 1994) 138.
  10
     Ivi, 138–39.
  11
     F. Micanzio, “Vita del padre Paolo,” cit., 1323.
  12
     M. de Montaigne, Essais, texte établi par A. Thibaudet et M. Rat (Paris: Gallimard,
1962) 392–93.
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   Precisamente l’uso di Seneca, il filosofo che s’irrigidisce, e di
Plutarco, l’autore che sembra non dar molto peso all’assalto dei
desideri viziosi, hanno indotto Pierre Villey a tracciare l’evoluzione
del pensiero di Montaigne secondo uno schema triadico in cui
compaiono i nomi di Seneca, Plutarco e Socrate. A giudizio di Villey,
vi sarebbero, nella composizione degli Essais, delle ‘stratificazioni’: in
un primo periodo, Montaigne ostenterebbe “una saggezza altera ed
arrogante, mutuata un po’ dallo stoicismo e un po’ dall’epicureismo,
in cui assume a maestro Seneca, e a modello Catone”; in una seconda
fase, subentrerebbe “un concetto di saggezza eclettico, più umano e
flessibile, e Plutarco si sostituisce a Seneca, e avviene l’incontro con
Sesto Empirico e, mediante lui, col relativismo di Pirrone”; infine,
Montaigne sembrerebbe preferire Socrate, poiché “elogia la semplice
saggezza contadina, approva l’uso delle voluttà naturali, diffida della
cultura.”13 Senonché, “per quel che s’intravvede dagli scritti” di Paolo
Sarpi, “esiste una chiara analogia tra lo svolgimento del suo pensiero
e quello di Montaigne”: anche per il servita, avverte autorevolmente
Gaetano Cozzi, non è possibile trovare una scansione molto netta
delle tre fasi, e si può altresì dubitare che Sarpi abbia mai condiviso le
posizioni del ‘primo periodo’ di Montaigne.
   Vero è che una studiosa di Montaigne ha invitato a riflettere “sul
senso del giovanile stoicismo di tintura senechiana; e sull’opportunità
di quel tentativo di effettuare una triangolazione della sua posizione
filosofica fra le fasi successive di stoicismo, scetticismo, epicureismo”
identificate da Villey e da coloro che hanno aderito al suo modello. Il
rischio è, infatti, quello di tralasciare “l’intraducibile lievitazione” del
pensiero di Montaigne, “scrittore oltre e prima che filosofo,” in
quanto, così facendo, le sue idee potrebbero apparire “improvvisa-
mente sbiadite e svuotate del loro contenuto più ricco, ove si
prescinda dall’accento.”14
   La precisazione su Montaigne grande scrittore vale pure per Sarpi,
che ancora oggi si stenta a riconoscere come uno dei maggiori
prosatori del Seicento italiano. Tale riconoscimento, lungi dall’essere
scoraggiato, potrà essere indotto pure da talune affinità tematiche
con Montaigne. Soffermandosi sull’attitudine, di sicura derivazione
stoica, della fermezza, così Sarpi scrive nei Pensieri medico-morali:

  13
       G. Cozzi, “Introduzione a P. Sarpi,” Pensieri, cit., X.
  14
       F. Garavini, Itinerari a Montaigne (Firenze: Sansoni, 1983) 22.
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  non tentar d’impedir le prime fantasie […] ch’è impossibile, ma purché la
  rissoluzione stii ferma, contentati. “Mens immota manet, lachrimae
  volvuntur inanes.”15
  Ora, il pensiero sarpiano sopra riprodotto è pressoché identico a
un passaggio di Montaigne rinvenibile nel saggio De la constance. Esso
recita:
  Ny n’entendent les Stoïciens que l’ame de leur sage puisse resister aux
  premieres vision et fantasies […] Ainsi aux autres passions, pourvu que
  son opinion demeure sauve et entiere […]. Voyez bien disertement et
  plainement l’estat du sage Stoique:
     Mens immota manet, lachrimae volvuntur inanes.16
   Come si può rilevare, sono del tutto affini i concetti sulla fermezza
stoica espressi da Montaigne e Sarpi; identica è poi la citazione da
Virgilio, e precisamente da quel libro IV dell’Eneide in cui sono
rappresentati la ferma risoluzione di Enea a riprendere il viaggio
imposto dal fato e l’inutile pianto di Didone che vorrebbe trattenerlo.
   D’altra parte, richiamando qui lo schema di Villey solo per ragioni
di comodità espositiva, potremmo ben rilevare che anche nella
considerazione di una virtù duttile e flessibile le affinità fra Sarpi e
Montaigne risultano sorprendenti. Accade infatti che l’esercizio di
una virtù duttile sia giuocato in direzione del tema del mondo come
teatro—sulle cui scene si aggirano, giusta la metafora stoica, il saggio
e la folla. Così scrive Sarpi nei Pensieri medico-morali:
  Sopra il tutto fuggi quel rigore che si chiama virtù, ma è vizio pestifero
  quella rettitudine catoniana. Ella è un pretesto dell’ambizione et ostina-
  zione, ma del rimanente inetta alla vita umana. Non può caminar dritto
  chi camina nella folla; spalleggi e destreggi per urtar meno che sia
  possibile, e passar per la moltitudine pocco offeso.17
  I passi sarpiani sono esemplati su Montaigne e il testo degli Essais.
Infatti, nel Libro I, cap. XXIII (Le profit de l’un est dommage de l’autre)
così leggiamo:
  il me semble […] que le sage doit au-dedans retirer son ame de la presse,
  et la tenir en liberté et puissance de juger librement des choses; mais,
  quant au dehors, qu’il doit suivre entierement les facons et formes
  recues.18

  15
     P. Sarpi, Pensieri, cit., 46.
  16
     M. de Montaigne, Essais, cit., 47–48.
  17
     P. Sarpi, Pensieri, cit., 49.
  18
     M. de Montaigne, Essais, cit., 117.
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  Quanto al riferimento catoniano e all’immagine del saggio che
cammina nella folla, così leggiamo nel Libro III, cap. IX (De la
vanité):
  La vertu de Caton estoit vigoreuse outre la mesure de son siecle […] Celuy
  qui va en la presse, il faut qu’il gauchisse, qu’il serre ses couddes, qu’il
  recule ou qu’il advance, voire qu’il quitte le droict chemin, selon ce qu’il
  rencontre; qu’il vive non tant selon soy que selon autruy, non selon ce qu’il
  se propose, mais selon ce qu’on luy propose, selon le temps, selon les
  hommes, selon les affaires.19
   Si dovrebbe ora richiamare il terzo e ultimo modello, il quale
comprovi una affinità tra Sarpi e Montaigne: un modello scettico e
‘socratico’ di saggezza, inteso a esaltare la semplicità e i desideri
naturali, e ad esprimere diffidenza verso forme sofisticate di cultura.
Aveva scritto Montaigne nel Libro II, cap. XII (Apologie de Raymond
Sebond):
  Le philosophe Pyrro, courant en mer le hazart d’une grande tourmente,
  ne presentoit à ceux qui estoyent avec luy à imiter que la securité d’un
  porceau qui voyageoit avecques eux, regardant cette tempeste sans effroy.
  La philosophie, au bout de ses preceptes, nous renvoye aux exemples d’un
  athlete et d’un muletier.20
  Fanno eco a questi ‘passaggi’ di Montaigne i seguenti aforismi
sarpiani:
  Più ha da imparare (disse Catone) il savio dal mato ch’il mato dal savio.
  Osserva più li volgari che li letterati o accostumati: così Socrate faceva, e la
  filosofia doppo aver consumati li suoi precetti invia al villano, e Pirro
  mostrò il porcello per esemplare della tranquillità.21
   Come si può rilevare, in Sarpi, oltre che il riferimento al rapporto
tra il saggio e il villano, ricorre un riferimento al rapporto tra il savio
e il matto. Senonché, questo stesso esempio, di lunga tradizione, è
presente pure in Montaigne. Nel Libro III, cap. VIII (De l’art de
conferer) leggiamo:
  Il en peut estre aucuns de ma complexion, qui m’instruis mieux par
  contrarieté que par exemple, et par fuite que par suite. A cette sorte de
  discipline regardoit le vieux Caton, quand il dict que les sages ont plus à
  apprendre des fouls que les fouls des sages.22

  19
     Ivi, 969–70.
  20
     Ivi, 470.
  21
     P. Sarpi, Pensieri, cit., 55.
  22
     M. de Montaigne, Essais, cit., 899–900.
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  E poco più avanti, nello stesso capitolo degli Essais:
  La sottise est une mauvaise qualité; mais de ne la pouvoir supporter, et s’en
  despiter et ronger, comme il m’advient, c’est une autre sorte de maladie.23
  Ora, assai significativamente, un aforisma quasi analogo si trova nei
Pensieri medico-morali:
  la pazzia è una mala qualità, ma il non poterla sopportare, e rendersi et
  indispetirsene è peggio, senza che spesso riputiamo noi stessi pazzi sopra il
  soggetto del nostro vicino.24
   È agevole rilevare che sopportare e indispetirsene traducono corretta-
mente supporter e s’en despiter; resta da chiedersi di quel verbo
sarpiano rendersi, non comprensibile. Purtroppo, dei Pensieri medico-
morali è andato perduto l’originale e non esiste alcuna copia secentesca:
quella che Gaetano Cozzi, riordinando l’archivio Donà delle Rose, ha
trovato è “una copia eseguita personalmente da Zuanne Donà, vissuto
tra la fine del secolo XVII e la prima metà del XVIII.” Con riferimen-
to a questa copia, la curatrice (in collaborazione con Libero Sosio)
dell’edizione integrale dei Pensieri sarpiani, Luisa Cozzi, ha segnalato
che il copista settecentesco riproduce la lezione “rendersi.” Pertanto
potrebbe trattarsi di un errore di lettura del copista, che avrebbe
trascritto “rendersi” anziché “rodersi” (che traduce il francese ronger):
un verbo, rodersi, che molto spesso si accompagna alle parole “follia,”
“pazzia,” “stoltezza” (esemplarmente, Bellerofonte, eroe della pazzia,
è roso da tale malattia). Senonché, Luisa Cozzi avverte con sicura
competenza che “trattandosi, come tutte le citazioni sarpiane, di
citazione libera,” non è da escludere neppure che “la lezione del
copista riproducesse fedelmente l’originale.”
   Al piano inclinato di una vita civile e religiosa ridotta a pure
cerimonie oppone uno strenuo tentativo di resistenza la ricerca cultu-
rale e ideologica di Paolo Sarpi. A partire soprattutto dagli ultimi
anni del Cinquecento, e cioè dopo aver consumato una esperienza
amara nel contatto diretto con i maneggi del potere della Curia
romana, si accentua la divaricazione fra le cerimonie del vivere civile
e religioso in cui il servita è costretto a ottemperare le sofferte idealità
morali coltivate nel foro interiore della coscienza. Ed è nel quotidia-
no impatto con questa deformata dimensione del vivere che un’atten-
zione progressiva verso la parte più viva e moderna della cultura

  23
       Ivi, 901.
  24
       P. Sarpi, Pensieri, cit., 57.
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francese designerà i percorsi più interessanti disvelando “un’analoga
reazione da parte del servita alla problematica politica e religiosa che
era stata proposta, nel modo più drammatico, dalle guerre civili di
Francia.”25 D’altra parte, “il cattolicesimo veneto,” già nel periodo
compreso tra la fine del ’400 e l’inizio del ’500, “aveva rivelato una
fisionomia sua propria, venata di intensa spiritualità, fervida di un
ardente desiderio di riforma interiore, di realizzazione della verità
cristiana nelle opere.”26 Fra Cinque e Seicento, celebri patrizi veneti
“rientrano in questa tradizione, solo in essa e per essa sono com-
prensibili: e altrettanto si può dire”—almeno sino all’inizio del secolo
XVII—“di un religioso dalla personalità tormentata come fra’ Paolo
Sarpi.” La riforma, segnala Cozzi, “non aveva incrinato il loro
attaccamento alla religione dei padri. Li aveva bensì resi più attenti o
più sensibili, aveva proposto loro dubbi, problemi su cui ripiegarsi,
esperienze al cui lume guardare con ravvivato acume critico la
propria fede e l’altrui.”27 È su questo piano che s’incontravano taluni
ambienti veneti e taluni ambienti francesi: indipendentemente “da
qualche peculiarità di sentire religioso, dovuto alle logiche differenze
fra un paese e l’altro, un’atmosfera e l’altra, c’erano una corrente di
simpatia, dei punti di contatto fra il cattolicesimo di questi patrizi
veneziani e quelli di un forte gruppo tra i Francesi.” Le idee religiose,
politiche, giuridiche di questi ultimi, “i loro libri, la loro cultura, le
notizie sulle intricate vicende del loro paese dovevano così circolare
per Venezia ed entrare nei vari ambienti culturali, pervaderli.” È solo
in virtù di tale influenza—suggerisce Cozzi—che si può spiegare il
brano della biografia sarpiana “in cui fra Fulgenzio rievoca con
commossa nostalgia il Ridotto dei Morosini e il costume politico-
morale che vi dominava.” Infatti, gli uomini di quel Ridotto “rifiutavano
la cerimonia (sottolineatura mia), che si muovevano secondo ‘una
civile e libera creanza,’ che parlavano apertamente, come suggeriva-
no i loro gusti e i loro interessi culturali e morali, ricordavano molto
quella ‘ingenua libertas’ che il de Thou ammirava nell’opera di
Montaigne, quale massima tra le sue virtù.”28 Lo stesso intento
indicato da Micanzio come peculiare dei frequentatori del Ridotto
Morosini, ovvero la cognizione della verità, “esprimeva la confluenza

  25
      G. Cozzi, “Note introduttive a P. Sarpi,” Pensieri, cit., XXXII.
  26
      G. Cozzi, “Il doge Nicolò Contarini,” Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del
Seicento (Istituto per la collaborazione culturale Venezia-Roma, 1958) 40.
   27
      Ibid.
   28
      G. Cozzi, “Il doge Nicolò Contarini,” cit., 50.
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e l’assorbimento nell’ambiente veneziano di motivi tipici del mondo
francese. Si veda”—avverte ancora Cozzi—“in Montaigne, in de
Thou, in Canaye […] quale suggestione, quale importanza abbia
questo ideale di verità da ricercare nella storia, da attuare nella vita.”
A ben considerare, la ricerca della verità “era desiderio di pace, nella
mente e nell’animo”: un ideale di salute, “rimpianto, per molti, della
vecchia Chiesa, della tranquillità e dell’ordine che sapeva dare […].
Per tutti era rifiuto delle controversie, della faziosità con cui erano
impostate, della deviazione dello spirito cristiano che esse imponeva-
no, proprio mentre si cercava la purità dottrinale. Era anche […]
stanchezza per le ‘chiese,’ per l’adesione totale e concitata che esse
richiedevano: era soprattutto sentimento profondo di Dio.”29
   Singolarmente, il sentimento religioso sarà rivissuto al pari del
sentimento d’amicizia: come attrazione per un oggetto lontano. Un’ana-
loga attitudine riflessiva attraversa le pagine di Sarpi e quelle di
Montaigne: la religione risulta trattata come “un fatto sociologico,
scarnito nei suoi termini con la freddezza distaccata dello scienziato.”30
Pure, proprio in virtù di questo percorso conoscitivo il “sacro” e il
“divino” si disporranno come un oggetto assolutamente altro, inquie-
tante: e questo altro si anniderà nel foro della coscienza. A dirla
altrimenti: la religione ne risulterà integralmente interiorizzata. E
pertanto, secondo un singolarissimo paradosso, il pirronismo, lo
scetticismo, s’incroceranno con un sentimento religioso di “intensità
trepida” e di “tensione trascendente.” Per intendere il precipuo
orientamento di Sarpi bisognerà, dunque, tener presenti “quelle vere
e proprie confessioni che sono i suoi pensieri morali e, ancor più,
quelli sulla religione. Si accorda ad essi la sua insofferenza a sentirsi
vincolato da un complesso rigoroso, dettagliato di articoli di fede, che
non lasciano spazio per il dubbio, ma che esigono un’adesione:
insofferenza che ricorda, come il suo pirronismo, le pagine dell’Apologie
de Raymond de Sebond di Michel de Montaigne.”31
   In virtù del pirronismo e dello scetticismo si realizzeranno tanto
nella scrittura di Montaigne quanto in quella di Sarpi singolari
procedimenti: e in misura anche più sorprendente in Sarpi tenuto
conto del suo status di religioso. Si consideri la silloge di pensieri sulla
religione, probabilmente—suggerisce Cozzi—“minuta o semplice trac-
cia” di quell’opuscolo sull’ateismo di cui parla Micanzio nella biografia.

  29
     Ivi, 52.
  30
     G. Cozzi, “Note introduttive a P. Sarpi,” Pensieri, cit., XLII.
  31
     Ivi, LXXVIII.
MLN                                          183

Partito probabilmente il servita da un intento di difesa della religione
e di condanna dell’ateismo, egli giunge ad applicare la pirroniana
sospensione del giudizio sulla verità delle religioni e soprattutto
riconosce che esse hanno tutte gli stessi elementi, “profezie, oracoli,
sogni, e che hanno bisogno di mezzi intermedi tra Dio e l’uomo.”
   Non diversamente, si diceva, accade in Montaigne. Qui addirittura
l’intento esplicito di una difesa della religione dei padri s’incrocia con
la difesa della memoria del padre di Montaigne. Infatti, l’autore rivela
fin dalla lettera dedicatoria della traduzione della Teologia naturale di
Sebond che “lo scrivere si giustifica in primo luogo come l’adempi-
mento di una missione affidata ed accettata, di un impegno assunto.”
E Montaigne, “traduttore dell’opera, si confonde con il voi rivolto al
padre, la cui volontà fu il primo motore di questa traduzione.” Il libro
di Sebond, segnala Jean Starobinski, “raccomandato al padre di
Montaigne per l’azione conservatrice che avrebbe potuto esercitare
facendo meglio rispettare ‘la nostra antica fede,’ ha dunque il duplice
compito di far durare ciò che è minacciato di distruzione: il padre
[…] non ha più molto da vivere; le ‘antiche abitudini’ religiose sono
scosse dalle ‘novità di Lutero,’ paragonate ad ‘un inizio di malattia.’
Si tratta, sotto tutti gli aspetti, di preservare quanto è in pericolo, di
scongiurare i sintomi della rovina.” È significativo: Montaigne vorreb-
be giungere ad un’“umile” confessione di “insufficienza” personale
trascinandovi gli avversari di Sebond (che sono indirettamente gli
avversari del padre), e tuttavia i lettori non hanno tardato ad
accorgersi che il pensiero dello stesso Sebond “anziché trovarsi
meglio protetto, cadeva sotto i colpi di una […] critica radicale del
sapere umano.”32 Un’analoga attitudine riflessiva attraversa le pagine
di Montaigne e di Sarpi: e la religione risulta poi trattata come “un
fatto sociologico, scarnito nei suoi termini con la freddezza distaccata
dello scienziato.”33 Pure, proprio in virtù di questo percorso conosci-
tivo il “sacro” e il “divino” si disporranno come un oggetto assoluta-
mente altro, inquietante : e questo altro si anniderà nel foro della
coscienza. A dirla altrimenti: la religione ne risulterà integralmente
interiorizzata. E pertanto, secondo un singolarissimo paradosso, il
pirronismo, lo scetticismo, s’incroceranno con un sentimento religio-
so di “intensità trepida” e di “tensione trascendente.”
   Si potrebbero ancora segnalare altri luoghi dei Pensieri di Sarpi in

 32
      J. Starobinski, Montaigne: il paradosso dell’apparenza (Bologna: Il Mulino, 1984) 62.
 33
      G. Cozzi, “Note introduttive a P. Sarpi,” Pensieri, cit., XLII.
184                        PASQUALE GUARAGNELLA

cui è evidente la derivazione dagli Essais. Ma verrebbe fatto di
chiedersi—sulle tracce di Starobinski studioso di Montaigne—se
l’elogio che Sarpi pronuncia di Socrate e della natura non costituisca
il singolare paradosso della scrittura di un grande intellettuale
secentesco, il quale respinge cerimonie e apparenze, ma è poi indotto
a riconoscere che si lascia l’apparenza soltanto per incorrere in una
‘nuova’ apparenza. A ben considerare, lo stesso Socrate, modello di
semplicità naturale, finisce con l’essere figura di un mascheramento
ineliminabile. Così, infatti, recita un passo dei Pensieri medico-morali:
   Bisognerebbe aver sempre innanzi agl’occhi un savio per esemplare, ma
   bisogna sia savio chi deve conoscere il savio. Contentati di avere un
   Socrate, quale ti deve essere non solo esemplare, ma custode e pedante, sì
   ch’ogni azione tu vestito della sua persona ti riprendi et ammonisci.34
   Vestirsi della persona di Socrate: ovvero della sua maschera, in
quanto “persona” designa la maschera dell’antica arte drammaturgia.
Ed è pur vero, giusta quanto ricorda Pierre Hadot, che “tutte le
testimonianze che possediamo su di lui ce lo nascondono più che
non ce lo rivelino, precisamente perché Socrate è sempre servito da
maschera a coloro che hanno parlato di lui.” Infatti, proprio perché
mascherato, “Socrate è diventato […] la maschera di personalità che
hanno avuto bisogno di rifugiarsi dietro di lui.”35
   Se, dunque, a giudizio di Sarpi, risulta difficile essere savio, sarà
possibile apparire savio: in quanto anche la saggezza non è che un
mascheramento, una “rappresentazione” della saggezza. Non per
caso, con attitudine tipicamente secentesca, il servita solitario e
melanconico formulerà in una lettera a Jacques Gillot del 12 maggio
1609 una dichiarazione fra le più sconsolate: “personam coactus fero;
licet in Italia nemo sine ea esse possit.”36 Si è in verità costretti a
portar maschera: perché senza di essa nessuno potrebbe essere. Ma è
qui che si annida il più profondo paradosso della esistenza e della
cultura di Paolo Sarpi.
   Gli Essais di Montaigne affascinano Sarpi. Questo spiega pure la
circostanza della lettura pronta, da parte del servita, anche del De la
sagesse di Pierre Charron, allievo, per così dire, di Montaigne. Sarpi

  34
     P. Sarpi, Pensieri, cit., 55.
  35
     P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, trad. it. A.M. Merietti (Torino: Einaudi,
1988) 90.
  36
     P. Sarpi, Lettere ai gallicani, ediz. critica, saggio introduttivo e note a cura di B.
Ulianich (Wiesbaden: F. Steiner, 1961) 133.
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“non solo si procurò e lesse il libro del canonico di Condom appena
pubblicato, ma ne recepì le idee principali con una tempestività che
rivela un atteggiamento già predisposto.”37
   Charron compiva un primo spostamento interpretando come una
massima di saggezza quel che Montaigne menzionava come caratteri-
stica della propria personale condotta. È una differenza implicita, del
resto, nell’impianto dei due libri, gli Essais e De la sagesse: Montaigne
descrive il proprio io, Charron detta norme di saggezza, indica come
divenire saggi. Nelle pagine del De la sagesse, la maschera diveniva la
divisa peculiare del saggio; se in essa vi è qualcosa di più comunemen-
te umano, tale comune unanimità è presente nel sapiente in un
grado eminente. Nell’uomo saggio si presenta nel modo più intenso
quel che è presente ovunque. Solo per lui diviene possibile una
scissione così rigorosa di una perfetta obbedienza esteriore unita ad
una altrettanto integrale libertà di giudizio. Perfettamente libero e
perfettamente obbediente, potrà seguire le leggi, i costumi e le
cerimonie del luogo, giudicandoli contemporaneamente all’interno
secondo la regola della ragione universale.38 Scrive, infatti, Charron:
  L’esprit et le corps se contrediront, et qu’il fera en dehors d’une façon, et
  jugera autrement au dedans; jouera un roule devant le monde, et un autre
  en son esprit […] Le dire generale, universus mundus exercet histroniam, se
  doit vrayment et proprement entandre du sage, qui est autre au dedans
  qu’il ne montre au dehors.39
   La posizione espressa da Charron è l’attento esame, da parte del
saggio, di ogni cosa, in ogni suo aspetto e possibilità, senza legarsi a
nessuna, ma mantenendosi aperto a tutte. Tuttavia, rileva uno studio-
so, “questo precetto della critica riguarda l’interiorità, non l’esteriori-
tà,” nella quale il saggio deve “accordarsi con il giudizio comune.”
Egli deve, insomma, comportarsi nella quotidianità “secondo l’opi-
nione comune e corrente, senza tuttavia giudicare come questa.” In
questo modo, “lo spirito e il corpo si contraddiranno seguendo due
regole perfettamente opposte: completamente assoggettato il secon-
do, pienamente libero il primo.”40
   Analogo atteggiamento è in Paolo Sarpi. Recita infatti un passaggio
dei Pensieri medico-morali:

  37
     V. Frajese, Sarpi scettico, cit., 143.
  38
     Ivi, 146–47.
  39
     P. Charron, De la sagesse, a cura di B. de Negroni (Paris: Fayard, 1986) 393.
  40
     V. Frajese, Sarpi scettico, cit., 146.
186                       PASQUALE GUARAGNELLA

  restringi il tuo volere entro li termini delle opinioni comuni, ma non le
  allargare, se non secondo la tua. Al di dentro vivi e giudica secondo la
  ragione, al di fuori secondo la comune opinione vivi e parla.41
   Vale tuttavia la pena di notare una differenza significativa riguar-
dante il rapporto fra Sarpi e Charron. Scrive Sarpi nei Pensieri medico-
morali: “Non ti lasciar prender dall’error comune della prudenza,
massime che sii estesa. Le cose si fanno da sé, bisogna consultarle
legermente con li più volgari et usitati avisi.” E così conclude: “Nel
negozio ha più parte l’oportunità che la prudenza, questa regge un
minimo, quella l’infinito.”42 Sostenendo questo, Sarpi è, del resto,
fedele al suo modello “felino”: il gatto è autonomo e indipendente;
ma, abbandonando la prudenza, sa anche assalire e colpire, quando
si presentano il momento e l’occasione.
   Assai differente è, invece, il quadro offerto da Charron, per il quale
la prudenza è addirittura, come scrive all’inizio del terzo libro della
Sagesse, “come una general guida, e condottiera delle altre virtù, e di
tutta la vita, benché propriamente ella s’eserciti negli affari.” Al fondo
è dunque sul concetto di politica che si apre fra Sarpi e Charron una
distanza della quale occorrerebbe tener conto per capire l’impianto
complessivo della posizione del servita veneziano.
   Vero è che l’osservazione relativa alla varietà e mutabilità dei
costumi e della morale, presente in Montaigne e Charron, è ribadita
da Sarpi nei Pensieri medico-morali. Recita un pasaggio di questa
scrittura sarpiana:
  Non ti meravigliare mai di azione o opinione alcuna perché non vi è cosa
  così assurda, che non sia stata piantata per legge: e quello ch’oggi è favola,
  fu già articolo di fede.43
  Analogo pensiero è espresso da Charron nel suo De la sagesse:
  […] et n’y a il chose si etrange et si desnaturée à l’opinion de plusieurs,
  qui ne soit approuvée et authorisée en plusieurs lieux par usage commun.44
  Un elemento produttivo presente nella riflessione di Sarpi sulla
religione è riconoscibile precisamente nella ripresa di questo discor-
so di Charron. Vi è un abbozzo di un trattato sarpiano denominato
Pensieri sulla religione. Osserva David Wootton che l’intento di Sarpi

 41
    P. Sarpi, Pensieri, cit., 56.
 42
    Ivi, 50.
 43
    Ivi, 56.
 44
    P. Charron, De la sagesse, cit., 428. Cfr V. Frajese, Sarpi scettico, cit., 141–42.
MLN                                            187

era quello di fornire un resoconto del motivo per cui e del modo in
cui gli uomini si avvicinano a Dio. Tra le ragioni che vaglia come
fondanti della convinzione umana che esistano divinità da placare ci
sono la paura dell’ignoto, il desiderio di ciò che non si può ottenere,
la spiegazione di fenomeni naturali che appaiono impenetrabili.
Dunque, poiché i rituali religiosi rispecchiano i rapporti sociali,
l’immagine di Dio che emerge da quelli è “nulla più che un riflesso
distorto dell’uomo.”45
   In questa scrittura, Sarpi attua una ripresa del capitolo della Sagesse
intitolato Estudier à la vraye piété,46 in cui il canonico di Condom
discute gli elementi comuni, le evoluzioni e le caratteristiche delle
grandi religioni. Secondo Wootton, i Pensieri sulla religione sono, più
che un semplice commento critico sull’opera charroniana, in quanto
le influenze dello stoicismo e dello scetticismo su Charron si riper-
cuotono sulla discussione sarpiana delle origini psicologiche della
religione.47
   Nella sua scrittura sulla religione Sarpi riprende la figura char-
roniana del divino come estremo sforzo verso l’idea di perfezione. Si
legga il passo di Charron:
   Dieu est le dernier effort de nostre imagination vers la perfection, chacun
   en amplifiant l’idée suyvant sa capacité, et pour mieux dire, Dieu est
   infiniment par-dessus tous nos derniers et plus hautes efforts et imagina-
   tions vers la perfection.48
   A queste osservazioni fanno eco i sarpiani Pensieri sulla religione:
   [gli dei] come sono posti nel sommo luoco, così sono l’ultimo sforzo della
   immaginazione di ciascuno, la quale non capace d’altro essere che del suo
   vi aggiunge o relazione o negazione, e lo compara di quello che siamo e
   vorressimo essere. […]
      L’amplificazione leva quello che non vorressimo, cioè l’imperfezzione.
      Et aggiunge tutto quello che vorressimo, cioè perfezzione.49
  Vi sono altri passi in cui i sarpiani Pensieri sulla religione si presenta-
no come una traduzione pressoché letterale di Charron. Si consideri,
ad esempio, il seguente:

  45
     D. Wootton, Paolo Sarpi. Between Renaissance and Enlightenment (Cambridge: CUP,
1983) 24.
  46
     Wootton ritiene che l’edizione del De la sagesse cui Sarpi si ispira sia la prima, quella
del 1601 non censurata, anziché quella del 1604. Cfr D. Wootton, Paolo Sarpi, cit., 25.
  47
     Ibid.
  48
     P. Charron, De la sagesse, cit., 459.
  49
     P. Sarpi, Pensieri, cit., 60–61.
188                      PASQUALE GUARAGNELLA

  Le migliori [religioni] mutano Dio al più alto [loco], che da maggior
     speranza.
  L’uomo più in basso, che raffrena più gli affetti.
  Il luoco dove elevarsi non sopra la condizione umana. […]
  Mettono l’anima in tranquillità e lo rendono generoso e umano. […]
  Tra tutte la somma fa Dio per la sola ammirazione senza cupidità né
     timore.
  Lo mette altissimo infinitamente al di sopra di ogni condizione.
  Ha opinione di lui senza gran determinazione del suo essere.50
  Si legga, d’altro canto, il passo di Charron:
  Son office [della religione nobile] est d’eslever Dieu au plus haut de tout
  son effort, et laisser l’homme au plus bas, l’abattre comme perdue, et puis
  luy fournir des moyens de se relever, luy faire sentir sa miser et son rien,
  afin qu’en Dieu seul, [l’homme] mette sa confidence et son tout.51
  In questo ambito di problemi, segnati per così dire dalle figure
dell’“alto” e del “basso,” Sarpi riprende precisamente la distinzione
charroniana tra religioni superstiziose e religioni nobili. Scrive il
servita veneziano, seguendo da vicino il testo di Charron:
  [La superstizione] Forma et aprende Dio iracondo, dispettoso, difficile a
  contentare, facile a corrucciarsi, difficile a pacificarsi, che esamina le
  azzioni a modo umano come giudice severo che ci spia, ci agguata al passo,
  lo abassa a sé, lo giudica secondo sé. Non si fida di lui, non si sicura, l’odia
  in sé, lo adula per pacificarlo, l’importuna.52
   Le religioni nobili, invece, sono quelle “che separano radicalmente
l’idea di Dio dall’ordine creaturale.”53 In questo ambito si può
sviluppare una breve postilla di commento. Sarpi pensava ad una
religione essenziale e tollerante, indifferente alle diversità liturgiche
e confessionali. Nell’animo di Sarpi si consuma una crisi che si
manifesta attraverso “il progressivo venir meno del senso della
Chiesa,” di cui egli non accetta più “quanto ha di ‘visibile,’ di terreno,
e le esigenze organizzative, e le sollecitudini temporali, e i limiti
all’autonomia individuale che questo comportava”; crisi che matura
attraverso il contemporaneo “affermarsi in lui dell’esperienza religio-
sa come esperienza individuale, che si attua al di fuori della mediazio-
ne sacramentale della Chiesa.”54

 50
    Ivi, 65–66.
 51
    P. Charron, De la sagesse, cit., 457.
 52
    P. Sarpi, Pensieri, cit., 68.
 53
    V. Frajese, Sarpi scettico, cit., 164.
 54
    G. Cozzi, “Note introduttive a P. Sarpi,” Pensieri, cit., LXXVIII.
MLN                                  189

   Questa concezione scaturiva anche, evidentemente, dalla particola-
re situazione della città di Venezia, aperta all’Europa e alle sue diverse
confessioni religiose—e rifletteva anche il carattere del suo dominio,
composizione di diverse nazionalità, di regola tolleranti con le
minoranze greco-ortodossa, ebraica ed altre. Inoltre, quella sarpiana
era una concezione che rifletteva le idee di quei gruppi che manife-
stavano la scelta di una politica decisamente anticuriale.
Università di Bari
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