PALLOTTI E IL COLERA1 - PALLOTTI AND CHOLERA - Apostolato Universale

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COMUNICAZIONE
                                                                     PALLOTTI E IL COLERA

                        PALLOTTI E IL COLERA1

                          PALLOTTI AND CHOLERA

                                                              Stanisław Stawicki2

Introduzione

       Prima di tutto, voglio spiegare la genesi della mia apparizione da-
vanti a voi stamattina. Il predicatore scelto per questo ritiro mensile, P.
Louis Caruna SJ, Decano della Facoltà di Filosofia alla “Gregoriana”,
non è potuto venire a causa della situazione del coronavirus. Per quanto
mi riguarda, due settimane fa, ho scritto – in polacco – un articolo
sull’impegno del Pallotti durante l’epidemia di colera a Roma nel 1837.
Il rettore della nostra comunità ha visto, e probabilmente anche letto
questo articolo, e mi ha chiesto di presentare lo stesso tema, un po’ più
sviluppato. Mi presento quindi a voi come una “ruota di scorta” (ruota
di soccorso), sempre però importante per ogni macchina, anche quella
che si chiama una comunità.
       Per preparare questa riflessione mi sono servito di quattro testi:
Francesco Todisco, “San Vincenzo Pallotti, profeta della spiritualità di
comunione”; Francesco Amoroso, “San Vincenzo Pallotti, Romano”;
l’eccellente benché vecchio “Dizionario di erudizione storico-ecclesia-
stica” di Gaetano Moroni; e delle lettere stesse del Pallotti.
       Gli anni trenta, all’epoca del Pallotti, specialmente 1835/1837 fu-
rono di vive sofferenze per l’Europa a causa dell’epidemia di colera,
chiamata allora “asiatica” perché proveniente prima dall’India, e poi
dall’odierno Iraq.
       Dobbiamo sapere che le epidemie, nei secoli precedenti, si erano
diffuse di città in città soprattutto attraverso i porti come Civitavecchia,

1
    Ritiro mensile guidato da D. Stanisław Stawicki, responsabile per la pastorale
    della chiesa del SS. Salvatore in Onda il 14 marzo 2020.
2
    Stanislaw Stawicki, dottore in teologia spirituale, è attualmente al servizio della
    pastorale nella chiesa del SS. Salvatore in Onda a Roma.

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Genova o Napoli. Così, nel 1831 il colera raggiunse i paesi Baltici, la
Polonia per esempio. In seguito, nel 1832 arrivò in Inghilterra; nel 1833
infestò l’Irlanda, il Portogallo e i Paesi Bassi. Nel 1835 si estese alla
Francia, lasciando dietro di sé una lunga scia di morte (Moroni LI, 233-
243).
       La malattia camminava veloce. Le prime morti in Italia si ebbero
il 13 settembre 1835. Per preservare la Città Eterna dal morbo, senza
aspettare oltre, come misura preventiva, il Papa Gregorio XVI aveva
ordinato l’esposizione alla venerazione comune nelle chiese delle reli-
quie più illustre per i cristiani. Voglio precisare – seguendo il Diziona-
rio del Moroni – che nell’Ottocento a Roma le reliquie ritenute impor-
tanti ed esposte alla venerazione dei fedeli nei momenti solenni o diffi-
cili della cittadinanza erano: le teste degli apostoli Pietro e Paolo nella
basilica Lateranense; il Volto Santo della Veronica e il dito di S. Pietro
nella Basilica Vaticana; il corpo di S. Pio V a Santa Maria Maggiore; il
Legno della Croce e la Spina della corona in Santa Croce a Gerusa-
lemme; la colonna della flagellazione in Basilica di Santa Prassede; due
celebri Crocifissi, uno in S. Lorenzo in Damaso e l’altro in S. Marcello
al Corso; le catene della prigionia degli apostoli Pietro e Paolo in S.
Pietro in Vincoli; il braccio di San Rocco, protettore contro la peste
nella sua Chiesa sul Lungotevere di Ripetta; il braccio di San Francesco
Saverio nella Chiesa del Gesù; le ossa di San Sebastiano in Sant’Andrea
della Valle.
       Il Papa Gregorio XVI aveva anche ordinato la celebrazione di una
novena straordinaria in preparazione alla festa dell’Assunzione di Ma-
ria, da farsi dal 6 al 15 agosto 1835 in tutti gli Oratori notturni e in
quindici chiese a lei dedicate.
       Il 31 luglio 1835 il Cardinale Vicario Odescalchi pubblicò l’Invito
Sacro, che fu affisso alle porte delle chiese. Questo invito non ha molto
in comune con il Decreto del cardinale Angelo De Donatis – anche esso
affisso alle porte delle chiese – che abbiamo ricevuto l’8, 12 e 13 marzo
scorso. Il Decreto firmato dal card. Odescalchi rivela ovviamente la
mentalità dell’Ottocento sull’epidemia. Vi leggo alcune righe: “Morbo
funesto che per l’oscurità della sua origine, per la stravaganza dei suoi
progressi, per l’incertezza dei suoi attacchi, veste per chi ha fede i ca-
ratteri ed i segni d’un flagello. Roma ne sarà immune (dispensato)? Non

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conviene, o Romani, illudersi! Sì, Roma ha trasgredito il suo dovere. Il
nome santo di Dio è calpestato; le feste e le solennità sono violate, e il
vizio passeggia impudente per le vie della Santa Città. Dunque se Roma
ha trasgredito il suo dovere, deve essere ancora flagellata. Infelice
Roma, se MARIA coprendola col suo manto non trattenesse il braccio
di quell’Angelo dell’Apocalisse, che mostra dall’alto l’avvelenata tazza
per rovesciarla sui miseri figli della colpa. A MARIA dunque rivolgia-
moci”.
       Come proposte concrete, il cardinale Vicario (Odescalchi) or-
dinò: Dal lato positivo: una novena straordinaria in occasione della festa
dell’Assunzione di Maria in quindici chiese a Lei dedicate e in tutti gli
Oratori notturni. Dal lato negativo: furono vietati in quei giorni gli spet-
tacoli d’ogni sorte, le adunanze clamorose, i canti e i suoni notturni.
Furono chiuse durante le funzioni della novena: osterie, spacci d’acqua-
vite ed altri luoghi di divertimento, all’eccezione del bar caffè per la
circostanza della stagione. Il grande poeta romanesco Giuseppe Gioac-
chino Belli compose, in attesa della peste, numerosi sonetti per esorciz-
zare il virus. Alcune lettere del Pallotti di questo periodo mostrano che
egli stesso si impegnava a promuovere le iniziative annunciate dal card.
Odescalchi.
       Un’altra iniziativa preventiva e molto interessante il cui protago-
nista fu il Papa Gregorio XVI, era la processione con l’icona della Ma-
donna Salus Populi Romani. Infatti, il Papa ordinò che sabato 8 settem-
bre fosse portata in processione da Santa Maria Maggiore a San Pietro
l’icona della Madonna Salus Populi Romani, cioè “Salvezza del Popolo
Romano” (alcuni traducono “Protettrice del Popolo Romano”). In ogni
caso, si tratta della celebre icona davanti alla quale il Papa Francesco si
inginocchia prima e dopo ogni suo viaggio apostolico, è l’icona per ec-
cellenza dell’Urbe (l’icona della Città Eterna). Dalla tradizione che la
volle dipinta da San Luca (Evangelista) – passando per vittorie su epi-
demie di peste e di colera, per il trionfo a Lepanto e infiniti altri segni
miracolosi a lei attribuiti – il profilo mariano della Salus Populi Ro-
mani – ha intrecciato saldamente la sua storia con quella della Città
Eterna e i suoi Pontefici.
       Ebbene, il “Diario di Roma” (giornale di questo tempo) spiegò
che il Papa ordinava questa processione per (cito) “rassicurare gli animi

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nella potentissima protezione della Gran Madre di Dio che con occhio
di predilezione riguardò sempre questa sede del Cristianesimo”. Pur-
troppo, la processione, che il Papa seguì a piedi nudi, fu accompagnata
da un maltempo così forte che l’icona della Vergine Maria fu costretta
a sostare per otto giorni nella Chiesa Nuova (Santa Maria alla Valli-
cella). Anche il suo ritorno da San Pietro a Santa Maria Maggiore fu
perturbato dal maltempo. Salus Populi Romani tornò nella Basilica di
S. Maria Maggiore solo il 30 settembre, dopo un lungo stazionamento
nella Chiesa del Gesù.

2. Cosa si diceva sul progresso dell’epidemia: medici,
giornali, Chiesa?

        A Roma i medici raccomandarono di non avere paura e preoccu-
pazioni. Inoltre, proibirono di parlare di morti e seppellimenti, come se
l’ottimismo e la gioia fortificassero contro gli attacchi del virus. Però,
esortavano a mantenere le case ben pulite. Il Generale della Compagnia
di Gesù, Padre Jan Roothaan che Pallotti conosceva bene, sapendo che
i confratelli si sarebbero dati con generosità alla cura degli ammalati e
quindi sarebbero stati in prima linea davanti al contagio, fece voto di
celebrare personalmente ogni anno la festa del Cuore di Maria, se i Ge-
suiti romani fossero stati risparmiati dal male.
        Malgrado tutto, nel mese di luglio 1837, la paura era penetrata in
tutti i piani sociali. Mercoledì 5 luglio nella chiesa dello Spirito Santo
dei Napoletani don Vincenzo ha dato inizio a un Triduo di preghiere per
intercedere a favore dei Napoletani dove l’epidemia era già penetrata e
benedì per loro dei panini perché Dio proteggesse quanti li avrebbero
mangiati.
        Sabato 29 luglio, in prima pagina, il “Diario di Roma” attaccò
quanti diffondevano notizie sul colera, dichiarandosi autorizzato a
(cito): “smentire interamente una mal fondata voce divulgatasi in
Roma, che si fosse sviluppato in un qualche individuo di questa capitale
il colera asiatico”.
        Ma la gente non dava molto credito ai giornali; sapeva bene che
si proponevano solo di evitare il panico. Domenica 6 agosto 1837
l’icona della Vergine fu portata nuovamente in processione fino alla

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chiesa del Gesù. L’avvenimento fu descritto dal “Diario di Roma”. La
processione, preceduta da un drappello di soldati a cavallo, l’avevano
aperta gli alunni dell’Ospizio Apostolico e della Casa degli orfani; se-
guiva il clero regolare e quello secolare, con candela o torcia. Gli eccle-
siastici recitarono a turno il rosario – informa il giornale. Poi veniva
l’icona, circondata dai Gesuiti. Tutto chiudeva la guardia svizzera. Il
corteo girò per via Quattro Fontane e per via del Quirinale. Quando ar-
rivò al Quirinale, si unirono il Papa Gregorio XVI, il collegio dei cardi-
nali e il senatore di Roma, il principe Orsini. Tutti insieme sono discesi
lentamente verso la chiesa del Gesù, dove la Madonna fu ricevuta dal
Generale della Compagnia, i membri della Curia Generale. Si cantarono
le litanie e il Pontefice concluse tutto con la benedizione finale.
        Il 15 agosto si organizzò una grandiosa processione per ricon-
durre l’immagine della Madonna Salus Populi Romani alla basilica
Santa Maria Maggiore. Esortato dal cardinale Vicario, Don Vincenzo
Pallotti si adoperò per la partecipazione di un buon gruppo di ecclesia-
stici, che con lui camminarono a piedi scalzi. Il gruppo partì dalla chiesa
dello Spirito Santo dei Napoletani a via Giulia.
        Per organizzare questo gruppo di ecclesiastici religiosi e dioce-
sani, Pallotti usa tutte le sue conoscenze. A un sacerdote, suo amico e
collaboratore Don Efisio Marghinotti scrisse il 14 agosto: “Si degni
avvisare al possibile nel maggior numero Ecclesiastici per la proces-
sione di domani nudatis pedibus [a piedi nudi]. Avvisi pure l’abbate
Bianchini che se non potrà denudare i piedi potrà dirigere [la proces-
sione]. Dica a ciascuno che ne procuri almeno altri dodici e più. Appun-
tamento alle ore 20 in punto nella chiesa dello Spirito Santo” (OCL II,
p. 199).
        Ma a Roma, le cose non andavano bene. La paura è la madre degli
eccessi. La sera del 14 agosto un certo Kausel, maestro di lingua in-
glese, fu massacrato vicino a Piazza del Campidoglio da una folla di
popolo, perché creduto un “untore”, cioè sospettato di diffondere il con-
tagio ungendo persone e cose.
        In ogni caso, l’ottimismo non servì a nulla. Neppure le preghiere
fermarono il corso naturale dell’epidemia! Il 19 agosto 1837 il “Diario
di Roma” finalmente ammise ciò che era evidente molto prima: secondo
i medici il colera asiatico era entrato in Roma.

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       I primi giorni di settembre il conte Antonio Maria Plebani domi-
ciliato nelle Marche, ma di cui figlio studiava in Roma, inviò a Pallotti
una lettera piena di lamentele. Affermava che questa volta c’erano mo-
tivi per preoccuparsi: “colera, terremoti, guerre, fame… – “Cerchiamo
Dio, cerchiamolo in tutte le cose, e sempre, e lo troveremo; e in Lui
saremo salvi” – gli rispose Don Vincenzo (OCL II, p. 206).
       In questo stesso contesto, un certo Giovanni Marchetti da Gubbio,
laico, sposato, collaboratore del Pallotti, gli scrisse chiedendogli come
sfuggire al flagello. Don Vincenzo rispose che non si trattava di scap-
pare da Dio, ma di cercare di non meritare la punizione: “Tenga ferma
la massima che il flagello di Dio non si sfugge. Per non meritarlo, con-
viene attendere a soddisfare ai propri doveri” (OCL II, p. 208).

3. La risposta del Pallotti al colera

       Guardiamo finalmente quale fu la risposta del Pallotti all’epide-
mia (al virus). Nella chiesa di Santo Spirito dei Napoletani si trova una
lapide con iscrizione di ciò che Pallotti ha operato in questa chiesa come
rettore. Vi si legge: “In questa chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani
rettore dal 1835 al 1846 fu San Vincenzo Pallotti, prete Romano: fondò
l’Unione dell’Apostolato Cattolico, il Collegio delle Missioni Estere,
celebrò il primo Ottavario dell’Epifania, il Mese Mariano per ecclesia-
stici e fedeli, animò la conferenza spirituale del clero; il popolo romano
durante il colera del 1837 in lui riconobbe il sacerdote santo e l’aposto-
lato della carità”.
       Infatti, durante il colera il clero in generale si comportò in modo
esemplare. L’anziano papa Gregorio XVI diede l’esempio, visitando
p.es. gli ospedali. Non dobbiamo stupirci quindi che durante il colera
emerse in modo speciale anche la carità di Don Vincenzo e dei membri
dell’Unione per sovvenire i bisognosi in ogni parte della città. Il 19 ago-
sto il Pallotti chiede per i suoi collaboratori Melia e Michettoni le fa-
coltà ministeriali per i casi riservati, “per soddisfare alla moltitudine di
penitenti – scrive Don Vincenzo, che nelle attuali circostanze si acco-
stano al Santo Tribunale della penitenza nella Chiesa dello Spirito Santo
dei Napoletani” (OCL II, pp.200/201).

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       Don Vincenzo fu totalmente impegnato tra l’assistenza ai malati,
il soccorso alle loro famiglie e le lunghe ore al confessionale. Suor Ma-
ria Colomba (futura pallottina) testimonia a tal proposito: “Più volte
l’ho veduto in cotta e stola andare appresso al carro funebre che traspor-
tava i morti”. Un altro esempio: poco dopo la fine del colera si scuserà
con il signor Cassini Tommaso per non essere riuscito a visitare un car-
cerato nel Castello Sant’Angelo, come gli era stato chiesto, a causa delle
moltissime occupazioni provocate dall’epidemia. “Quando vi andò –
scrive Pallotti, la persona non si trovava più lì” (OCL II, p.234).
       Per rispondere ai numerosi appelli che riceveva, Pallotti divise la
città in settori, affidandoli ai membri dell’Unione dell’Apostolato Cat-
tolico. Scrisse poco dopo: “La Pia Società nel tempo del Colera, posta
alla porta d’ingresso alla sacrestia della chiesa dello Spirito Santo dei
Napoletani una cassettina. Essa era accessibile a tutti i poveri. Bastava
che questi in piccolo pezzo di carta segnassero il loro nome, cognome,
abitazione, parrocchia, e il bisogno, e quindi i sacerdoti a due a due si
portavano negli dimori dei poverelli” (OOCC V, 139/140).
       I membri dell’Unione cercavano di aiutare secondo le necessità:
alcuni con vestiario e buoni per pane e carne; per i malati di colera con
i limoni, che allora erano ritenuti la medicina più adeguata. “I sacerdoti
della Pia Società di giorno e di notte si portavano all’assistenza degli
infermi colerici – osserva il Pallotti. Le distribuzioni di biglietti per
pane e carne si fanno dall’inizio dell’Unione nel 1835, e si continua
tuttora” (OOCC V, 139-140).
       Quando il 12 ottobre l’epidemia fu ritenuta e dichiarata superata,
solo a Roma si contarono 5.419 morti, dell’intera popolazione di 156
mila persone. Tra di loro, anche le persone molto vicine a Don Vin-
cenzo sono morte per il colera: il 9 giugno 1837 morì la Beata Anna
Maria Taigi. I medici per non contagiare la gente, limitarono moltis-
simo la partecipazione al seppellimento della Taigi, malgrado la sua
popolarità. In una lettera scritta il 9 giugno 1837, Don Vincenzo comu-
nicò a Don Felice Randanini a Vienna: “Ieri è morta a Roma una gran
serva di Dio, favorita con molti doni straordinari, e che viveva in oc-
culto” (OCL II, p.183).
       Venerdì 15 settembre, morì suo padre: Pietro Paolo Pallotti. È an-
dato a pregare alla Chiesa Nuova (Santa Maria in Vallicella). Davanti

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all’altare di S. Filippo Neri cade a terra di peso. Portato subito a casa,
morì prima che Don Vincenzo arrivasse. Quello stesso giorno Vincenzo
spedì tre lettere per chiedere suffragi in favore di un padre “a cui – disse,
tanto debbo” (OCL II, 206/207).
       Verso la fine dell’anno 1837, due altre morti segnarono la vita di
Don Vincenzo: quella di Don Bernardino Fazzini, suo confessore per
ben 30 anni, e quella di Don Gaspare del Bufalo, suo amico e collabo-
ratore, fondatore dei Missionari del Preziosissimo Sangue. Fazzini morì
il 25 dicembre, giorno di Natale e Del Bufalo il 28 dicembre, festa degli
Innocenti.
       Pochi giorni dopo, il Pallotti nella lettera a Randanini, il segreta-
rio della Nunziatura di Vienna, scrisse: “Oggi sono nove giorni che è
morto il gran Missionario, il canonico Del Bufalo, e sono dodici giorni
che è morto il curato di S. Michele a Ripa. Due grandi santi! Pregate
per me onde profitti dei loro esempi, consigli, eccitamenti, esortazioni
che mi hanno dato in vita” (OCL II, 232/233).

4. Conclusione: Ritiro mensile – preparazione alla morte

       Per finire, voglio mettere in evidenza una piccola cosa: la prepara-
zione alla morte. Quanto fate oggi una piccola indagine per sapere quali
sono gli scopi del ritiro mensile, troverete: un sensibile alimento per
l’orazione; una rinnovata dedizione di se stessi a Dio; uno slancio più
puro e generoso nell’apostolato; una nuova crescita nell’amore fraterno.
       Tutto giusto e vero, ma tradizionalmente, il ritiro mensile era pen-
sato, tra l’altro, come esercizio di preparazione alla morte. Ne parla anche
Pallotti nella Regola per la nostra minima Congregazione. In altre parole,
lo scopo del ritiro mensile era quello di preparare la nostra mente e il
nostro cuore ad affrontare questa realtà innegabile che è la morte! Prima
di tutto: riconoscerla! Ma anche superare le nostre paure. Così quando la
morte arriverà, avremo migliori strumenti per incontrarla. Inoltre, la con-
sapevolezza della morte ci aiuterà a dare più senso e ricchezza alla nostra
vita quotidiana. Vi dò due piccoli esempi.
       Primo: una lettera scritta dal Pallotti a un laico, Luigi Nicoletti. Don
Vincenzo stimava molto Nicoletti, Romano come Lui, due anni più gio-
vane. Nicoletti morì nel 1851, un anno dopo san Vincenzo. Ebbene,

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durante il suo soggiorno dai Carmelitani a Monte Compatri, 20 settembre
1822, Pallotti indirizza a Nicoletti una lettera. Vi leggo un lungo brano di
essa.
        “Per la Misericordia infinita di Dio, il suo Spirito mi ha condotto
ieri, circa il tramontare del sole, su un alto montesolitario (probabilmente
Monte Salomone, 773 metri di altezza, che si trova lungo la strada che da
Monte Compatri porta a Rocca Priora). Segregato dal consorzio degli uo-
mini, messo mi sono messo in Orazione tutto rivolto verso il Cielo. E
mentre pregavo, ho avuto distintamente presente la sua persona. Infatti,
Dio mi avesse fatto vedere, che lei non avesse profittato di quella lettera
già da un anno ricevuta dal noto ed edificante Gesuita premuroso, dalla
quale apprese con timore vicina la morte, ma che in realtà Dio non voleva
che procurasse di avere la morte sempre presente nella memoria, onde
vivesse ogni giorno come se ogni giorno dovesse morire. Lo prego umil-
mente, con la faccia per terra di promettermi di non passare alcuna gior-
nata senza aver almeno per pochi momenti meditato la gran Massima
della Morte. Non creda, che con questo voglia dire che sia vicino il suo
passaggio all’Eternità, ma dico questo, affinché lei corrispondendo alla
grazia di Dio, vada sempre più ad arricchirsi dei meriti per l’Eternità”
(OCL I, pp.155/156).
        Secondo esempio: durante l’epidemia di colera il segretario della
Nunziatura di Vienna, Don Felice Randanini, molto ansioso e pauroso,
scrisse a Pallotti più volte. Gli sembrò di aver contratto la malattia (il
colera). Ma Don Vincenzo, lo rassicurò: “Cercate pure quanto volete il
colera, ma non vi riuscirà di trovarlo per voi, giacché non è per voi” (OCL
II, p.139). Altre volte il giovane segretario si fece prendere dalla paura e
il Pallotti lo calmò annunziandogli che lo avrebbe rivisto a Roma: “In
riguardo a tutti i timori di morte Le dico: Lo aspetto a Roma (OCL II,
p.138). Tranquillità più perfetta; il colera non lo troverete per voi” (OCL
II, p.140). Il segretario della Nunziatura, abituato a un linguaggio più di-
plomatico e meno profetico, si meravigliò non poco della sicurezza con
cui Don Vincenzo aveva parlato. Passato il pericolo immediato, il Pallotti
lo invitò ad umiliarsi e a chiedere perdono per le paure e le debolezze
mostrate: “Dovete vivere in tutto e sempre da poter dire con quello spirito
e con quel fondamento con cui lo diceva l’Apostolo Paolo: sia che

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viviamo, sia che moriamo siamo del Signore. Pregate Dio che la stessa
grazia faccia a me, sebbene ne sia indegnissimo” (OCL II, p.143).
       Vi ricordate certamente bene queste massime del Pallotti: “Tempo
è prezioso, breve, e non torna più. Vorrei fare gran conto del tempo. In-
gerire nei fedeli una altissima stima del tempo” (OOCC X, 594). Oppure:
“Il tempo è prezioso, breve, ed irreparabile. Vorrei procurare con la gra-
zia di Dio farne quel buon uso che, ne farebbe un certo, che da morte
sorgesse a nuova vita; e rimediare al passato” (OOCC X, 553).
       Cari confratelli, davanti al fenomeno della morte le reazioni sono
molto diverse. Alcuni confondono il timore e la paura. “E questo è il più
grave errore che si rischia di commettere in questo tempo di coronavirus
– diceva recentemente card. Ravasi. Dobbiamo distinguere la paura e il
timore di Dio. Che differenza c’è tra avere paura e avere timore di Dio?
Diciamo subito che paura e timore non siano del tutto sinonimi. “La
paura è la cosa di cui ho più paura” – diceva il filosofo francese Michel
de Montaigne, e la definiva “pessima consigliera”. Il timore del Signore,
invece, è “l’inizio della sapienza” (Pr 1,7). “Venite, o figli, e ascoltatemi:
il timore del Signore io voglio insegnarvi” (Sal 34, 10.12). Per descrivere
il successo della Chiesa delle origini Luca negli Atti degli Apostoli,
scrive: “La Chiesa era in pace e si edificava e progrediva nel timore del
Signore, piena della consolazione dello Spirito Santo” (9,31). Il timore
del Signore genera pace, anzi – il paradosso va oltre – il timore coesiste
con l’amore, come si legge nel Deuteronomio: “Che cosa chiede a te il
Signore tuo Dio se non di temere il Signore tuo Dio, di seguire tutte le
sue vie, di amarlo di servire il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con
tutta la tua anima” (19,12). La paura, invece – nota Giovanni nella sua
Prima Lettera – non può intrecciarsi (unirsi a treccia/corda) con l’amore:
“Nell’amore non vi è paura; anzi il perfetto amore scaccia la paura, per-
ché la paura suppone il castigo” (4,18). Al contrario, il rispetto “timo-
roso” per Dio, è sorgente di fiducia e quindi vince la paura.
       Lascio a voi (a noi tutti) l’impegno di declinare questo insegna-
mento nei termini di una conversione di vita personale e anche della vita
comunitaria alla quale il tempo della Quaresima ci spinge particolar-
mente.

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