L'ULTIMO RIFLESSO DELLA PINNA NOBILIS

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L'ULTIMO RIFLESSO DELLA PINNA NOBILIS
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L’ULTIMO RIFLESSO DELLA PINNA
NOBILIS
Testo di Alessandro Vitale
Fotografie di Egidio Trainito

   La Pinna nobilis è il più grande bivalve del
   Mediterraneo. In meno di cinque anni è
   praticamente scomparsa dai nostri mari, cancellata
   da un’epidemia. Una storia che ci ricorda la
   complessità del nostro ruolo ecologico per
   l’ambiente marino.

4 Giugno 2021
Tempo di lettura: 10 minuti
L'ULTIMO RIFLESSO DELLA PINNA NOBILIS
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Così come oggi la moria delle nacchere è la testimonianza dei grandi cambiamenti che
investono gli habitat sommersi del Mediterraneo, Pinna nobilis è stata per lungo tempo
testimone del regredire delle praterie di posidonia sostituite da praterie di piante o
alghe più tolleranti, come in questo caso Caulerpa prolifera.

I ritmi folli della sesta estinzione di massa ci hanno ormai abituato al
progressivo impoverimento dei nostri ecosistemi. Eppure, alcune
storie più di altre conservano la forza di colpirci e stupirci. Forse
perché riguardano i nostri mari e fanno parte della memoria condivisa
dei popoli nel Mediterraneo. O forse perché, per loro natura, alcune
morie sembrano sfuggire a ogni controllo, ricordandoci di quanto sia
profondo e complicato il nostro ruolo ecologico.

La scomparsa della Pinna nobilis, il più grande bivalve del
Mediterraneo, racchiude molti di questi aspetti. Specie endemica dei
nostri mari, la Pinna nobilis ha una storia antica, tanto che alcuni
studi ipotizzano la sua presenza fin dal Miocene – circa 20 milioni di
anni fa. In meno di cinque anni, tuttavia, quasi tutti gli esemplari sono
scomparsi dai nostri mari, dalle coste di Gibilterra fino alle porte del
Mar Nero. Una moria silente, causata da un’epidemia, che potrebbe
aver cancellato questa specie per come la conosciamo.
L'ULTIMO RIFLESSO DELLA PINNA NOBILIS
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L’habitat naturale di Pinna nobilis è la prateria di posidonia che consente alle giovani
nacchere protezione e abbondanza di cibo nella fase della vita in cui sono più facilmente
predabili.

La Pinna nobilis: sentinella ecologica e seta del mare

La Pinna nobilis, conosciuta anche come nacchera di mare o stura,
può raggiungere i venti anni e crescere sino a un metro e venti in
lunghezza, diventando particolarmente visibile e riconoscibile. Il suo
habitat principale sono i fondali sabbiosi fino ai 60 metri di profondità
e le foreste di Posidonia oceanica, una pianta marina esclusiva dei
nostri mari e anch’essa oggi in declino. Negli esemplari più giovani la
conchiglia esterna è squamosa e quasi trasparente, mentre negli
adulti vira al bruno rossiccio. Il ruolo ecologico della specie è simile a
quello di altri bivalvi e consiste nella filtrazione delle acque
circostanti. Inoltre, date le dimensioni imponenti, la Pinna nobilis
contrasta l’erosione dei fondali e può agire come una vera e propria
“impalcatura” in grado di accogliere molluschi e crostacei –
formando così un ecosistema unico.
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Una sostanza filamentosa chiamata bisso ancora le valve del mollusco
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al fondale marino in posizione verticale. Questa particolare fibra è ben
conosciuta fin dai tempi delle società babilonesi, assire, fenicie,
ebraiche e greco-romane: la lavorazione del bisso, infatti, permette di
ottenere un tessuto molto pregiato usato fino al Medioevo per la
produzione di guanti, mantelli e altri oggetti nobiliari. I fili dorati del
bisso diventarono così ricercati da prendere il nome di “seta del
mare” e da essere apprezzati anche in Cina, ben prima che il baco
venisse portato in Europa attraverso i viaggi di Marco Polo.

Omero ne parlò quasi certamente nell’Iliade, descrivendo Elena come
«avvolta all’arche dov’erano i pepli a ricami che lei stessa fece. […
Elena] la donna bellissima lo portava, quello che di ricami era il più
vago e il più grande, e come stella brillava». Una similitudine con la
quale il poeta decantava la lucentezza del bisso, le cui trame
intrecciate rifulgevano la luce come oro.
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A sinistra: Ogni nacchera è un piccolo ecosistema a sé stante che attira su di sé una
grande varietà di organismi: in uno spoglio fondale detritico diventa un ottimo
nascondiglio per un polpo che sfoggia la sua grande capacità di mimetismo.

A destra: Nell’ambiente marino esiste una modalità di alimentazione animale
sconosciuta sulla terraferma. Organismi dei gruppi più disparati, dalle spugne ai tunicati
(nella foto, un tunicato coloniale e uno solitario), filtrano, con strutture diversificate,
l’acqua e raccolgono la materia organica che serve loro per vivere. Le nacchere offrono
loro una opportunità in più perché consentono di elevarsi dal fondo e quindi accedere
prima alle risorse.

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Così come oggi sono pochi gli artigiani in grado di conservare i segreti
della lavorazione del bisso, anche il destino di Pinna nobilis è incerto.
Dopo un periodo di espansione molto intenso negli anni Sessanta, alla
fine del secolo la popolazione ha cominciato a declinare in tutto il
Mediterraneo. Il calo è legato in parte all’impatto antropico – come le
attività di pesca e ancoraggio, l’inquinamento e l’alterazione dei
fondali marini – e in parte a fattori non pienamente compresi, talora
sorprendenti.

Paradossalmente, «È possibile che il declino di alcuni bivalvi, tra cui
Pinna nobilis, sia dovuto al fatto di avere mari più puliti», spiega
Giuseppe Arcangeli, patologo e direttore del Centro specialistico ittico
dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie. «Se aver
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ridotto fertilizzanti e detersivi nei mari ha certamente diminuito
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fenomeno dell’eutrofizzazione, parallelamente è diminuita anche la
biomassa di fitoplancton lungo le nostre coste. Queste specie formano
la principale fonte di alimentazione per i bivalvi filtratori», continua
Arcangeli, «e il loro calo potrebbe avere contribuito al declino della
nacchera».

   Paradossalmente, è possibile che il declino di alcuni
   bivalvi sia dovuto al fatto di avere mari più puliti.

La condizione di Pinna nobilis, tuttavia, è cambiata radicalmente dopo
la moria che ha colpito le isole Baleari nell’estate del 2016.
Un’epidemia fino a quel momento sconosciuta che si è estesa
dapprima alla costa meridionale della Spagna, per poi colpire Francia,
Corsica, Sardegna e tutto l’arco del Tirreno, fino alle coste della
Tunisia. Negli ultimi due anni si sono registrati eventi di mortalità
anche in Croazia e nel Golfo di Trieste, in Grecia e in Turchia. Ovunque
la mortalità presunta è impressionante, tra l’80% e il 100% degli
esemplari: si stima che più di 300.000 individui siano scomparsi dal
Mediterraneo in meno di cinque anni, ma il dato potrebbe essere
sottostimato. Un crollo così repentino da costringere l’Unione
Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN), a dichiarare la
specie “criticamente minacciata” – appena un gradino sopra
l’estinzione.
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A sinistra: In natura, si chiama acrofilia (dal greco, amore per l’altezza) il fenomeno per
il quale organismi sospensivori e filtratori cercano la posizione più elevata possibile per
arrivare prima alle risorse trasportate dalle correnti. È curioso il fatto che prenda lo
stesso nome una tendenza sessuale che cerca l’eccitazione in luoghi elevati o sugli
strapiombi. Mile High Club è una perifrasi popolare che accomuna soprattutto
appassionati di sesso in aereo e che provano di aver avuto rapporti sessuali ad
un’altitudine superiore a un miglio (1609 m). Vi sono persino compagnie aeree che
organizzano charter per appassionati del genere. Nell’immagine un assaggio della
diversità di organismi marini che ricercano la posizione elevata: idrozoi, parenti dei
coralli, spirografi, vermi dal ciuffo branchiale esposto, tunicati, nostri lontani cugini,
briozoi, organismi coloniali che raccolgono il cibo con piccoli ciuffi di tentacoli.

A destra: È possibile che anche gli organismi che si insediano sulle nacchere, in questo
caso ostriche e ricci, siano interessati a emettere i loro prodotti sessuali alla corrente da
una posizione sopraelevata. Una storia ben diversa da quella del Mile High Club.

Caccia ai responsabili e l’importanza della citizen science

Nei primi siti colpiti le nacchere si presentavano morte o moribonde,
con le valve completamente aperte e svuotate, oppure poco reattive al
tocco. Anche l’interno del mollusco, gli organi e i tessuti veri e propri,
appariva di colore emaciato e con molte vescicole superficiali.
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Le prime risposte arrivarono nel settembre del 2018, quando   
l’epidemia si era estesa alla costa sudoccidentale della Spagna (tra
Murcia, Almeria e Malaga) risparmiando – almeno fino a quel
momento – quelle poste più a Nord, da Valencia a Tarragona. Un
gruppo di ricercatori spagnoli identificò un nuovo patogeno
appartenente al genere Haplosporidium, ribattezzato H. pinnae,
capace di colpire il tessuto epiteliale e intestinale della nacchera in
modo estremamente aggressivo e uccidere la maggior parte degli
esemplari, lasciando moribondi i superstiti.

Gli Haplosporidium rispondevano al perfetto identikit del colpevole:
una “famiglia” di protozoi già nota per parassitare invertebrati
marini, in grado di infettare le cellule dall’interno e di generare una
grande quantità di spore pronte a disperdersi. H. nelsoni, per esempio,
era già stato collegato a eventi di moria di massa in Delaware nel
1960; in quel caso era stata colpita l’ostrica americana, con perdite di
circa il 50% della popolazione complessiva.

H. pinnae, tuttavia, sembrava un patogeno completamente nuovo.
Studi successivi avrebbero poi evidenziato la presenza di altri
microrganismi all’interno delle nacchere morenti, come batteri del
genere Vibrio, e soprattutto alcuni micobatteri capaci di causare
infezioni opportunistiche nell’uomo (come Mycobacterium sherrisii).
Per questo motivo, alcuni gruppi di ricerca hanno suggerito una
possibile compartecipazione di tanti patogeni diversi come causa delle
morie. Un’ipotesi, però, che non convince fino in fondo: sebbene la
situazione sia ancora in evoluzione, oggi la maggior parte delle
valutazioni scientifiche indica il solo H. pinnae come agente causale
delle morti in tutto il Mediterraneo.

La diffusione dell’epidemia ha reso cruciale il monitoraggio degli
esemplari di Pinna nobilis lungo le coste colpite. Un compito non
semplice, visto le risorse (spesso) limitate dei gruppi di ricerca e il
“collo di bottiglia” rappresentato dal numero dei ricercatori al lavoro.
Anche per questi motivi, negli ultimi cinque anni si sono moltiplicati
in tutta Europa diversi progetti di monitoraggio ambientale
partecipato, o citizen science, nei quali i cittadini (residenti,
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appassionati di snorkeling, subacquei e centri di immersione)  
contribuiscono a identificare le pinne segnalando gli esemplari in vita
e quelli potenzialmente deceduti.

I progetti di citizen science dedicati alla Pinna nobilis sono fioriti
anche in Italia, dalla Sardegna al Tirreno, e lungo tutto l’arco
Adriatico, da Taranto a Trieste. Sebbene le rilevazioni dei non esperti
necessitino di un controllo a posteriori da parte di ricercatori, queste
informazioni si sono rivelate preziosissime per tenere sotto controllo
l’andamento dell’epidemia – in una situazione in cui non sarebbe
stato possibile analizzare tutte le aree coinvolte con velocità
sufficiente.

Oltre al “semplice” monitoraggio, la collaborazione tra cittadini ed
esperti ha prodotto risultati scientifici notevoli. Il più virtuoso è un
lavoro di ricerca pubblicato su Scientific Report nell’agosto 2019, che
ha riguardato il Mediterraneo occidentale, da Gibilterra fino alle coste
della Sardegna: nel complesso, il 40% dei dati raccolti proveniva
dall’attività di amatori e appassionati. Anche grazie a queste
informazioni è stato possibile analizzare la dinamica di diffusione di
H. pinnae: la conclusione, secondo gli autori, è che le spore del
patogeno si siano diffuse seguendo le principali correnti marine,
generando nuovi focolai di malattia. Un’ipotesi confermata nei mesi
successivi quando, a cavallo delle onde nel Mediterraneo, l’epidemia
sarebbe arrivata fino alle porte del mar Nero.
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Pontonia pinnophylax è un gamberetto commensale di Pinna nobilis che compie tutto il
ciclo vitale al’interno dei bivalvi svolgendo anche un ruolo di sentinella quando un
pericolo si avvicina all’ospite. Non è ancora conosciuta la sua sorte, in questa fase di
diffusa moria dei bivalvi. Foto di Betty Lutzu.

Il fenomeno dell’acrofilia interessa anche le spugne, come in questo caso, rappresentate
dalle masse arancione e azzurre che crescono sulla nacchera. Oltre alla posizione elevata,
la nacchera che filtra in continuazione l’acqua crea una corrente favorevole alla
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del cibo anche per i simbionti.

Il controluce mostra la delicatezza della conchiglia dove sono visibili le fasce di
accrescimento.

Alla ricerca di zone santuario per la Pinna nobilis

Gran parte delle attività di monitoraggio compiute negli ultimi cinque
anni si è posta una domanda ricorrente: esistono davvero zone
rifugio, al riparo dal patogeno? O, in alternativa, è possibile trovare
esemplari di Pinna nobilis in grado di resistere all’azione del protozoo
killer? Le prove sperimentali accumulate finora hanno frustrato le
speranze, ma una chance potrebbe esistere e trovarsi all’interno della
Laguna di Venezia. Al di fuori delle bocche di porto si trovano le
tegnue, affioramenti rocciosi di varia origine che possono essere
grandi come un piccolo sasso o come due campi da calcio.

«A partire dal 2018 abbiamo cominciato a studiare la distribuzione di
Pinna nobilis in questi ambienti nelle acque del Veneto», racconta
Marco Sigovini, ricercatore presso l’Istituto di Scienze Marine  
(ISMAR-CNR) di Venezia; «quando l’epidemia è arrivata nell’Alto
Adriatico, circa due anni fa, la mortalità è stata elevatissima anche in
questi habitat. Ma all’interno della laguna la situazione potrebbe
essere diversa». Studi recenti hanno infatti mostrato come all’interno
di questo prezioso ecosistema esista una ricchissima popolazione di
Pinna nobilis, mai studiata completamente, e capace di raggiungere
una densità molto elevata con punte di dieci individui per metro
quadrato.

«Come altri gruppi di ricerca, anche noi abbiamo sviluppato un
progetto di citizen science, che abbiamo chiamato “Mappa la Pinna”.
Chi vive la laguna ha un grande interesse per le questioni ambientali e
ci sono state molte segnalazioni relative ai vasti bassofondali: noi le
abbiamo verificate, con particolare attenzione verso le zone più
interne, come quelle limitrofe al canale di Malamocco. Ora stiamo
sviluppando un nuovo approccio di rilievo che ci consente ricostruire
delle mappe 2D e 3D di ampi tratti del fondale», dice Sigovini
mostrandoci alcune foto, «con un dettaglio tale da identificare i
singoli individui. Replicando i rilievi nel tempo, possiamo seguirne la
crescita e lo stato di salute».

   Quando l’epidemia è arrivata nell’Alto Adriatico,
   circa due anni fa, la mortalità è stata elevatissima.
   Ma all’interno della laguna la situazione potrebbe
   essere diversa.

Le nacchere identificate potrebbero possedere una maggiore
resistenza, proprio grazie all’ambiente eterogeneo e selettivo della
laguna: un’ipotesi che sembrerebbe confermata da un’altra ricerca
pubblicata a inizio del 2021 e condotta nella baia di Fangar, sul delta
del fiume Ebro. Osservando la geografia della laguna di Venezia, le
porzioni vicine alle bocche di porto presentano caratteristiche di
salinità e temperatura molto simili a quelle del mare aperto, mentre
aree più interne e confinate – al margine interno della distribuzione
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delle nacchere – possiedono un profilo molto diverso.

«Le lagune sono sistemi molto variabili e selettivi: è possibile che le
popolazioni qui insediate presentino caratteristiche genetiche di
maggiore resistenza, anche al patogeno», continua Sigovini.
«Un’altra possibilità è che sia il patogeno a non trovarsi a suo agio in
condizioni diverse da quelle del mare aperto. Ma tutto andrà verificato
questa estate». La speranza è che gli esemplari possano superare
indenni i prossimi mesi, quando le temperature si innalzeranno e H.
pinnae troverà le condizioni teoricamente migliori per crescere. Una
considerazione che lascia incerto il finale della vicenda, ma che spinge
anche a interrogarsi sulle cause remote del patogeno – oltre che sulla
situazione contingente.
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A sinistra: Un’immagine emblematica raggruppa una nave affondata e smantellata dalla
forza delle onde e alcune nacchere morte: due morti molto diverse, quasi a dimostrare
come le attività umane incombano minacciose sugli ecosistemi naturali.

A destra: Un piccolo grongo ha trovato comodo fare la sua tana all’interno di una grande
nacchera morta: è la seconda vita di questi bivalvi, che però è destinata a durare poco
perché le fragili conchiglie vengono rapidamente demolite dall’azione degli agenti
naturali.

Cronache del futuro

La ricerca di zone sicure ed esemplari resistenti rappresentano un
obiettivo prioritario nella ricerca su Pinna nobilis. Ma anche
interrogarsi sul ruolo ecologico del patogeno potrebbe suggerire
nuove soluzioni e strategie di intervento.

Molti, per esempio, si sono interrogati sull’origine di H. pinnae, ma
nessuna ipotesi è ancora definitiva. Il gruppo di ricerca responsabile
della sua scoperta aveva suggerito che si trattasse di una specie aliena
invasiva, mai affacciatasi sul Mediterraneo e in grado di trovare
terreno fertile. A supporto della teoria, le analisi molecolari eseguite
mostravano la somiglianza con un altro protozoo, responsabile della
mortalità del gambero Penaeus vannamei nelle acque dei Caraibi e
dell’Indonesia. Inoltre, i campioni di H. pinnae rilevati nel
Mediterraneo erano tutti strettamente imparentati a livello genetico,
segno di una scarsa differenziazione e di una colonizzazione recente
nei nostri mari.

Queste considerazioni, tuttavia, risulterebbero valide anche nel caso
di un evento di spillover interno al Mediterraneo. Vista l’esistenza di
Haplosporidium capaci di colpire bivalvi di interesse commerciale
sarebbe possibile ipotizzare la selezione di una nuova specie di
protozoo particolarmente adatto a colpire la Pinna nobilis? Secondo il
patologo Giuseppe Arcangeli, l’ipotesi è improbabile: «Conosciamo
diversi spillover da specie marine di interesse commerciale, magari
allevate, verso altre selvatiche. Questi salti di specie spesso riguardano
                                                                    
i virus, che hanno una maggiore capacità di mutare e adattarsi; per gli
Haplosporidium è più difficile sostenere dei tassi di cambiamento così
elevato».

È possibile che la spiegazione non vada cercata solamente nella
biologia del parassita, quanto nelle condizioni ambientali
dell’ecosistema marino. Come in una sorta di “innesco” ecologico, le
caratteristiche del Mediterraneo potrebbero essere cambiate nel
tempo a causa del cambiamento climatico e avere raggiunto un punto
di non ritorno in grado scatenare gli eventi di mortalità. «Per quanto
ne sappiamo, è possibile che H. pinnae risieda da tempo nelle
nacchere, in un rapporto di equilibrio tra specie ospite e parassita.
Questo equilibrio potrebbe essersi rotto improvvisamente a causa
dell’innalzamento di temperatura e salinità, aumentando
l’aggressività del protozoo o riducendo le capacità di difesa di Pinna
nobilis».

Ipotesi tutte da verificare, sulle quali interrogarsi per comprendere gli
equilibri dei nostri mari e il loro futuro. Sempre più spesso, il
Mediterraneo viene considerato come una sorta di oceano in piccola
scala, un laboratorio naturale utile per studiare i processi globali e i
loro mutamenti. Se una specie iconica come Pinna nobilis può
scomparire in meno di cinque anni da uno dei mari più protetti e
studiati al mondo, quante altre specie potrebbero subire lo stesso
destino – o averlo già subito – rimanendo nascoste ai nostri occhi?
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Prima della moria degli ultimi anni, apparivano così le aggregazioni di Pinna nobilis che
venivano chiamate Città delle Nacchere. Si trattava di esemplari in ottima salute, mentre
oggi anche quelle che restano in piedi sono quasi tutte morte. La nacchere hanno visto
anche l’invasione delle specie aliene e quella in primo piano ne è la testimonianza,
colonizzata com’è da un tunicato coloniale alieno (Symplegma brakenhielmi).

Alessandro Vitale è biologo e comunicatore della scienza. Collabora con
Fondazione Umberto Veronesi, scrive di medicina, ambiente e citizen science,
mentre realizza laboratori didattici e mostre scientifiche interattive.

Egidio Trainito è fotografo naturalista e consulente, si occupa di sviluppo
compatibile del turismo e di progetti di conservazione in aree marine
protette. Per lungo tempo inviato per riviste nazionali, ha al suo attivo oltre
4000 immersioni nei mari del mondo. Socio della Società Italiana di Biologia
Marina, ha pubblicato numerosi libri sugli ambienti marini e sulle AMP. La 6°
edizione del suo Atlante di Flora e Fauna del Mediterraneo è da poco nelle
librerie.
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