N. 25/26 - gennaio/giugno 2016 - Parlamento Italiano
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MONITORAGGIO DELLA SICUREZZA ENERGETICA ITALIANA ED EUROPEA Gennaio/Giugno 2016 A cura di Carlo Frappi e Nicolò Rossetto Approfondimento di Federico Franchina Parte I - La sicurezza energetica italiana ed europea 1. Contesto globale .......................................................................................................................... 1 1.1 Petrolio .................................................................................................................................. 2 1.2 Gas Naturale ....................................................................................................................... 13 1.3 Negoziati sulla lotta al cambiamento climatico ............................................................. 19 2. Analisi comparata degli Stati europei ...................................................................................... 23 2.1. Italia ..................................................................................................................................... 27 2.2. Germania ............................................................................................................................ 29 2.3. Francia ................................................................................................................................ 30 2.4. Regno Unito ....................................................................................................................... 31 2.5. Spagna ................................................................................................................................. 33 2.6. Polonia ................................................................................................................................ 34 3. Politiche energetiche dei paesi fornitori e di transito del gas .............................................. 35 3.1. Russia e vicini orientali ..................................................................................................... 35 3.2. Bacino del Caspio .............................................................................................................. 44 3.3. Turchia e Vicino Oriente ................................................................................................. 50 4. Corridoi energetici europei del gas .......................................................................................... 57 4.1. Corridoio Nord-Orientale ................................................................................................ 57 4.2. Corridoio Sud-Orientale ................................................................................................... 59 Parte II - Approfondimento Le relazioni commerciali Italia-Iran dopo le fine delle sanzioni internazionali ................ 61 1. I rapporti tra Italia e Iran ................................................................................................... 62 2. Le sanzioni internazionali .................................................................................................. 65 3. Le relazioni commerciali dell’epoca post-sanzioni ......................................................... 68 Fonti ........................................................................................................................................... 72
PARTE I - LA SICUREZZA ENERGETICA ITALIANA ED EUROPEA 1. CONTESTO GLOBALE Il 2015 ha rappresentato per l’economia mondiale un anno di rallentamento della crescita economica (3%), che è stata ben al di sotto dei valori registrati in media nell’ultimo decennio. La decelerazione di alcune economie emergenti, Cina in particolare, è stata solo in parte controbilanciata da una parziale ripresa delle economie avanzate, Unione europea in primo luogo. L’esito di tale rallentamento, unitamente a uno spostamento dell’attività economica dai settori industriali a quelli del terziario e a un miglioramento dell’efficienza energetica, ha portato a un aumento della domanda di energia primaria a livello mondiale pari all’1%, un valore in linea con il 2014 (1,1%), ma ben al di sotto della media dell’ultimo decennio (1,9%). A questa debole crescita ha corrisposto un sostenuto rafforzamento dell’offerta di energia primaria, dovuto all’innovazione tecnologica e ai forti investimenti effettuati negli ultimi anni, che ha accentuato lo squilibrio emerso già nel 2014 e ha portato a un ulteriore calo dei prezzi sui mercati internazionali (v. Figura 1). FIG. 1 – ANDAMENTO DELLE QUOTAZIONI DELLE PRINCIPALI MATERIE PRIME ENERGETICHE Fonte: FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE (FMI). Contrariamente alle aspettative, questa considerevole riduzione del prezzo dell’energia e di altre materie prime, sia agricole sia minerarie, non si è tradotta in un sostegno forte alla crescita economica per il 2016. Anzi, le previsioni del Fondo Monetario Internazionale (FMI) sono state riviste più volte al ribasso e parlano di un modesto tasso di crescita economica del 3,2% per l’anno in corso e di un 3,5% per il 2017. I ricercatori del Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 1
Fondo sottolineano a riguardo che la rapidità del calo delle quotazioni delle materie prime ha avuto un effetto devastante sulle decisioni di produzione e investimento dell’industria energetica, nonché sulle bilance commerciali e i bilanci pubblici di molti paesi produttori. La riduzione dei prezzi, in particolare, non sembra sia stata di grande aiuto in un momento in cui molte economie avanzate registrano tassi d’inflazione e di interesse prossimi allo zero. Se si tengono a mente i numerosi ulteriori fattori di rischio che pesano sull’economia mondiale (rialzo dei tassi d’interesse statunitensi, referendum britannico sull’Unione europea, rallentamento dell’economia cinese, instabilità politica in Brasile, Turchia, Nord Africa e Medio Oriente, prolungamento del confronto russo-ucraino, episodi di terrorismo in Europa, ecc.), è evidente come ci si possa aspettare per quest’anno e per il prossimo un protrarsi della situazione di abbondanza dell’energia emersa a partire dall’estate del 2014, con evidenti conseguenze positive, almeno nel breve e medio periodo, per la sicurezza energetica di paesi importatori quali l’Italia e per l’Unione europea nel suo complesso. Per quanto concerne la struttura di questo Focus, nel prosieguo del contesto globale si tratteggia l’andamento nel corso del primo semestre 2016 dei mercati del petrolio e del gas e si delinea l’esito dei negoziati internazionali sulla lotta al cambiamento climatico tenutisi a Parigi lo scorso dicembre. Successivamente, il primo capitolo è dedicato a presentare i dati sull’evoluzione nel 2015 del paniere energetico dell’Unione europea e dei suoi principali stati membri. Un rapido cenno viene fatto agli sviluppi della politica europea in materia di sicurezza energetica e alla realizzazione delle infrastrutture nel comparto energetico. Il secondo capitolo propone invece un’analisi della situazione nei principali paesi produttori di gas naturale e di transito che circondano l’Europa, con un particolare riferimento alla Federazione Russa, l’area caspica, l’Iran, la Turchia e il bacino del Levante. Il terzo capitolo, ricollegandosi ai due precedenti, illustra l’evoluzione delle infrastrutture di approvvigionamento del gas naturale che puntano verso l’Europa, quali il Nord Stream, il Turkish Stream e il Trans-Adriatic Pipeline (TAP). Il Focus è completato, infine, da un approfondimento scritto da Federico Franchina, che fa il punto sulle relazioni commerciali tra l’Italia e l’Iran, divenute potenzialmente ancora più importanti dopo la recente rimozione delle sanzioni economiche gravanti sul quel paese. 1.1 PETROLIO Il 2015 si è chiuso con un prezzo medio del greggio attorno ai 52$/b, il valore più basso registrato sui mercati internazionali dal 2005, e con un ammontare di stoccaggi di greggio e derivati ai massimi storici. Proprio il persistere dell’eccesso di offerta e la conferma avutasi all’incontro dei paesi OPEC di inizio dicembre 2015 circa l’assenza di volontà di tagliare la produzione di greggio sono tra le cause dell’ulteriore calo delle quotazioni osservato durante le prime settimane dell’anno, quando per alcune sedute sia il Brent che il West Texas Intermediate (WTI) fluttuano tra i 25 e i 30$/b, valori che non venivano toccati dal 2003 (v. Figura 2). Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 2
FIG. 2 – ANDAMENTO DELLE QUOTAZIONI A PRONTI DEL PETROLIO GREGGIO Fonte: ENERGY INFORMATION ADMINISTRATION (EIA). Il calo delle quotazioni del greggio non si arresta neppure di fronte al deterioramento delle relazioni diplomatiche tra Iran e Arabia Saudita, avvenuto ai primi di gennaio a seguito dell’incendio dell’ambasciata saudita a Teheran per mano di una folla che protestava contro la condanna a morte in Arabia dell’imam sciita Nimr al-Nimr e di altre decine di oppositori al potere degli al-Saud. La tensione tra i due paesi rispecchia d’altra parte le fratture esistenti da anni in seno al mondo islamico tra sciiti e sunniti, nonché una lotta sempre aperta per il predominio geopolitico nell’area del Golfo Persico (in quest’ottica devono essere letti i costosi interventi militari sauditi in Yemen e Siria, nonché l’appoggio economico offerto al governo egiziano del presidente al-Sisi). In questo contesto un coordinamento tra arabi e iraniani in materia di petrolio sembra assai poco probabile.1 Il rafforzamento del dollaro statunitense,2 la produzione russa ai massimi dall’epoca sovietica, i timori sul rallentamento dell’economia globale e l’incertezza delle borse azionarie contribuiscono ad appesantire le quotazioni del greggio (qualcuno arriva a temere lo sfondamento di quota 20$/b), fatto a cui contribuisce anche la fine ufficiale delle sanzioni economiche contro l’Iran. Il 16 gennaio, infatti, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) dichiara che l’Iran sta dando seguito agli accordi siglati nel 2015 con la comunità internazionale, ponendo così le basi per la progressiva rimozione delle 1 I timori sauditi nei confronti dell’Iran sono aggravati dalla percezione che gli Stati Uniti stiano riducendo il loro impegno militare e politico nell’area del Golfo Persico e che l’amministrazione americana stia adottando un approccio troppo distensivo nei confronti dell’Iran. 2 Essendo il greggio valutato abitualmente in dollari, a un apprezzamento del dollaro nei confronti delle altre valute corrisponde, a parità di altre condizioni, una diminuzione del prezzo del greggio. Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 3
sanzioni da parte di Unione europea e Stati Uniti. Benché il processo si stia rivelando più complesso del previsto a causa del perdurare di alcune sanzioni americane e per il timore di molti istituti finanziari occidentali a fornire credito e garanzie, la produzione iraniana di greggio riparte in tempi sorprendentemente rapidi, riportandosi ad aprile su valori prossimi a quelli registrati a fine 2011 (3,6 Mbb/g), ossia subito prima del rafforzamento delle sanzioni economiche (v. Figura 3). FIG. 3 – ANDAMENTO DELLA PRODUZIONE IRANIANA DI PETROLIO GREGGIO E DEL CONSUMO INTERNO FONTE: AGENZIA INTERNAZIONALE DELL’ENERGIA (IEA). All’aumento della produzione di oltre 0,5 Mbb/g corrisponde un uguale aumento delle esportazioni (arrivate a circa 2 Mbb/g), che si indirizzano non più, come negli anni precedenti, solamente verso oriente (Cina, India, Corea del Sud e Giappone), ma anche verso occidente, in particolare verso l’Europa (a marzo attracca in Spagna la prima petroliera con greggio iraniano destinato al mercato europeo). Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) e numerosi analisti del settore, la volontà dell’Iran di riconquistare le quote di mercato perdute a causa delle sanzioni si scontrerà tuttavia nel breve periodo contro la necessità di accrescere la capacità di estrazione tramite investimenti sia in giacimenti maturi sia in nuove aree di produzione, cosa che naturalmente richiede tempo, nonché risorse finanziarie e tecniche non immediatamente nelle disponibilità del paese. Da qui la previsione che nonostante gli ambiziosi progetti di Teheran la produzione e le esportazioni iraniane si stabilizzeranno nel corso dei prossimi mesi, per poi crescere gradualmente nei prossimi 4-5 anni di altri 0,5 Mbb/g. Nel conseguire questo risultato molto dipenderà dalla capacità del paese di coinvolgere le compagnie straniere tramite nuove formule contrattuali (v. Focus 23-24) ed Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 4
evitare il riacutizzarsi delle tensioni con la comunità internazionale in materia di programma nucleare. La progressiva ripresa della produzione iraniana contribuisce a sostenere la crescita dell’offerta mondiale di greggio e altri liquidi tra il primo e il secondo trimestre del 2016 (v. Figura 4). FIG. 4 – ANDAMENTO DELL’OFFERTA E DELLA DOMANDA MONDIALE DI LIQUIDI INCLUDE LA PRODUZIONE DI GREGGIO, CONDENSATI E BIOCARBURANTI. I DATI DAL SECONDO TRIMESTRE 2016 IN POI SONO STIME. FONTE: IEA. L’eccesso dell’offerta rispetto alla domanda continua a essere superiore a 1 Mbb/g e contribuisce a deprimere i mercati internazionali, i quali prevedono un rialzo dei prezzi molto lento (a gennaio 2016 i futures con consegna a inizio 2017 viaggiano attorno ai 40$/b). La situazione diventa così grave per i paesi esportatori di petrolio che a febbraio si rafforzano le proposte per un congelamento della produzione, così da favorire un più rapido riequilibrio tra domanda e offerta. L’idea, presentata dalla Russia e accolta da Arabia Saudita, Venezuela e Qatar, trova il pieno sostegno dei paesi OPEC maggiormente in difficoltà – si pensi alla Nigeria e all’Algeria – ma si scontra contro le obiezioni iraniane e irachene. In particolare, il ministro del Petrolio iraniano Bijan Zanganeh sottolinea come sia illogico domandare all’Iran di partecipare al contenimento dell’offerta prima che il paese abbia recuperato la quota di mercato che deteneva prima del rafforzamento del regime sanzionatorio nel 2012. L’obiezione iraniana e la reazione negativa saudita, contraria ad agire senza la collaborazione di tutti i maggiori produttori di petrolio, portano prima al rinvio dell’incontro tra produttori OPEC e non OPEC – inizialmente previsto per marzo a Mosca – e poi al fallimento dello stesso a Doha (Qatar) a metà aprile. Ancora una Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 5
volta risultano evidenti le difficoltà dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio ad avere un ruolo efficace in un contesto di offerta strutturalmente superiore alla domanda, come testimonia peraltro il fatto che se nel 2014 l’aumento dell’offerta mondiale era in larga parte dovuto alla produzione non OPEC, tra l’autunno del 2015 e l’inizio del 2016 sono proprio i paesi OPEC a incrementare maggiormente l’estrazione di greggio (Arabia Saudita e Iraq in testa), mentre la produzione non OPEC rallenta la sua crescita (v. Figure 5 e 6). FIG. 5 – PRODUZIONE DI GREGGIO E CONDENSATI DEI PAESI OPEC (MBB/G) IL GABON SARÀ RIAMMESSO NELL’OPEC A PARTIRE DA LUGLIO 2016. FONTE: BRITISH PETROLEUM (BP). In questo scenario economico difficile, i paesi esportatori di petrolio accelerano l’aggiustamento macroeconomico già avviato nella seconda metà del 2015. Vari governi decidono infatti di ridurre le spese per infrastrutture e investimenti, tagliano i sussidi al consumo di prodotti energetici e alimentari, rinunciano a difendere la parità nei confronti del dollaro (l’Azerbaigian lo fa a dicembre e viene seguito nei mesi successivi da Kazakistan, Venezuela e Nigeria tra gli altri), emettono obbligazioni e iniziano a rastrellare risorse dai propri fondi sovrani d’investimento. Si comincia inoltre a parlare di introdurre forme di tassazione sui cittadini e le imprese locali, nonché a tagliare la spesa pubblica più improduttiva. Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 6
FIG. 6 – PRODUZIONE DI GREGGIO E CONDENSATI DEI PRINCIPALI PAESI NON OPEC (MBB/G) SONO RICOMPRESI I PAESI NON OPEC CON PRODUZIONE SUPERIORE AI 2 MBB/G. FONTE: BP. A guidare il processo di aggiustamento alle nuove basse quotazioni del greggio è l’Arabia Saudita, che ha registrato nel solo 2015 un deficit di bilancio di quasi 98 miliardi di dollari, pari a oltre il 14% del PIL. Il principe ereditario Muhammad bin Salman, figlio trentenne dell’ottuagenario re Salman, è particolarmente conscio della necessità di dare una scossa all’ingessata società saudita ed eliminare la sua dipendenza dal petrolio. In questa direzione va la Visione Saudita per il 2030, pubblicata a fine aprile dopo alcuni mesi di discussioni e interviste apparse sui media. L’idea dietro a questo progetto è quella di trasformare profondamente la società e l’economia saudita, così da ridimensionare la centralità dell’industria petrolifera e delle quotazioni del greggio sulla politica economica. In particolare, il principe Muhammad prevede la vendita di una quota (5%) di Saudi Aramco, la più grande compagnia petrolifera del mondo, vendita che porterebbe in dotazione circa 100-200 miliardi di dollari da destinare a un fondo sovrano d’investimento con cui promuovere progetti di sviluppo sia in patria che all’estero. L’impresa petrolifera, trasformata in una società per azioni quotata in borsa, diventerebbe più trasparente e punterebbe all’ulteriore sviluppo dei segmenti della raffinazione, della distribuzione e della petrolchimica. Il piano di Muhammad prevede poi la promozione del settore privato interno, sia con misure a favore delle piccole e medie imprese, sia con la privatizzazione di altre società pubbliche che gestiscono servizi come l’acqua e l’elettricità. L’economia saudita dovrà poi diversificarsi, puntando allo sviluppo delle fonti rinnovabili, dell’industria mineraria non petrolifera, dei servizi finanziari, della manifattura tecnologicamente avanzata (ICT e componentistica) e del turismo (pellegrinaggi a La Mecca). Infine, la Visione al 2030 mira a ridisegnare il patto sociale, riducendo il ruolo dello stato quale Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 7
datore di lavoro e fornitore di servizi, oltre che imponendo forme (minime) di tassazione (si parla di introdurre una tassa sul valore aggiunto al 5% in coordinamento con le altre economie del Golfo). Il progetto è estremamente ambizioso perché: i) oggi l’industria petrolifera vale tra il 75 e l’85% delle entrate statali e la gran parte delle esportazioni del paese; ii) la popolazione è in forte crescita e ha una bassa età media, cosa che pone un grave problema di occupazione; iii) i sauditi sono abituati a scambiare benefici economici con la fedeltà alla famiglia regnante; iv) esistono resistenze culturali alla modernizzazione della società, in particolare nei confronti del ruolo della donna.3 Tuttavia, la carica innovativa e lo spazio di manovra politica del principe ereditario sono notevoli, come testimonia il peso delle sue dichiarazioni nel fallimento del vertice di Doha e la successiva rimozione, avvenuta ai primi di maggio, del vecchio ministro del Petrolio Ali al-Naimi, in carica dal 1995. Al suo posto è stato chiamato Khalid al-Falih, già amministratore delegato di Saudi Aramco e ministro della Salute dalla primavera del 2015. Significativamente, a cambiare non è stato solo il ministro ma anche il nome e dunque le competenze del ministero, che ora è ministero dell’Energia, Industria e Risorse Minerarie, coerentemente con l’intento del principe ereditario di andare oltre il petrolio. Al-Falih, dunque, si ritrova al centro delle iniziative che dovranno portare all’attuazione nei prossimi anni della Visione al 2030, a cominciare dall’offerta pubblica iniziale di acquisto del 5% di Aramco, che viene prevista tra la fine del 2017 e il 2018. Tornando alla prospettiva globale dei mercati del petrolio, va segnalato che nell’attesa del vertice di Doha il greggio vive un importante rally dei prezzi. Un po’ come era successo nella tarda primavera del 2015, l’idea che i maggiori produttori possano decidere di intervenire sui mercati, sospinge le quotazioni, che dopo i minimi di gennaio-febbraio risalgono prontamente attorno ai 40-45$/b. La situazione di forte contango dei prezzi registrata a partire dalla seconda metà del 2014 si riduce significativamente, tanto che il differenziale tra i contratti con consegna a un mese e quelli a 7 mesi si riduce a 1-3 dollari in favore dei secondi.4 Il fallimento di Doha non cambia questa tendenza alla ripresa dei prezzi, perché negli stessi giorni in cui i grandi produttori OPEC e non OPEC mostrano il loro disaccordo inizia a verificarsi una serie di eventi che riducono sensibilmente l’offerta mondiale di petrolio in modo non pianificato. Innanzitutto, proprio tra il 17 e il 20 aprile viene proclamato un vasto sciopero da parte dei lavoratori del settore petrolifero in Kuwait, che riduce la produzione di circa il 60% (1,7 Mbb/g). A questo rilevante, sebbene effimero episodio, se ne affiancano altri in rapida successione. Ai primi di maggio estesi incendi sconvolgono le foreste attorno a Fort McMurray nel nord dell’Alberta (Canada), 3 Tali resistenze rendono più difficile attrarre forza lavoro altamente qualificata dall’estero. Emblematico è il fallimento registrato nel creare un centro finanziario di rilievo internazionale. 4 Si ha una situazione di contango quando il prezzo per l’acquisto di un bene con consegna immediata (a pronti) è minore del prezzo per l’acquisto dello stesso bene con consegna differita nel tempo (a termine). Il suo contrario prende il nome di backwardation. Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 8
imponendo la sospensione delle attività di estrazione dalle sabbie bituminose. Oltre 90.000 persone sono evacuate e benché i danni alle infrastrutture sembrino ridotti, la produzione canadese cala in pochi giorni di oltre 0,6 Mbb/g e circa 1,2 Mbb/g di capacità restano in gran parte fermi per alcune settimane, fino a che all’inizio di giugno le fiamme vengono domate e la situazione torna alla normalità. Più duraturi sembrano gli effetti di altre tre evoluzioni negative per l’offerta mondiale. In Venezuela il crescente caos politico ed economico rende difficile il reperimento dei macchinari, le forniture elettriche, il pagamento delle attività di manutenzione dei giacimenti e l’assicurazione dei contratti. La produzione è perciò in lento ma progressivo declino da alcuni mesi ed è poco probabile che i valori attuali di circa 2,3 Mbb/g siano sostenibili per i prossimi trimestri. Analogamente, in Libia il perdurare della discordia fra le varie regioni del paese, gli scontri fra le milizie, in particolare nella zona di Sirte, e la lentezza nella formazione di un governo di unità nazionale, appoggiato dalle Nazioni Unite e guidato da Fayez Sarraj, causano una riduzione della produzione, che si attesta attorno ai 0,3-0,4 Mbb/g, un valore assai modesto se si pensa che prima della guerra civile del 2011 la Libia estraeva oltre 1,6 Mbb/g. In caso si raggiunga un accordo politico forte tra le parti in campo è possibile che la produzione riprenda rapidamente, riportandosi attorno a 0,7-0,8 Mbb/g in pochi mesi, ma ormai sono anni che la Libia si presenta come una variabile fortemente aleatoria e su cui è difficile fare previsioni. Infine, un ulteriore fronte caldo è rappresentato dalla Nigeria, dove un nuovo gruppo di ribelli, i “vendicatori del delta del Niger”, lancia nel giro di poche settimane numerosi attacchi alle infrastrutture nel sud del paese, riducendo la produzione di circa 0,5-0,6 Mbb/g e costringendo compagnie come Shell, Eni e Chevron a evacuare il personale e dichiarare la forza maggiore. Al centro del contendere, ancora una volta, la ripartizione dei benefici economici dell’estrazione di idrocarburi, da cui le popolazioni del delta si sentono escluse. La combinazione di questi eventi (unplanned outages), alcuni più effimeri e altri più duraturi, vale tra i 3 e i 4 Mbb/g di produzione, che viene posta fuori dal mercato, annullando di fatto l’eccesso di offerta registrato nei primi mesi dell’anno e contribuendo a sostenere i prezzi, che tra maggio e giugno oscillano tra i 48 e i 52$/b. Il riequilibrio del mercato petrolifero non è tuttavia da attribuire solamente a questi eventi imprevisti, ma è legato anche alla graduale risposta di offerta e domanda ai nuovi prezzi. Sul lato dell’offerta, negli ultimi mesi si è accentuata la riduzione o il rinvio delle decisioni di investimento da parte delle società petrolifere in nuovi progetti. Dopo un calo del 24% tra il 2014 e il 2015, la spesa in conto capitale a livello mondiale dovrebbe ulteriormente diminuire di circa il 17% tra il 2015 e il 2016 (stime IEA). In valore assoluto si parla di una riduzione rispetto agli investimenti pianificati di circa 380 miliardi di dollari tra la fine del 2014 e la fine del 2015 (fonte: Wood Mackenzie), una cifra enorme equivalente a una capacità produttiva di molti Mbb/g. Se nell’area del Medio Oriente, le compagnie petrolifere nazionali hanno cambiato di poco i loro piani, nei paesi non OPEC la risposta dell’industria è stata impressionante, soprattutto da parte delle imprese di minori dimensioni. Negli Stati Uniti, ad esempio, il numero di impianti di Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 9
trivellazione attivi (rig count) per la ricerca di petrolio e gas è continuato a diminuire, raggiungendo a fine maggio un minimo di 404 unità, poco più di un quinto del picco registrato durante lo shale boom del 2014 (v. Figura 7). FIG. 7 – IMPIANTI DI TRIVELLAZIONE ATTIVI NEGLI USA PER LA RICERCA E PRODUZIONE DI GAS E PETROLIO FONTE: BAKER HUGES. La forte diminuzione delle attività di ricerca e sviluppo si sta traducendo in una riduzione della produzione americana di petrolio greggio, che dopo aver toccato i massimi nella primavera del 2015 (9,5 Mbb/g), ha conosciuto un andamento piuttosto stabile nella seconda metà dell’anno grazie agli aumenti di produttività, che tuttavia non sono ora più sufficienti. Anche l’attivazione dei numerosi pozzi perforati ma non “completati” (drilled but uncompleted – DUC) nei mesi scorsi può aumentare i volumi estratti di 0,2-0,3 Mbb/g nella seconda metà del 2016, ma ragionevolmente non controbilancerà del tutto il tasso naturale di declino dei pozzi messi in produzione nel 2014 e 2015. Da inizio 2016 il calo della produzione di petrolio non convenzionale risulta infatti piuttosto marcato e si ipotizza che nel corso dell’anno l’ammanco rispetto al 2015 arriverà a 0,7-0,9 Mbb/g. Le importazioni nette da parte degli Stati Uniti tornano nel frattempo ad aumentare, limitando nei fatti gli effetti dell’abolizione votata dal Congresso americano nel dicembre 2015 del divieto all’esportazione di petrolio greggio, divieto che era entrato in vigore durante le crisi petrolifere degli anni Settanta, con alcune piccole eccezioni relative principalmente alla produzione dell’Alaska e al commercio con il Canada (queste eccezioni giustificano le esportazione di circa 0,5 Mbb/g di petrolio greggio registrate negli ultimi anni). L’abolizione del divieto, votata dopo un lungo dibattito politico e facente parte di un più ampio accordo tra repubblicani e democratici che comprende anche la prosecuzione Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 10
degli incentivi fiscali per le fonti rinnovabili, ha generato molto entusiasmo, ma non sta avendo un impatto significativo sui flussi di petrolio. Diversi carichi sono partiti nel primo trimestre diretti verso l’Europa – Italia inclusa – e l’America Latina, ma i volumi complessivi sono per il momento modesti (0,2-0,3 Mbb/g). Al momento, infatti, il WTI e il Brent sono tornati a viaggiare su quotazioni molto vicine – in parte proprio in virtù della rimozione del divieto all’esportazione – e si è ridotto il profitto ottenibile dall’attività di arbitraggio. Il principale beneficio attualmente consiste perciò nella possibilità di poter utilizzare meglio i greggi leggeri, di cui gli USA registrano un surplus rispetto alla propria capacità di raffinazione (si ricordi che gli USA sono invece già oggi un grande esportatore di prodotti raffinati – v. Figura 8). FIG. 8 – PRINCIPALI FLUSSI DI PETROLIO E DERIVATI NEL 2015 (MILIONI DI TONNELLATE) UNA TONNELLATA DI PETROLIO EQUIVALE A CIRCA 7 BARILI. FONTE: BP. Il sogno di un’America energeticamente indipendente dal resto del mondo sembra dunque poco compatibile con quotazioni del greggio sotto i 50$/b. Solo una ripresa dei prezzi al di sopra di tale soglia pare infatti poter indurre le imprese a riavviare le attività di esplorazione e produzione e gli istituti di credito a concedere nuovi finanziamenti, come peraltro confermerebbe l’aumento del rig count registrato proprio nelle prime settimane di giugno. Al momento però non bisogna farsi molte illusioni: il peso dei debiti accumulati negli anni passati, il progressivo esaurirsi dei siti migliori e lo sfruttamento di tutti i possibili Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 11
risparmi di costo dovrebbero impedire alla produzione di petrolio non convenzionale americano di tornare, almeno nel breve-medio periodo, ai tassi di crescita osservati tra il 2010 e il 2014. Molte società petrolifere hanno del resto dovuto dichiarare il fallimento e molti lavoratori del settore hanno cercato occupazione in altri campi dopo essere stati licenziati in gran copia nei mesi scorsi. È probabile dunque che la produzione continui a calare leggermente fino al 2017 e che una parziale ripresa si abbia solo nel 2018-2019. Il mercato del petrolio ha reagito al calo dei prezzi anche sul lato della domanda, che dopo la straordinaria crescita di 1,8 Mbb/g del 2015, sta sorprendendo ancora positivamente, con un aumento previsto per il 2016 di 1,2-1,3 Mbb/g. Dal punto di vista geografico a trainare questo aumento vi sono l’India, la Cina, gli Stati Uniti e, in Europa, il Regno Unito, mentre in termini di prodotti sta salendo molto la domanda di benzina e cherosene, mentre il diesel e i distillati pesanti (olio combustibile) conoscono una dinamica più limitata. Tra le cause, l’inverno mite dovuto a El Niño, che ha ridotto la domanda per riscaldamento, e il fatto che le famiglie stanno sfruttando i minori prezzi alla pompa per aumentare le percorrenze in auto, mentre gli usi di tipo più industriale legati al trasporto merci risentono della modesta crescita economica. Per i prossimi 4-5 anni la IEA prevede una crescita annuale della domanda attorno a 1,2-1,3 Mbb/g (1,2% annuo), tanto che nel 2020 si dovrebbe superare quota 100 Mbb/g. La nuova domanda, come già accade da alcuni anni, dovrebbe concentrarsi in larga parte nella zona Asia-Pacifico, con discreti aumenti anche in Medio Oriente e Africa, mentre l’Europa dovrebbe registrare un calo; le America e l’area dell’ex-Unione Sovietica registrerebbero, infine, un andamento poco mosso secondo l’Agenzia di Parigi. Proprio il combinato di questo continuo aumento dei consumi con il summenzionato calo degli investimenti pone dei dubbi circa la sicurezza futura degli approvvigionamenti di petrolio e derivati. Se le dinamiche previste dovessero effettivamente realizzarsi, il mercato tornerebbe in effetti in equilibrio tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017, per poi accorciarsi progressivamente. All’inizio si avrebbe ragionevolmente una riduzione delle notevoli scorte accumulate negli scorsi anni, ma a più lungo andare è ipotizzabile un rapido aumento dei prezzi, con un ritorno a situazioni simili a quelle dello scorso decennio (2003-2014). Come sempre accade nel campo delle materie prime, l’abbondanza e i bassi prezzi di oggi sono i semi della scarsità e degli alti prezzi di domani. L’OPEC sembra consapevole di questo graduale accorciamento e nell’incontro semestrale di Vienna del 2 giugno, nonostante qualche lamentela da parte dei paesi più deboli, è stata confermata la scelta di non scegliere, lasciando inalterato il tetto alla produzione collettiva (30 Mbb/g). In realtà, più che una comune visione delle cose, durante il vertice, che peraltro ha sancito la riammissione all’OPEC del Gabon a partire da luglio e la nomina – a partire da agosto – del nuovo segretario generale, il nigeriano Mohammed Barkindo, è emersa la costatazione che le interruzioni non programmate della produzione in varie parti del globo hanno nei fatti accelerato, almeno per il momento, il processo di riequilibrio del mercato e che la situazione non è più così Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 12
disperata come durante l’inverno. Per l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo, la strategia di difendere le quote di mercato e lasciare alla produzione non OPEC l’onere dell’aggiustamento sta dando i suoi frutti e quindi non è necessario ridurre la propria produzione. Per l’Iran, che ha chiesto la reintroduzione delle quote individuali, e gli altri paesi più deboli del gruppo la lettura è diversa, ma al momento non hanno la possibilità e la volontà di partecipare alla riduzione dell’offerta, così come richiesto da Riyadh. Da qui le affermazioni generiche del comunicato finale, tanto piene di ringraziamenti e riconoscimenti quanto vuote di sostanza. 1.2 GAS NATURALE Il 2015 ha segnato anche per il gas naturale una buona annata, con i consumi che sono cresciuti a livello globale di circa l’1,7% (58 Gmc), assestandosi a quasi 3200 Gmc. Si tratta di una crescita superiore a quella registrata nel 2014 (0,6%), ma inferiore alla media degli ultimi anni (2,3%, fonte: BP). La maggiore domanda si è concentrata nell’Unione europea, che ha segnato una ripresa dopo il debole 2014 in cui si era avuto un inverno piuttosto mite, in America Latina, Africa e Medio Oriente. I mercati asiatici hanno conosciuto un brusco rallentamento nella loro espansione, mentre l’ex-Unione Sovietica ha registrato un calo, concentrato in Russia, Ucraina e Bielorussia (v. Figura 9). FIG. 9 – MAGGIORI CONSUMATORI AL MONDO DI GAS NATURALE (GMC/ANNO) SONO RICOMPRESI I PAESI CON UN CONSUMO ANNUO SUPERIORE AI 50 GMC. FONTE: BP. Nonostante il discreto aumento dei consumi, che ha permesso al gas di accrescere il suo peso nella bilancia delle fonti primarie (23,8%), il 2015 ha registrato, analogamente a quanto successo per il petrolio, un crescita ancora maggiore dell’offerta (2,2%). La Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 13
maggiore produzione ha avuto luogo soprattutto negli Stati Uniti (gas non convenzionale), Iran, Norvegia, Cina e Australia. La UE ha registrato un calo significativo delle estrazioni, così come la Russia. Lo Yemen ha praticamente visto collassare la sua produzione (v. Figura 10). FIG. 10 – MAGGIORI PRODUTTORI AL MONDO DI GAS NATURALE (GMC/ANNO) SONO RICOMPRESI I PAESI CON UNA PRODUZIONE ANNUA SUPERIORE AI 50 GMC. FONTE: BP. Quindi, come per il petrolio, il 2015 si conferma anche per il gas naturale anno di abbondanza. A evidenziarlo sono gli stessi prezzi, che in ognuno dei tre mercati regionali in cui tipicamente si svolge il commercio internazionale del gas naturale (Nord America, Europa, Asia Pacifico) registrano un andamento decrescente (v. Figura 11). Molte sono le cause, alcune comuni e altre specifiche delle singole regioni. Negli Stati Uniti il calo dell’Henry hub, scivolato spesso sotto i 2$/Mmbtu (British thermal units in milioni), è dovuto all’ulteriore aumento della produzione di gas non convenzionale, a un inverno mite e al debole andamento della domanda di elettricità, per la cui generazione il gas naturale ha superato il carbone come principale fonte primaria. L’impossibilità, fino a inizio 2016, di esportare l’eccesso di produzione al di fuori del mercato nord-americano, ha contribuito alla depressione dei prezzi. Nell’Asia Pacifico il calo delle quotazioni è invece dovuto da un lato all’indicizzazione di molti contratti al prezzo del greggio e, dall’altro lato, a un calo della domanda da parte di Giappone e Corea del Sud, due paesi che da soli valgono circa la metà del mercato mondiale del gas naturale liquefatto (GNL). La competitività del carbone nella generazione elettrica, il riavvio di alcune centrali nucleari, lo sviluppo delle fonti rinnovabili Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 14
sussidiate e un rallentamento della produzione industriale sono all’origine di questa battuta d’arresto, che in parte ha riguardato anche la Cina, mentre altri mercati minori come l’India e Taiwan hanno registrato una buona crescita. In un contesto di significativo aumento dell’offerta proveniente dall’Australia e (in misura minore) dalla Papua Nuova Guinea, gli importatori si sono trovati in molti casi con volumi di gas sottoscritti eccessivi rispetto al bisogno e hanno, ove possibile, provveduto a scaricarli sui mercati a pronti, deprimendone le quotazioni. Il premio pagato al gas venduto nell’area dell’Asia Pacifico rispetto a quello commerciato in Europa si è perciò ridotto sensibilmente ed è ora di 1-2 $/Mmbtu. FIG. 11 – ANDAMENTO DELLE QUOTAZIONI DEL GAS NATURALE SUI PRINCIPALI MERCATI REGIONALI ($/MMBTU) FONTE: FMI. Questa convergenza dei prezzi trova riscontro nel dirottamento nel corso degli ultimi mesi di alcuni carichi di GNL del Qatar verso il mercato europeo e verso alcuni paesi del Medio Oriente, l’Egitto e il Pakistan. Le importazioni di gas da parte della UE, in particolare, sono aumentate nel 2015 a seguito di un inverno più freddo e di un calo della produzione interna, ma le forniture addizionali sono state per lo più coperte tramite gasdotti dalla Norvegia e dalla Russia (v. Figura 12). Tuttavia, se è vero che nel 2015 il commercio internazionale di gas tramite gasdotto è cresciuto più di quello tramite GNL, le previsioni per i prossimi anni parlano di una forte espansione di quest’ultimo sulla spinta data dall’entrata in Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 15
servizio di numerosi impianti di liquefazione e di rigassificazione e dall’ulteriore ingrandimento della flotta di navi metaniere.5 FIG. 12 – PRINCIPALI FLUSSI DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE DI GAS NATURALE NEL 2015 (GMC) FONTE: BP. Attratti dagli alti prezzi del GNL registrati sui mercati asiatici tra il 2011 e il 2014, molti operatori hanno avviato poderosi investimenti che – nel più classico dei cicli di boom and bust – sono arrivati a completamento proprio nel momento in cui la domanda ha iniziato a rallentare (v. Tabella 1). L’esito inevitabile è un eccesso di offerta che oltre a deprimere i prezzi sta riducendo il tasso di utilizzo degli impianti, nonostante a livello mondiale alcuni dei produttori di GNL registrino problemi di natura tecnica (Angola), insufficiente disponibilità di gas naturale (Algeria, Indonesia, Egitto) o gravi problemi di sicurezza (Yemen), per un totale di circa 55 Gmc/anno attualmente indisponibili.6 5 Dei circa 3200 Gmc di gas consumati nel 2015, solamente 1040 sono stati oggetto di transazioni a livello internazionale. Di questo ammontare, circa il 70% è stato trasportato via gasdotto, mentre il restante 30% sotto forma di GNL. Queste cifre stanno a indicare che il gas naturale, in buona parte, è spesso una questione interna ai vari paesi o, al limite, interna ai mercati regionali, diversamente da quanto accade per il petrolio che è già da anni scambiato su un mercato globale. 6 Il tasso di utilizzazione degli impianti di liquefazione, al netto della capacità non disponibile, è sceso dal 96% del 2011 al 93% del 2015. Dovrebbe ulteriormente calare all’89% nel 2018, prima di risalire gradualmente (fonte: IEA). Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 16
A fronte di queste indisponibilità, negli ultimi trimestri sono entrati in funzione o hanno aumentato la produzione alcuni nuovi impianti di liquefazione, concentrati in Australia, Papua Nuova Guinea, Indonesia e Stati Uniti. Tra questi si annovera l’impianto di Sabine Pass in Louisiana, il primo impianto per l’esportazione di GNL americano (escludendo l’impianto di Kenai in Alaska risalente agli anni Sessanta), da cui a febbraio è salpata una nave metaniera diretta in Brasile. Cheniere Energy ha investito massicciamente in questo impianto e in quello non lontano di Corpus Christi, sebbene recentemente stia valutando di ridimensionare i proprio progetti rinviando la decisione finale d’investimento (FID) su alcuni treni di liquefazione.7 TAB. 1 – IMPIANTI DI LIQUEFAZIONE ENTRATI IN FUNZIONE NELL’ULTIMO ANNO CAPACITÀ PRINCIPALI ENTRATA IN PAESE PROGETTO ANNUALE OPERATORI FUNZIONE (Gmc/anno) Mitsubishi, Petramina, Indonesia Donggi Senoro 2,7 ago-15 KOGAS, Medco Santos, Petronas, Total, Australia Gladstone 10,6 ott-15 KOGAS Origin Energy, Australia Australia Pacific 12,2 gen-16 ConocoPhilis, Sinopec Stati Uniti Sabine Pass 1-2 12,2 Cheniere Energy feb-16 Australia Gargon 1-2 14,1 Chevron, ExxonMobil, Shell mar-16 FONTE: IEA. Gli investitori negli ultimi mesi hanno infatti preso consapevolezza dell’eccesso di offerta che si sta accumulando nel mercato del GNL e nei primi mesi del 2016 non hanno dato l’avvallo a nessun nuovo progetto di liquefazione. L’inerzia del sistema è tuttavia notevole e sono numerosi gli impianti in via di ultimazione o i cui lavori sono già iniziati. A livello mondiale si parla di oltre 150 Gmc/anno di capacità di liquefazione, concentrati per lo più in Australia e Stati Uniti (fonte: IEA). Sebbene in qualche caso sia possibile attendersi uno slittamento dei lavori, è probabile che molti di questi impianti diventino operativi da qui al 2018, aumentando la capacità installata a livello mondiale di quasi un terzo. Considerazioni analoghe possono farsi per le navi metanifere, cresciute di oltre 60 unità negli ultimi due anni, raggiungendo la somma complessiva di quasi 450. 7 Se da un lato l’allargamento del Canale di Panama, in via di ultimazione, faciliterà il transito delle navi metaniere dal Golfo del Messico all’Oceano Pacifico e migliorerà il business case di Cheniere e di altri esportatori americani, dall’altro il significativo calo dei prezzi del GNL in Asia sta riducendo fortemente i margini di profitto conseguibili dalla produzione americana, che potrebbe essere reindirizzata verso l’America Latina e l’Europa. Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 17
L’ampia disponibilità di capacità di trasporto si è tradotta immediatamente in un calo del prezzo dei noli, che si è ridotto a meno di un quarto rispetto ai picchi registrati nel 2012. Infine, l’eccesso di capacità riguarda anche la rigassificazione a valle del trasporto marino. Nel solo 2015 sono diventati operativi 12 progetti, alcuni espansione di precedenti impianti e altri totalmente nuovi, per una capacità di rigassificazione di circa 48 Gmc/anno. Un’altra trentina di progetti per oltre 107 Gmc/anno di capacità sono in via di sviluppo e se ne prevede il completamento per il 2018 (fonte: IEA). Nel complesso si tratta di progetti in grado di aumentare la capacità mondiale di rigassificazione di circa il 10%, spesso concentrati in regioni che già dispongono di un’abbondante capacità di ricezione dei flussi di GNL. Infatti, se è vero che in questi anni il mercato del GNL si sta allargando a nuovi paesi (Giordania, Polonia, Pakistan, Colombia, Finlandia, Ghana, Uruguay, ecc.) o vede vecchi paesi esportatori divenire importatori (Egitto) – anche tramite il ricorso alle meno costose e più rapide da installare unità flottanti (floating storage and regasification unit, FSRU) – è altrettanto vero che molta capacità aggiuntiva di rigassificazione si sta realizzando in Cina, Giappone e Corea, paesi che dopo aver dominato il mercato lato consumo negli ultimi lustri presentano oggi e per il prossimo futuro una dinamica della domanda molto più contenuta, se non addirittura negativa. In questi e altri paesi – si pensi all’Europa – la capacità d’importazione non sarà dunque un limite per la domanda di gas nei prossimi anni, ma conteranno di più la convenienza relativa delle fonti energetiche concorrenti (carbone e fonti rinnovabili), l’andamento dell’attività economica e le politiche ambientali ed energetiche (lotta all’inquinamento atmosferico e contenimento delle emissioni clima-alteranti, v. § 1.3). Il mercato del GNL è dunque previsto rimanere piuttosto lungo almeno fino al 2019-20, ossia per un periodo di tempo superiore rispetto al mercato del petrolio. Il protrarsi dell’eccesso di offerta e il disallineamento rispetto al mercato petrolifero che si manifesterà nei prossimi anni dovrebbero favorire la convergenza dei mercati regionali del gas, tramite la pressione competitiva che carichi a pronti di GNL senza vincolo di destinazione eserciteranno anche sul commercio via gasdotto (v. § 4.1). In questo contesto che avvantaggia il compratore, è probabile che vi sia un’ulteriore evoluzione delle prassi commerciali con il prevalere di condizioni più flessibili e riflessive dei fondamentali del mercato del gas (rinegoziazione dei contratti di lungo periodo in essere, riduzione dell’indicizzazione al prezzo del petrolio, aumento dell’indicizzazione ai prezzi degli hub, eliminazione delle clausole di destinazione per il gas acquistato, accorciamento della durata dei contratti di acquisto, abbassamento delle soglie take or pay, ecc.).8 8Un esempio di pratiche commerciali a metà tra il vecchio e il nuovo è dato da Cheniere Energy che ha venduto una buona parte della capacità di liquefazione di Sabine Pass a major del calibro di Shell e Total per un periodo di 20 anni, lasciando la restante quota di capacità alle contrattazioni spot. I contratti di lungo periodo siglati prevedono un prezzo del GNL pari al 115% del prezzo definito all’Henry hub più una tariffa Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 18
I produttori dovranno inoltre cercare di stimolare nuova domanda, prendendo in considerazione anche potenziali sbocchi di minori dimensioni e maggiori rischi nei paesi in via di sviluppo. Una possibilità in questo senso è offerta dalle flessibili FSRU o dagli impianti di mini GNL, particolarmente utili se si vorrà promuovere l’uso del GNL nei trasporti terrestri e marittimi. I tradizionali mercati di vendita del GNL (Giappone, Corea ed Europa) dovrebbero invece essere incapaci di assorbire in maniera rilevante la nuova offerta, mentre maggiori aspettative sono riposte sulla Cina, l’India e sulle altre economie emergenti del sud-est asiatico. Il mercato tendenzialmente globalizzato che sta emergendo nel campo del gas naturale liquefatto avvantaggia i consumatori e i paesi importatori come l’Italia, perché consente di mettere in concorrenza fra loro i fornitori e sostituire prontamente flussi di gas divenuti troppo costosi o non più disponibili per ragioni tecniche o politiche. Nell’attuale fase di abbondanza dell’offerta ciò si traduce in una maggiore sicurezza energetica, sia nel senso di una maggiore garanzia circa la disponibilità dell’energia che nel senso di una sua maggiore convenienza economica. Non va tuttavia dimenticato che, come la più lunga storia del mercato del petrolio insegna, la globalizzazione degli scambi implica maggiore interdipendenza rispetto a eventi e sviluppi lontani. Nel 2011 lo spegnimento del parco nucleare giapponese dopo l’incidente di Fukushima portò a un rapido e imprevisto aumento della domanda di GNL sui mercati asiatici, che si ripercosse anche in Europa, dove il tasso di utilizzo dei rigassificatori, complice anche la crisi economica, crollò. In qualche misura assistiamo oggi al fenomeno opposto, con il mercato asiatico depresso che cerca di scaricare altrove il gas in eccesso. In secondo luogo, così come per il greggio, anche per il GNL l’abbondanza di oggi e del prossimo futuro potrebbe essere la causa della scarsità e dell’insicurezza in un orizzonte più lungo. Sebbene non sussistano timori nell’immediato, la debolezza di profitti che l’industria registrerà nei prossimi 2-3 anni e le minori garanzie che le nuove pratiche commerciali offrono indurranno a cancellare o a posticipare fortemente investimenti e progetti, che potrebbero rivelarsi utili all’inizio del prossimo decennio, quando l’equilibrio tra domanda e offerta dovrebbe tornare sui mercati del gas. 1.3 NEGOZIATI SULLA LOTTA AL CAMBIAMENTO CLIMATICO Il 12 dicembre 2015 a Parigi i paesi partecipanti alla Conferenza delle Parti (COP) della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico (UNFCCC) hanno sottoscritto uno storico accordo, che li impegna a contenere l’aumento della temperatura media del pianeta “ben al di sotto dei 2° C rispetto ai livelli dell’epoca pre-industriale”, riconoscendo che questo “ridurrebbe significativamente i rischi e per la liquefazione di circa 2-3 $/Mmbtu. Sono previste anche clausole di take or pay, mentre non dovrebbero esserci obblighi circa la destinazione dei carichi. Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 19
l’impatto del cambiamento climatico”. Sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5° C dovranno altresì essere tentati. Nonostante i timori della vigilia, la comunità internazionale è riuscita dunque a trovare un minimo comune denominatore tra le posizioni espresse dai vari paesi e a sintetizzarle in un testo unico, che ha guadagnato il consenso di tutti. Si tratta indubbiamente di un passo in avanti rispetto alla Conferenza di Copenhagen del 2009, quando lo slancio dell’Unione europea non fu condiviso dalla Cina e dagli Stati Uniti e alla fine i negoziati fallirono. Questa volta, invece, le delegazioni di ben 196 paesi hanno riconosciuto la minaccia posta dal cambiamento climatico e la necessità di agire urgentemente a livello internazionale, con la partecipazione attiva non solo delle economie più avanzate ma anche di quelle in via di sviluppo (altro passo avanti rispetto al Protocollo di Kyoto del 1997). Al termine delle due settimane di negoziati parigini è stata infatti condivisa l’idea che il negazionismo climatico non è più accettabile e che l’obbligo di agire riguarda tutti e non solo i paesi che storicamente hanno prodotto più emissioni a effetto serra (v. Figura 13). FIG. 13 – ANDAMENTO STORICO DELLE EMISSIONI DI ANIDRIDE CARBONICA (MILIARDI DI TONNELLATE) SONO INCLUSE SOLO LE EMISSIONI DI CO2 LEGATE ALLA COMBUSTIONE DI FONTI FOSSILI. FONTE: BP. Il successo è stato reso possibile dalla determinazione e preparazione della diplomazia francese, nonché dalla forte partecipazione delle associazioni non governative, che in questi mesi hanno mantenuto alta l’attenzione dell’opinione pubblica. Vincente è poi risultata la scelta di adottare un approccio dal basso, invitando ogni paese a specificare in anticipo i propri obiettivi di politica climatica (intended nationally determined contributions, INDCs). Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 20
La natura volontaria di queste promesse – e l’assenza di sanzioni per chi non le manterrà – ha favorito l’estensione dell’accordo, ma ne ha d’altra parte ridotto il grado di dettaglio e di coerenza interna, giustificando così in parte chi è rimasto deluso dall’esito dei negoziati. I paesi hanno infatti usato molta libertà nel definire questi impegni, spesso con riferimento non già a valori storici delle emissioni, quanto piuttosto a proiezioni business as usual (BAU). Alcuni poi sono riferiti alle emissioni, altri all’intensità carbonica. Analisi preliminari condotte da varie istituzioni suggeriscono che, anche nel caso in cui tali impegni fossero pienamente mantenuti, l’aumento della temperatura media mondiale alla fine del secolo oscillerebbe tra i 2,7 e i 3,5 °C rispetto alla media dell’era pre-industriale, ben al di sopra dunque dell’obiettivo collettivo accettato. L’accordo di Parigi non fissa perciò degli obiettivi globali specifici sulle emissioni e neppure dettaglia i meccanismi di supporto finanziario che dovranno essere posti in essere per facilitare le azioni di mitigazione e adattamento nei paesi più poveri – si conferma comunque di 100 miliardi di dollari di aiuti all’anno. Tuttavia, viene indicata la direzione e si istituisce una governance delle politiche internazionali in materia di clima, con tanto di procedure per garantire un monitoraggio trasparente delle emissioni e una revisione quinquennale dei risultati e degli impegni presi dai vari paesi. La strada da percorrere è sicuramente lunga, benché qualche timido segnale positivo sia arrivato negli ultimi mesi. Dall’analisi dei primi dati sembra infatti che le emissioni di anidride carbonica (CO2) derivanti dalla combustione delle fonti fossili (carbone, petrolio e gas naturale) siano rimaste stabili nel 2015 rispetto al dato riportato nel 2014, se non leggermente calate. La notizia è molto importante perché sarebbe la prima volta che l’andamento delle emissioni non segue l’andamento positivo della crescita economica (decoupling).9 Dietro a questo risultato vi sono la minore crescita dei consumi energetici, l’uso più efficiente dell’energia e soprattutto uno spostamento verso fonti di energia a basso contenuto di carbonio (rinnovabili, nucleare e gas naturale). In Cina e negli Stati Uniti, i due maggiori emettitori di CO2 al mondo (v. Figura 14), è proprio il minore ricorso al carbone ad aver consentito un calo delle emissioni nel 2015. 9Le emissioni calarono anche nel 2009, in concomitanza però di una forte contrazione dell’economia mondiale. Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 21
FIG. 14 – ANDAMENTO DELLE EMISSIONI DI ANIDRIDE CARBONICA NEI PRINCIPALI PAESI EMETTITORI (MILIARDI DI TONNELLATE) SONO INCLUSE SOLO LE EMISSIONI DI CO2 LEGATE ALLA COMBUSTIONE DI FONTI FOSSILI. FONTE: BP. Naturalmente si tratta solo di un primo passo. Per rispettare l’obiettivo fissato a Parigi le emissioni annuali di gas a effetto serra dovranno diminuire di circa la metà entro il 2050. Data l’esperienza storica, la sfida si presenta assai ardua e certo non aiutano le basse quotazioni attuali delle materie prime energetiche, che da un lato rendono le fonti rinnovabili meno competitive e, dall’altro, riducono la convenienza degli investimenti in efficienza energetica. Urgono perciò politiche aggressive volte a decarbonizzare il paniere delle fonti energetiche e a promuove l’efficienza, oltre che a favorire l’adattamento delle comunità ai cambiamenti umane climatici in corso. Focus Sicurezza Energetica 25-26/2016 22
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