Licenziamento e vaccinazione - Federico Pisani, RomaTre
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SDL HUB W.P. n.4-2021 Licenziamento e vaccinazione Federico Pisani, RomaTre 1
Licenziamento e vaccinazione Premessa di metodo: richiamo alla concretezza. L’intenso dibattito1 sulla legittimità del rifiuto da parte del lavoratore del vaccino offertogli dal datore o, per meglio dire, dalla Regione, soffre inevitabilmente di astrattezza. In questo scenario sembra utile individuare preliminarmente le fattispecie concrete che presentano maggiori criticità. Ciò consente di valutare quali siano gli interessi in conflitto delle parti e il loro adeguato bilanciamento anche da un punto di vista costituzionale. Le situazioni che per ora si prospettano, considerata la scarsa distribuzione attuale dei vaccini, sono quelle che riguardano essenzialmente i lavoratori delle strutture sanitarie che si trovano 1 ALBI P., in Dibattito istantaneo su vaccini anti-covid e rapporto di lavoro, in Labor, 2 febbraio 2021; BENINCASA G. 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a svolgere la loro prestazione ad una distanza inferiore di un metro l’uno dall’altro, ovvero si trovano in contatto con malati di COVID o con pazienti particolarmente fragili. Non vi è solo il caso dell’infermiere o del medico addetto al reparto COVID, ma anche del dipendente che ha comunque a che fare da vicino con le più svariate tipologie di pazienti. Il caso Potrebbe rivelarsi di grande utilità affrontare il tema in oggetto, prendendo le mosse da un recentissimo caso concreto che offre molti spunti di riflessione. Una clinica comunica ai propri dipendenti la possibilità di ricevere il vaccino messo a disposizione dalla Regione; una lavoratrice fisioterapista contatta l’azienda, tramite il proprio legale, pretendendo di ottenere una serie di informazioni sulla qualità, la sicurezza, l’efficacia dei suddetti vaccini, prima di decidere se sottoporsi al trattamento. L’azienda risponde che la società non è tenuta a fornire alcuna informazione, in quanto si tratta di vaccini approvati dalle autorità sanitarie nazionali ed internazionali e distribuiti mediante apposito piano approvato dalla Regione Lazio, in cui è inclusa anche la stessa fisioterapista. L’azienda specifica altresì che la prestazione lavorativa della dipendente implica il contatto inferiore al metro con i pazienti e che il medico competente ritiene che il vaccino sia un requisito necessario per lo svolgimento in sicurezza delle mansioni, a tutela sia dei pazienti che della lavoratrice stessa. Il datore precisa altresì che non sono disponibili mansioni alternative che consentano alla fisioterapista di lavorare a distanza superiore di un metro. Pertanto, la mancanza della vaccinazione, pur offerta, sarà ritenuta una carenza di requisito essenziale per lo svolgimento della prestazione. Infine, nella lettera aziendale si legge una chiosa del seguente tenore: “Le ricordiamo che c’è un cittadino della Regione Lazio, ottantenne, che sta ancora aspettando quel vaccino che, invece, la Regione ha riservato alla Sua assistita, sicché, come affermato dal Presidente della Repubblica “vaccinarsi è anche un obbligo morale”.” Questa premessa offre interessanti spunti di riflessione sugli assetti di interessi che si pongono alla base della questione. Un datore di lavoro può rendere obbligatoria la vaccinazione? Gli argomenti a favore dell’obbligo Gli argomenti a sostegno della imposizione dell’obbligo da parte del datore di lavoro di vaccinazione nei confronti dei propri dipendenti muovono dalla considerazione secondo cui, seppure sia innegabile che l’art. 32 della Costituzione escluda la imposizione di un trattamento sanitario in assenza di legge specifica e che tale disposizione non possa essere 3
ricavabile da un precetto generico (ad oggi, di fronte a una quindicina di obblighi di vaccinazione, non vi è alcun obbligo di vaccinazione anti COVID-19), il datore di lavoro può comunque richiedere ai propri dipendenti di vaccinarsi sulla base delle proprie prerogative. A favore di questa soluzione, sarebbe ragionevole ritenere che, sulla base dell’esperienza e dei dati scientifici di cui disponiamo, in imprese in cui i dipendenti lavorano a contatto tra loro e, soprattutto, a contatto diretto con individui estranei all’organizzazione (come avviene nel caso di prestazione offerta da, per es., infermieri e medici nei confronti dei pazienti, ma anche da imprese alberghiere o ristoranti nei confronti degli ospiti e dei clienti), la riduzione del rischio di contagio (quindi di danno grave ai dipendenti stessi e agli stessi terzi) può avvenire solamente mediante la somministrazione del vaccino alla totalità dei lavoratori. Alla obiezione secondo cui anche la persona vaccinata può essere portatrice del virus, si potrebbe replicare sostenendo che l’effetto tipico del vaccino è quello di impedire l’incubazione dell’infezione. E poiché sulla base dei dati scientifici a nostra disposizione, i vaccini praticati hanno una efficacia del 90/95%, è altamente probabile che, se anche una persona vaccinata verrà in contatto con il virus, non incuberà l’infezione. In questo scenario, l’esercizio del potere / dovere ex art. 2087 del codice civile (che richiama espressamente “la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica”) di richiedere la vaccinazione ai propri dipendenti pare ragionevole da parte di un imprenditore, soprattutto in considerazione del contatto dei dipendenti con persone terze. Rispetto ai profili di violazione dell’art. 32 Cost., il nostro ordinamento non contempla una disposizione che garantisca il divieto assoluto di compressione del diritto della persona di non sottoporsi ad un trattamento sanitario. Pertanto, tale diritto, al pari del diritto di libertà di movimento, di associazione o di riservatezza e degli altri costituzionalmente garantiti, potrà essere suscettibile di limitazione contrattuale. Infatti, proprio la stipulazione del contratto di lavoro, comporta una inevitabile rinuncia ad alcuni diritti fondamentali. Del resto, il “contatto contrattuale” impone un sacrificio, sia pure parziale del diritto alla riservatezza sulle vicende personali, come anche una esposizione alla possibilità di indagini sul passato professionale o il controllo del medico ispettivo sullo stato di malattia, ecc. Tali limitazioni sono pacificamente accolte dal nostro sistema normativo, in funzione di un contratto posto in essere, nonostante vi sia una evidente compressione di diritti costituzionalmente garantiti e assoluti della persona. 4
Al riguardo, la sentenza della Corte costituzionale sul Caso ILVA2 (che, come è noto, ha avuto l’ingrato compito di contemperare il diritto alla salute dei lavoratori con quello economico della sopravvivenza dei loro rapporti di lavoro) può essere invocata nella parte in cui ammette che nel nostro ordinamento non vi sia alcun “diritto tiranno”, in quanto i diritti fondamentali si trovano in rapporto di integrazione reciproca. Pertanto, non è possibile individuarne uno che abbia prevalenza assoluta sugli altri. In questa prospettiva, il datore di lavoro, per prevenire un danno a dipendenti o a terzi, non potrà essere indifferente rispetto alla comprovata utilità della vaccinazione, anche in assenza di una legge. Il ruolo della riserva di legge sarebbe addirittura ridimensionato alla luce del “trattamento sanitario collettivo” imposto ed accettato su scala nazionale (rectius globale) nel corso dell’ultimo anno dall’esplosione della pandemia. La gravità della minaccia, che ha reso accettabile la compressione di diritti costituzionalmente garantiti di fronte ad un fenomeno di inaudita entità, non potrebbe ragionevolmente escludere il legittimo esercizio da parte dell’imprenditore, per far fronte a quella stessa minaccia, del potere di richiedere la vaccinazione in situazioni in cui ciò sia ragionevole. Pertanto, qualificando il suddetto esercizio come misura di sicurezza imponibile da parte dell’imprenditore, a determinate condizioni, il rifiuto del trattamento potrebbe portare anche all’adozione di una sanzione disciplinare. La ipotizzata compressione dei diritti costituzionali dovrà essere chiaramente valutata in relazione alle situazioni personali: di conseguenza, potrà essere considerato giustificato il rifiuto al vaccino da parte di lavoratori che manifestino situazioni personali di difetto del sistema immunitario o controindicazioni mediche ad ogni tipo di vaccino (anche quelli tradizionali), oppure uno stato di gravidanza, o altre ipotesi per cui vi può essere una espressa controindicazione. In tali casi, anche la eventuale sospensione dalla prestazione potrà essere operata mediante l’ausilio degli strumenti offerti dalla legislazione emergenziale, come ad esempio la attivazione della Cassa Integrazione o una sospensione ex art. 2110 cod. civ., essendo tale situazione equiparabile alla malattia o alla quarantena. Alla luce di questo orientamento, nel momento in cui il vaccino sarà disponibile alla totalità dei consociati, se la comunità scientifica manterrà la sua unanimità nell’indicarlo come strumento principale per contrastare la pandemia, il datore di lavoro avrà il dovere di prendere atto di tale dato scientifico e conseguentemente chiedere la vaccinazione ai propri dipendenti. A tal fine, sarà opportuno specificare nel Documento di Valutazione di Rischi 2 Corte Cost. 85/2013. 5
l’indicazione espressa del rischio contagio, in relazione al livello di contatto tra i lavoratori e terzi soggetti. In tale contesto, il coinvolgimento del medico competente sarà opportuno (anche se non necessario). In questo contesto, anche l’art. 279 T.U. Sicurezza assume un rilievo determinante, non consentendo al datore di rimanere indifferente di fronte al rischio di esposizione ad agenti biologici. L’interpretazione estensiva di tale norma, rispetto al rischio del contagio da COVID, sarebbe infatti imposta dalla costante e rigorosa giurisprudenza che suggerisce una applicazione “dinamica” dell’art. 2087 cod. civ. A fronte delle suddette argomentazioni, tuttavia, non può ignorarsi che gli stessi sostenitori della natura obbligatoria della vaccinazione e della conseguente possibilità di adottare una vera e propria sanzione disciplinare, non sembrano pienamente convinti della legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in considerazione della diffusa diffidenza, emersa dal dibattito degli ultimi mesi, espressa da parte di una rilevante porzione di potenziali destinatari del trattamento sanitario, che ancora sembra essere ritenuto pericoloso nonostante sia stato approvato dalla comunità scientifica. Ci si chiede dunque se la sola esistenza di tale dibattito sia idonea ad eliminare l’elemento soggettivo essenziale per la configurabilità del notevole inadempimento, riportando quindi la fattispecie nell’ambito del giustificato motivo oggettivo. Oltre al suddetto rilievo, occorre evidenziare che la legislazione emergenziale (art. 29-bis del D.L. 23/2020, c.d. Decreto Liquidità, convertito con Legge 40/2020) ha già espressamente previsto che l’adempimento degli obblighi imposti dall’art. 2087 cod. civ. sarebbe soddisfatto dal rispetto dei protocolli di sicurezza sottoscritti dal Governo e dai sindacati, o dai protocolli integrativi eventualmente adottati a livello aziendale. Alla luce di tale disposizione, sarebbe ancora più difficile affermare la esistenza di un obbligo del lavoratore (o di un potere/dovere del datore di lavoro di far rispettare tale obbligo) di vaccinarsi. La replica in tale caso sarebbe sostenuta dall’argomento secondo cui l’art. 2087 si qualifica come “norma aperta”, che può essere arricchita di contenuti concreti, soprattutto se questi sono successivi. Obbligo / onere e giustificato motivo oggettivo Discostandosi sensibilmente dalla qualificazione della vaccinazione in termini rigorosamente obbligatori, si può ritenere che tale trattamento si ponga come un onere, non come un 6
obbligo, laddove ritenuto dal medico competente requisito essenziale per lo svolgimento della prestazione. In quanto tale, dunque, non sarebbe più imposto dal datore di lavoro3. Sul punto si segnala una recente sentenza della Corte costituzionale4, che ha affermato la legittimità dell’onere di vaccinarsi del lavoratore per accedere in determinati reparti di una struttura da parte degli operatori sanitari. Nel caso deciso dalla Corte, l’onere era previsto da una legge Regionale, ma è rilevante ai nostri fini la validità della affermazione relativa alla non applicabilità alla figura dell’onere dell’art. 32, comma 2, Cost. Tale principio può essere applicato anche in caso di decisione del datore di lavoro, sulla base della indicazione del medico competente, proprio alla luce di quanto affermato da questa pronuncia5. 3 La figura dell’onere ricorre nel momento in cui una determinata condotta non è imposta e non è prevista una sanzione per la sua inosservanza, ma condiziona il soddisfacimento di un interesse del singolo, che in questo caso consiste nella conservazione del rapporto di lavoro. Sotto questo profilo, occorre mantenere ben distino l’onere dall’obbligo che ha per oggetto un facere infungibile. Quest’ultimo rimane pur sempre un obbligo che non può essere eseguito coattivamente e che consente di accedere alle tutele alternative rispetto all’esecuzione in forma specifica. Pertanto, un comportamento doveroso non perde la sua doverosità perché non può essere imposto coattivamente. Anche il rilievo secondo cui non potrebbe parlarsi di “onere” di vaccinarsi, poiché la inosservanza di quest’ultimo in quanto “dovere libero” (a differenza dell’obbligo) non comporta l'applicazione di un effetto “negativo” ma semplicemente il non realizzarsi di un effetto giuridico favorevole, trova il suo limite nella qualificazione del suddetto effetto “negativo” in termini di “sanzione”. Pertanto, qualificare il recesso per giustificato motivo oggettivo farebbe venir meno anche il carattere disciplinare del provvedimento espulsivo, consentendo la esclusione della figura dell’obbligo. In senso contrario, potrebbe obiettarsi che secondo la dottrina più recente l’onere si ascriverebbe tra le situazioni soggettive “attive”. In questo senso l’onere si qualificherebbe come un potere / dovere (obbligo potestativo), che escluderebbe una correlata situazione attiva in capo ad altri. 4 Corte cost. 6 giugno 2019, n. 137, relatore Marta Cartabia. 5 Nella sentenza si legge “L’art. 1, comma 1 prevede che «al fine di prevenire e controllare la trasmissione delle infezioni occupazionali e degli agenti infettivi ai pazienti, ai loro familiari, agli altri operatori e alla collettività», la Giunta regionale, con apposito provvedimento deliberativo (ai sensi del successivo art. 4), individua «i reparti dove consentire l’accesso ai soli operatori che si siano attenuti alle indicazioni del Piano nazionale di prevenzione vaccinale vigente per i soggetti a rischio per esposizione professionale». […] Letto in questa prospettiva, l’intervento del legislatore regionale non ha per oggetto la regolazione degli obblighi vaccinali – che chiamerebbe in causa la competenza statale in tema di determinazione dei principi fondamentali della materia di tutela della salute (sentenza n. 5 del 2018) – ma l’accesso ai reparti degli istituti di cura […] Nella sua formulazione definitiva, l’art. 1, comma 1, si limita a precisare che il rispetto delle indicazioni del PNPV costituisce un onere per l’accesso degli operatori sanitari ai reparti individuati con la delibera della Giunta […] una volta escluso, alla luce delle considerazioni appena esposte, che la legge in esame imponga agli operatori sanitari l’effettuazione di trattamenti vaccinali non previsti dalla legislazione statale, nessuna censura può muoversi alla determinazione del legislatore regionale di demandare a un atto amministrativo, ossia alla delibera della Giunta regionale menzionata dall’art. 4, il compito di «dettagliare le modalità di attuazione» di una legge che, come si è visto, attiene all’organizzazione sanitaria regionale e che, comunque, non tocca l’ambito dei trattamenti sanitari obbligatori e non incide sulla libertà di auto-determinazione dell’individuo in materia di tutela della salute […] Naturalmente la condotta sanzionata non può che coincidere con l’accesso, da parte di operatori sanitari che non si siano attenuti alle indicazioni del PNPV, ai reparti individuati con la deliberazione della Giunta, più volte richiamata; mentre deve escludersi che possa essere sanzionato l’eventuale rifiuto opposto dai medesimi operatori sanitari di sottoporsi ai trattamenti vaccinali raccomandati dal PNPV per i soggetti a rischio per esposizione professionale. Il che ovviamente non incide sugli ordinari obblighi ricadenti sul datore di lavoro in tema di sicurezza che restano, appunto, quelli delineati dalla disciplina statale sul punto, dettata in primo luogo dalla clausola generale di cui all’art. 2087 del codice civile e dalle previsioni contenute nel decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell’art. 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro) e, nell’ambito di queste, in particolare per quanto qui interessa, dall’art. 279 in combinato disposto con gli artt. 17, 18 e 41. 7
In tale ottica, se il rifiuto del vaccino non consente di licenziare il lavoratore per inadempimento contrattuale, sarebbe ammissibile il recesso per il motivo oggettivo consistente della assenza di un requisito sopravvenuto della prestazione. Quindi, l’incognita principale sarà quella di stabilire se, in epoca di pandemia e per particolari rapporti di lavoro, il vaccino possa essere considerato un elemento essenziale per lo svolgimento in sicurezza della prestazione. Il protocollo condiviso di marzo 2020 impone l’utilizzo della mascherina e di altri ausili per i lavoratori che si trovano a distanza inferiore di un metro. Nonostante ciò, si sono registrati 300 decessi tra i medici, oltre ad un numero elevatissimo di denunce di infortunio da COVID-19 nelle strutture sanitarie. Sicché, anche se non è possibile affermare che le misure previste dai protocolli siano insufficienti, è evidentemente difficile negare che il vaccino (che consentirebbe di annullare tale pericolo), possa essere considerato requisito essenziale della prestazione. In questo senso, alla luce della gravità dell’emergenza (che può essere paragonata allo stato di guerra), che ha giustificato la limitazione dei diritti inviolabili sulle libertà personali, non si potrebbe interpretare l’onere incombente sul lavoratore di sottoporsi alla vaccinazione come se ci trovassimo in una situazione di normalità. Naturalmente, la nozione di giustificato motivo oggettivo consente di offrire ampie garanzie anche al lavoratore no vax. Si potrebbe in questa situazione addirittura interpretare in modo estensivo il requisito di repêchage, includendovi anche un accordo tra le parti di sospensione della retribuzione e della prestazione, purché questo accordo non generi problemi organizzativi al datore di lavoro. L’ampia nozione di giustificato motivo oggettivo sarebbe in questo senso idonea a ricomprendere anche l’eventuale iniziativa del datore di lavoro che deve tutelare la propria organizzazione (e il lavoratore stesso), ai sensi dell’art. 2087 cod. civ. A proposito di questa ultima norma, non può ignorarsi l’interpretazione rigorosissima della giurisprudenza che le attribuisce una funzione dinamica, da cui scaturisce la c.d. diligenza “in divenire” del datore di lavoro, che non può mai arrestarsi e che subisce le evoluzioni della scienza. Accettando tale impostazione, potrebbe non essere sufficiente invocare il Protocollo come esimente. Gli argomenti contrari In senso contrario, il riconoscimento del potere del datore di lavoro di imporre il vaccino ed eventualmente licenziare (salvo in casi eccezionali) il dipendente che rifiuta di vaccinarsi, si scontra con il diritto garantito dalla Costituzione alla autodeterminazione in materia di salute. 8
In tal caso, a nulla varrebbe sostenere che il datore sia il soggetto su cui ricade l’obbligo dell’art. 2087 cod. civ. di garantire la salute e la sicurezza all’interno dell’azienda. Infatti, sebbene pure in mancanza della legge sul vaccino, il datore di lavoro sarebbe comunque tenuto ad adottare tutte le cautele necessarie a prevenire gli infortuni sui luoghi di lavoro, la giurisprudenza non è mai arrivata a considerare l’obbligo dell’art. 2087 cod. civ. talmente esteso da includere anche azioni positive come l’applicazione di un trattamento sanitario. Il punto di partenza è l’art. 32 della Costituzione, secondo cui solo la legge può obbligare un soggetto a sottoporsi ad un trattamento sanitario. La domanda che occorre porsi è quindi se il vaccino anti COVID possa essere imposto. Mentre Paesi come la Danimarca ed alcuni Stati USA hanno già dichiarato l’intenzione di introdurre un obbligo di vaccinazione, in Italia non è ancora stata raggiunta questa decisione. Quindi, negando al vaccino il carattere obbligatorio, un eventuale licenziamento sarebbe illegittimo. Il datore di lavoro potrebbe evitare di imporre l’obbligo di vaccinazione in azienda, limitandosi ad impedire l’accesso sul luogo di lavoro al personale che non dimostri di aver ricevuto la vaccinazione. Questa soluzione però di fatto si tradurrebbe nell’imposizione indiretta di un obbligo al trattamento sanitario senza una legge che lo imponga espressamente. In questo contesto si inserisce anche il dibattito sull’interpretazione dell’unica disposizione in materia di sicurezza sul lavoro che prevede espressamente che il datore metta a disposizione dei lavoratori di vaccini “efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni dall’agente biologico presente nella lavorazione” (art. 279 T.U. Sicurezza sul Lavoro). Questa norma, attribuendo al datore di lavoro l’obbligo di farsi carico del rischio biologico presente nell’ambiente di lavoro (e quindi di mettere a disposizione dei dipendenti un vaccino), imporrebbe (o consentirebbe) di modificare le mansioni dei lavoratori che non lo accettano ed eventualmente di adottare anche la misura del licenziamento. Le obiezioni alla suddetta impostazione muovono dalla considerazione secondo cui, dopo aver verificato se il COVID può essere qualificato come un rischio specifico nei luoghi di lavoro (accertamento che in talune ipotesi potrebbe non essere scontato), il passaggio ulteriore del provvedimento espulsivo non può essere adottato in assenza della previsione esplicita nel dettato normativo. Pertanto, pur nella piena condivisione e fiducia dei precetti scientifici e nell’adesione alle campagne vaccinali, le maggiori perplessità nascono dalla preoccupazione di mantenere su piani separati le buone intenzioni e la rigorosa applicazione delle norme. In questo senso si 9
è ribadito che di fatto, ad oggi, nessuna norma consente al datore di lavoro di esigere la adesione al vaccino. È pur vero che, anche aderendo al dettato normativo, non si esclude la possibilità di interpretazioni differenziate, in considerazione di particolari circostanze fattuali (tornando all’esempio delle case di cura, ospedali, RSA, è opinione condivisa che in tali casi la messa a disposizione del vaccino può portare al mutamento di mansioni o del licenziamento se il dipendente rifiuta il trattamento). In tali ipotesi, la bassa esposizione al rischio potrebbe essere configurato come requisito specifico della mansione. Tuttavia, anche in queste ultime fattispecie si pongono ulteriori ostacoli al potere di controllo del datore di lavoro, il quale non può sapere “se” e “quando” il dipendente si vaccina, perché non esiste alcun obbligo di comunicazione da parte di quest’ultimo. Pertanto, sempre in assenza di una disposizione espressa in tal senso, al datore di lavoro non potrà essere assegnato il ruolo di “sentinella” di un obbligo che ad oggi non è rinvenibile nel nostro ordinamento. E la impossibilità di svolgere un simile ruolo, si traduce inevitabilmente in una impossibilità di adottare qualsiasi provvedimento. Pertanto, ancora una volta, l’attribuzione al datore di lavoro del potere di imporre il vaccino si arresta di fronte ai rilievi secondo cui è impossibile sopperire ad un vuoto normativo mediante una interpretazione estensiva delle disposizioni ad oggi offerte dal nostro ordinamento. In tal senso, l’unica alternativa all’intervento legislativo potrebbe essere rappresentata dalla implementazione dei c.d. protocolli di sicurezza definiti con le parti sociali nei mesi di marzo- aprile 2020. Il Governo potrebbe farsi quindi promotore di tali nuovi protocolli, includendo la vaccinazione obbligatoria tra le misure di sicurezza anti-contagio, insieme all’obbligo di indossare la mascherina, di rispettare il distanziamento sociale, ecc. Le contromisure del datore di lavoro L’adesione alla tesi della non obbligatorietà del vaccino non esaurisce il dibattito, poiché si pone il problema relativo alle contromisure che il datore di lavoro potrà/dovrà adottare nei confronti dei lavoratori che rifiutano di sottoporsi al trattamento sanitario, pur in assenza di tale obbligo. In tal senso, una ulteriore interpretazione dell’art. 2087 cod. civ. potrebbe condurre alla soluzione della inidoneità del lavoratore (parziale ex art. 1464 cod. civ. o temporanea ex art. 1256, comma 2, cod. civ.), cioè all’esonero dalla prestazione (di fatto l’allontanamento), ovviamente a condizione che l’attività non possa essere altrimenti resa in sicurezza (per 10
esempio mediante la c.d. “remotizzazione” integrale) e che ciò sia organizzativamente tollerabile dall’azienda. Secondo questa impostazione, la temporanea impossibilità di rendere la prestazione in sicurezza (in cui la temporaneità dipende chiaramente dalla volontà del lavoratore o dall’improbabile scenario della cessazione della pandemia) dovrebbe sollevare il datore di lavoro dall’obbligo retributivo. Infatti, sembra difficile ipotizzare una responsabilità in capo al datore di lavoro di corrispondere la retribuzione, di fronte a tale inidoneità oggettiva. La temporanea o parziale impossibilità di rendere la prestazione, nei casi in cui si protragga nel tempo e determini gravi e altrimenti non superabili disagi organizzativi, potrebbe portare alla adozione del provvedimento espulsivo per giustificato motivo oggettivo, pur in assenza di una norma espressa. Esempi in questo senso sono offerti da ipotesi analoghe di inidoneità alla prestazione, come il caso di scuola della carcerazione preventiva o la revoca di autorizzazioni amministrative indispensabili per rendere la prestazione. A sostegno di tale soluzione, vi sarebbe l’argomento secondo cui, la assenza di un obbligo espresso nel nostro ordinamento, se esclude l’adozione del licenziamento per giustificato motivo soggettivo (che potrebbe essere dichiarato ritorsivo), non precluderebbe al datore di lavoro di accedere al recesso motivato da ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa. In tale scenario, un ruolo determinante potrà essere svolto dal medico competente a cui l’art. 279 T.U. Sicurezza sul Lavoro attribuisce una funzione centrale (oltre ai Protocolli di sicurezza siglati dal Governo e dalle parti sociali e dagli eventuali protocolli integrativi adottati a livello aziendale). La suddetta norma, infatti, prende in considerazione sia la prescrizione della somministrazione del vaccino suggerita (o addirittura prescritta) dal sanitario in via preventiva, sia l’allontanamento temporaneo del lavoratore per inidoneità. Quindi, la posizione del datore di lavoro, in entrambi i casi, sarebbe rafforzata di fronte al parere positivo del sanitario. In conclusione, allo stato attuale le soluzioni a disposizione del datore di lavoro sembrano limitate alla sola temporanea sospensione non retribuita per impossibilità/inidoneità di rendere la prestazione in condizioni di sicurezza, in assenza di norma espressa che impone ai dipendenti di vaccinarsi e in presenza del divieto ancora in vigore dei licenziamenti motivati da giustificato motivo oggettivo. 11
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